ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contraddittorio cartolare coatto, giudice amministrativo e Costituzione.
La Terza sezione del Consiglio di Stato, adita in appello nell’ambito di una controversia relativa a una procedura di gara per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale e di compatibilità eurounitaria dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020 sollevate in relazione agli artt 3, 24, 111 Cost., 6 Cedu. In particolare, la società appellante lamentava che il rito previsto dall’art. 84, comma 5, d.l. 18/2020, nella parte in cui prevede che la causa passi in decisione in assenza della discussione orale, con la sola presentazione di brevi note due giorni liberi prima dell’udienza (diversamente da quanto disposto per le udienze penali, civili, tributarie, per la magistratura militare, nonché per le udienze celebrate dinanzi alla Corte dei conti e alla Corte costituzionale, per le quali è individuata la necessaria partecipazione degli avvocati da remoto), sarebbe inidoneo a garantire il fondamentale principio del contraddittorio, di cui dagli artt. 6 Cedu, 47 Carta di Nizza, 111 Cost., 87, co. 1 e 73 c.p.a.
Il Collegio ha dichiarato la manifesta infondatezza delle riferite questioni, essenzialmente sulla base di tre argomentazioni.
In primo luogo, poiché esse sono rivolte a una misura di legge di somma urgenza avente carattere strettamente temporaneo, fondata su ragioni di ordine pubblico nazionale, quali il “preminente interesse pubblico generale a garantire la Comunità nazionale dall’espandersi della pandemia in atto, a tutela del diritto alla vita di ciascun suo componente e del connesso diritto alla salute”, fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost), definito come “primo dei “diritti inviolabili dell'uomo” che la Repubblica, a norma dell’articolo 2 della Costituzione, non solo “riconosce” ma “garantisce”, dovendo la Repubblica adottare, così come nella fattispecie considerata, ogni misura idonea, ragionevole e proporzionata rispetto alla gravità del pericolo e potendo in tale quadro la legge temporaneamente conformare, entro i predetti limiti, i diritti di libertà ed economici secondo le previsioni del citato articolo 2”.
In secondo luogo, in ragione del fatto che il diritto di azione e di difesa, nonché il diritto al contraddittorio processuale dell’appellante non risultano indebitamente incisi da disposizioni in grado di alterare gli esiti del giudizio in corso, data la possibilità di scambiare memorie fino a poche ore prima dall’udienza (facoltà di cui, peraltro, entrambe le Parti si sono ampiamente avvalse) e la facoltà processuale, non attivata, di chiedere il rinvio dell’udienza fino al superamento dell’emergenza, ferma restando la piena tutela cautelare, anche inaudita altera parte.
Infine, in quanto la denunciata violazione dell’art. 3 Cost, in relazione al diverso trattamento previsto per altre tipologie di riti, non sussiste laddove, “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, la non irragionevole differenziazione della disciplina di fattispecie fra loro diverse rientra nell’ambito della cosiddetta discrezionalità del legislatore”.
Nella stessa linea, il TAR Campania, sede di Napoli, chiamato a valutare la legittimità dell’aggiudicazione di una gara per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori di realizzazione di un impianto per il trattamento del percolato prodotto dalla discarica di parco Saurino, ha respinto la richiesta della controinteressata di rinvio dell’udienza per consentire la discussione orale. Nel dettaglio, il Collegio ha in primo luogo ricordato che (i) l’art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020 (conv. nella l. n. 27/2020) prevede che, nel periodo dal 15.4.2020 al 31.7.2020, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati; (ii) nel giudizio de quo, le parti hanno articolato le proprie argomentazioni con ampie memorie e note di udienza, potendosi dunque ritenere adeguatamente soddisfatto il relativo diritto di difesa; (iii) la parte ricorrente non si è associata alla suddetta richiesta di differimento dell’udienza; (iv) il rinvio dell’udienza non sarebbe conforme al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, soprattutto rispetto a quelle controversie, come ad esempio quelli in tema di appalti pubblici, in cui le esigenze di rapidità nella definizione sono vieppiù sentite.
Considerato l’orientamento manifestato dalla Sesta sezione del Consiglio di Stato nella nota ordinanza 21 aprile 2020 n. 2539 (in tal senso si vedano anche Cons. St., VI, 21 aprile 2020, n. 2538; id., V, 7 maggio 2020, nn. 2887, 2888 2889, 2890, 2891, id., III, 8 maggio 2020, n. 2918 e 2919, e la relativa analisi “Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid19”, a cura di V. Sordi, in questa Rivista, 27 maggio 2020), il TAR napoletano ha ritenuto doveroso sottolineare di non aver dubbi sulla costituzionalità dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020, nella parte in cui preclude la discussione orale della controversia. In particolare, il Collegio ha escluso che tale norma potesse essere viziata da incostituzionalità, in quanto (i) alla stessa deve essere riconosciuta una natura eccezionale ed emergenziale, essendo finalizzata a evitare la “paralisi della Giustizia amministrativa”; (ii) il concetto di contraddittorio, quale “principio (sicuramente) ineludibile” non coincide con quello di oralità, costituendo quest’ultimo una modalità di svolgimento delle attività processuale, come tale “eventualmente surrogabile, specie in condizioni emergenziali e per un periodo di tempo limitato, da altri “modelli” (processo scritto; cfr. art. 352 c.p.c. per il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992 per il rito camerale tributario)”; il richiamo all’art. 6 CEDU, a dimostrazione dell’asserita incostituzionalità, non convince, dato che l’art. 15 della medesima Convenzione, “Deroga in caso di stato d’urgenza”, dispone che “1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”; infine (iii) “la compressione della facoltà delle parti di avvalersi della discussione orale è stata comunque bilanciata dall’introduzione dell’ulteriore strumento delle “brevi note” da depositarsi nei due giorni liberi anteriori dalla data di trattazione, a contenuto libero e quindi utilizzabili sia per la replica agli scritti delle altre parti che per la ulteriore illustrazione delle proprie prospettazioni e deduzioni”.
Anche in tale fattispecie, pertanto, il giudice amministrativo ha ritenuto che il modello processuale emergenziale, nonostante temporalmente comprima alcune facoltà processuali delle parti, è comunque conforme al sistema costituzionale, in quanto giustificato dall’esigenza di far fronte alla situazione determinata dalla diffusione del Covid-19 e, come tale, non è in grado di intaccare “in modo irrimediabile ed irreparabile la garanzia del contraddittorio tra le parti e la loro possibilità di “accesso e contatto” al/con il Giudice”.
(V.S.)
Falcone e quella notte al Consiglio Superiore della Magistratura (primo capitolo)*
* in ricordo di Carlo Smuraglia pubblichiamo intervista del 6 luglio 2020
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Carlo Smuraglia
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG,12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi.
Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l'opinione pubblica, la politica ed il CSM.
Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario.
Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1988 consumata all'interno del plenum del CSM.
Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni.
Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti.
La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana.
I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.
La spaccatura che si profilò all'interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall'appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo "culturale" con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.
Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo quell'episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.
In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.
La prima intervista è del Prof.Carlo Smuraglia, già senatore e presidente della commissione Lavoro del Senato, membro laico del CSM e Presidente emerito Nazionale dell'ANPI.
[In calce, il verbale della seduta del Plenum del CSM del 19 gennaio 1988]
1) Il contesto ed il clima nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricorda?
2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?
3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?
4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricorda qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?
5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e) quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?
6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato si sente di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio del governo autonomo della magistratura?
7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni. Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semidirettivi?
Prof.Smuraglia
Ritengo utile partire un po’ da lontano, con una risposta unica alle varie domande, per ragioni di chiarezza e completezza di ricordi.
Rocco Chinnici, magistrato eccellente e personalità spiccata, che dirigeva l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed aveva introdotto modalità organizzative dell’ufficio profondamente innovative, cercando di farlo funzionare in modo collegiale, chiamò a far parte dell’ufficio stesso Giovanni Falcone e poco dopo Paolo Borsellino. Si avviò così una collaborazione preziosa ed un impegno veramente efficace per affrontare la criminalità mafiosa, che in quegli anni si era distinta non solo per delitti atroci, ma anche per aver ucciso diversi magistrati ed uomini dello Stato. Fu quindi possibile, a Giovanni Falcone, applicare in concreto le sue “teorie“ sull’impegno giudiziario nella delicatissima materia della criminalità organizzata. Avviò così un’istruttoria di grande respiro applicando in concreto la sua convinzione di sempre, e cioè che la mafia dovesse essere perseguita, non solo sul terreno e con gli strumenti tradizionali, ma anche e soprattutto con indagini di carattere patrimoniale. Falcone partiva dal principio che se le persone possono far disperdere le proprie tracce, il denaro finisce, invece, per lasciare qualche segno del suo passaggio e dei suoi movimenti. Fu di Chinnici l’idea di dar vita a quello che poi si chiamerà “pool”, costruendo un metodo di lavoro che impegnasse al tempo stesso diversi magistrati, strettamente collegati tra loro, e tutti referenti al capo dell’ufficio.
Fu dunque impostato un lavoro molto efficace e si raggiunsero risultati un tempo impensabili. Questi successi, davvero importanti, determinarono anche una forte esposizione dei Magistrati impegnati nel pool, ma contribuirono a realizzare rapporti con altri uffici e perfino con Paesi stranieri. In particolare Falcone ebbe modo di contattare esponenti della giustizia americana, di ampliare, crescere e espandere la sua esperienza e di conquistarsi una fama di eccellente investigatore e teorico, anche a livello internazionale. Il pool, nella prima formulazione composta da Falcone e Borsellino e successivamente da Di Lello, svolse un lavoro importante, dimostrando la fondatezza dell’intuizione originaria di Chinnici, prontamente seguita e portata a ulteriori conseguenze, da Falcone ed altri. Ma Chinnici fu barbaramente ucciso il 29 luglio 1983, e fu sostituito da un altro eccellente magistrato (Caponnetto) che portò avanti e sviluppò ulteriormente il sistema di investigazione che era stato avviato e che fu essenziale per rendere possibile quello che poi fu definito “il maxiprocesso”, che si svolse fra non poche difficoltà, ma si concluse per la prima volta con molte condanne, che poi furono confermate sia in Corte d’appello che in Cassazione. Falcone era stato l’estensore della voluminosa sentenza di rinvio a giudizio, per completare la quale dovette lavorare anche nel carcere dell’Asinara, assieme al collega che aveva svolto il ruolo di Pubblico Ministero.
Nel frattempo, però, Caponnetto fu costretto ad abbandonare il servizio per ragioni di salute e tornare alla sua Firenze, ponendo il problema della sua successione. Problema tutt’altro che semplice, essendo evidente che si trattava non solo di sostituire un magistrato eccellente, ma anche di continuare la sua opera sul piano organizzativo, conseguendo – col pool – ulteriori e ancor più significativi risultati. Fu chiaro a tutti che di questo si sarebbe trattato, e non della semplice comparazione fra magistrati col criterio dell’anzianità, criterio sempre importante anche per evitare scelte influenzate da altri fattori, ma da verificare assieme alle qualità ed alle esperienze dei concorrenti, soprattutto quando – come in questo caso – si trattava di portare avanti esperienze e sperimentazioni di grande rilievo, già dimostratesi di grandissima efficacia.
Debbo dire, per quanto io mi ricordi, che questo dato apparve subito chiaro a tutti i componenti del C.S.M. sia a quelli eletti dai magistrati, sia a quelli eletti dal Parlamento. Di ciò, si discusse ampiamente, al di fuori delle sedute, come normalmente accade per le questioni di particolare importanza. Vi era chi sosteneva che doveva sempre prevalere il criterio dell’anzianità e chi invece riteneva che, pur essendo, quello dell’anzianità, un criterio importante, bisognava tener conto anche dell’esperienza e delle qualità tecniche e personali dei concorrenti, soprattutto quando si trattava della dirigenza di uffici destinati ad operare in zone molto difficili e su processi di notevole impegno. In questi confronti, informali, non entravano né criteri politici, né criteri correntizi, anche se poi chiaramente le correnti ne discussero al loro interno in modo approfondito e vario, tanto è vero che nessuna di esse votò poi, nel momento conclusivo, in modo compatto. Non ci fu, né ci poteva essere, una discussione analoga, se non sul piano strettamente personale, nell’ambito dei cosiddetti “laici “, come risulta evidente dal modo con cui ognuno di essi si espresse nella votazione conclusiva.
Sia ben chiaro, con questo, che non intendo dire che non vi siano state anche espressioni correntizie o politiche, ma che alla fine prevalsero le opinioni personali, di cui alcune certamente ispirate o da opportunismo o da ragioni diverse da quelle che poi furono espresse nel corso della famosa seduta notturna del C.S.M. Devo dire che ci furono anche dichiarazioni molto singolari, come è stato notato da studiosi e scrittori che si sono occupati a fondo del tema. Io ho un ricordo molto nitido, per fare un esempio, di un intervento quasi integralmente celebrativo delle qualità di Falcone, che poi si concluse con un voto a lui contrario; tant’è che fummo in molti a parlare di quell’incredibile discorso, come di una sorta di spiacevole “commemorazione “.
I candidati “favoriti” erano due; Antonio Meli e Giovanni Falcone. Due candidati profondamente diversi, non solo per anzianità di servizio (Meli era assai più anziano), ma soprattutto per i meriti acquisiti nel lavoro. A qualunque osservatore, anche solo un po’ attento, la differenza appariva enorme sul piano qualitativo, e tale da rendere evidente che la scelta sarebbe stata decisiva per le sorti del pool (nel frattempo arricchitosi di altri magistrati di qualità).
Nel gennaio del 1988, il Consiglio Superiore della Magistratura affrontò il tema, partendo dalla relazione della Commissione competente, che si era espressa, a maggioranza, a favore di Meli.
Correttamente, il Vicepresidente Mirabelli introdusse sottolineando l’importanza della discussione e ricordando che la questione avrebbe dovuto essere affrontata e risolta sulla base di tutti i criteri disponibili, e dunque l’anzianità, e il “merito”.
La discussione fu molto ampia e finì per occupare anche un’intera notte (il voto definitivo fu espresso nelle prime ore del mattino) e fu seguita con molto interesse dalla stampa, che si rese ben conto dell’importanza della posta in gioco. Vi fu, dunque, notevole attesa anche dall’esterno del Palazzo dei Marescialli, essendo divenuto chiaro, credo a tutti, che non si trattava solo di una delle tante scelte che il C.S.M. è tenuto a fare, ma qualcosa di assai più importante, ben oltre il piano giudiziario.
C’è un libro, di Enrico Deaglio (Patria, 1978-2008- Il Saggiatore. 2009) che riporta, sia pure a grandi linee, lo svolgimento della discussione nelle sedute pubbliche del C.S.M., riassumendo anche il contenuto di alcuni interventi. Ne emergono la disparità di vedute e la profonda divisione del C.S.M., non solo nel suo complesso, ma anche all’interno delle singole correnti , e le evidenti differenziazioni di principio fra i “laici”.
Ma, come ho già accennato, non tutti gli interventi furono ispirati alla necessaria consapevolezza e sincerità.
Una seduta singolare, dunque, molto tesa, molto complessa, anche nelle divisioni, e tutta da “leggere” con attenzione, per scoprire i reali intenti di alcuni interventi.
Il risultato, come ho detto, favorevole a Meli, fu determinato, insomma, da un mix di convinzioni legittime (anche se, a mio avviso, sbagliate), di ragioni correntizie, di scelte relative alle modalità di impegno contro le mafie, ed in alcuni casi di basse ragioni di invidia nei confronti di Falcone. Non va dimenticato, al riguardo, che Falcone è stato, prima e dopo quella vicenda, vittima anche di attacchi inaccettabili da parte di non poche personalità meschine, che combattevano l’esposizione di Falcone, dimenticando la pericolosità e l’impegno che hanno contraddistinto tutto il suo operato. Basti pensare alla vicenda del “corvo”, e della campagna diffamatoria contro Falcone, delle lettere anonime e così via, nate proprio all’interno della Magistratura e talora all’interno dello stesso Consiglio Superiore.
Peraltro, la vittoria di Meli confermò tutte le preoccupazioni che erano state espresse in quella notte dolorosa; e rappresentò la conclusione negativa dell’esperienza messa in campo da Chinnici, Caponnetto ed altri.
Insomma, io la ricordo ancora come una delle più brutte pagine della storia del C.S.M. e della stessa vita politica del Paese; una triste vicenda, che troverà, infine, il suo coronamento nella tragica e terribile esplosione del 23 maggio 1992.
Quanto alle altre domande, non posso dire granché, sia in relazione agli aspetti interni e correntizi della Magistratura, sia per quanto riguarda i componenti eletti dal Parlamento.
Posso solo dire che a prescindere dal gruppo dei tre designati dal PCI (Brutti, Gomez d’Ajala e Smuraglia) che votarono compatti per Falcone, non certo per ordini di partito, ma per profonda convinzione, nessun altro gruppo né politico, né giudiziario, è stato altrettanto compatto. In ogni “corrente” c’è stata una maggioranza in un senso, ed alcune defezioni nell’altro. Gli eletti dal Parlamento hanno votato indipendentemente dalla designazione ed in piena libertà, ma in modo del tutto variegato (si veda il quadro riassuntivo e conclusivo nel citato libro di Enrico Deaglio, a pag. 264).
Singolare è da ritenere, certamente, il fatto che in una vicenda così delicata ci siano state astensioni, poco comprensibili, al di là di quelle, per così dire “istituzionali” e relative alle cariche ricoperte. Come ho già detto, era chiaro a tutti che non si trattava di una nomina ordinaria, ma era in gioco la stessa organizzazione giudiziaria dell’impegno contro le mafie.
Infine, per rispondere ad una specifica domanda, non credo (o almeno non mi risulta) che ci siano state pressioni politiche. Per quanto mi riguarda, io avevo accettato la designazione a membro del C.S.M. da parte del mio partito alla esplicita condizione di una assoluta e totale libertà, e credo che così dovrebbe essere sempre per tutti i laici. E aggiungo che se è vero che nel C.S.M. ci sono alcuni “laici” che non si spogliano della loro tessera e della loro provenienza politica, è altrettanto certo che nel caso specifico questo, quanto meno, non fu chiaramente percepibile.
Per quanto riguarda i Magistrati e le correnti, mi pare di avere già detto che non vi fu la “compattezza” di altre occasioni, probabilmente perché il caso andava ben oltre la questione dell’anzianità. D’altronde, è vero che tra i due concorrenti c’era una forte differenza d’età di servizio, ma è altrettanto vero che la differenza sostanziale era assolutamente evidente, tanto più che il C.S.M., (“quel” C.S.M.) dette indicazioni molto significative istituendo un Comitato “antimafia” che non aveva precedenti, col solo fine di rafforzare l’impegno e la cultura necessaria per una vicenda di particolare gravità e di forte impegno, in cui oltretutto avevano perso la vita diversi Magistrati e non pochi servitori dello Stato.
Per concludere con un pensiero del tutto personale, direi che quando ci ripenso, rivedo l’alba livida di quella giornata, dopo una notte di discussione, e ricordo soprattutto non il senso di una personale sconfitta, che pure sarebbe stato legittimo, ma il senso di un arretramento gravissimo su un tema sul quale avrei voluto che tutto il C.S.M. e tutta la Magistratura (come, del resto, tutte le istituzioni ed i cittadini) fossero impegnati sempre e comunque; il che non significa fare una “giustizia orientata” ma assai più semplicemente capire che il fenomeno della criminalità organizzata e mafiosa, dovrebbe essere, per tutti, inaccettabile e affrontato dalla giustizia, con l’impegno e la cultura necessaria.
Normativa emergenziale ed esercizio pubblico del culto.
Dai protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica alla legge 22 maggio 2020, n. 35*
di Alessandro Tira
Sommario: 1. La libertà di culto pubblico nel mosaico della nuova normativa emergenziale. – 2. I protocolli del 15 maggio 2020 tra Ministero dell’Interno e confessioni diverse dalla cattolica. – 3. Osservazioni conclusive.
1. La libertà di culto pubblico nel mosaico della nuova normativa emergenziale
Dopo l’emanazione del protocollo del 7 maggio 2020, con cui il Ministero dell’Interno ha stabilito d’accordo con la Conferenza Episcopale Italiana le condizioni per «la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo», il 15 maggio il Governo ha annunciato l’avvenuta sottoscrizione, da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e dei rappresentanti di numerose confessioni religiose, di analoghi protocolli per la ripresa in sicurezza delle attività cultuali pubbliche. Ciò offre l’occasione per completare l’esame di un tema già affrontato in un intervento precedente[1], precisando ed anche rivedendo alcune delle considerazioni espresse alla luce di un quadro che i nuovi protocolli e gli ulteriori interventi normativi non solo integrano dal punto di vista dell’estensione della disciplina, ma completano anche sotto il profilo dell’interpretazione complessiva.
La notizia dei nuovi protocolli si è infatti intrecciata con la ‘ristrutturazione’ del sottosistema giuridico oggi vigente in materia di emergenza sanitaria; un sottosistema che, a partire dallo scorso febbraio, era andato stratificandosi con esiti non sempre armonici, con l’effetto di suscitare talora difficoltà interpretative e di accentuare l’importanza di atti come le frequently asked questions del Ministero dell’Interno e gli interventi di chiarimento[2]. Senza addentrarsi nel complesso dibattito sulle fonti, che l’esplosione della normativa emergenziale ha suscitato tra i cultori del diritto costituzionale e pubblico[3], si deve osservare che il quadro che emerge dai nuovi interventi – i quali consistono, essenzialmente, in una legge di conversione, un nuovo decreto-legge e un ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri – è più articolato che in precedenza, anche per ciò che riguarda lo specifico tema dell’esercizio della libertà di culto.
La legge 22 maggio 2020, n. 35 ha convertito con alcune modificazioni il decreto-legge n. 19 dello scorso 25 marzo, che recava misure urgenti per fronteggiare l’emergenza sanitaria da Covid-19 e attribuiva al Governo speciali poteri di intervento in moltissimi ambiti. Poteri che il Governo ha finora esercitato soprattutto attraverso i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e che potrà esercitare ancora nelle stesse modalità, alla lettera del decreto-legge ora convertito, «per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni», con atti «reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020, termine dello stato di emergenza dichiarato con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020» (art. 1, c. 1°)[4]. Anche dopo la conversione in legge, il d.-l. 19/2020, all’art. 1, c. 2° continua a contemplare la «limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni altra forma di riunione o di assembramento[5] in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo, ricreativo e religioso» (lett. g)). Il Governo potrà disporre la «sospensione delle cerimonie civili e religiose [e la] limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto» (lett. h)), ma potrà altresì disporre l’«adozione di protocolli sanitari, d’intesa con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, per la definizione delle misure necessarie ai fini dello svolgimento delle funzioni religiose in condizioni di sicurezza» (lett. h-bis))[6]. Una previsione, quest’ultima, che è stata recepita in sede di discussione parlamentare sulla conversione in legge e che introduce la possibilità in esame, per così dire, ex post, dato che all’entrata in vigore della legge di conversione le facoltà di adottare i protocolli con le confessioni religiose era già stata esercitata dal Governo.
In parallelo alla conversione in legge del decreto di marzo, è stato promulgato anche il decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, che reca Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19 (in vigore dallo stesso 16 maggio). Esso disciplina la materia del culto pubblico all’art. 1, c. 11°: «Le funzioni religiose con la partecipazione di persone si svolgono nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni contenenti le misure idonee a prevenire il rischio di contagio»[7]. Il successivo comma dodicesimo specifica che alcune disposizioni, tra cui quella appena menzionata, «sono attuate con provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, che possono anche stabilire differenti termini di efficacia»[8]. In applicazione del decreto, inoltre, il Ministero dell’Interno ha emesso la circolare del 19 maggio 2020 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19), che tuttavia – per quanto interessa qui – si limita a richiamare ancora una volta all’osservanza dei protocolli con le confessioni religiose[9].
Sulla scia di queste disposizioni, il nuovo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 17 maggio 2020[10], le cui disposizioni resteranno in vigore fino al 14 giugno, ha infine modificato un impianto normativo che si era ripetuto, con minime variazioni[11], nei precedenti DPCM. Infatti l’art. 1, c. 1°, alle le lettere n) e o), affronta per la prima volta la questione delle cerimonie religiose disgiuntamente dalle altre ipotesi di eventi, manifestazioni e raduni. Sicché la lettera n) stabilisce ora che «l’accesso ai luoghi di culto avviene con misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro». Si deve ritenere che tale norma riguardi essenzialmente la fruizione dei luoghi di culto per la preghiera individuale o comunque al di fuori delle cerimonie, e che sia quindi una previsione residuale rispetto a quanto disposto alla successiva lettera o). La quale, invece, afferma che «le funzioni religiose con la partecipazione di persone si svolgono nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni». Lo stesso DPCM, chiudendo così il cerchio dei richiami, contiene i testi dei protocolli agli allegati da 1 a 7; il solo protocollo per i Testimoni di Geova, aggiuntosi in un secondo momento, resta per ora fuori da tali allegati, ma si tratta di questione formale di facile soluzione, stante la natura facilmente modificabile dei decreti del Presidente del Consiglio.
A uno sguardo d’insieme, questo quadro delle fonti – si perdonerà l’espressione poco scientifica – assomiglia a una matrioska normativa, dove i provvedimenti di rango superiore sono stati in un certo senso sagomati sugli atti di rango diverso (i protocolli), i quali avevano visto la luce prima o durante la gestazione delle nuove norme e, in ultima battuta, riempiono di contenuti concreti i rimandi normativi superiori. Conviene allora considerare nel dettaglio tali testi, pur omettendo – se non per i fini della comparazione – di ripercorrere i contenuti del protocollo del 7 maggio con la Conferenza Episcopale Italiana.
2. I protocolli del 15 maggio 2020 tra Ministero dell’Interno e confessioni diverse dalla cattolica
Al contrario di quanto si ipotizzava in un primo momento, la via scelta dal Ministero dell’Interno per disciplinare la ripresa del culto pubblico delle confessioni diverse dalla cattolica non è stata quella di adottare un unico documento valido per tutti, bensì una serie di protocolli siglati con gli esponenti di una o più confessioni religiose. I sei protocolli del 15 maggio sono stati stipulati rispettivamente con le rappresentanze delle Comunità ebraiche; della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni; delle Comunità islamiche; delle Confessioni induista, buddista, Baha’i, Sikh; delle Chiese Protestante, Evangelica, Anglicana; delle Comunità ortodosse[12]. A questi ora citati se ne è aggiunto un settimo, reso noto in forma di bozza il 25 maggio, che (come anticipato) riguarda la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e risulta essere stato predisposto in via autonoma dalla Congregazione e poi sottoposto al Ministero per l’approvazione, dunque secondo un iter simile a quello seguito dalla CEI per la Chiesa cattolica[13].
Come si legge nella breve premessa – uguale per tutti i testi[14] – «l’esigenza di adottare misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2 rende necessario la redazione di un Protocollo con le confessioni religiose. Il Protocollo, nel rispetto del diritto alla libertà di culto, prescinde dall’esistenza di accordi bilaterali, contemperando l’esercizio della libertà religiosa con le esigenze di contenere l’epidemia in atto». Il riferimento alle intese con lo Stato ex art. 8, c. 3° Cost. sottolinea che quello che viene in rilievo nei documenti è un profilo dell’esercizio della libertà religiosa differente dalla valorizzazione delle specificità confessionali. Qui, piuttosto, si tratta di garantire a tutte le confessioni religiose che abbiano espresso interesse alla stipulazione dei protocolli il conseguente esercizio di uno dei diritti previsti dall’art. 19 Cost. (vale a dire il culto in forma associata), nelle presenti condizioni ancora emergenziali e dunque secondo un rigoroso bilanciamento con altri beni costituzionali. Si deve ricordare a questo riguardo l’art. 32 Cost., che tratta della salute non solo come di un «fondamentale diritto dell’individuo», ma anche come di un «interesse della collettività»; è inoltre il caso di ricordare anche il principio fondamentale sancito dall’art. 2, per cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», e contestualmente richiede tanto agli individui e ai gruppi «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Neppure le confessioni religiose, insomma, possono agire – pur nel nome di una libertà fondamentale qual è la libertà religiosa – in modo potenzialmente lesivo di altri interessi costituzionalmente protetti o al di fuori delle composizioni necessarie a un ragionevole equilibrio dei bisogni sociali di cui lo Stato è garante. In fondo, la tendenza a sfuggire dal gioco di questi contemperamenti concretizzava il profilo critico delle ‘fughe in avanti’ tentate nel mese di aprile da vari sacerdoti per la celebrazione di messe alla presenza dei fedeli.
Passando ora ai contenuti normativi, il testo dei sette protocolli, al pari di quello disposto con la CEI, si suddivide in cinque sezioni, la cui titolazione può cambiare lievemente da caso a caso, a seconda delle singolarità delle singole confessioni religiose, ma segue un andamento omogeneo: accesso ‘al tempio’, procedure di igiene di luoghi e oggetti, comunicazione ai fedeli delle regole e altri suggerimenti. Poiché, oltre ai titoli, anche i testi dei protocolli sono molto simili tra loro, s’intende che le disposizioni che verranno citate valgano per tutte le confessioni, salvo diversa specificazione.
La prima parte, come accennato, è dedicata alle modalità di «accesso ai luoghi di culto» in occasione delle cerimonie religiose, che nel caso delle Comunità induista, buddista (Unione Buddista e Soka Gakkai), Baha’i e Sikh diventano «funzioni religiose» e, nel caso dell’Islam, «in occasione della preghiera». Le sfumature terminologiche, naturalmente, riflettono le caratteristiche del culto praticato, che possono essere molto diverse, nelle forme e nel significato per i fedeli, da ciò che rappresentano le celebrazioni liturgiche per le confessioni cristiane (per esempio, nel caso dell’Islam, il rito del venerdì è più un momento di preghiera collettiva che una vera e propria cerimonia con differenze sostanziali rispetto a quanto il singolo fedele può praticare in privato).
Celebrazioni e incontri di natura religiosa sono consentiti, qualunque forma assumano in concreto, nel rispetto di tutte le norme precauzionali previste in tema di contenimento sanitario dell’emergenza epidemiologica. I partecipanti sono tenuti a indossare idonei dispositivi di protezione delle vie respiratorie (essenzialmente le mascherine citate dall’art. 1.3) e a mantenere distanze interpersonali di almeno un metro (art. 1.1). Naturalmente non saranno ammessi coloro che, alla prova, risulteranno avere una temperatura corporea pari o superiore ai 37,5°C, o – circostanza più difficile da verificare – «coloro che sono stati a contatto con persone positive al SARS-CoV-2 nei giorni precedenti» (art. 1.8).
Ai fini dell’osservanza delle misure di distanziamento, il legale rappresentante dell’ente individua il responsabile del luogo di culto e questi dovrà stabilire la capienza massima dell’edificio di culto. Nel fare ciò dovrà tenere conto dei sistemi di aerazione disponibili e della distanza minima di sicurezza di cui si è detto; in ogni caso non potranno essere ammesse più di 200 persone contemporaneamente (nel caso dei protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica è stato inserito fin dall’origine il limite massimo in valore assoluto che, nel caso del protocollo con la CEI, era stato aggiunto in un secondo momento con un’apposita nota del Ministero dell’Interno del 13 maggio). L’art. 1.4 dispone che l’accesso individuale ai luoghi di culto si debba svolgere evitando qualunque assembramento, nell’edificio o nelle sue pertinenze; non si entra nei dettagli delle procedure di transito dei fedeli (come invece fa l’art. 1.4 del protocollo CEI), ma si specifica che «ogni celebrazione dovrà svolgersi in tempi contenuti». È una previsione che non trova riscontri nel protocollo del 7 maggio ed è forse stata suggerita dalla constatazione che alcuni riti – come le cerimonie cristiane-ortodosse – prevedono tempi liturgici molto ampi, il che è sconsigliabile se si considera che, per le specifiche modalità di diffusione del virus, la compresenza di persone in ambienti chiusi e poco aerati (come sono di solito gli edifici di culto) accresce sensibilmente il rischio di contrarre l’infezione.
L’art. 1.5 affida alle «autorità religiose» (solo nel protocollo per le Comunità induiste ecc. si fa riferimento ai «responsabili del luogo di culto», stante la particolare organizzazione di alcune di tali confessioni) la responsabilità di individuare «forme idonee di celebrazione dei riti» allo scopo di garantire il distanziamento interpersonale, facendo rispettare al contempo tutte le prescrizioni di sicurezza. Astenendosi dall’entrare nei dettagli rituali, la formulazione dell’articolo non solo evita di irrigidire la disciplina di aspetti che possono variare molto da confessione a confessione e forse anche tra declinazioni diverse della medesima religione, ma evita anche che sia un atto (sia pure concordato nei contenuti con i diretti interessati, però pur sempre) governativo a definire in che modo si debbano svolgere le azioni che danno forma al rito religioso, come invece fanno diffusamente le disposizioni dell’art. 3 del protocollo CEI.
Seguono alcune prescrizioni di carattere organizzativo: il contingentamento degli accessi da parte di «volontari e/o collaboratori» muniti di «adeguati dispositivi di protezione individuale, guanti monouso e un evidente segno di riconoscimento» (art. 1.6) (resta qui il problema della definizione delle rispettive responsabilità giuridiche di tali soggetti); il richiamo a distinguere le vie di accesso e quelle di uscita dagli edifici, tenendo le porte aperte per evitare i contatti (art. 1.7); l’invito a moltiplicare il numero delle funzioni, nel caso in cui la partecipazione di fedeli superi significativamente il numero di presenze consentite (art. 1.6). Si tratta di disposizioni che accomunano tutti i protocolli, compreso quello con la CEI.
Completano questo primo e più nutrito nucleo di previsioni alcuni punti che restano invece più sfumati, o che proprio non hanno pendant nel protocollo CEI. È il caso dell’indicazione, «ove possibile e previsto dalle rispettive confessioni religiose, di svolgere le funzioni negli spazi esterni dei luoghi di culto, avendo cura che, alla conclusione i partecipanti si allontanino rapidamente dall’area dell’incontro»[15]; un formula che suona più forte rispetto alla previsione di possibili celebrazioni all’aperto, rimesse quanto alla Chiesa cattolica alla valutazione dell’ordinario diocesano, per il caso in cui mancassero luoghi di culto idonei. L’art. 1.11, inoltre, prevede che i ministri di culto delle varie confessioni possano svolgere le attività proprie della loro funzione «ed eccezionalmente spostarsi anche oltre i confini della Regione, sempre che ricorrano le motivazioni previste dalla normativa vigente e nel rispetto di quanto previsto in tema di autocertificazione, corredata altresì dalla certificazione dell’ente di culto o della confessione di riferimento»[16]. Il significato della disposizione sarebbe più chiaro se non prevedesse il richiamo alle «motivazioni previste dalla normativa vigente». Gli spostamenti oltre i confini regionali, infatti, sono preclusi (da ultimo) dall’art. 1, c. 2° del d.-l. 16 maggio 2020, n. 33, il quale ne fa divieto fino al 2 giugno 2020 «salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute». Si tratta di un incrocio normativo temporaneo (i protocolli con le confessioni religiose sono entrati in vigore il 18 maggio o dopo – per i Testimoni di Geova – e il divieto generale è caduto il 2 giugno), ma riesce difficile comprendere la portata di una norma che, riferendosi a una specifica categoria di soggetti, sembra introdurre una facoltà di spostamento che viene poi subordinata al verificarsi delle condizioni in cui la medesima condotta risulta lecita per la generalità dei soggetti. La norma dell’art. 1.11, in ogni caso, non trova riscontro nel protocollo con la CEI, molto probabilmente perché l’organizzazione della Chiesa cattolica è capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, mentre i ministri di culto delle altre confessioni sono in numero inferiore e sono chiamati ad esercitare adempiere alla loro missione in comunità che spesso risultano diradate sul territorio.
Vi è infine una clausola di chiusura, contenuta nell’art. 1.10, secondo cui «in relazione a particolari aspetti del culto che potrebbero implicare contatti ravvicinati, è affidata alle autorità religiose competenti la responsabilità di individuare, per ciascuna confessione, le forme più idonee a mantenere le cautele necessarie» (art. 1.10). Sarà dunque demandata all’autonomia delle confessioni, nel quadro della previsione protocollare ma senza ulteriori specificazioni da parte del Ministero, individuare secondo prudenza quali pratiche cultuali possano richiedere particolare attenzione.
Le previsioni sub 2 sono dedicate alle «attenzioni da osservare nelle funzioni liturgiche/nelle celebrazioni religiose[17]/nella preghiera[18]». Pur nella sostanziale omogeneità dei contenuti, sono quelle che fanno registrare le maggiori differenze in quanto fanno talora menzione delle specificità rituali delle varie confessioni o, comunque, declinano in rapporto alle rispettive esigenze le regole di prudenza. Tutte le confessioni, in ogni caso, convengono sulla necessità di «ridurre al minimo la presenza di ministri officianti, che sono, comunque, sempre tenuti al rispetto della distanza minima» (art. 2.1).
Si pone poi la questione della musica liturgica o dell’accompagnamento delle cerimonie, che ciascuna confessione pratica secondo esigenze e tradizioni proprie. Sicché si prevede per le Comunità ebraiche che possa essere presente un solo cantore; per gli Ortodossi «è consentita la presenza di un cantore che possa salmodiare a voce bassa»; per tutti gli altri, «ove previsto, è consentita la presenza di un solo cantore e di un solo organista, adeguatamente distanziati» (forse qui la figura dell’«organista» va intesa in senso ampio). Risalta qui l’unico caso di differenza sostanziale di trattamento, poiché il protocollo con i Testimoni di Geova prevede che «tutti i presenti alle funzioni pubbliche per il culto possono cantare su una base musicale preregistrata». È una soluzione che valorizza la particolare importanza che la Congregazione attribuisce al canto, ma che risulta piuttosto sorprendente se si considerano le ragioni strettamente sanitarie (maggior possibilità di diffusione dei virus eventualmente presenti nelle vie aeree) che hanno indotto a limitarne la possibilità per le altre confessioni. L’art. 2.3 ribadisce per tutti[19], in modo forse pleonastico vista la previsione generale dell’art. 1.1, l’impegno per gli aderenti alle rispettive comunità ad assicurare «il rispetto della distanza di sicurezza per almeno un metro».
La lettura parallela dei diversi protocolli diventa un po’ più ingarbugliata se si guarda agli artt. 2.4 e 2.5, che non compaiono in tutti i protocolli, né presentano i medesimi contenuti.
Partendo dall’art. 2.5, nel caso di Mormoni, Ortodossi, Protestanti, Evangelici e Anglicani il testo così dispone: «Si ritiene imprescindibile, se dal punto di vista liturgico non risulta possibile espungere dalla cerimonia religiosa le fasi dei riti precedentemente rappresentati dove maggiore è il rischio di contagio da SARS-CoV-2, richiamare gli officianti e tutti coloro ad ogni titolo coinvolti alla vigilanza nelle cerimonie ad un assoluto rispetto delle norme igienico-sanitarie, dell’uso dei dispositivi di protezione delle vie aeree e del distanziamento sociale». Questo corrisponde all’art. 2.3 del protocollo con le Comunità islamiche, dove si aggiunge a chiusura dell’articolo la specificazione «in particolare ove sia prevista la posizione in ginocchio» (per ragioni che è facile intuire). Scopo della disposizione è chiaramente il richiamo – rimesso, anche in questo caso, alla prudenza e all’autonomia delle confessioni religiose e non cristallizzato in dettagliate disposizioni assunte dal Ministero – a dare un’interpretazione sostanziale ed estensiva delle norme di cautela sanitaria stabilite nei protocolli. Non si rinvengono, invece, previsioni analoghe nei protocolli con i Testimoni di Geova e con le Comunità ebraiche, induista, buddista, Baha’i e Sikh.
L’art. 2.4 è quello che tocca più da vicino gli specifici aspetti cultuali e, oltre ad essere il più delicato sotto questo profilo, è presente solo in alcuni protocolli, anche perché riti affini a quello della Comunione cattolica sono presenti solo nelle altre confessioni cristiane. Così per i Mormoni «la distribuzione del Pane e dell’Acqua avverrà dopo che il celebrante avrà curato l’igiene delle mani e indossato guanti monouso; lo stesso indossando mascherina, avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza di sicurezza avrà cura di offrire il Pane e l’Acqua senza venire a contatto con i fedeli». Per Protestanti, Evangelici e Anglicani, «la distribuzione della Comunione – Cena del Signore» avverrà secondo le stesse precauzioni sopra citate e i ministri «avranno cura di offrire il Pane senza venire a contatto con i fedeli». Per gli ortodossi, infine, si dovranno seguire le stesse cautele per distribuire «l’Eucarestia in conclusione della Divina Liturgia senza venire a contatto con i fedeli»[20].
L’articolo 3 riunisce norme per l’«igienizzazione dei luoghi e degli oggetti» che, in ragione della loro natura generale e organizzativa, sono uguali per tutti. Si dispone che i luoghi di culto vengano adeguatamente igienizzati prima e dopo ogni funzione (art. 3.1) e che all’ingresso siano resi disponibili, per coloro che ne fossero sprovvisti, mascherine e liquidi igienizzanti. Inoltre, «un incaricato della sicurezza esterna, individuato a cura dell’autorità religiosa e munito di un distintivo, vigilerà sul rispetto del distanziamento sociale e limiterà l’accesso fino all’esaurimento della capienza stabilita» (art. 3.2, che forse avrebbe trovato più congrua collocazione sub 1).
Quanto alle modalità di comunicazione delle norme di prevenzione sanitaria, l’art. 4 fa obbligo alle autorità religiose (così definite in senso ampio, oppure «responsabili del luogo di culto» o ancora, più, specificamente, «parroci») di rendere noti i contenuti dei protocolli «attraverso le modalità che assicurino la migliore diffusione» (art. 4.1). E, come nel caso della Chiesa cattolica, si specificano i requisiti minimi delle comunicazioni che devono essere affisse all’ingresso dei luoghi di culto: il numero massimo di partecipanti ammessi in relazione alla capienza dell’edificio; il divieto di accesso per i contagiati o chi è stato a contatto con ammalati di Covid-19 nei giorni precedenti; ancora una volta, gli elementari precetti igienici e di protezione personale.
Con la rubrica «Altri suggerimenti», l’art. 5 contiene una prima disposizione (art. 5.1) uguale per tutti («Ove il luogo di culto non sia idoneo al rispetto delle indicazioni del presente Protocollo, può essere valutata la possibilità di svolgere le funzioni all’aperto, assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria, con la partecipazione massima di 1.000 persone»[21]), mentre il solo protocollo con le Comunità islamiche ne contiene una seconda (art. 5.2), in cui si specifica che «il luogo di culto resterà chiuso qualora non si sia in grado di rispettare le misure sopra disciplinate». È questo un unicum, in quanto – se intesa alla lettera – la disposizione sembrerebbe comportare l’impegno a chiudere, nell’eventualità, i luoghi di culto anche alla preghiera individuale, ma forse può essere inteso più semplicemente come una conferma della determinazione delle Comunità in parola ad evitare che si prendano forma riunioni di fedeli se non nel rispetto delle regole di precauzione sanitaria che fin qui sono state illustrate.
3. Osservazioni conclusive
A conclusione di questa rassegna dei contenuti, vorremmo portare brevemente l’attenzione su tre considerazioni di carattere generale, che riguardano i protocolli complessivamente intesi.
Merita, innanzi tutto, una riflessione la scelta del Governo di procedere attraverso l’individuazione di singoli o di piccoli gruppi di interlocutori. È una soluzione intermedia rispetto all’opzione tra un unico atto normativo (che avrebbe avuto il pregio di garantire la piena parità di trattamento di tutte le confessioni religiose, anche quelle non intervenute al confronto, ma forse anche il limite di sacrificare in partenza le pur limitate specificità che emergono dalla lettura dei testi) e la stipulazione di protocolli con i singoli interlocutori (che, viceversa, avrebbe forse consentito di ‘personalizzare’ di più i contenuti, ma a prezzo di maggiori difficoltà pratiche). Come è stato osservato, è prevalso «un criterio di ‘familiarità religiosa’, per cui sono state accorpate per quanto possibile esigenze simili», in nome di «un’esigenza di praticità e buon senso»[22]. La vicenda del protocollo per i Testimoni di Geova, aggiuntosi in un secondo momento, dimostra in ogni caso che si tratta di un sistema aperto, a cui le singole confessioni religiose che ancora non l’abbiano fatto possono accedere in tempi piuttosto celeri e con esiti prevedibili. Questo, insieme alla natura pur sempre interinale di tutto il sistema, permette di considerare con maggiore elasticità i limiti di questo modus operandi, che pure non mancano.
In secondo luogo, la dottrina si è posta il problema di considerare quale tipo di collaborazione tra lo Stato e le confessioni configurino questi protocolli. Ad avviso di alcuni Autori – si citano, in particolare, le posizioni di Jlia Pasquali Cerioli[23] – sono molti gli aspetti che inducono a considerare i protocolli estranei, in senso proprio, alla disciplina dei rapporti inter-ordinamentali tra la Repubblica e le confessioni religiose delineata dagli articoli 7, secondo comma, e 8, terzo comma, Cost., avente il fine di comporre interessi disponibili e dunque estranei agli ambiti nei quali ciascuna delle parti esercita in via esclusiva poteri sovrani. Vi è innanzi tutto il dato formale, per cui si tratta di protocolli propri del Ministero dell’Interno, benché sottoscritti anche dalle rappresentanze religiose, non anticipati da testi bilaterali quadro di natura apicale e soprattutto estranei alle procedure di cogestione dell’indirizzo politico tra il Governo e il Parlamento che caratterizza le fonti pattizie. Tali documenti, all’opposto, riguardano materie indisponibili – impermeabili a trattative negoziali che ne possano alterare il contenuto – quale la garanzia della salute individuale e collettiva, dinnanzi a cui lo Stato mantiene il potere di intervenire (come emerge nel caso del protocollo con la CEI) riqualificando condotte di matrice confessionale in fatti giuridici civili, dunque considerando anche i comportamenti di rilevanza interna delle confessioni religiose alla stregua di qualsiasi altro fatto di rilevanza sociale e sanitaria. In quest’ottica, i protocolli risultano essere invece, nella forma e nella sostanza, moduli concertati di collaborazione, alla stregua di quelli che, già in altri campi, lo Stato adotta con le rappresentanze di interessi sociali organizzati. Da parte loro le confessioni religiose, con siffatta partecipazione, preso atto degli imperativi di salvaguardia della salute, rappresentano allo Stato le forme di adattamento dei propri interna corporis che valutano più efficaci per perseguire il bene comune, a cui tutti i soggetti, confessioni religiose comprese, sono chiamati in nome dei doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.[24] (basti ricordare in proposito l’impegno sancito dall’art. 1 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, con cui la Chiesa cattolica si impegna, insieme allo Stato, al pieno rispetto del principio di distinzione tra sfera temporale e sfera spirituale e, in questa prospettiva, alla «promozione dell’uomo e il bene del Paese»). Viceversa, altri Autori sottolineano come, sia pure attraverso modalità inedite dal punto di vista formale, i protocolli abbiano rispettato nella sostanza il principio della bilateralità[25]: si tratterebbe dunque di una modalità nuova di applicazione dei princìpi costituzionali che regolano i rapporti in materia di rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose – pur nelle forme semplificate e settoriali imposte dall’emergenza sanitaria – e che risultano, in ultima analisi, giustificabili anche in ragione della natura interinale dei provvedimenti. Una terza posizione, infine, scorge nella vicenda dei protocolli ministeriali le avvisaglie, sia pure presenti solo in nuce, di esperienze di dialogo religioso con le confessioni che, superando le rigidità strutturali dei tradizionali metodi della bilateralità pattizia, potrebbero rivelarsi forieri di futuri sviluppi[26]. Qualunque sia la soluzione più coerente dal punto di vista dogmatico, sul piano sostanziale le soluzioni approntate con le confessioni religiose manifestano l’interesse dell’ordinamento statuale alla cooperazione con gli ordinamenti religiosi, al fine di un più efficace contemperamento tra le esigenze della prevenzione sanitaria e le istanze del culto, che resterebbero altrimenti insoddisfatte e potenzialmente confliggenti con le prime.
Di sicuro, l’elaborazione dei protocolli con le altre confessioni religiose ha fatto emergere la tendenza ad adottare un testo standard (perlomeno quanto alle confessioni diverse dalla cattolica), a cui i diretti interessati della parte confessionale hanno apportato, d’intesa con il Ministero, piccole variazioni per adattarli alle rispettive specificità. Nel fare questo – lo si è già accennato osservando le singole disposizioni – il testo ministeriale si è mantenuto su toni più ‘leggeri’ rispetto al protocollo con la Chiesa cattolica, quanto alla menzione e al disciplinamento dei singoli aspetti della vita interna delle confessioni religiose, anche di carattere liturgico. Risulta quindi più chiaro, alla luce degli sviluppi complessivi, che in quel caso, a portare il confronto e dunque l’esito normativo in tale direzione sia stata la ricezione da parte del Ministero di un testo predisposto dalla Conferenza Episcopale, che evidentemente l’aveva predisposto nell’ottica prioritaria delle sue esigenze di disciplina interna.
Infine, restano sempre vivi i dubbi su quali saranno, in concreto, le modalità con cui le previsioni dei protocolli per la ripresa del culto verranno interpretati e fatti osservare. Molto – ma non è certamente una novità o una regola valida solo in questo campo – dipenderà dallo spirito di collaborazione e dal senso di responsabilità con cui i destinatari delle norme sapranno collaborare alla realizzazione del bilanciamento che i protocolli hanno cercato di delineare: maggiore libertà, al prezzo di maggiore responsabilità e dell’impegno diffuso a considerare anche le attività cultuali non solo come cosa a sé stante, avulsa dai bilanciamenti di valori che abbiamo ricordato in precedenza, ma anche come situazione potenzialmente foriera di rischi sanitari, al pari di qualunque altra situazione sociale.
* NOTA: l’articolo è stato chiuso il 1° giugno 2020.
[1] Si consenta di rimandare, quanto al protocollo con la CEI e una più ampia bibliografia, ad A. Tira, Libertà di culto ed emergenza sanitaria: il protocollo del 7 maggio 2020 concordato tra Ministero dell’Interno e Conferenza Episcopale Italiana, in Giustizia insieme, 16 maggio 2020. Si vedano altresì, in aggiunta alla bibliografia ivi richiamata e oltre a quella che verrà citata nelle prossime pagine, L. Decimo, La “stagione” dei protocolli sanitari tra Stato e confessioni religiose, in Olir.it, 14 maggio 2020; T. Di Iorio, La quarantena dell’anima del civis-fidelis. L’esercizio del culto nell’emergenza sanitaria da Covid-19 in Italia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 11, pp. 36-67; S. Montesano, La Chiesa Cattolica e il Governo: la bilateralità tra “leale collaborazione” ed emergenza, in Olir.it, 12 maggio 2020.
[2] Si veda, per esempio, la nota del 27 marzo 2020 Sulle esigenze determinate dall’esercizio del diritto alla libertà di culto. Con essa il Ministero dell’Interno forniva un’interpretazione su alcuni punti di grande rilievo della normativa allora vigente, per esempio dichiarando che l’atto di recarsi in preghiera presso un luogo di culto (pur legittimamente aperto) doveva intendersi consentito solo se compiuto in occasione di un’uscita motivata dalle tassative ragioni (di salute, lavoro o sussistenza) allora previste e da attestarsi tramite autocertificazione. Una nota analoga era stata inviata dal Ministero al metropolita Gennadios, Arcivescovo ortodosso d’Italia ed Esarca per l’Europa meridionale, il quale aveva in seguito provveduto con la lettera del 4 aprile 2020 a dare al clero della Sacra Diocesi Ortodossa istruzioni coerenti con i chiarimenti ricevuti.
[3] Cfr. ex multis, per i profili generali della questione, M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Consulta Online, 11 aprile 2020. Riguardo alle complesse interazioni tra i diversi livelli normativi, nazionale e regionale, si veda F. Ruggiero e A. Bartolini, Sull’uso (e abuso) delle ordinanze emergenziali regionali, in Giustizia Insieme, 23 aprile 2020. Con specifico riferimento alla libertà religiosa, si veda invece P. Consorti, La libertà religiosa travolta dall’emergenza, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020, pp. 369-388.
[4] Il testo del d.-l. 25 marzo 2020, n. 19, coordinato e aggiornato con la l. 22 maggio 2020, n. 35, è consultabile nella Gazzetta Ufficiale. Serie generale, n. 132, 23 maggio 2020, p. 23 ss.
[5] Corsivo aggiunto. Le parole «o di assembramento» sono state inserite in sede di conversione in legge e chiariscono che il divieto e le conseguenti sanzioni riguardano non solo i casi di «riunioni» organizzate e intenzionali, ma anche gli «assembramenti» occasionali e spontanei.
[6] Il testo recepisce gli «identici emendamenti» al disegno di legge di conversione proposti dai deputati Ceccanti, Occhiuto e De Filippo (emendamenti presentati in pendenza del confronto tra Governo e CEI sull’allora emanando protocollo del 7 maggio).
[7] Poiché l’art. 1, c. 11° disciplina espressamente il caso delle funzioni religiose, si può ritenere che, al di fuori di quelle occasioni la fruizione dei luoghi di culto sia sottoposta alla regola dell’art. 1, c. 8°, che fa divieto di qualsiasi «assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico».
[8] Cfr. il testo del decreto-legge come modificato dalla legge di conversione (selezionare dalla mascherina le pagine 27, 28 e 29 del documento, che corrispondo alle p. 25-26 dell’impaginato della Gazzetta Ufficiale del 23 maggio 2020).
[9] «Lo svolgimento delle funzioni religiose con la partecipazione di persone dovrà avvenire nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni (allegati da 1 a 7 al d.P.C.M.), contenenti le misure idonee a prevenire il rischio di contagio (art.1, comma 11, D.L n.33/2020)» (p. 3).
[10] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 17 maggio 2020, Disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, e del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, recante ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, in Gazzetta Ufficiale. Serie Generale, n. 126, 17 maggio 2020 (consultabile qui).
[11] Il riferimento è alla previsione della possibilità per non più di 15 persone di assistere alla celebrazione dei riti funebri, che era stata introdotta dall’art. 1, c. 1° lett. i) del DPCM 26 aprile 2020.
Più in generale è il caso di segnalare che la disposizione in oggetto (ma nella sostanza la valutazione può essere estesa a tutte quelle simili che l’hanno preceduta nei vari DPCM) è stata ritenuta non lesiva del diritto di libertà religiosa dal Giudice amministrativo. Pronunciandosi sull’istanza cautelare della sospensione dell’efficacia, richiesta insieme all’annullamento del DPCM del 26 aprile 2020, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sez. I, decreto 3453 del 29 aprile 2020) ha «considerato che, nella specie, non sussistono le condizioni per disporre l’accoglimento dell’istanza anzidetta nelle more della celebrazione della camera di consiglio, dovendosi ritenere prevalente la tutela della salute pubblica, per come prevista nell’impugnato provvedimento, di natura latamente discrezionale». Il Giudice è pervenuto a tale conclusione considerando «altresì che il sacrificio della pur comprensibile esigenza, prospettata dal ricorrente, di partecipare fisicamente alle cerimonie religiose può ritenersi in via temporanea compensato dalla possibilità di soddisfare il proprio sentimento religioso usufruendo delle numerose alternative offerte mediante gli strumenti informatici».
[12] Un utile quadro sinottico dei testi dei protocolli, a cura di Simone Baldetti, è consultabile sul sito Diresom.net, a questo link.
[13] Nella nota conclusiva del protocollo del Ministero dell’Interno con la CEI si legge infatti che «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta del 6 maggio 2020, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo circa la ripresa delle celebrazioni con il popolo’, predisposto dalla Conferenza Episcopale Italiana» (corsivo aggiunto); circa le diverse modalità di trattativa della CEI rispetto alle altre confessioni si veda L.M. Guzzo, Stato e religioni: il dialogo è metodo, in Re-blog, 8 maggio 2020; critiche a questo modus operandi sono state espresse da G. Macrì, Brevi considerazioni in materia di governance delle pratiche di culto tra istanze egualitarie, soluzioni compiacenti e protocolli (quasi) “fotocopia”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 11, pp. 68-96. Le formule di chiusura dei protocolli del 15 maggio suonano invece così: «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta [sic] n. 71 del 12 maggio e n. 73 del 14 maggio 2020, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo […]’ con le raccomandazioni che sono state recepite».
Sempre nell’ottica di valorizzare i più minuti dettagli lessicali, quello del 25 maggio si intitola Protocollo per [anziché con, come si trova nel titolo di tutti gli altri testi concordati con le confessioni diverse dalla cattolica] la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova: la piccola variante serve probabilmente a rimarcare la posizione dottrinale dei Testimoni di Geova, i quali, pur senza opporvisi, rifuggono da ogni forma di partecipazione politica e, tendenzialmente, anche dalle relazioni istituzionali con le autorità civili. Il loro protocollo, ad ogni modo, si conclude con una formula anodina: «Il Comitato Tecnico-Scientifico, nella seduta del …, ha esaminato e approvato il presente ‘Protocollo per la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova’».
[14] Solo nel protocollo per i Testimoni di Geova è stata aggiunta una specificazione sull’efficacia temporale del testo, che si limita a dichiarare apertis verbis quanto che negli altri casi resta implicito: «Il Protocollo resterà temporaneamente in vigore fino alla ripresa delle normali attività, al termine dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia da SARS-CoV-2. Nel caso in cui il Governo adotti misure meno restrittive durante il graduale passaggio al ripristino delle normali attività, tali misure sostituiscono quelle previste dal presente Protocollo».
[15] «Dall’area della preghiera», nel protocollo con le Comunità islamiche.
[16] L’art. 1.11 presenta minime varianti nei diversi protocolli, in particolare per quanto riguarda la definizione dei soggetti destinatari della disposizione, che nel caso degli Ortodossi sono definiti «sacerdoti»; nel caso di Indù e altre confessioni accomunate nel medesimo protocollo, «autorità religiose, ministri di culto o responsabili del luogo di culto (uomini e donne) autorizzati dalle rispettive confessioni»; per i Mussulmani «ministri di culto o responsabili di comunità (uomini e donne) autorizzati dai rispettivi organismi religiosi». Nel caso dei Testimoni di Geova si specifica inoltre la necessità che la certificazione in parola «attesti il ruolo di ministri di culto e la natura delle attività religiose che svolgono».
[17] Così recita il protocollo con le Comunità ebraiche.
[18] Protocollo con le Comunità islamiche.
[19] Nel caso delle Comunità islamiche, che non usano forme di canto nella preghiera, l’impegno al distanziamento nel corso delle pratiche cultuali è riportato anche all’art. 2.2.
[20] Quanto alle Chiese ortodosse (in particolare quella Romena) la questione è particolarmente delicata, perché la Comunione, sotto le due specie eucaristiche del Pane e del Vino, viene generalmente impartita con l’uso di un cucchiaio (uno solo per tutti i fedeli). Che la questione liturgica abbia risvolti molto concreti è emerso nel recente caso di Reggio Emilia, ricostruita negli articoli consultabili qui e qui.
[21] Anche in questo caso, i protocolli con le confessioni diverse dalla cattolica recepiscono direttamente il numero massimo di fedeli che il Comitato tecnico-scientifico ha invece aggiunto in un secondo tempo al protocollo con la CEI.
[22] Così P. Consorti in L.M. Guzzo, Riprendono anche i riti non cattolici. Per la prima volta accordi con islamici e confessioni senza intesa Intervista al Prof. Pierluigi Consorti, in Diresom.net, 16 maggio 2020, pp. 3-4.
[23] Per una considerazione generale dell’A. sui temi sottostanti si veda J. Pasquali Cerioli, Una proposta di svolta, in La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia, a cura di R. Zaccaria, S. Domianello, A. Ferrari, P. Floris, R. Mazzola, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 349-356.
[24] Cfr. per la Chiesa cattolica le considerazioni svolte, anche oltre i rispettivi ambiti specifici di applicazione, da G. Casuscelli, Enti ecclesiastici e doveri di solidarietà, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2014, 7; F. Di Prima e M. Dell’Oglio, Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, oggi: il consolidamento del principio della reciproca collaborazione (art. 1 Accordo di revisione concordataria). Il paradigma delle fabbricerie, in JusOnline, 2018.
[25] Si veda, a titolo di sintesi per un tema che meriterebbe ben altra bibliografia, C. Cardia, voce Intese (Dir. eccl.), in «Il Diritto. Enciclopedia giuridica», VIII, 2007, pp. 219-223 ed amplius, anche con riferimento alle diverse implicazioni, C. Cardia, Ordinamenti religiosi e ordinamenti dello Stato. Profili giurisdizionali, Bologna, Il Mulino, 2003. Riprendendo un dibattito dottrinale scaturito fin dalle prime settimane dell’emergenza sanitaria, legge in chiave critica il problema della bilateralità nel contesto attuale F. Botti, Bagattelle per un’epidemia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 10, pp. 1-21.
[26] «Il paragone fra sistemi centenari (quelli di bilateralità pattizia) ed esperienze contemporanee (quelle di dialogo religioso) comporta l’impiego di creatività ed energie nuove. Tale impegno nasce dall’analisi della società contemporanea, che restituisce un’immagine di ‘superdiversità’, nella quale il ruolo delle comunità religiose non si atteggia tanto come quello di poteri paritetici allo Stato, quanto quali formazioni sociali (art. 2 Cost.) che concorrono al «progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 Cost.). Questo modello di esercizio della laicità ha il vantaggio di sottolineare le diversità che si presentano anche al livello territoriale, ove sono presenti ‘consulte’ o ‘tavoli’ che possono efficacemente mettere in relazioni bisogni specifici e risposte concrete, in grado di superare efficacemente criticità puntuali che il sistema pattizio al livello statale non è sempre – come dimostrano anche gli ultimi avvenimenti – capace di affrontare»; P. Consorti, Esercizi di laicità: dalla bilateralità pattizia al dialogo interreligioso (a causa del Covid-19), 7 maggio 2020.
Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari” di Francesco Messina
La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire ai cittadini una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di determinati interessi, alterando così i processi cognitivi della scelta consapevole. Il dialogo organizzato per mercoledì 3 giugno, in occasione della ristampa del libro di Marco Damilano “Un atomo di verità”, ha lo scopo di discutere su un tema fondamentale, quello della verità nascosta o non completamente svelata, esaminandolo da esperienze e angolazioni culturali diverse, ma convergenti nella finalità. Si tratta di esaminare l’ampiezza di un fondamentale diritto della persona umana (quello a una conoscenza, il più possibile piena, della storia e della politica), i meccanismi distorsivi della realtà e i mezzi per cercare di restarne immuni.
E, infine, di comprendere cosa abbiamo perso nei "percorsi spezzati" della vicenda democratica italiana e cosa possiamo ancora guadagnare dall’analisi rigorosa di essi. La vicenda di Aldo Moro - tragica nel suo esito sia umano, ma decisiva sul piano politico - è paradigmatica dei tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni storia del nostro Paese, e del modo con cui essi sono stati rappresentati alla maggioranza dei cittadini. Il tema dell’incontro - il “diritto alla verità, inteso come pretesa soggettiva concreta - pone un problema non tanto della quantità dell'informazione a disposizione di ognuno, ma della sua qualità e della sua correttezza su fatti epocali. Da tempo, le tradizionali agenzie formative della collettività italiana (scuola, partiti politici, associazioni culturali) confliggono, o sono state sostituite, dal sistema mediatico-comunicativo della semplificazione e dell’immediatezza, con l’effetto di creare immagini distorte della realtà, anche di quella storica, instillando il concetto tanto suadente, quanto falso, del cittadino che “sa già tutto” e non ha bisogno della ricerca e della riflessione quale momento indispensabile per un giudizio.
L'ignoranza della storia, l'inutilità di reperire la ragione profonda delle cose sono teorizzate come nuovo stile esistenziale per ottenere un gratificante riscontro privato e, soprattutto, pubblico. Tutto questo non accade per caso o in conseguenza di un ineluttabile destino collettivo, ma per una sempre più diffusa e organizzata mancanza di principi etici e di senso critico.
Un deficit che sedimenta e cristallizza l’esistente, e inibisce la dialettica del cambiamento.
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Riprendendo Moro e la lezione storico-politica del decennio italiano che va dal 1968-1978, si può dire che la conoscenza è sempre una questione di metodo. Italo Calvino avvertiva che coloro che vogliono semplificare a tutti i costi ciò che, per sua natura, è complesso, in realtà preparano solo menzogne; diversamente, chi dà risposte precise a questioni complesse dimostra l'unico atteggiamento utile e onesto.
“Onesta” e “verità” sono concetti profondamente legati sul piano teorico e conseguenziali su quello pragmatico. Il diritto alla verità rappresenta un "luogo della conoscenza" in cui la personalità umana, che è archetipo della Costituzione Repubblicana, si manifesta nel modo più dinamico e, si badi bene, anche con il maggior bisogno di solidarietà culturale. La ristampa del libro di Marco Damilano offre, quindi, un’opportunità precisa, quella di riesaminare una parte decisiva del nostro passato (ma poi è davvero passato? oppure vi è una coazione a ripetere?), e di farlo in modo attento e rigoroso, acquisendo anticorpi culturali contro la perdita della memoria e il possibile verificarsi di derive autoritarie.
Il dialogo del prossimo 3 giugno vuol quindi significare la necessità delle prospettive differenti, quelle del giornalista e del magistrato, per esaminare fenomeni che, per la loro natura, hanno bisogno della cultura delle competenze nel ricomporre il puzzle della complessità della Storia.
Il filo di questo sforzo comune, che vuol essere l’espressione del pensare e dell’agire democratico nella comunità, lo si trova nel significato più autentico della parola di “politica”; e cioè, per dirla con Isaiah Berlin, nell’arte del vivere nella “polis”, un’attività della quale anche coloro che preferiscono la vita privata non possono fare a meno. Significa sforzarsi di mettere in equilibrio scrupoloso e complementare i risultati giudiziari e quelli dell’analisi giornalistica.
D’altra parte, è solo elevando la pretesa culturale dei cittadini che si può affinare la qualità della risposta delle Istituzioni.
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Viviamo un tempo in cui, rispetto al futuro inquieto che ci aspetta, “nulla sarà come prima”. Sull’espressione, sempre più abusata, grava il pericolo che essa possa divenire l’ennesimo stereotipo linguistico di una gattopardesca riproposizione dell’esistente.
Di certo, la grave crisi etica ed economica con la quale tutti ci confrontiamo dovrebbe – anche - portarci a cogliere il dato positivo che ci viene imposto dalla Storia, e cioè quello di ri-pensare gli scopi soggettivi e quelli societari attraverso i quali, come avvertiva Alessandro Duranti, qualsiasi società - capitalistica, feudale o egualitaria – evolve oppure perisce.
E’ quando le difficoltà sono più dure che bisogna essere razionali, capaci empatia con il passato che ci “precede”, ci identifica, solo a saperlo e volerlo riconoscere.
Spesso nel dibattito pubblico si fa riferimento - quasi a fornire la soluzione ultima di ogni discussione - alle scelte del popolo, alla sua tradizionale, intrinseca saggezza.
Ma questo dovrebbe essere un punto di partenza, e non di arrivo, di una riflessione.
Dovrebbe porre interrogativi più che essere, come quasi sempre accade, un’opzione per blandire il cittadino, facendogli credere di possedere una conoscenza che, invece, non ha, perché gli è stata accuratamente nascosta.
C’è da recuperare, a mio avviso, il significato e il valore della parola più pregnante dei Costituenti della Repubblica- e Moro lo è stato - e cioè quella di “compito”, etimologicamente inteso come azione che completa, colma i vuoti, in una faticosa ma incessante “rimozione degli ostacoli”.
Scriveva Elio Basso che “la democrazia, cioè la sovranità del popolo, sarà più o meno effettiva a seconda che il popolo sarà più o meno in grado di avere e di formulare una propria volontà libera e cosciente e di controllarne l'adempimento. Ciò che dipenderà dalle condizioni economiche sociali e culturali della popolazione”.
Preporsi un “compito”, al di là della sua realizzazione, all’insegna della “verità” sono i presupposti e le ragioni di ogni responsabile impegno.
di Christine Von Borries
Sono felice. Sto aspettando il mio amore che deve ritornare dal lavoro. Sono fortunata, come mi fa sempre notare. Lavoro come commessa in un supermercato vicino a casa mia e ho orari fissi. Otto-tredici. Quindici-diciannove. La paga non è alta. Millecinquecento euro al mese. Ma almeno è certa. Non come Pietro che, nonostante abbia finito il liceo, combatte da anni contro capi che non lo apprezzano abbastanza, lo sfruttano e ogni tanto lo licenziano perché invidiosi delle sue capacità e per paura che lui faccia loro ombra. Quando l’ho conosciuto, un anno fa, aveva appena cominciato un nuovo lavoro come rappresentante di una famosa casa farmaceutica. È il responsabile per Toscana, Umbria e Marche e deve viaggiare molto. Era stato appena lasciato da una fidanzata della quale non mi ha mai voluto parlare, ma che doveva averlo trattato molto male. Era dovuto tornare a casa della madre che vive vicino a dove lavoro. Così ha cominciato ogni tanto a fare lì la spesa. Non l’ho notato solo io. Quando vedevamo le porte scorrevoli aprirsi e lui che entrava, con le mie amiche ci facevamo un cenno e ognuna pregava che scegliesse la propria cassa. Alto, muscoloso, un ciuffo sbarazzino sugli occhi grandi. Vestito sportivo e alla moda. Jeans strappati e magliette attillate nel fine settimana. Camicia e cravatta quando lavorava. Non so perché abbia scelto me. Ancora adesso ringrazio il cielo. Ho venticinque anni, sono timida, non arrivo al metro e sessantacinque. Ho un bel sorriso, mi diceva mia madre prima che morisse per un tumore cinque anni fa. Mio padre era morto qualche anno prima ma non avevamo sentito la sua mancanza. Si erano lasciati quando mia madre non ce l’aveva più fatta, forse anche a causa mia.
Ho spolverato tutti i mobili e sto finendo di dare l’aspirapolvere in salotto. Pietro ama l’ordine e la pulizia. Non sopporta la polvere, lo sporco, la sciatteria e io purtroppo non facevo troppo caso a queste cose. Fino a che ci siamo fidanzati.
Dopo un mese che sceglieva sempre la mia cassa mi ha invitato a bere qualcosa al bar all’angolo. Dopo pochi giorni stavamo insieme e nel giro di alcune settimane si è trasferito a casa mia. È lì che mi ha fatto la prima scenata. A ragione. Un giorno ha passato un dito per terra in salotto e lo ha rialzato con un filo di polvere sopra. Non mi ha parlato per due giorni e mi sono sentita morire. Da allora pulisco la casa tutti i giorni, ma purtroppo mi capita ancora di sbagliare e lui giustamente ogni volta si arrabbia di più. Un conto è dire le cose una volta, un’altra è doverle ripetere a una persona che si rifiuta di capire. Ad esempio, continuo a non pulire e ordinare in modo adeguato e lui è bravissimo a scoprire quello che trascuro. Ogni volta che penso che lui sarà orgoglioso di me, trova qualche pecca: il lampadario coperto di polvere, il pavimento sporco sotto al mobile della cucina, il cassetto della mia biancheria sottosopra.
Sospiro e apparecchio il tavolo di cucina coperto da una tovaglia come piace a lui, stando attenta a sistemare i piatti, le posate e i bicchieri in modo geometrico. Sposto più volte le cose finché mi ritengo soddisfatta. Ho preparato coniglio in umido e il purè di patate che gli piace tanto. Guardo l’orologio appeso sopra al tavolo. Le otto meno venti. Normalmente arriva verso le otto, ma a volte può ritardare anche fino alle dieci. Accendo il gas a fuoco basso sotto alle padelle. L’importante è non bruciare niente, ma è difficile quando ritarda tanto. Spesso mi ha fatto notare come io sia distratta ed egoista. Una sera, dato che stavo svenendo dalla fame, non l’ho aspettato e ho mangiato senza di lui. Si era trasferito da me da una settimana e ha minacciato di andarsene, alzando per la prima volta la voce. Mi ha insultato e sono rimasta sconvolta. Non per le offese, ma perché non l’avevo mai visto arrabbiato e avevo il terrore che mi lasciasse. Lui per me è diventato tutto. La mia famiglia, il mio amante, l’uomo che amo e che dà un senso alla mia vita. Non sopporto l’idea di rimanere di nuovo sola, la casa vuota, nessuno a cui pensare, nessuno che mi voglia bene.
Fortuna che Pietro ha pazienza e che non si stanca di farmi notare tutti i miei difetti in modo che possa migliorare. Non so cucinare come sua madre, sono sciatta ed egoista, non penso abbastanza a lui e ai suoi bisogni.
Ho cominciato a imparare. Ora non mangerei mai prima del suo arrivo e preparo i piatti che lui preferisce e che sua madre gli cucina così bene. Nulla in confronto a quello che faccio io. Ma lui è paziente e si accontenta.
Il telefono squilla. Strano. Guardo il display. È una mia amica d’infanzia. L’unica che mi chiama ancora. Guardo preoccupata l’orologio. Mancano cinque minuti alle otto. L’altra cosa che Pietro non sopporta sono gli amici che avevo prima, anche se non ne avevo tanti. Se ricevevo una telefonata Pietro si rabbuiava e pensava che fossero uomini che mi corteggiavano e che mi frequentavano al solo scopo di venire a letto con me. Le mie rassicurazioni erano state inutili. Siamo usciti qualche volta con il mio gruppo di amiche e amici, ma è stato un disastro. È rimasto in silenzio imbronciato e la sera abbiamo litigato. Ha tirato fuori lati negativi in ognuno e mi ha detto che cominciava ad avere dubbi anche su di me visto che frequentavo persone così. Mi è dispiaciuto, ma ho rinunciato a tutti pur di non perderlo. Ogni tanto mi sento sola, ma quando torna Pietro e mi prende tra le sue braccia dimentico tutto il resto del mondo.
Mi sforzo ogni giorno di migliorare i miei difetti, anche se diventa sempre più difficile. Mio padre aveva ragione. Anche lui urlava spesso con mia madre e, quando sono cresciuta ho capito che, quando si chiudevano in camera, non erano solo parole quelle che volavano e il perché dei lividi che mia madre tentava di nascondere con il fondo tinta. Anche io venivo rimproverata per ogni piccola cosa. Facevo disordine, confusione, non obbedivo prontamente ai suoi ordini, ero stupida, non capivo, non sarei mai riuscita a combinare qualcosa di buono. Sono diventata sempre più insicura e sbagliavo cose che prima mi riuscivano. Se lui mi guardava cadevo dalla bicicletta, facevo cadere le cose che tenevo in mano, rompevo oggetti a cui lui teneva. Mia mamma lo ha lasciato la prima volta che mi ha picchiato. Avevo sbattuto contro la libreria del salotto facendo cadere un vaso che era stato di mia nonna e lui mi ha colpito con un pugno che mi ha fatto sbattere la testa contro uno scaffale. Sono svenuta e mi hanno portato in ospedale. Mia madre, che non aveva mai reagito quando lo faceva con lei, ha trovato la forza di andarsene di casa con me e di rifugiarsi dai suoi genitori. Forse però mio padre non aveva tutti i torti a vedere tutti quei difetti in me che anche Pietro nota.
Mi decido e rispondo alla telefonata della mia amica. È contenta di sentirmi e mi rimprovera bonariamente perché non mi faccio mai viva. Sono mesi che non ci vediamo. Dovrei mentire a Pietro e lui lo scopre sempre quando gli nascondo qualcosa. Le dico che sono felice, ma sento che è scettica. Mi chiede perché mi sono allontanata dagli amici e le spiego che Pietro non è socievole e preferisce stare solo con me. In fondo anche se mi piacerebbe vedere altre persone insieme a lui, devo avere la maturità di venire incontro alle esigenze dell’uomo che amo. Non mi piace la piega che ha preso la nostra conversazione e, più lei si mostra dubbiosa dell’uomo che amo, più io lo difendo, nascondendo aspetti che anche a me a volte fanno riflettere. Sono a metà di una frase quando sento la porta di casa aprirsi. Attacco senza salutare e infilo in fretta il telefono nella tasca dei pantaloni. Mi volto verso la porta della cucina mentre entra e gli vado incontro. Mi alzo sulla punta dei piedi e gli do un bacio sulla bocca. Lui rimane immobile e mi guarda serio.
«Con chi eri al telefono?»
«Con nessuno.»
«Non mi mentire, lo sai che non lo sopporto.»
«Ti giuro non stavo parlando con nessuno, stavo controllando l’ora per vedere se stavi per arrivare», insisto.
Non riesco a smettere eppure so che sto peggiorando la mia situazione. Bastava dirgli che era la mia unica amica, ma so che si sarebbe arrabbiato ugualmente e ho cercato di evitarlo.
«Dammelo.»
«Cosa?»
«Lo sai.»
A malincuore gli tendo il cellulare e capisco che devo confessare.
«Hai ragione, mi ha chiamato Maria e io…»
Lo schiaffo mi colpisce in piena faccia prima che me ne renda conto. Mentre la testa viene spinta di lato mi arriva un manrovescio così violento che sbatto con il corpo sul frigorifero. È molto più forte di me e i colpi si susseguono senza tregua. Fitte dolorose mi trafiggono mentre continua a bersagliarmi con schiaffi e pugni. Cado a terra e continua a darmi calci nello stomaco, nei reni, nella schiena, finché un buio pietoso cala su di me e non sento più niente.
Apro un occhio piano, dato che l’altro è così gonfio che rimane chiuso. Cerco di capire cos’è successo e perché sento così male in tutto il corpo. Mi muovo e gemo. Sento una mano che mi accarezza il braccio delicatamente. Mi giro. Sono nel nostro letto e lui è seduto su una sedia. Si china su di me e mi mormora parole di scuse e di amore. Era preoccupato. Sono svenuta e lui mi ha infilato la camicia da notte e messa a letto. È mattina e ha già chiamato il direttore del supermercato e gli ha detto che sono malata e che mancherò per un paio di giorni. Non riesco bene a parlare, ho un labbro spaccato. Chiedo dell’acqua e lui sollecito mi avvicina il bicchiere e mi aiuta a mettermi seduta. È distrutto dal dispiacere e dalla vergogna. Mi chiede perdono, dice che non lo farà mai più e che non capisce come ha fatto a perdere il controllo. D’altra parte gli ho mentito e ho parlato alle sue spalle con la mia amica. Ho violato una promessa. Effettivamente ha ragione. Sono stata una stupida, ma lui ha esagerato. Mi dà ragione, si mette a piangere e mi chiede di non lasciarlo. Mi fa pena e gli accarezzo la testa posata sul grembo. Tanto ieri sera mi faceva paura e mi pareva un mostro, quanto ora sembra un bambino piccolo bisognoso di protezione. Gli credo e lo perdono. Ci abbracciamo con attenzione perché non c’è parte del corpo che non mi faccia male e io piango lacrime di sollievo che si mischiano alle sue di pentimento. È ancora lui il mio amore, il mio unico amore.
* In libro di 30 racconti sulla violenza alle donne “La sica Nera” edizioni Tea curatore Marco vichi del 2019
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