ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Adalberto Perulli intervista Massimo Cacciari: “Il lavoro dello spirito”
Adalberto Perulli L’ultimo libro di Massimo Cacciari, intitolato Il lavoro dello Spirito (Adelphi, 2020) è ricco di spunti anche per il giuslavorista, perché la riflessione riguarda il lavoro umano, quel lavoro dello spirito che è la traduzione del titolo di due celebri conferenze tenute da Max Weber all’Università di Monaco di Baviera tra il 1917 e 1919, l’una su il lavoro intellettuale come professione, l’altra sulla politica come professione. In queste conferenze Weber traccia un’idea regolativa che raccoglie l’eredità della grande cultura borghese ottocentesca, la cui forma, scrive Cacciari “impone il cammino rivoluzionario verso la liberazione del lavoro tout-court”; e ciò nella misura in cui il lavoro dello spirito, il lavoro intellettuale, ma anche il lavoro della politica, è lavoro creativo, autonomo, liberato dalla forma comandata, dipendente, alienata, tipica dalla subordinazione. Ora, il lavoro dello spirito può essere metafora del destino del lavoro in generale, dopo che la modernità ha definitivamente superato la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, riducendo entrambi a meri fattori della produzione, operari dipendente, “lavoro comandato” entro la sfera dominata dall’Economico (vedi anche i tuoi lavori precedenti, ad es. Destino di Dike)? Oppure il lavoro dello spirito può essere ancora riferimento per un lavoro (ormai senza aggettivi) che (hegelianamente) ritrova nelle relazioni intersoggettive il proprio riconoscimento” e, quindi, diventa vettore di libertà sociale e di autonomia, sottraendosi almeno in parte alla sua sussunzione nella sfera economica, che lo riduce a merce?
Massimo Cacciari Permettimi anzitutto di ringraziarti per l’attenzione che le vostre “Conversazioni” vogliono dedicare al mio saggio, che cerca di riattualizzare questioni che ritengo ancora decisive nel confronto di Weber con Marx. Che cosa significa oggi lavoro vivo? Certo, da tempo sappiamo che la possibilità di determinare la ricchezza sulla base del tempo di lavoro costituisce il caput mortuum della concezione marxiana del sistema sociale di produzione capitalistico. Ma sappiamo altrettanto che questo non inficia minimamente l’idea di fondo: che questo sistema si basa sulla sua capacità di incorporare in sé, impadronendosene, la produttività del lavoro vivo. Quale forma assume oggi tale lavoro? Anche qui Marx è stato il primo a intenderla nella sua essenza. Si tratta dello scientiam facere. Lo Scientifico è il fondamento della produttività del lavoro. Il sistema di produzione dipende oggi da esso, e cioè dalla sua capacità di impadronirsene. Ma è possibile concepire lo scientiam facere astraendolo dalla sua dimensione sociale? Ancora meno di come era possibile per le vecchie forme del lavoro comandato manifatturiero. Lo Scientifico è processo sociale nella sua essenza; la sua produttività dipende dal contesto complessivo della cultura di un sistema sociale, dall’organizzazione dei suoi processi formativi, dalla pregnanza delle interazioni tra i diversi specialismi. La ricchezza prodotta è il frutto di tutto questo. Se si vuole, è il frutto del tempo di lavoro socialmente necessario, erogato cioè da un’intera società, per formare l’humus necessario allo sviluppo dello Scientifico. E l’intera società deve poterne trarre il proprio benessere, proprio nel senso classico della eudaimonia. Si tratta di pensare su queste basi, in questa prospettiva che non esito a definire filosofica, in tutta la concretezza che il termine filosofia per me assume, le politiche occupazionali e quelle distributive – insomma, di fondare su tali premesse una nuova idea del Welfare.
Adalberto Perulli C’è un’energia nuova nel lavoro agile, nello smart working, nel lavoro tramite piattaforma, ma soprattutto nelle nuove forme di lavoro professionale, autonomo, indipendente? O sono mere riproposizioni di un neo-taylor-forismo digitale? E’ possibile valorizzare le nuove forme del lavoro professionale, autonomo (benchè economicamente dipendente) che si collegano, in fondo, all’ idea di contestazione della gabbia d'acciaio di cui parli a proposito della geistige Arbeit, e che alla base della forma alienata del lavoro? Questo lavoro, pur a-polide, precario, flessibile, chiede risposte in termini di identità, riconoscimento, rappresentanza, cittadinanza. Può ancora pensarsi ad un progetto normativo che sottragga il lavoro alla sua accidentalità, che ne conferisca senso e dignità?
Massimo Cacciari Come dubitare che l’esaltazione tutta ideologica cui stiamo assistendo delle forme di smart working, di lavoro “a distanza”, ecc., nasconda una realtà di subordinazione, di lavoro dipendente, comandato in termini ancora più violenti, a volte, di quelli imperanti nella vecchia fabbrica? Sotto la maschera di forme di lavoro autonomo e indipendente si sviluppano le forme più dure di auto-sfruttamento. L’impersonalità o quasi del comando ne rende quasi impossibile la stessa contestazione. E’ tuttavia possibile anche individuare in questa stessa, dolorosa situazione le doglie per un suo rovesciamento? Sì, io credo – ma, appunto, ci vuole la levatrice. Nella tua stessa domanda è implicito che senza organizzazione, senza sindacato (nel senso etimologico del termine), senza rappresentanza, queste nuove forme di lavoro individuale, indipendente, autonomo, che in ogni settore vanno pure emergendo (e non potrebbe essere diversamente), formeranno nient’altro che il nuovo proletariato, rigorosamente distinto dalla scienza come Beruf, e magari dagli happy few che la esercitano. E allora qui il discorso dovrebbe farsi totus politicus. Non vi è nessuna sintesi dialettica tra autonomia formale della prestazione lavorativa e il suo status sociale-politico.
Adalberto Perulli Ne Il lavoro dello Spirito parli della “caduta” dall’assolutismo degli imperativi assiologici (e quindi dall’idea di Costituzione come tavola di valori inderogabile e universale) al positivismo giuridico e all’idea di Stato come garante del contratto, in cui il Politico, persa ogni forza vitale, diventa mero guardiano del sistema sociale di produzione capitalistico, ormai globalmente affermatosi, su cui lo Stato basa ormai la propria autorità. Mi preme mettere in luce l’estrema conseguenza nichilistica del tuo ragionamento, condensata nell’affermazione davvero tremenda (non semplicemente disincantata) per cui “Lo Stato di diritto è lo Stato che considera sopra di sé la pura forma del contratto”, onde la dissoluzione di ogni idea di Giustizia che non sia puro formalismo dello “stare ai patti”. In realtà questo ragionamento giuridicamente è poco sostenibile nella stessa logica del positivismo giuridico, perché nemmeno per Kelsen il contratto sta sopra lo Stato ma solo dentro il riconoscimento dello Stato e dentro una struttura gerarchica di fonti superiori, che ne condiziona forma, struttura, contenuto ecc. Non ritieni possibile che, in realtà, il contratto stia piuttosto assumendo i compiti che un tempo erano funzioni dello Stato e del diritto pubblico? Che sia in corso una pubblicizzazione del contratto, una sua ambigua costituzionalizzazione? Ma poi: se fosse vero che l’idea di Giustizia si riduce ormai e solo a giustizia contrattuale, non significa questo negare ogni residua idea stessa di Giustizia (della cui necessità quantomeno sotto forma di sentimento tu stesso parli in Destino di Dike?); come può essere la Giustizia immanente alla stessa positività della norma, come scrivi in Destino di Dike, se si riduce a pura forma? Non c’è quindi contraddizione tra questa degradazione nichilistica del Giusto e l’idea di Giustizia come necessario trascendimento dalla norma? E ancora: cos’è questa “giustizia contrattuale”, che dal punto di vista giuridico semplicemente non esiste, neppure nella forma che tu indichi (“lo stare ai patti”), nella misura in cui la tecnica contrattuale contempla, ed anzi enfatizza! - nella logica della Law & Economics - la rottura efficiente del contratto, cioè l’inadempimento, il violare l’accordo? Se neppure pacta sunt servanda è più un canone rispettato dalle parti nella misura in cui il paradigma dell’efficienza economica guida (e domina) la razionalità giuridica? Nessun compimento della filosofia del diritto, quindi, ma sua pura e totale dissoluzione nel nichilismo giuridico indifferente ad ogni contenuto del nomos.
Infine. Nell’ultima parte de Il lavoro dello spirito sintetizzi il senso profondo del processo di globalizzazione e l’erosione del potere dello Stato nazionale, che colleghi alla crisi dell’autonomia relativa del lavoro dello spirito. Ma se la sfera economica si sottrae ormai globalmente alla localizzazione del nomos (come del resto già Schmitt indicava negli anni ’50 del secolo scorso, nella sua analisi sulla dissoluzione del diritto internazionale) dobbiamo rinunciare definitivamente al controllo (democratico-parlamentare) di ogni logica d’azione dell’impresa? Pensi che non esistano altre forme su cui puntare, su cui costruire nuovi meccanismi di controllo del mercato transnazionale contemperando con altri sistemi di interessi (e di valori) quello che definisci il “cosmopolitismo sradicante dell’Economico”? E’ evidente che i segnali sono deboli… l’Europa non fornisce più un modello sociale praticabile? E la dinamica inter-statale di matrice economica (commercio e investimenti internazionali) non pensi possa contribuire, attraverso clausole sociali, capitoli su lavoro e sostenibilità ecc., a realizzare una globalizzazione socialmente orientata?
Massimo Cacciari La parte riguardante il nomos è troppo “abbreviata” nel mio saggio e anche da questo i limiti e le contraddizioni del discorso che tu giustamente evidenzi. Quale nomos può sussistere per il “capitalismo politico” globale? il suo “diritto” non trascende ontologicamente, per così dire, lo spazio comunque definito della legge positiva? Quale “diritto” regola i rapporti, l’instancabile con-trarre che ha luogo tra i soggetti decisivi dell’economia e della finanza globali? Non è forse vero che questi si auto-regolano sempre di più? E che sempre più prepotentemente chiedono ai diversi Stati di “accompagnare” un tale processo senza opporvi resistenza? Mi pare indubitabile che questa sia la tendenza generale. Per tutte le questioni decisive: dalle politiche fiscali, a quelle per il commercio internazionale, a quelle stesse per il lavoro, ecc. Ma non si tratta certo di processi senza contraddizioni, di una sorta di destino da seguire col semplice disincanto! Tutto il mio saggio reagisce a una simile “rinuncia”! Intanto, occorre analizzare le contraddizioni, potenzialmente esplosive, in seno al “capitalismo politico” globale. Contraddizioni che la forma del contratto al suo interno non è in grado di risolvere – subentra qui di nuovo una dimensione di potenza politica, una dimensione imperiale, che inesorabilmente finisce con il confliggere con la razionalità economica. Poi, all’interno dei diversi spazi statuali, emerge il problema della regolazione del conflitto che le disuguaglianze crescenti vanno determinando e che non possono neppure essere affrontate secondo la mera logica del contratto. La dimensione del nomos si riafferma come problema. E il suo problema (come ho cercato appunto di mostrare, risalendone un po’ alle origini, nel saggio su Dike) non è astrattamente disgiungibile da quello della giustizia. Certo, non in quanto idea o Ordine che trascenda quello del diritto positivo. Nessun dover-essere, ma funzione immanente all’essere del nomos, senza cui quest’ultimo perde ogni auctoritas e si riduce al fatto della attuale potestas. Vale la distinzione kelseniana tra dover-essere e essere, ma a un tempo occorre concepire l’essere nella multiformità dei suoi significati – essere è anche il costante e immanente trascendersi della norma stessa proprio nella misura in cui intenda affermarsi erga omnes non semplicemente come mero attributo del potere politico. Come una simile concezione possa avere efficacia pratica nei confronti dell’impresa capitalistica globale rappresenta il grande problema intorno al quale scienza giuridica, scienza politica e analisi socio-economica dovranno confrontarsi nei prossimi anni se vogliono avere un senso, essere ancora Sinngebende.
Legittimazione ad agire dell’ANAC e giurisdizione amministrativa (nota a T.A.R.Campania, Salerno Sez. I, 2.1.2021 n.1) di Esper Tedeschi
Sommario: 1. Cenni sulla legittimazione processuale dell’ANAC ex art. 211, co. 1-bis e 1-ter, d.lgs. n. 50/2016 - 2. La sentenza del T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 2.01.2021, n. 1- 3. Brevi riflessioni conclusive sulla legittimazione “straordinaria” dell’ANAC.
1. Cenni sulla legittimazione processuale dell’ANAC ex art. 211, co. 1-bis e 1-ter, d.lgs. n. 50/2016.
La sentenza del T.A.R. Salerno n. 1/2021 offre l’occasione per riflettere in merito al complesso tema della legittimazione ad agire dell’ANAC.
Prima di descrivere la questione affrontata nel dettaglio dal giudice amministrativo, è opportuno spendere qualche parola in merito alla struttura alle due diverse ipotesi di legittimazione processuale individuate dall’art. 211, d.lgs. n. 50/2016.
Come ormai noto, l’art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 è stato modificato dal d.l. n. 50/2017 e dalla successiva legge di conversione n. 96/2017 che hanno comportato l’espunzione del comma 2 del medesimo articolo. Tale comma 2 prevedeva l’istituto delle c.d. raccomandazioni vincolanti con le quali l’ANAC, una volta riscontrate delle illegittimità negli atti di gara, era titolare del potere di adottare delle “raccomandazioni vincolanti” nei confronti della Stazione Appaltante, al fine di sollecitare (con le forme dell’“invito”) l’esercizio del potere in autotutela, da parte dell’Amministrazione, in senso conforme alla raccomandazione stessa[1].
La modifica normativa, in particolare, era stata auspicata dal Consiglio di Stato in sede consultiva, nei pareri nn. 855/2016 e 2777/2016[2]. Il legislatore delegato, a seguito delle criticità evidenziate in sede consultiva, dunque, ha sostituito le raccomandazioni vincolanti con due ipotesi di legittimazione ad agire individuate dai nuovi co. 1-bis e co.1-ter dell’art. 211 che, almeno sulla carta, dovrebbero rappresentare una soluzione che favorisca una forma di controllo collaborativo (tra l’ANAC e le Stazioni appaltanti). Poi, ai sensi dell’art. 211, co. 1-quater, la disciplina di dettaglio è rimessa a un regolamento interno all’Autorità con lo specifico fine di circoscrivere l’area della legittimazione attiva dinanzi al g.a.[3].
Le articolate previsioni dell’art. 211 introducono, nella materia della contrattualistica pubblica, un nuovo soggetto dotato di legittimazione attiva, con l’obiettivo (non dichiarato) di tutelare la legalità e la concorrenza nel settore degli appalti, consentendo l’impugnazione di bandi, atti generali e provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto.
In particolare, l’art. 211, co. 1-bis, d.lgs. n. 50 del 2016, attribuisce la legittimazione ad agire in giudizio dell’ANAC per l’impugnazione “dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante”[4]. Rientrano, quindi, nella fattispecie oggetto d’impugnazione diretta gli atti della procedura relativi a contratti di rilevante impatto sia in senso economico (criterio quantitativo), sia in senso di importanza della commessa pubblica (criterio qualitativo)[5].
L’art. 211, co. 1-ter, invece, adotta una soluzione equiparabile a quella già prevista dall’art. 21-bis, l. n. 287 del 1990 per l’AGCM[6]. Il co. 1-ter, difatti, attribuisce la legittimazione ad agire in giudizio previo parere motivato, con cui si invita la Stazione Appaltante a conformarsi entro un termine, decorso il quale – in caso di mancato adempimento alle prescrizioni dell’ANAC – l’Autorità può adire il giudice amministrativo per ottenere l’annullamento del provvedimento “viziato da gravi violazioni del presente codice”[7]. Anche se, va detto, alcune differenze tra i due istituiti sono state individuate in merito all’oggetto del giudizio[8].
Tuttavia una differenza, non da poco, tra i due commi citati dell’art. 211, codice dei contratti pubblici e l’istituto dell’art. 21-bis, è l’assenza dell’indicazione specifica dell’interesse a tutela del quale l’Autorità agisce.
Tale differenza, significativa, fa riaffiorare il mai sopito dibattito sulla presenza di una funzione oggettiva della giurisdizione amministrativa, seppure a prevalenza soggettiva; cioè di una giustizia orientata non solo a tutelare gli interessi delle parti contraenti, ma anche volta a perseguire l’obiettivo, più generale, della legalità dell’azione amministrativa, che assume particolare rilievo nelle gare ad evidenza pubblica.
Sennonché, con riferimento alla legittimazione dell’ANAC sembra più corretto parlare di legittimazione “oggettiva” o “straordinaria” sia in riferimento all’ipotesi disciplinata dall’art. 211, co. 1-bis, sia dal co. 1-ter[9]. Difatti – pur non essendo indicato espressamente l’interesse alla cui tutela è preposta l’Autorità – anche con gli istituti predetti, al pari dell’art. 21-bis per l’AGCM, si prevede una legittimazione processuale sganciata dalla effettiva titolarità di un interesse legittimo, ma ricollegata, invece, alla tutela di un interesse generale (alla concorrenza e alla legalità dell’azione amministrativa)[10].
Come si dirà nel terzo paragrafo, pertanto, sembra che non ci sia stato, con la modifica all’art. 211, d.lgs. n. 50/2016, uno snaturamento della natura soggettiva della giurisdizione, bensì l’introduzione di una forma di “vigilanza collaborativa ai fini della tutela dell’interesse pubblico alla legittimità ed alla legalità dell’azione amministrativa in materia di procedure relative all’affidamento di contratti pubblici”[11] che si estrinseca in una legittimazione straordinaria ed oggettiva dell’ANAC[12].
2. La sentenza del T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 2.01.2021, n. 1.
Venendo, ora, all’esame della sentenza in commento, occorre muovere dalla fattispecie concreta. Il “caso” deciso dal T.A.R. Campania, sede di Salerno, concerne la decisione dell’ANAC di impugnare gli atti della procedura e, segnatamente, singole clausole, in relazione alla qualificazione di centrale di committenza e di organismo di diritto pubblico di un’Associazione che aveva gestito i servizi di committenza ausiliaria per la Stazione Appaltante e alle stesse disposizioni che regolavano l’affidamento dei medesimi servizi prestati dall’Associazione afferenti alla procedura in questione, sulla base di un corrispettivo che l’ANAC ha ritenuto illegittimamente posto a carico dell’aggiudicatario con una alterazione della concorrenza.
Infatti l’individuazione dei soggetti ammessi a svolgere le attività di committenza ausiliarie “attiene al più ampio assetto del mercato relativo a tali attività, nell’ambito del quale le modalità di affidamento sono determinate in considerazione anche della qualità rivestita dall’affidatario; allo stesso modo l’imposizione di specifici oneri a carico dei concorrenti e dell’aggiudicatario incide sulla partecipazione alla specifica procedura”.
L’ANAC, dunque – ravvisate le “gravi violazioni” del codice dei contratti pubblici nell’ambito del mercato dei servizi di committenza ausiliari e dello specifico mercato a cui attiene l’oggetto della procedura – ha adottato il parere ex art. 211, co. 1-ter, d.lgs. n. 50/2016, assegnando un termine sia alla Stazione Appaltante che alla Centrale di committenza per l’adeguamento[13]. Decorso inutilmente il termine, l’Autorità ha deliberato di impugnare gli atti della procedura.
Le difese dell’Amministrazione intimata hanno consentito al giudice di affrontare in maniera approfondita il tema della legittimazione ad agire dell’ANAC. Difatti la Stazione appaltante ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per “insussistenza dei presupposti della legittimazione straordinaria dell’Autorità”, poiché, da un lato le clausole contestate non avevano una portata escludente né incidevano sulla concorrenzialità della gara, dall’altro lato – secondo l’Amministrazione – non vi erano i presupposti per l’esercizio dell’autotutela, difettando l’interesse pubblico all’annullamento della procedura
Il giudice ha tuttavia ritenuto come gli atti impugnati dall’ANAC rientrassero tra quelli assoggettabili all’azione dell’Autorità ex art. 211, co. 1-bis e 1-ter, d.lgs. n. 50/2016 e artt. 4 e 7 del Regolamento ANAC. Inoltre, l’Autorità avrebbe fatto valere “violazioni gravi delle regole della concorrenza nell’ambito del mercato dei servizi di committenza ausiliari e dello specifico mercato a cui attiene l’oggetto della procedura. Infatti l’individuazione dei soggetti ammessi a svolgere le attività di committenza ausiliarie attiene al più ampio assetto del mercato relativo a tali attività, nell’ambito del quale le modalità di affidamento sono determinate in considerazione anche della qualità rivestita dall’affidatario; allo stesso modo l’imposizione di specifici oneri a carico dei concorrenti e dell’aggiudicatario incide sulla partecipazione alla specifica procedura”.
Ciò detto, il T.A.R. apertamente si sbilancia a favore della natura puramente soggettiva della giurisdizione affermando che l’art. 211, codice dei contratti pubblici, ha riconosciuto una legittimazione ex lege volta ad assicurare la tutela di “interessi particolari e differenziati, eppure pubblici, di cui l’Autorità è portatrice”, avallando, sostanzialmente, la teoria della soggettivizazzione di interessi dal carattere generale[14].
Infine il T.A.R. ha anche offerto interessanti spunti di riflessione sull’oggetto d’impugnazione in caso di azione proposta a seguito della diffida, ex art. 211, co. 1-ter, ad esercitare l’autotutela doverosa.
3. Brevi riflessioni conclusive sulla legittimazione “straordinaria” dell’ANAC.
Si avverte, a questo punto l’esigenza di soffermarsi ulteriormente sulla legittimazione straordinaria dell’ANAC, al fine anche di accertare se, effettivamente, con tale attribuzione non si sia inciso sulla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa.
Per quanto si condividano le conclusioni del T.A.R., non sembra inutile, ai fini di un’accurata, se pur breve, analisi, muovere dalla ri-strutturazione dell’ANAC (per effetto dell’art. 19 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014 n. 114)[15], alla quale ha corrisposto il potenziamento del contrasto nazionale alla corruzione – in via preventiva – nel quadro di una concezione extra-nazionale, convenzionalmente condivisa[16], da cui ha preso le mosse l’idea politica della “prevenzione”, alla stregua di un fenomeno distorsivo della “funzione pubblica” (non esclusivamente nazionale). Il processo di inclusione di tale lotta negli interessi fondamentali pubblici da perseguire ha preso avvio con l’istituzione, dapprima, di una Commissione orbitante nell’ambito del Dipartimento della funzione pubblica (il primo dei soggetti contemplati nell’art. 12 del citato d.gs. n. 150 del 2009, coinvolti nel processo di “misurazione e valutazione della performance organizzativa e individuale delle amministrazioni pubbliche”).
Gli obiettivi, al tempo, erano, al primo apparire, solo latamente riconducibile al contrasto preventivo alla corruzione[17], essendosi arrivati soltanto per tratti successivi, alla sensibilizzazione agli aspetti funzionali e organizzativi della lotta preventiva a tale fenomeno.
Nella successione degli atti legislativi (come individuati nella nota che precede), emerge che, alla ri-denominazione dell’Autorità, si accompagna l’accentuazione della sua indipendenza, in conformità a quanto richiesto dalle norme stabilite dalle convenzioni internazionali, univoche nel ritenere essenziale al fine la creazione di Autorità nazionali, effettivamente “indipendenti”[18].
In conclusione, con il decreto del 2014, l’ordinamento ha reinventato un’Autorità indipendente “nuova”, in virtù della convergenza delle attribuzioni già proprie di differente Autorità (contestualmente soppressa), in tema di contratti pubblici, proprio per essersi accentuata la percezione della carica di aggressività della corruzione, tale da penetrare negativamente nel pubblico come nel sociale, con ripercussioni devastanti nell’economia del Paese.
L’evento/occasione è stata l’Expo Milano 2015.
L’effetto politico-istituzionale è stato la pressocché immediata configurazione legislativa di un’Autorità dotata di autonomia e poteri di regolazione ed enforcement che la collocano, nella funzione della lotta alla corruzione, in una posizione del tutto analoga a quella di altre Autorità, effettivamente “indipendente” nel contesto nazionale.
L’accostamento più immediato e naturale è all’AGCM, con la quale l’ANAC condivide il sostanziale obiettivo finale della crescita economica del Paese (incoraggiando comportamenti virtuosi pubblici e privati, nell’un caso; e, nell’altro, facendo sì da evitare e combattere comportamenti anticoncorrenziali), con parecchi punti in comune, ancorché differiscano le strategie in rapporto alla funzione specifica affidata alle due differenti Autorità: per l’ANAC la lotta preventiva, con strumenti amministrativi, alla corruzione; per l’AGCM, quella ai comportamenti anticoncorrenziali in funzione del “libero mercato” inteso come “luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio dell'impresa”[19].
Accomunano entrambi, innanzitutto, il rango costituzionale e sovranazionale degli interessi assegnati alla loro cura: a) ciò vale per la “concorrenza per il mercato”, che è “di rango costituzionale ed europeo”[20]; b) ma vale altresì, a maggior ragione, per la lotta preventiva alla corruzione, a mente dell’innovato art. 97, co. 2, Cost., in relazione al co. 1, e degli impegni convenzionalmente assunti al riguardo dalla Repubblica italiana, in ambito sovra-nazionale[21].
Per quello che interessa, inoltre, l’accostamento è ulteriormente circostanziato dal difetto, per l’una come per l’altra Autorità di poteri coercitivi, idonei a contrapporsi a provvedimenti amministrativi lesivi dell’interesse pubblico a ciascuna assegnato e, correlativamente, l’avvertita esigenza del legislatore nazionale di investire entrambe di una speciale legittimazione ad agire in giudizio, per l’impugnazione di provvedimenti amministrativi asseritamente illegittimi e lesivi degli interessi pubblici di titolarità di ciascuna[22].
Il presente scritto impone, per la sua brevità, di esporre considerazioni di estrema sintesi, sicché, ci si limiterà a dire che l’ordinamento giuridico è duttile e aperto, per sua natura, alle istanze che provengono, in relazione ai tempi, da più parti; ne consegue che il passaggio dal “devi” al “puoi” (che caratterizza la derivazione, dal diritto oggettivo, di quello soggettivo) ha confini estremamente labili, in quanto esprime, in un dato momento storico, le connotazioni della “organizzazione [...] di una data comunità sociale” in un determinato periodo[23].
Non sembra, pertanto, azzardata l’idea che – in forza del processo di osmosi fra differenti ordinamenti nazionali, strettamente collegata alla appartenenza all’Europa – il modello nazionale, attuale, di “giustizia amministrativa” derivi dalla convergenza di tre differenti modelli, ovvero, quelli francese, tedesco e inglese[24], in un modello nuovo e originale, nel quale la pretesa di tutela nei riguardi di provvedimenti lesivi degli interessi legittimi pertinenti alla sfera giuridica soggettiva non ha, come presupposto essenziale – nella Carta Costituzionale – che la lesione si determini nella sfera soggettiva di un soggetto a priori qualificabile “privato”, bensì, esclusivamente, che l’interesse da tutelare sia “proprio” ovvero appannaggio della sfera giuridica di chi ne promuove l’azione[25].
Sebbene non fossero totalmente in errore quanti, prima della Costituzione repubblicana, propendevano per la natura oggettiva del processo amministrativo, indipendentemente da talune connotazioni di soggettività della strutturazione processuale della tutela accordata al soggetto[26], al più, induce a qualche perplessità che, dopo la Costituzione repubblicana, su tale convincimento abbiano insistito acuti conoscitori del “processo”, della sua strumentalità rispetto a posizioni sostanziali già definite dall’ordinamento e ai risvolti riparatori e attuativi della posizione soggettiva lesa[27]. L’equivoco si deve, non già alle “connotazioni costituzionali” della tutela dell’interesse legittimo, siccome affidata ai giudici della “giustizia amministrativa”, quanto, piuttosto al persistente equivoco di un “interesse legittimo” privo di consistenza sostanziale, in quanto soltanto occasionalmente protetto. È questa la conseguenza del lungo “morare” del legislatore nazionale nel dare un convincente e ragionevole assetto processuale a tale “giustizia amministrativa”[28], così differente, ma anche così strutturalmente coincidente con quella del “processo civile”, da avere quest’ultimo costituito, con il relativo codice, per lungo tempo, il punto di riferimento per ovviare alle scarne e talvolta inadeguate indicazioni provenienti dal corpo delle leggi e del regolamento del Consiglio di Stato, integrato, in parte minima, peraltro, dalla successiva legge del 1971, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali. Non si contano le riforme e integrazioni successive, le quali, in buona sostanza, sono valse ad aprire finalmente la strada al “nuovo” codice del processo amministrativo, dove l’accostamento al processo civile si enuncia, sin dall’art. 1, con riferimento alla generalità delle azioni disciplinate nel codice, nel quale, d’altra parte si rinviene un archetipo strutturale tipico della giurisdizione soggettiva, per nulla scalfito da talune connotazioni eccezionali di “ipotetica” giurisdizione oggettiva.
La riflessione è che, ancor prima del codice, l’impronta in senso soggettivo della giurisdizione – guidata dal precetto costituzionale e da talune riforme – è dovuta alle felici intuizioni dei giudici amministrativi: sfumature di oggettività non contano per qualificare il processo, così come non conta, nel processo civile, che taluni istituti evochino profili di giurisdizione oggettiva (quali la legittimazione del p.m. nelle cause di nullità assoluta dei negozi giuridici, o nelle cause relative a minori, o in tema di rapporti di famiglia e quant’altro). Nessuno dubita neppure del fatto che debba rinvenirsi attività giurisdizionale anche in quelle attribuzioni del giudice civile che evocano l’esercizio di poteri amministrativi, quali le attribuzioni nei procedimenti definiti di “volontaria giurisdizione”.
Ciò posto, per rispondere all’interrogativo principale, i due problemi, quello relativo alla legittimazione processuale e quello della natura del processo cui dà luogo l’esercizio di tale legittimazione, devono essere tenuti, almeno inizialmente, distinti.
Si tratta di due problemi che, trattati congiuntamente, infatti, lasciano indulgere alla tentazione di considerare consequenziale una sopravvenuta giurisdizione oggettiva del giudice amministrativo, nella materia contrattualistica pubblica, mentre, al contrario, tale sensazione svanisce ove si muova separatamente, dalle esigenze che hanno condotto il legislatore, procedendo per astrazione, a riconoscere, all’Autorità di cui si tratta, legittimazione processuale (straordinaria) in due puntuali ipotesi, nell’ambito della sua funzione preventiva di lotta alla corruzione, occasionata dai contratti pubblici: ossia, nelle due ipotesi contemplate dall’art. 211 del Codice dei contratti pubblici.
Sul primo aspetto rileva la considerazione che l’istituzione di un’Autorità implica l’attribuzione di “poteri” funzionalizzati, che assoggettano il titolare al “vincolo della legalità” nella duplice implicazione che ne deriva in relazione alla “indicazione-di scopo” ed al relativo “vincolo”[29].
I “poteri” sono coessenziali all’autonomia accordata Autorità e vi si correlano strumenti di regolazione ed enforcement ai quali sono anche complementari poteri di controllo e sanzionatori, quest’ultimi, però, nella specie, limitati e inefficaci, per lo più, in quanto interlocutori sono, in linea generale, soggetti pubblici, anch’essi titolari di poteri: l’illegittimità emerge nella lesione di interessi propri degli operatori che vengono in contatto in occasione della procedura pubblica, se e nei limiti in cui richiedono tutela giurisdizionale; l’eventuale illiceità emerge in sede penale sub specie di “repressione” ed è quanto la “prevenzione” mira a evitare, per il freno che ne deriva alla fluidità del percorso produttivo.
La considerazione prima, “motrice” dell’ottica della “straordinarietà” nella quale si è mosso il legislatore nazionale, è che i “poteri” non generano “diritti” ed anzi, sono ad essi antitetici.
L’Autorità indipendente, nell’assetto ordinamentale nella quale è istituita, esercita il potere in adempimento di un “dovere giuridico e pubblico”, che ruota intorno a un interesse pubblico specifico; analogamente, i suoi apprezzamenti e le sue scelte “discrezionali” connotano “il potere”, sempre funzionalizzati e coessenziali alle attribuzioni e ai vincoli che ne derivano. Nell’ambito di tali poteri non è riconoscibile né quello di paralizzare i “poteri” di altre amministrazioni, né di agire in giudizio, per avversare la lesione dell’interesse pubblico che ne deriva, per effetto della violazione di puntuali regole di azione.
L’Autorità, espressione dell’organizzazione dell’Ordinamento che l’ha istituita, non ha neanche il “potere” di investire incidentalmente, il giudice delle leggi, nel corso di un proprio procedimento sanzionatorio, dello scioglimento del dubbio di costituzionalità di un atto legislativo[30].
Ma, nei limiti in cui gli è consentito dalla Costituzione, l’ordinamento giuridico è in condizione di trovare il rimedio. Alla regola generale si contrappone l’eccezione “straordinaria”, ma questa, a sua volta, richiede meccanismi di successiva approssimazione.
Nel nostro caso essi si rendono necessari in quanto – sebbene i precetti costituzionali in tema di “giustizia amministrativa”[31] non precludano ex se che posizioni di interesse legittimo suscettibili di tutela giurisdizionale possano anche sussistere in capo a soggetti pubblici - è nella natura stessa del “potere” pubblico che l’emersione di una posizione legittimante all’esercizio di un’azione in giudizio sia preceduta dalla “titolarità” di una posizione sostanziale che ne costituisce la fonte.
La legittimazione ad agire, infatti, è espressione del “diritto” di agire in giudizio, per la tutela di una propria posizione soggettiva, di “interesse legittimo” o di “diritto soggettivo” che sia.
Tale posizione non è rinvenibile, “ordinariamente”, in capo all’ANAC: la prevenzione della corruzione e la tutela della concorrenza sono interessi dei quali, essa non è titolare, essendone titolare direttamente ed esclusivamente lo Stato, per cui, di converso, l’ANAC non può avere, al riguardo, né interessi legittimi, né diritti soggettivi che possano subire lesione da parte di differenti “poteri”, a maggior ragioni non può essere titolare di diritto di azione e trovarsi in una posizione di legittimazione processuale.
È qui che l’ordinamento interviene, comportando:
a) l’oggettivazione dell’interesse; ed è questo davvero l’aspetto più difficile da sviscerare, in quanto né il legislatore né la sentenza in esame, né altrimenti, dottrina e giurisprudenza, lo hanno, invero, risolto, a differenza dell’ipotesi analoga - relativa all’AGCM - in cui la strada è stata spianata dallo stesso legislatore con espressa proposizione; nel nostro caso sembrerebbe che ad essere oggettivato sia l’interesse alla legalità (sub-specie di lotta alla corruzione) e alla tutela della concorrenza, rispetto al quale il legittimo espletamento della procedura concorsuale costituisce un aspetto complementare e l’occasione diretta, in caso di sua illegittimità, della lesione che ne deriva alla sfera soggettiva del titolare dell’interesse alla prevenzione alla corruzione, che ne è sostanzialmente compromesso;
b) in tale passaggio ideale, la titolarità della funzione diverrebbe, dunque, l’occasione, perché, l’interesse predetto, disancorato dalla “funzione”, possa articolarsi nelle sue componenti, fra le quali coessenziale, la legittimità della procedura concorsuale, prodromica al conseguimento della “efficienza” dell’amministrativa, nella quale si realizza il canone fondamentale di cui all’art. 97 Cost.;
c) l’attribuzione della legittimazione straordinaria ad agire, nelle due ipotesi contemplate nei commi 1-bis e 1-ter sopra specificati, chiude il quadro delle approssimazioni che “il diritto oggettivo” si è visto costretto a compiere per giungere al fatidico “puoi” del sillogismo normativo.
Ma risulta, poi, chiaro che, una volta messo a punto tale percorso, il legislatore non ha inteso modificare né le connotazioni strutturali del processo amministrativo, né i poteri giurisdizionali del giudice amministrativo, in quanto entrambi restano tali e quali, con le connotazioni proprie del giudizio a istanza di parte e i limiti, anche, che ne derivano, alle parti e al giudice, nell’esercizio del potere giurisdizionale, secondo gli ordinari criteri che governano tale giudizio.
Sintomatico, al riguardo, è che le due norme che prevedono l’azione – sia pure problematiche, per taluni profili, nelle loro implicazioni sostanziali – non introducano alcuna eccezione alle ordinarie regole del processo, neanche per ciò che riguarda la sospensione dei termini processuali nella fase prodromica delineata nel comma 1-ter[32].
L’attribuzione della straordinaria legittimazione, nelle due differenti ipotesi consente, dunque che l’ANAC ricorra contro i provvedimenti asseritamente illegittimi della stazione appaltante, non diversamente di come sono legittimati a fare – sussistendone i presupposti – i concorrenti ipoteticamente lesi, senza che le particolarità del caso incidano sul potere giurisdizione esercitato dal giudice amministrativo, che eserciterà il controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impugnato, more solito, sulla base delle deduzioni delle parti e del principio di disponibilità tipico della giurisdizione soggettiva.
In altri termini, le particolarità che ineriscono ai presupposti di tale legittimazione, non ne snaturano le connotazioni.
Eventuali sintomi di emergente oggettivazione di tale giurisdizione – seppure in taluni casi innegabili – andranno ricercati altrove.
Qui si è al cospetto di un interesse che è per sua natura pubblico ma che costituisce il “presupposto” della legittimazione straordinaria, ovvero la prevenzione della corruzione, compromette la funzionalità di ogni intervento pubblico.
Sarebbe un grave errore accostare il fenomeno ai casi in cui è accordata legittimazione in funzione di tutela di interessi diffusi. Non vi è alcun dubbio, infatti, che l’interesse sia pubblico e che gli eventuali collegamenti sociologici e morali non ne mutino in alcun mono le connotazioni.
Marcatamente la necessità di conferire una legittimazione processuale straordinaria all’ANAC è il riflesso di lacune che i mutati assetti hanno determinato nel sistema dei controlli, all’origine facenti capo alla Corte dei conti, nel pensiero dei padri costituenti[33].
Quello che vi è di nuovo e di originale, nella attribuzione della legittimazione straordinaria all’ANAC, non è un mutato modo di concepire la giustizia amministrativa, quanto piuttosto nell’avere integrato, in funzione di controllo collaborativo, le opportunità di intervento dell’ANAC, tramite un’azione in giudizio, rispondente ai canoni tipici dell’azione amministrativa, soltanto con un presupposto in più, nell’ipotesi contemplata, dal più volte citato comma 1-ter.
[1] Tra gli autori che hanno affrontato il tema si segnalano M.A. Sandulli, Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici, in Federalismi.it, n. 5, 2016; M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), in Federalismi.it, n. 10, 2016 e Id., Il nuovo precontenzioso ANAC. I pareri e le raccomandazioni vincolanti ex art. 211 del nuovo codice, Roma, 2017; L. Torchia, Il nuovo codice dei contratti pubblici: regole, procedimento, processo, in Giorn. Dir. Amm., n. 5, 2016, pp. 503 e ss.; E. Follieri,Le novità sui ricorsi giurisdizionali amministrativi nel codice dei contratti pubblici, in Urb. e App., nn. 8-9, 2016, pp. 874 e ss.; F. Goisis, La breve esperienza delle raccomandazioni vincolanti dell’ANAC ex art. 211, co. 2, d.lgs. n. 50 del 2016: doverosità e funzione di giustizia nella autotutela decisoria, in P.A. Persona e Amministrazione, n. 1, 2017, p. 421.
[2] In particolare, il Consiglio di Stato, con il parere n. 855/2016 ha evidenziato come il precedente comma 2 ponesse delle criticità sotto il profilo della “compatibilità con il sistema delle autonomie, in quanto introduce[va] un potere di sospensione immediata e uno di annullamento mascherato che esorbitano dai meccanismi collaborativi ammessi dalla Consulta con la sentenza 14 febbraio 2013, 20, pronunciatasi sull'art. 21 bis della legge n. 287/1990”. Non solo, perché, prosegue il Consiglio di Stato, sul piano della ragionevolezza e del principio di presunzione di legittimità degli atti amministrativi, si sarebbe creata una sorta di responsabilità da atto legittimo, ove la P.A. non si fosse conformata alla raccomandazione.
Inoltre con il parere n. 2777/2016, è stato anche sottolineato come la sanzione prevista in caso di mancato adeguamento alla raccomandazione dell’ANAC, colpendo solo e unicamente il dirigente, creava delle difficoltà sistematiche di compatibilità con il principio di responsabilità personale ex art. 3, co. 1, l. n. 689/1981. Ancora, ulteriori (e condivisibili) criticità erano segnalate in ragione del procedimento di vigilanza che si sarebbe venuto a creare, di difficile inquadramento all’interno del sistema e delle garanzie di diritto amministrativo.
[3] Regolamento sull’esercizio dei poteri di cui all’art. 211, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 e s.m.i., approvato il 13 giugno 2018.
[4] La disposizione trova, poi, specificazione, negli artt. 3-5 (Capo II) del Regolamento ANAC del 13 giugno 2018.
[5] Il Consiglio di Stato, in sede di parere reso sullo schema di Regolamento dell’ANAC, ha apprezzato lo “sforzo” della previsione regolamentare di qualificare i contratti di “rilevante impatto”. Tuttavia l’elencazione fatta dall’ANAC al co. 2, dell’art. 3 del Regolamento lascia ancora qualche interrogativo, in quanto rimangono ancora dei tetti abbastanza elevati per l’individuazione dei contratti rilevanti sotto il profilo economico (“lavori di importo pari o superiore a 15 milioni di euro ovvero servizi e/o forniture di importo pari o superiore a 25 milioni di euro”) e – come osserva il Consiglio di Stato in sede consultiva – “risulta per contro generico e poco chiaro il richiamo operato ai fini della qualificazione di “contratti di rilevante impatto” al potenziale elevato numero di operatori; ugualmente oscuro, generico e fonte di equivoco appare anche il riferimento – sempre ai fini qualificatori in discussione – ai “contratti riconducibili a fattispecie, criminose, situazioni anomale o sintomatiche di condotte illecite da parte delle stazioni appaltanti”.
[6] Per un’ampia e recente disamina dell’istituto si veda N. Pica, La tutela processuale dell’interesse pubblico: considerazioni a partire dalla legittimazione ad agire dell’AGCM, in Dir. Proc. Amm., n. 3, 2019, pp. 807 e ss.
[7] Anche questa disposizione è poi dettagliata dal Regolamento ANAC del 2018 negli artt. 6-10 (Capo III).
[8] La fattispecie procedimentale disciplinata dall’art. 21-bis, l. n. 287/1990 sembrerebbe prevedere un parare-diffida dell’AGCM con portata conformativa e vincolante nei confronti dell’Amministrazione destinataria. Sicché, in dottrina, è prevalente l’idea che oggetto del giudizio sia la verifica della legittimità dell’atto individuato – tramite parere – come illegittimo dall’Autorità procedente, con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale atto adottato dall’Amministrazione non sarà oggetto esclusivo del giudizio, ma solo elemento della valutazione complessiva del giudice. Sul punto M. Clarich, I poteri di impugnativa dell’AGCM ai sensi del nuovo art. 21-bis della L. n. 287/1990, in giustizia-amministrativa.it. Anche se, B.G. Mattarella, ricorsi dell’Autorità antitrust al giudice amministrativo, in Giorn. dir. amm., qualifica il parere espresso dall’AGCM come un “invito” all’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione.
Con riferimento all’art. 211, co. 1-ter, d.lgs. n. 50/2016 sembra essere prevalente la tesi che individua nel parere una vera e propria diffida “produttiva di un obbligo di provvedere in ordine alla richiesta di autotutela” (M. Lipari, La soppressione delle raccomandazioni vincolanti e la legittimazione processuale speciale dell’Anac, in giustizia amministrativa.it), come confermato, d’altronde, dal Consiglio di Stato in sede consultiva (parere n. 1119/2018). Di talché, il giudie – almeno laddove l’amministrazione non sia rimasta inerte – dovrebbe anche valutare se sussistono o meno i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela da parte della Stazione Appaltante. Cfr. S. Tuccillo, La legittimazione processuale delle Autorità Indipendenti. Il caso Anac, in P&A Persone e Amministrazione, n. 2, 2019, pp. 197 e ss.
[9] Non secondo S. Tuccillo, op. cit., che distingue a seconda se impugnino atti generali o atti puntuali. Nel primo caso emergerebbe la funzione oggettiva della giurisdizione, mentre, nella seconda ipotesi, ci sarebbe sempre “la tutela indiretta di soggetti individuati o individuabili”.
[10] Ossia la fattispecie tracciata da V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 2, 2014, per la definizione dell’ipotesi di legittimazione oggettiva, laddove ha precisato che “con la nozione di legittimazione “oggettiva” ad agire, mi riferisco in queste note, ai casi, molteplici nel nostro ordinamento processuale, nei quali determinati soggetti, in virtù di espressa previsione di legge, ovvero della loro posizione istituzionale nell'ambito dell'ordinamento, possono adire il giudice amministrativo (esercitando l'una o l'altra delle azioni ammissibili) per la tutela di interessi generali (pubblici) di cui sono portatori; cadendo dunque, in tali casi, il carattere prettamente “soggettivo” del processo amministrativo, come quello inteso alla tutela di situazioni soggettive protette (diritti e interessi legittimi: artt. 103, 113, Cost.), la cui sussistenza in concreto, deve essere rappresentata preliminarmente al giudice ai fini dell'esercizio dell'azione. La previsione di casi di legittimazione “oggettiva” non comporta affatto, come si mostra in queste note, che il processo assuma caratteri “di diritto oggettivo” (che in qualche caso si rinvengono anche nel processo amministrativo, del tutto a prescindere dai casi di legittimazione “oggettiva”)”.
Parzialmente diversa l’opinione di M.A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giustizia amministrativa: il confronto, in Federalismi.it, n. 3, 2017 che individua indici dell’oggettivizzazione della giurisdizione nella legittimazione ad agire delle Autorità Indipendenti e di alcune amministrazioni centrali (MIUR e MEF in particolare). In altro precedente scritto l’A. tenta di individuare quale potrebbe essere l’interesse “soggettivizzato” di cui sarebbe portatore l’AGCM, interrogandosi sulla compatibilità con il dettato costituzionale (art. 103) della fattispecie dell’art. 21-bis (M.A. Sandulli, Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti, in anticorruzione.it, 2013).
Tuttavia, in più di un’occasione la giurisprudenza si è espressa sulla compatibilità con l’art. 103 dell’azione descritta dall’art. 21-bis, l. n. 287/1990 (su tutte si veda la sentenza della Corte Cost., 14 febbraio 2013, ma anche T.A.R. Lazio, sede di Roma, sez. III, 15 marzo 2013, n. 2720).
[11] Cons. stato, parere n. 1119/2018 reso sullo schema di Regolamento sull’esercizio dei poteri dell’Autorità Nazionale Anticorruzione di cui all’art. 211, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
[12] Sia consentito rinviare a quanto detto in un proprio precedente scritto Rapporto tra Ricorso principale e ricorso incidentale in materia d’appalti: profili oggettivi della giustizia amministrativa e integrazione europea, in Dir. Proc. Amm., n. 4, 2017, in particolare p. 1447 e s.
Cfr. sul tema M. Nigro, Giurisprudenza amministrativa e trasformazioni dell’amministrazione: riflessioni sulle conseguenze sostanziali di assetti processuali, in Studi centenario IV sezione, II, Roma, 1989, p. 574, che trattando di legittimazione oggettiva, per scelta legislativa, parla di emersione “nell’area del pubblico, di un pubblico non statale ma sociale, che trae la sua posizione e la sua legittimazione dai suoi collegamenti funzionali con gli interessi e le forze della società”, ovverosia di formazioni sociali nelle quali si aggregano interessi diffusi, legittimate ex lege a tutelare detti interessi in sede giurisdizionale.
[13] Come emerge dalla casistica, l’ANAC ha sempre preferito utilizzare lo schema a doppio stadio, in luogo dell’impugnazione in via diretta, anche laddove si trattava di contratti di importanza rilevante secondo il Regolamento ANAC. D’altra parte è anche una scelta ragionevole che, prudenzialmente, mette al riparo l’Autorità da possibili eccezioni d’inammissibilità per non aver adottato la previa diffida nei confronti della Stazione Appaltante in presenza di appalti dalla non chiara riconducibilità alle ipotesi dell’art. 3, co. 2 del Regolamento. Cfr. S. Tuccillo, op. cit., spec. pp. 196 e ss.
[14] Si legge, infatti, nella sentenza che “tale legittimazione, attribuita direttamente dalla legge, è volta infatti ad assicurare tutela agli interessi particolari e differenziati, eppure pubblici, di cui l’Autorità è portatrice, legati alla corretta applicazione della disciplina in materia di contratti pubblici e, di conseguenza, alla piena ed effettiva realizzazione degli obiettivi posti dal legislatore con la citata disciplina, consentendo alla stessa di agire al fine di ristabilire la legalità violata (con una particolare configurazione, quindi dell’interesse ad agire) a prescindere dall’iniziativa di singoli concorrenti che lamentino una lesione diretta e immediata della loro sfera giuridica”. A supporto il T.A.R. richiama la recente pronuncia del Consiglio di Stato n. 6787 del 2020 ove si legge che “legittimazione a ricorrere attribuita per legge all’Anac si inserisce nel solco di altre fattispecie di fonte legislativa che in passato hanno riconosciuto alle autorità indipendenti il potere di agire in […] e non può essere qualificata nemmeno come legittimazione straordinaria o eccezionale rispetto al criterio con cui si identifica la condizione dell’azione rappresentata dall’interesse ad agire o a ricorrere, ossia il collegamento dell’interesse a ricorrere con la titolarità (o l’affermazione della titolarità) di un interesse tutelato dall’ordinamento sul piano sostanziale. Collegamento soggettivo che, nel caso di specie, si instaura senz’altro tra l’Autorità e gli interessi e funzioni pubbliche che la legge affida alla sua cura; questi non hanno ad oggetto la mera tutela della concorrenza nel settore [concorrenza per il mercato], ma sono più in generale orientati - per scelta legislativa e configurazione generale di questa Autorità, come ricavabile dalle sue molte funzioni - a prevenire illegittimità nel settore dei contratti pubblici (tanto che la norma primaria dice solo che la ragione dell’azione sta nella violazione de «le norme in materia di contratti pubblici»), anche indipendentemente da iniziative o interessi dei singoli operatori economici o dei partecipanti alle procedure di gara (il cui interesse è piuttosto individuale, non generale come quello curato dall’Anac, ed è diretto al bene della vita connesso all’aggiudicazione, sicché esso - soprattutto nella fase della indizione della gara - non sempre coincide con gli interessi curati dall’Anac, come sopra ricordato: cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4 del 2018 cit., al punto 19.3.5.). L’Anac, pertanto, è titolata a curare anche in giustizia, seppure nei termini generali e nelle forme proprie del processo amministrativo, gli interessi e le funzioni cui è preposta dalla legge e sintetizzate dai precetti di questa: perciò le è consentito (anche) di agire in giudizio seppur nei limiti segnati dall’art. 211 e dal suo regolamento (così anche la citata pronuncia della Adunanza Plenaria, n. 4 del 2018, che - pur qualificando il potere di agire ex art. 211 cit. come un caso di «legittimazione processuale straordinaria» - precisa che «la disposizione di cui all’art. 211 del d.Lgs n. 50/2016 [non] si muove nella logica di un mutamento in senso oggettivo dell’interesse […] a che i bandi vengano emendati immediatamente da eventuali disposizioni (in tesi) illegittime, seppure non escludenti: essa ha subiettivizzato in capo all’Autorità detto interesse, attribuendole il potere diretto di agire in giudizio nell’interesse della legge»)”.
[15] Come è noto, con il citato art. 19, d.l. n. 90 del 2014 (convertito, con modificazioni, con la l. n. 114 del 2014), all’ANAC sono state (fra l’altro) fatte transitare le originali attribuzioni dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 163 del 2006 e ss.mm.ii.
[16] Si ricordano, al riguardo, la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione (1997), la Convenzione del Consiglio d’Europa per il contrasto della corruzione (1999), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione cd. UNCAC (2003).
[17] Per dare conto di tale evoluzione, non sembra inutile ricordare che l’attuale Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), è una derivazione della originaria “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche” istituita con d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (attuativa della l. 1 marzo 2009 n. 15), all’art. 13, quale “soggetto” (il primo e più importante fra quelli previsti dall’art. 12 dell’anzidetto d.lgs.) del processo di misurazione e valutazione della performance, nel quadro degli obiettivi enunciati, nell’art. 1, co. 2, ovvero “una migliore organizzazione del lavoro, il rispetto degli ambiti riservati rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva, elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi”. Tale Commissione si è trovata, poi, a operare quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi dell’art. 1, l. 6 novembre 2012, n. 190, restando, tuttavia, poco più che un organo del Dipartimento della funzione pubblica (tale profilo viene segnalato come “significativo” in R. Cantone, F. Merloni, La nuova autorità nazionale anticorruzione, Torino, 2015, p. 2). Successivamente, il d.l. 31 agosto 2013, n. 101 (convertito con modificazioni in l. 30 ottobre 2013, n. 125) ha parzialmente ovviato al vuoto di indipendenza dell’anzidetta Autorità, e l’ha rinominatata, “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni (A.N.A.C.), sempre, però, inquadrata nel solco degli obiettivi “funzionali” dell’organizzazione dell’Amministrazione pubblica, come positivamente messi a fuco dall’anzidetta legge n. 15 del 2009.
[18] In questo senso è anche la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione.
[19] Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207.
[20] Cons. Stato, Ad. plen., sent. N. 4 del 2018, punto 10.3.5. cit.
[21] Specificamente, sul punto, il Group of States Against Corruption (GRECO) del Consiglio d’Europa, al quale l’Italia ha aderito sin dal 1997, proprio con riferimento alla incidenza della corruzione sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ha specificamente suggerito che la regolazione delle procedure concorsuali relative ai contratti pubblici, coniughino la tutela della concorrenza e del mercato con il contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni della criminalità organizzata, Sul punto, 43º riunione plenaria tenutasi a Strasburgo il 29 giugno/2 luglio 2009. In argomento, per una visione, anche di diritto comparato, della materia della corruzione e della sua incidenza sull’economia, F. Montedoro, S. Brunelli, A. Buratti, LA CORRUZIONE Definizione, misurazione e impatti economici, Roma, 2013.
[22] In evidenza, sul punto, da un lato, l’art. 21-bis, l. 10 ottobre 1990, n. 287, introdotto dall'art. 35, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha attribuito all’AGCM la legittimazione ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato; e, dall’altro, l’art. 211, co. 1-bis e 1-ter, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), aggiunti dall’art. 52-ter, del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, i quali hanno conferito, a loro volta, all’ANAC la legittimazione ad agire in giudizio, nelle due differenziate ipotesi contemplate nei due commi citati, lasciando (con il successivo comma 1 quater) alla stessa ANAC, di individuare con proprio regolamento, i casi, o le tipologie di provvedimenti in relazione ai quali esercitare i poteri di cui ai commi 1-bis e 1-ter comma (ora messi a punto con i citati.
[23] S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, in Enc. Dir., XII, Milano, 1964, § 26.
[24] Si segnala, per un approfondimento delle differenti configurazioni, B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, pp. 74 ess.
[25] Ciò è stato ampiamente, potrebbe dirsi fin troppo, sviscerato da dottrina e giurisprudenza e finache, dal giudice delle leggi.
[26] S. Spaventa, Discorso per l'inaugurazione della IV Sezione, in Riv. dir pubbl., 1909, p. 310.
[27] G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, p. 358.
[28] Come è noto ciò ha avuto, finalmente, luogo con l’adozione del “nuovo” codice del processo amministrativo, (avvenuta con d.lgs. Decreto legislativo, 2 luglio 2010, n. 104), rivelatosi, sin dal suo apparire, bisognoso di “correttivi” e tuttora in divenire nonché non ancora adattato a esigenze processuali delineatesi ancor prima della sua emanazione. Si pensi, alla c.d. “class action amministrativa” (di cui d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198) - non a caso evocata, in tanti commenti sulla legittimazione “straordinaria” delle Autorità indipendenti, in forza della rinvenuta assonanza con la legittimazione riconosciuta al singolo appartenente al “gruppo”, la cui base analogica è stata tratta dalla inclusione dell’interesse pubblico alla efficienza, nella sfera soggettiva, per il tramite della costituzionalizzazione della sussidiarietà orizzontale – che non trova una sua puntuale collocazione processuale, ancorché accordata prima della adozione dell’anzidetto c.p.a.
[29] Per un approfondimento su tali nozioni, C. Marzuoli, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982.
[30] In questo senso, mutatis mutandis, la sentenza della Corte Cost. 31 gennaio 2019, n. 13, indica principi di portata generale in ordine alla inammissibilità di una questione incidentale di legittimità, sollevata dall’AGCM, nell’ambito di un proprio procedimento sanzionatorio, mancando in questo i connotati del procedimento giurisdizionale.
[31] Art. 103, co 1, in coordinata lettura con gli artt. 24 co. 1, 111, co. 3, 113 e 125 co. 2, Cost., sulla cui interpretazione, ai fini della legittimazione processuale attiva anche di pubbliche amministrazioni, si sono troppo addentrati dottrina e giurisprudenza, perché si trovi altro da dire, in questo breve spazio.
[32] Viene di ricordare, al riguardo, l’esplicito avvertimento sul rispetto dei termini processuali che il Consiglio di Stato ha fatto all’Autorità nel parere n. 1119/2018.
[33] Interessanti, sul rapporto Corte dei conti/organizzazione pubblica e correlativo rispetto della legalità, i contributi, fra gli altri di A.M. Sandulli, La Corte dei conti nella prospettiva costituzionale, cit. in ordine alla funzione di raccordo – assegnato al controllo neutrale dei risultati – fra Potere esecutivo e Potere legislativo, in tema di indirizzo politico-legislativo, ma anche, A. Police, Corte dei conti e Società pubbliche. Riflessioni critiche a margine di una recente riforma, in Archivio documenti Giustizia Amministrativa, 2017, V. Tenore, La responsabilità amministrativo-contabile: profili sostanziali, in La nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli, V. Tenore (a cura di), Milano, 2018.
Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Una questione antica, di cui non ci si nasconde, tanto dai favorevoli quanto dai contrari alla introduzione del dissent, la sussistenza di vantaggi e svantaggi a quest’ultima conseguenti – 2. Un appunto critico di metodo al modo usuale con cui si guarda al dissent e i due dati sui quali conviene specificamente appuntare l’attenzione al fine di stabilire se sia, o no, opportuno far luogo alla sua previsione – 3. Una succinta, sofferta notazione finale.
1. Una questione antica, di cui non ci si nasconde, tanto dai favorevoli quanto dai contrari alla introduzione del dissent, la sussistenza di vantaggi e svantaggi a quest’ultima conseguenti
La questione – come si sa – è antica, da noi come altrove: un tempo animatamente discussa e dallo stesso giudice delle leggi particolarmente avvertita, tanto da dedicarvi uno dei suoi Seminari[1], e quindi a più riprese riconsiderata in dottrina, anche con contributi di respiro monografico di considerevole interesse[2]. È tornata, poi, ancora da ultimo, a porsi in evidenza e ad essere fatta oggetto di valutazioni di vario segno in relazione a talune vicende processuali che hanno attratto l’attenzione di studiosi e operatori, tra le quali quella relativa alla sospensione della prescrizione a causa della emergenza da Covid-19[3]. A dare ulteriore rilievo alla questione stessa è, poi, venuta una intervista[4] al giudice relatore della sent. n. 278 del 2020, dal titolo eloquente: Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”[5]. In realtà, l’intervistato si è limitato a rammentare un fatto noto, vale a dire che non poche volte il dissenso maturato in seno al collegio è reso palese dalla sostituzione del relatore al fine della redazione della decisione[6], aggiungendo tuttavia una chiosa significativa, tenendo a precisare che, in siffatte circostanze, si assiste ad una forma di dissenso “autoreferenziale e introversa” (e, forse, potrebbe ulteriormente aggiungersi – ma è una notazione personale – anche frustrante, dal momento che colui che la pone in essere non ha modo di far conoscere il proprio punto di vista, sì da consentire il raffronto con quello della maggioranza del collegio[7]).
Non è, ad ogni buon conto, inopportuno rammentare che la sostituzione in parola, per un verso, non necessariamente si deve ad un dissenso, potendo avere a sua giustificazione, sia pure in casi non frequenti[8], anche una causa diversa; per un altro (ed ancora più rilevante verso), poi, essa non esaurisce di certo i casi di divisione registratisi, in relazione alle singole vicende processuali, in seno all’organo giudicante, per la ragione di tutta evidenza che essa non “copre” gli altri casi, di gran lunga maggiori per numero, in cui ad essere in minoranza sono giudici diversi dal relatore, la cui posizione non è dunque intercettata neppure nella forma blanda sopra indicata.
Venendo, nondimeno, al cuore della questione, nulla ora dirò per ciò che concerne il merito della stessa, premendomi piuttosto svolgere una succinta notazione di metodo, con riguardo cioè all’animus col quale si è soliti ad essa accostarsi e prendere partito per l’uno o per l’altro verso.
Nel merito, infatti, pregi e difetti del dissent[9] sono stati sviscerati da tempo[10] e si tratta solo di far luogo, ancora una volta, alla loro reciproca ponderazione al fine di stabilire da quale parte penda maggiormente la bilancia. Accenno solo di passaggio, dopo averne detto ripetutamente altrove[11], che forse i più pesanti argomenti sono quelli a favore della introduzione dell’istituto, restando quindi nondimeno aperta la questione, nient’affatto agevole da risolvere, relativa al modo con cui farvi luogo[12]. Fra gli argomenti in parola, una considerevole vis persuasiva – è innegabile – possiede quello che fa leva sul guadagno che ne avrebbe la linearità e coerenza della motivazione, una volta depurata di alcune espressioni non di rado in essa presenti al fine di dare un qualche appagamento alla posizione tenuta dalla parte minoritaria del collegio[13], nonché l’altro per cui il dissent spianerebbe la via a successive, ulteriori messe a punto di un orientamento dapprima manifestato dalla Corte o, più ancora, al suo ribaltamento, che avrebbe agio di affermarsi appoggiandosi appunto all’opinione minoritaria in precedenza manifestata.
Sul fronte opposto, l’argomento più “forte” di tutti è quello che rimanda al timore di una eccessiva esposizione “politica” dei giudici dissenzienti (e, di conseguenza, ad un eventuale pregiudizio per la loro indipendenza, sostanzialmente intesa[14]), unitamente all’altro che paventa il rischio di un indebolimento della posizione della Corte davanti ai decisori politico-istituzionali. L’indebolimento in parola dell’intero collegio poi ugualmente si avrebbe anche per l’ipotesi che dovesse essere giudicato conveniente tenere celato il nome del dissenziente o dei dissenzienti (se più d’uno, dal momento che l’effetto comunque conseguirebbe al mero dato oggettivo della manifestazione del dissenso.
2. Un appunto critico di metodo al modo usuale con cui si guarda al dissent e i due dati sui quali conviene specificamente appuntare l’attenzione al fine di stabilire se sia, o no, opportuno far luogo alla sua previsione
Ora, il difetto, a mio modo di vedere, di tutte queste prese di posizione è dato da un qualche astrattismo che tutte, quale più quale meno, le connota ed accomuna, dovuto alla “decontestualizzazione” – se così posso chiamarla – della questione, vale a dire alla sua considerazione al piano teorico-astratto, senza però prestare specifica attenzione ai singoli contesti politico-istituzionali nei quali la novità in parola dovrebbe inscriversi e spiegare effetti (con ogni probabilità, di vario segno, anche in ragione delle singole vicende processuali in occasione del cui svolgimento essa vedrebbe la luce).
Questa obiezione, che – si badi – si indirizza anche ai detrattori del dissent, laddove fanno rimando ai rischi che esso fa correre considerati senza nondimeno specifico ancoraggio a singole congiunture politiche ed a certe vicende ordinamentali, può a mia opinione valere in relazione ad alcune indagini in chiave comparata venute da tempo alla luce, con le quali si mettono una accanto all’altra, alle volte innaturalmente sovrapponendole tra di loro, esperienze già a prima vista non confrontabili (o, meglio, confrontabili solo con gli opportuni distinguo e, comunque, cum grano salis). E ciò, per la elementare ragione che assai diversi sono appunto i contesti di riferimento, l’organizzazione complessiva del potere, la storia e quant’altro insomma fa di ogni ordinamento un caso a sé, non omologabile, se non con marcate (seppur alle volte non immediatamente visibili) forzature, agli altri[15]. Ciò non significa – è appena il caso qui di esplicitare – che la comparazione cessi per ciò solo di costituire una risorsa preziosa alla quale attingere, anche – per ciò che è ora d’immediato interesse – in prospettiva de iure condendo, laddove si pensi di porre mano alla introduzione anche da noi della novità in parola. Non sarà, tuttavia, mai eccessiva l’avvertenza a verificare se e fin dove la comparazione stessa possa spingersi e dove invece debba, per un suo intrinseco ed insuperabile limite, arrestarsi.
Ciò posto, all’esito di una disincantata riconsiderazione della questione in relazione al nostro ordinamento e – ciò che più conta – alle presenti condizioni politico-istituzionali, a me pare che sia consigliabile molta (forse, somma) cautela prima di incamminarsi speditamente lungo la via che porta all’adozione del dissent, al fine di evitare che quest’ultimo possa riservare sgradite sorprese e dar vita – sia pure involontariamente – ad inconvenienti ai quali non si saprebbe poi come porre rimedio, specificamente laddove dovesse manifestarsi su questioni gravide di valenza politico-istituzionale[16].
Invito, in particolare, a prestare attenzione a due dati, ad oggi anche dalla più avvertita dottrina presi in esame separatamente ma che gioverebbe tornare a riconsiderare nel loro insieme ed a riportarli all’istituto di cui siamo oggi tornati a discutere, se non altro per il fatto che unico è il contesto politico-istituzionale nel quale essi si calano ed inverano.
Il primo è dato da una viepiù marcata e vistosa esasperazione (e persino radicalizzazione) della lotta politica tra gli opposti schieramenti, alla quale peraltro si accompagnano non infrequenti segni d’insofferenza, specie da parte di certe forze politiche, nei riguardi dell’opera di custodia costituzionale svolta dai massimi garanti del sistema, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale. È chiaro che la contrapposizione a muso duro fa parte del “gioco” della politica, della recita che ogni giorno si rinnova sulla scena davanti ad una platea di spettatori (componenti la c.d. pubblica opinione) sempre più disorientati, distaccati e – se posso esprimermi in modo franco, scusandomi per l’asprezza del termine – anche alquanto disgustati, specie davanti a certe espressioni della politica stessa. E, invero, da qualche tempo a questa parte lo scontro si è manifestato (e si manifesta) con toni d’inusitata virulenza, accompagnati da un linguaggio inaccettabile in un pubblico confronto, nel quale – ciò che è parimenti grave e sconfortante – con lampante evidenza si specchia una vistosa esiguità di contenuti, di progettazione, di quanto insomma dovrebbe rendere testimonianza, a un tempo, di adesione all’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta costituzionale, specie nei suoi principi fondamentali, e di cultura istituzionale, oltre che – temo – anche di cultura tout court.
D’altro canto, non è di certo per mero accidente che si diffonda sempre di più a macchia d’olio, da noi come altrove (la qual cosa rende ancora più inquieti), un populismo esasperato, frammisto in alcune sue espressioni ad un nazionalismo becero ed ingenuo, improponibile in un contesto segnato da una integrazione sovranazionale avanzata e da vincoli viepiù stringenti che discendono dalla Comunità internazionale e, ciononostante, fortemente attrattivo nei riguardi di larghi strati della comunità governata. In alcuni Paesi, come negli Stati Uniti di Trump[17], il fenomeno ha raggiunto livelli forse da noi non ancora toccati (anche per le diverse condizioni complessive di contesto); non per ciò, com’è chiaro, c’è tuttavia da stare allegri. La pagina nera scritta oltreoceano con l’occupazione, nel giorno dell’epifania, del Campidoglio da parte di alcuni facinorosi seguaci del Presidente rende una eloquente riprova del fatto che, pure in Paesi considerati un modello di democrazia[18], proprio quando la guardia si abbassa il rischio dello scivolamento e del degrado del populismo in autoritarismo è sempre incombente, malgrado le innegabili risorse di cui il corpo sociale dispone al fine di pararlo[19].
Senza ora indugiare in un’analisi che porterebbe la succinta riflessione che si va ora facendo a deviare eccessivamente dal solco entro il quale è tenuta a stare, a me pare che, al fine di contrastare – come si deve – talune espressioni aggressive, virulenti, scomposte della politica o, quanto meno, tentare di arginarne fin dove possibile i più pericolosi effetti, non giovino di certo manifestazioni sopra il rigo degli organi di garanzia in genere (e, tra questi, il giudice delle leggi), non giovi comunque l’immagine che di sé gli organi in parola possano dare di attori istituzionali sensibili al canto ammaliante di questa o quella sirena politica, secondo occasionali convenienze.
Viene così in rilievo il secondo dei dati ai quali si faceva poc’anzi cenno.
La Corte costituzionale – secondo opinione corrente – sarebbe dotata di una doppia “anima”, politica e giurisdizionale, testimoniata peraltro dalla eterogenea composizione ed estrazione dei suoi membri. Due “anime” chiamate a stare in reciproco, costante equilibrio, per arduo che ne sia il conseguimento e mantenimento.
Ora, a giudizio di molti studiosi che sottopongono a costante monitoraggio gli svolgimenti della giurisprudenza costituzionale, vistosa e crescente è la tendenza a dare fiato ed alimento soprattutto alla prima componente a discapito della seconda[20].
Molti sono i segni che avvalorano questa diagnosi. Si pensi solo alla cura profusa dalla Corte, in forme viepiù varie ed incisive[21], nel coltivare ed accreditare la propria immagine davanti alla pubblica opinione[22], alle visite fatte dai giudici costituzionali ai carcerati e nelle scuole[23], all’apertura fatta alla società civile con la riforma delle norme integrative operata a gennaio dell’anno scorso e, soprattutto, alla invenzione di inusuali, temerarie tecniche decisorie, tra le quali da ultimo quella in due tempi inaugurata in Cappato, afflitta – come si è tentato di mostrare altrove – da una intrinseca, insuperabile contraddizione interna e, per ciò che più conta, espressiva di una manovra che non saprei com’altro chiamare se non come “politica”, nella sua più densa e pregnante accezione, secondo quanto peraltro avvalora per tabulas la circostanza per cui in casi a questo per più aspetti analoghi della tecnica stessa stranamente non si è fatto uso: lampante testimonianza delle oscillazioni marcate, secondo occasionali convenienze, che connotano il complessivo indirizzo della Consulta[24]. Sopra ogni cosa, particolarmente istruttiva appare essere la circostanza per cui la pur incerta linea di confine tra l’area riservata alle valutazioni politico-discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore e quella invece rimessa al sindacato della Corte è stata da quest’ultima oltrepassata nella pronunzia di fine-partita emessa in Cappato, col fatto stesso del sostanziale abbandono delle “rime obbligate” di crisafulliana memoria quale limite agli interventi manipolativi in sede di sindacato di costituzionalità, laddove in prima battuta la Corte aveva dichiarato di non poter far subito luogo al rifacimento del tessuto legislativo richiestole proprio in nome della necessaria osservanza della discrezionalità spettante al legislatore[25].
3. Una succinta, sofferta notazione finale
Ecco in questo contesto complessivo segnato da un vistoso iperattivismo del giudice, di cui peraltro si hanno plurime e varie testimonianze (tra le quali, in aggiunta a quelle sopra indicate, anche la tendenza ad un marcato “riaccentramento” del sindacato di costituzionalità[26]), potrebbero maturare le condizioni per l’inaugurazione del dissent, realisticamente – sempre che si abbia e facendo ora nuovamente richiamo ad una delle opzioni sopra accennate – per iniziativa della stessa Corte[27]. Non a caso, d’altronde, un’autorevole dottrina ha, ancora di recente, ragionato della possibile introduzione dell’istituto in parola, legandola all’apertura alla società civile e – mi permetto di aggiungere – alle altre novità sopra indicate[28], rilevandosi la contraddizione resa palese dall’apertura in parola a fronte della chiusura della Corte al proprio interno dovuta alla mancata previsione del dissent[29].
Ebbene, davanti a talune espressioni di una politica deplorevole per modi e contenuti, che non disdegna di mettere in campo qualunque mezzo buono ad attrarre il consenso di una pubblica opinione vistosamente disorientata e soffocata da plurime ed ingravescenti emergenze che segnano l’odierno, sofferto presente, a me pare che convenga lasciare che i riflettori restino accesi – per quanto possibile – solo sui protagonisti della politica stessa, lasciandosi invece in penombra i garanti (e, segnatamente, i giudici) e dandone all’esterno una rappresentazione di fermezza e compattezza dell’operato. In tal modo, essi sarebbero messi in grado di esercitare al meglio, in un clima discreto e appartato, il munus ad essi conferito, senza che le divisioni di cui si abbia al loro interno riscontro si prestino a strumentali manovre[30] volte, a conti fatti, a delegittimare i garanti stessi davanti alla pubblica opinione e, perciò, ad indebolirne l’autorevolezza[31].
Non posso tuttavia chiudere queste succinte notazioni senza confessare ad alta voce di avvertire una certa amarezza e interiore sofferenza nel prendere partito a favore della tesi appena esposta, nella consapevolezza di quanto di buono potrebbe venire dalla introduzione dell’istituto qui nuovamente discusso. La tesi stessa, insomma, si pone quale l’esito, in modo travagliato raggiunto, di un’operazione di bilanciamento tra benefici ed inconvenienti che, nel presente momento storico e con specifico riguardo al nostro ordinamento, potrebbero discendere da un istituto che, ad ogni buon conto, sicuramente seguiterà ad alimentare ulteriori, animati dibattiti. Una tesi, dunque, che – come si è tentato di mostrare – vale per l’odierno contesto che ci si augura possa almeno in parte mutare in melius tra non molto, per quanto – come pure si è veduto – non si riesca a vedere (perlomeno, non riesca a me di vedere) ad oggi alcun segno di una possibile inversione del trend sopra sommariamente descritto. Una vicenda, quella fin qui maturata, che, considerata nei suoi tratti maggiormente salienti (ed inquietanti), rinviene la sua cifra identificante in un sensibile e crescente scostamento da parte dei decisori politici rispetto ai valori che hanno informato la nascita e lo sviluppo delle liberal-democrazie e dello Stato di diritto, ai quali dà voce la nostra Carta costituzionale al pari delle altre venute alla luce dopo l’immane tragedia della seconda grande guerra[32]. Quali poi ne possano essere gli ulteriori sviluppi è questione sommamente complessa e spinosa che richiederebbe uno spazio ed approfondimenti qui non disponibili. Ciò che solo ora può dirsi è che ogni innovazione di ordine istituzionale, quale quella nuovamente discussa, si pone pur sempre quale uno dei tasselli del quadro complessivo; un tassello che pertanto – come si è tentato di mostrare – richiede di essere fatto oggetto di osservazione nell’insieme del quale fa (o farà) parte. Altrimenti, il rischio assai serio che si corre è quello della astrattezza e parzialità (e, per ciò stesso, del carattere comunque forzoso) della prospettiva di studio e, di conseguenza, degli esiti teorico-ricostruttivi alla sua luce raggiunti.
[1] Possono vedersene gli Atti, curati da A. Anzon, nel volume dal titolo L’opinione dissenziente, Giuffrè, Milano 1995.
[2] Da ultimo, anche per indicazioni di letteratura in chiave comparatistica, lo studio di A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, su cui la recensione di S. Panizza, in Riv. Gruppo di Pisa, 3/2020, 264 ss., ed ivi pure la Replica dell’autrice dell’opera, 268 ss. La vicenda del dissent è stata di recente ripercorsa da D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss., e C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss. Altre indicazioni, a breve.
[3] … annotata da G.L. Gatta, Emergenza Covid e sospensione della prescrizione del reato: la Consulta fa leva sull’art. 159 c.p. per escludere la violazione del principio di irretroattività ribadendo al contempo la natura sostanziale della prescrizione, coperta dalla garanzia dell’art. 25, co. 2 Cost., in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 26 dicembre 2020, e G. Santalucia, La sospensione della prescrizione dei reati in tempi di pandemia. La Corte costituzionale promuove la legislazione dell’emergenza, in Questione giustizia (www.questionegiustizia.it), 11 gennaio 2021, con esplicito riferimento alla questione qui di specifico interesse.
[4] Di A. Fabozzi, per conto de Il Manifesto, 29 dicembre 2020.
[5] Vi aveva già fatto richiamo A. Fusco, Replica, cit. Lo stesso Zanon ha quindi ulteriormente precisato il proprio punto di vista nel corso di un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Su ciò, di recente e per tutti, ancora A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, cit., 112 ss., nonché S. Panizza, Could there be an Italian Way for Introducing Dissenting Opinions? The Decision-Making Process in the Italian Constitutional Court through Discrepancies between the Rapporteur Judge and the Opinion-writer Judge, in AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019, 101 ss., e, soprattutto, ora, l’accurato saggio monografico di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinion. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, in corso di stampa per i tipi della Giappichelli di Torino, che ha riscontrato ottantasette casi di sostituzione dal 1988 ad oggi, sottoponendoli a scrupolosa analisi.
[7] La dottrina più avvertita, d’altronde, aveva già rilevato la differenza non meramente formale che si dà tra un “dissenso” palesato e tuttavia non accompagnato da alcuna motivazione a suo sostegno ed una vera e propria “opinione dissenziente” che della motivazione stessa invece risulta dotata [S. Panizza, I recenti casi di discrepanza (meramente episodici?) tra giudice relatore e giudice redattore, in Quad. cost., 3/2007, 601].
[8] … tra i quali, quello del passaggio dalla Consulta al Quirinale di S. Mattarella, sostituito nella redazione di due decisioni (nn. 17 e 18 del 2015) o in altri casi ancora, quale una indisposizione dovuta a problemi di salute, e via dicendo (casi tutti su cui richiama l’attenzione B. Caravita, op. cit.).
[9] … qui nuovamente inteso nella sua più larga accezione, comprensivo dunque tanto delle opinioni dissenzienti in senso stretto, quanto di quelle concorrenti.
[10] Nella ormai nutrita lett. e limitando ora i richiami unicamente ad alcuni dei principali contributi, dopo AA.VV., Le opinioni dei giudici costituzionali e internazionali, a cura di C. Mortati, Giuffrè, Milano 1964, e AA.VV., L’opinione dissenziente, cit., v., almeno, S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016; K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, cit., 97 ss.; AA.VV., The dissenting opinion. Selected Essays, cit. Un chiaro quadro di sintesi è stato anni addietro rappresentato da S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quad. cost., 4/2009, 973 ss., spec. 980 ss. e, più di recente, dagli scritti sopra richiamati di D. Tega e B. Caravita, nonché, nella manualistica, da E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2018, 76 ss.; G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni2, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 77 ss. Infine, in prospettiva giusfilosofica, M. Jori, Dissenting opinions: short philosophical considerations, in Lo Stato, 11/2018, 37 ss.
[11] Di recente, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, op. et loc. ult. cit.
[12] E, invero, il ventaglio è stato aperto a tutto campo, alcuni ritenendo essere allo scopo necessaria una legge costituzionale, altri optando a favore di una legge comune, altri ancora giudicando sufficiente una innovazione frutto di autonormazione da parte della Corte e, infine, prospettandosi persino la eventualità che essa si abbia ope juris prudentiae (riassuntivamente, da ultimo, v., ancora una volta, lo scritto di B. Caravita, sopra cit., ult. par.). Come che sia di ciò, c’è da dire che la questione sembra invero peccare di una certa astrattezza, ove si convenga a riguardo del fatto che appare poco verosimile l’ipotesi che sia impugnata e quindi caducata la legge comune, allo scopo eventualmente adottata, per lo specifico aspetto che avrebbe indebitamente preso il posto ora della legge costituzionale (se ritenuta necessaria) ora dell’atto di autonormazione della Corte costituzionale. Se, poi, la disciplina in parola dovesse aversi per mezzo di quest’ultimo, in tesi giudicato inadeguato allo scopo, nuovamente non si capirebbe davanti a chi possa essere impugnato né è pensabile che il suo annullamento possa aversi per mano della stessa Corte, vuoi per il fatto che quest’ultima assai difficilmente rinnegherebbe se stessa e vuoi perché comunque ogni decisione della Corte è sottratta – come si sa – a forma alcuna di gravame (art. 137, ult. c., Cost.). Infine, quest’ultimo argomento può ovviamente essere addotto anche per il caso che l’introduzione del dissent si abbia per via giurisprudenziale.
[13] Sulle non poche, vessate questioni che si pongono in relazione alla parte motiva delle decisioni dei giudici in genere e di quelli costituzionali in ispecie, con specifico riguardo alle tecniche argomentative usualmente adoperate, v., per tutti, AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giappichelli, Torino 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996. Per un raffronto con le tecniche interpretative e argomentative di common law, v. il contributo di V. Varano, Regola del precedente, overruling,giustizia predittiva, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020, 173 ss.; pure ivi, V. Fredianelli, L’uso del precedente interno da parte della Corte suprema statunitense: la vicenda del prospective overruling, 221 ss., e V. Barsotti, Diritto giurisprudenziale e comparazione giuridica, 245 ss., e, ora, G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020.
[14] Ma, su ciò, v. l’articolato svolgimento argomentativo che è nel libro, sopra richiamato, di A. Fusco. Sull’indipendenza delle Corti si dispone ormai di una messe copiosa di scritti, ulteriormente alimentata – com’è chiaro – dalle recenti, tristi esperienze maturate in Polonia ed Ungheria (per tutti, G. Pitruzzella - O. Pollicino - M. Bassini, Corti europee e democrazia. Rule of law, indipendenza e accountability, Bocconi ed., Milano 2019).
[15] Si pensi solo, per fare il primo esempio che viene in mente, alla Spagna ed agli Stati Uniti che nulla, o quasi, hanno a conti fatti in comune e che tuttavia assai di frequente sono riportati ad uno stesso “insieme” in relazione all’istituto di cui si discute.
[16] Penso, ad es., a quelle relative alla disciplina elettorale ed al vespaio di polemiche che sempre si accompagnano alle decisioni che le hanno ad oggetto, particolarmente animate – come si sa – anche tra gli studiosi, per non dire delle reazioni scomposte che non di rado si hanno in ambienti politici in relazione agli esiti del sindacato di costituzionalità.
[17] … sulla cui esperienza, nell’alluvione di scritti, di recente e per tutti, D.L. Kriner, Trump, Populism and the Resilience of the American Costitutional System, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 3/2020, 8 gennaio 2021, 44 ss.
[18] … a mia opinione, a torto, se non altro per le perduranti discriminazioni e i laceranti conflitti sociali che ne segnano la struttura e minano le fondamenta [eloquente, al riguardo, il pungente commento di L. Ventura, Democrazia in America?, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 9 gennaio 2021; pure ivi, v., utilmente, A. Morelli, Non scomodiamo Voltaire a proposito di Trump e dei social, 10 gennaio 2021; inoltre, B. Caravita, Davanti ad un mondo che cambia chi è più pericoloso tra Trump e Zuckerberg? Alla ricerca di una risposta che penetri nei meccanismi che governano la nostra vita in rete, Editoriale, in Federalismi (www.federalismi.it), 1/2021, 13 gennaio 2021].
[19] Sui rischi ai quali in siffatto contesto si trova esposta in particolare la giustizia, v., ora, F. Vecchio, Pericolo populista e riforma della giustizia. A proposito di alcune insoddisfacenti proposte di riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2021, 12 gennaio 2021, 65 ss.
[20] Riferimenti possono aversi dal mio Stato di diritto sovranazionale e Stato di diritto interno: simul stabunt vel simul cadent, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (www.fsjeurostudies.eu), 3/2020, 15 novembre 2020, 44 in nt. 76.
[21] … anche avvalendosi dei grandi mezzi di comunicazione. E così, si considerino solo, in aggiunta alle annuali Conferenze-stampa dei Presidenti, i comunicati-stampa [dei quali, al pari delle opinioni dissenzienti, si è discusso se giovino o nuocciano alla motivazione delle pronunzie della Corte (A. Celotto, I “comunicati stampa” aiutano o danneggiano la motivazione delle decisioni?, in Giur. cost., 5/2009, 3728 ss.) e dei quali, nondimeno, non si negano gli effetti che possono spiegare a plurimi piani di esperienza: ex plurimis, v. A. Gragnani, Comunicati-stampa dal Palazzo della Consulta anziché provvedimenti cautelari della Corte costituzionale? Sugli “effetti preliminari” della dichiarazione d’incostituzionalità, in Giur. cost., 1/2013, 531 ss., e G. D’Amico, Comunicazione e persuasione a Palazzo della Consulta: i comunicati stampa e le «voci di dentro» tra tradizione e innovazione, in Dir. soc., 2/2018, 237 ss.; cfr., poi, i punti di vista dei partecipanti al forum su I comunicati stampa che è in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020]; e si consideri, inoltre, la recente invenzione de La libreria dei podcast della Corte costituzionale, teletrasmessi ed accompagnati da brani musicali accuratamente selezionati.
[22] La questione è da tempo all’attenzione degli studiosi: per un quadro di sintesi, dopo M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha trattato a più riprese (ad es., in “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.), v., di recente, D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, interessanti spunti teorico-ricostruttivi sono offerti da A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.; v., inoltre, utilmente, AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
[23] … che, per vero, sollevano qualche perplessità per il mero fatto oggettivo della somiglianza con analoghe iniziative assunte da esponenti del mondo politico, prestandosi di conseguenza alla critica strumentale di mirare allo scopo di catturare un consenso che dovrebbe restare estraneo al munus spettante alla Corte quale organo giurisdizionale (sia pure sui generis). Tanto più, poi, che, al fine della risoluzione delle questioni portate alla sua cognizione, la Corte dispone di strumenti d’indagine utilmente azionabili in ragione dei casi, ai quali nulla aggiungono le visite in parola.
Ora, a me pare che di tutto la Corte, nella presente travagliata congiuntura, abbia bisogno fuorché di alimentare quel pur diffuso sentire, cui si è appena fatto cenno, espressivo del timore che il delicatissimo equilibrio tra l’“anima” giurisdizionale e l’“anima” politica in essa compresenti possa definitivamente alterarsi a discapito della prima ed a beneficio della seconda, con imprevedibili conseguenze idonee a spiegarsi a raggiera per l’intero assetto istituzionale e – ciò che più importa – al piano dei rapporti tra apparato governante e comunità governata (insomma e in breve, a carico della c.d. “forma di Stato”, più e prima ancora che della “forma di governo”).
[24] Ho, ancora di recente, anticipato il mio pensiero al riguardo nel corso di un breve intervento al quale si è quindi richiamato N. Zanon, nella sua relazione, dal titolo I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, al Seminario su Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del giudice delle leggi, tra Corti europee e giudici comuni, svoltosi presso l’Università “La Sapienza” di Roma il 13 novembre scorso, § 5, ospitata unitamente agli altri contributi da Federalismi (www.federalismi.it).
[25] Una sensibile dottrina ha efficacemente descritto la svolta giurisprudenziale avutasi con Cappato, discorrendo di un passaggio dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti” (D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.); e non è inopportuno qui pure segnalare come un autorevole studioso e giudice costituzionale, F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115, abbia rilevato il “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’”.
[26] … a riguardo del quale faccio qui richiamo, in aggiunta alla monografia di D. Tega, sopra cit., solo dei contributi al Seminario su Il sistema “accentrato” di costituzionalità, tenutosi a Pisa il 25 ottobre 2019, i cui Atti sono stati editi, a cura di G. Campanelli - G. Famiglietti - R. Romboli, per i tipi della Editoriale Scientifica di Napoli nel 2020, nonché degli altri al Seminario su Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del giudice delle leggi, tra Corti europee e giudici comuni, cit.
[27] Questa eventualità è prospettata anche da D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, cit., 91 ss.
[28] R. Romboli, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2017-2019), a cura dello stesso R., Giappichelli, Torino 2020, 92, dove se ne prefigura altresì la realizzazione nella forma minima della indicazione del numero dei voti favorevoli e contrari, al fine di evitare infondate illazioni formulate circa il reale esito del giudizio (una innovazione, questa, che per vero non darebbe modo di conoscere il punto di vista di chi dissente, con i risvolti positivi e negativi che ne discendono). Ivi, si affaccia altresì l’ipotesi che la Corte possa essere dotata del potere di differire nel tempo l’effetto ablativo conseguente all’accertamento della incostituzionalità della norma sindacata, così come si ha in altri ordinamenti. Una innovazione, quest’ultima, nondimeno, non strettamente legata a quella di cui ora si discute e che, ad ogni buon conto, al fine di essere fatta a modo, richiede – a me pare – una esplicita modifica dell’art. 136 della Carta.
[29] B. Caravita, nelle conclusioni del suo documentato studio su Ai margini della dissenting opinion, cit.
[30] Per amore di verità, non credo, ad ogni buon conto, che dalle divisioni stesse, pur laddove portate alla luce del sole, possa trarre ulteriore alimento l’inerzia del legislatore nel dare seguito alle sollecitazioni ricevute dai giudici al fine di colmare annose e gravi lacune della legislazione; o, meglio, qualora dovesse aversene riscontro, non credo che avrebbe un particolare rilievo in relazione allo stato attuale delle cose. E ciò, per la elementare ragione che il seguito stesso, già oggi senza il dissent, appare essere assai insoddisfacente, per non dire poi dei casi di frustrazione degli effetti del giudicato costituzionale dovuti alla riproduzione con legge della disciplina normativa dapprima caducata.
[31] Efficacemente argomentato, in particolare, è l’invito alla prudenza indirizzato ai fautori della novità in parola da G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, cit., 47, laddove si rileva che “le incognite sono tante; la soluzione delle incognite, incerta; l’influenza di fattori culturali, grande; l’esemplarità delle altrui esperienze, non determinante; la prevedibilità degli effetti, minima. In questo contesto, stare a quello che abbiamo, difendere il principio di collegialità come si è strutturato finora; non prestare troppo orecchio a presunte esigenze di modernizzazione e trasparenza; difendere la Corte come collegio contro il dissolvimento a favore di singole personalità appare finora, ancora, la soluzione più prudente”.
[32] È poi chiaro che i valori stessi si sono tradotti in forme espressive non poco differenziate tra di loro, nel passaggio dall’uno all’altro ordinamento, così come si sono inverati in modi parimenti, complessivamente diversi, pur dandosi nondimeno alcuni tratti generalissimi comuni. Non a caso, d’altronde, si fa al riguardo riferimento a “tradizioni costituzionali comuni” agli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione europea, veicolate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Altro discorso è, poi, quello che porta a dover riconoscere che le tradizioni stesse, per come vengono ad affermarsi per mano del giudice dell’Unione, possano essere (ed effettivamente siano) non autenticamente “comuni” (assai istruttive le vicende in corso in Ungheria e Polonia); ma, di tutto ciò – com’è chiaro – in altri luoghi.
L’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti: forse qualcosa si sta muovendo davvero
di Paolo Passaglia
Sommario: 1. La prassi delle esecuzioni e quel senso di ripulsione sempre più forte - 2. «The Times They Are a-Changin’»… maybe: i dati di lungo periodo - 3. Segue: l’attuale contingenza.
1. La prassi delle esecuzioni e quel senso di ripulsione sempre più forte
La Presidenza Trump verrà ricordata per molti motivi, buona parte dei quali non propriamente luminosi. Tra i più cupi, un posto di rilievo è senz’altro da attribuire alla politica sulla pena di morte. Tra il 14 luglio 2020 e il 16 gennaio 2021, si sono avute ben tredici esecuzioni. In un intervento precedente, su questa rivista (v. La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump e il caso di Lisa Montgomery, 8 gennaio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/giustizia-pene/1489-la-banalizzazione-della-pena-di-morte-nel-tramonto-dell-era-trump), ho accennato ad alcuni degli elementi che rendono particolarmente tetro l’elenco delle decisioni. A questi posso adesso aggiungere il fatto che, oltre ad aver eseguito la contestata condanna a morte di Lisa Montgomery, il Governo federale si è macchiato di altre due esecuzioni, che hanno riguardato detenuti colpiti da Covid.
In ragione di questo, i condannati avevano denunciato la sofferenza che la compromissione della capacità polmonare avrebbe provocato al momento dell’iniezione letale, rendendo così insolitamente crudele l’esecuzione. A fronte di sospensioni accordate da giudici di primo grado, tuttavia, pur di poter eseguire le condanne, il Governo non ha esitato a proporre appello, giungendo fino a richiedere l’intervento della Corte suprema federale perché le sospensioni venissero annullate (senza neppure dover motivare). È esattamente quello che è avvenuto anche per l’ultima esecuzione, quella di Dustin Higgs, resa possibile dalla decisione a maggioranza apoditticamente pronunciata dalla Corte suprema (United States v. Higgs, No. 20–927 (20A134), 592 U. S., 15 gennaio 2021, https://www.supremecourt.gov/opinions/20pdf/20-927_i42k.pdf): i sei giudici conservatori (tre dei quali nominati dallo stesso Trump) hanno prevalso sui tre liberal.
Affinché si potesse arrivare alla macabra constatazione che «(in)giustizia era stata fatta», l’ottusità con cui si è proceduto è stata tale da provocare un senso di ripulsione insolitamente diffuso e sempre più forte. Un senso di ripulsione che emerge in maniera palese dalle opinioni di due dei tre giudici dissenzienti nel caso Higgs: rimasti in minoranza in sede di voto, i giudici hanno inteso esprimere le ragioni che, a loro avviso, avrebbero imposto alla Corte suprema di tener ferma la sospensione dell’esecuzione, per affrontare nel merito le questioni che si ponevano. Per quanto «inutili» in riferimento al caso di specie, si tratta comunque di opinioni quanto mai potenti per la carica che hanno nello stigmatizzare la politica posta in essere dall’amministrazione Trump, mettendone in evidenza i tratti di cecità di fronte alle ragioni della pietà, di insensibilità al dolore, di pervicacia nella volontà di raggiungere un risultato a qualunque costo (v. le dissenting opinions dei Justices Breyer e Sotomayor nel caso United States v. Higgs, cit.).
In questa volontà di imporre un nuovo corso alla pena di morte, la Presidenza Trump ha trovato un efficace sostegno proprio nella Corte suprema, che non ha frapposto alcun ostacolo, pilatescamente evitando di affrontare nel merito le questioni che si ponevano. La Justice Sotomayor lo ha sottolineato in modo quanto mai efficace: «Negli ultimi sei mesi, questa Corte ha ripetutamente evitato di intraprendere i suoi consueti processi deliberativi, spesso su richiesta del Governo, consentendo a questo di portare avanti un calendario di esecuzioni senza precedenti e “a rotta di collo”. Con la dovuta considerazione in sede giudiziaria, alcuni degli argomenti del Governo avrebbero potuto prevalere e alcune o anche molte di queste esecuzioni avrebbero potuto essere alla fine autorizzate. Altre avrebbero potuto non esserlo. In ogni caso, la Corte non avrebbe dovuto approvare queste esecuzioni senza risolvere queste questioni critiche. La posta in gioco era semplicemente troppo alta» (United States v. Higgs, cit., Sotomayor, J., dissenting, p. 4).
Tredici esecuzioni. Troppe. Troppe forse anche per una parte non irrilevante di quel 55% del popolo statunitense che si è dichiarato, nell’ottobre 2020, favorevole alla pena di morte per omicidio nell’annuale sondaggio Gallup (https://news.gallup.com/poll/1606/death-penalty.aspx). E magari, se nell’ottobre 2020 il margine tra favorevoli e contrari si è assottigliato fino al 12% (nel 2014 il margine era 63 contro 33% e nel 2016 ancora 61 contro 37%), la debolezza sul piano giuridico e la ripugnanza su quello etico delle prime esecuzioni dell’era Trump possono avere avuto un ruolo non trascurabile.
Certo gli ultimi tempi (e l’ultima settimana in particolare) del mandato di Trump non possono aver portato grandi sostegni alla causa retenzionista. Nella storia dell’abolizionismo, del resto, non sono poche le vicende in cui esecuzioni contestate hanno rappresentato il prodromo per il rafforzamento e/o per l’affermarsi in seno all’opinione pubblica dell’opzione abolizionista: particolarmente indicativa, in tal senso, è la parabola della pena di morte nel Regno Unito, che nel secondo dopoguerra ha visto il progressivo ribaltamento dell’orientamento maggioritario nell’opinione pubblica (ben descritto nel film Pierrepoint: The Last Hangman, di Adrian Shergold, uscito nel 2005) a seguito di alcune esecuzioni contestate, vuoi per la crudeltà della condanna inflitta rispetto al grado di colpevolezza dell’autore (è il caso di Derek Bentley, nel 1953, e quello di Ruth Ellis, nel 1955), vuoi per la scoperta, ormai tardiva, dell’innocenza del giustiziato (come nel caso di Timothy Evans, la cui condanna era stata eseguita nel 1950, tre anni prima che si scoprisse il vero colpevole dell’omicidio per cui era stato condannato).
Sarebbe quanto mai azzardato proporre un parallelo tra gli Stati Uniti di oggi e il Regno Unito degli Anni Cinquanta. Che, però, qualcosa si stia muovendo sembra indubbio. E lo si coglie sia da osservazioni di lungo periodo sia – e forse soprattutto – da alcuni indizi specifici di questo periodo.
2. «The Times They Are a-Changin’»… maybe: i dati di lungo periodo
Ad osservare l’andamento del numero di condanne a morte comminate e di esecuzioni poste in essere annualmente negli Stati Uniti, appare chiara la contrazione del ricorso a questo tipo di sanzione. Dopo il ritorno in forza della pena di morte, come sanzione quasi «normale», che ha connotato gli Anni Novanta, a partire dalla fine di quel decennio si è assistito a una progressiva riduzione del numero di condanne e del numero di esecuzioni. Dal ripristino della concreta operatività della pena capitale nel 1976, il primato annuale di condanne si è avuto nel 1996, con 315, mentre il primato di esecuzioni è stato segnato dalle 98 del 1999. Da allora, la riduzione è stata pressoché costante, toccando, nel 2020, il minimo sia per le condanne (18) che per le esecuzioni (17): il primo dato è ineguagliato almeno dal 1973 (il valore più prossimo è dato dalle 31 del 2016), mentre il secondo, per il periodo successivo al 1983, è superiore solo alle 11 del 1998, alle 16 del 1989 e alle 14 del 1991 (per questi dati, v. Death Penalty Information Center, The Death Penalty in 2020: Year End Report. Death Penalty Hits Historic Lows Despite Federal Execution Spree, Dec. 16, 2020, https://deathpenaltyinfo.org/facts-and-research/dpic-reports/dpic-year-end-reports/the-death-penalty-in-2020-year-end-report).
Se si passa ad analizzare i singoli ordinamenti, preso atto della drammatica inversione di tendenza che ha caratterizzato in questi mesi il diritto e l’amministrazione federali, a livello statale non può passare inosservato il moltiplicarsi del numero di Stati che hanno abolito la pena di morte. Dopo le abolizioni sancite, nel 1981, nel District of Columbia e, nel 1984, in Massachusetts e Rhode Island, per quasi un quarto di secolo nessuno Stato aveva proceduto all’abolizione; dal 2007, però, il trend abolizionista è andato assumendo dimensioni mai raggiunte prima: in quattordici anni, ben dieci Stati hanno operato la scelta abolizionista. I primi sono stati il New Jersey e lo Stato di New York (2007), cui hanno fatto seguito il Nuovo Messico (2009) e, nel corso di questo decennio, l’Illinois (2011), il Connecticut (2012), il Maryland (2013), il Delaware (2016), lo Stato di Washington (2018), il New Hampshire (2019) e il Colorado (2020). Il numero degli Stati membri degli Usa formalmente abolizionisti ha così raggiunto quota ventidue su cinquanta, cui si aggiungono Puerto Rico e il District of Columbia. In tre ulteriori Stati è poi stata decretata, da parte dei governatori, una moratoria delle esecuzioni (Oregon, dal 2011; Pennsylvania, dal 2015; California, dal 2019).
Nella medesima logica non è forse irrilevante che, prendendo come riferimento l’ultimo quadriennio, si siano avute esecuzioni soltanto in undici Stati e soltanto in uno, il Texas, il totale abbia superato – anche se di molto: 31 – la decina. Nell’ultimo biennio, il numero di Stati cala a sette, mentre nel 2020 – complice evidentemente la pandemia – le 7 esecuzioni sono state poste in essere in soli cinque Stati.
Ammettendo che il semestre di sangue della fine della Presidenza Trump possa essere configurato alla stregua di una tragica eccezione, la pena di morte negli Stati Uniti risulta essere un qualcosa che si va riducendo in termini quantitativi assoluti e che si va circoscrivendo a livello di aree geografiche.
3. Segue: l’attuale contingenza
I dati «di lungo periodo» riportati nel paragrafo precedente appaiono certamente significativi. Non meno significativi sono, però, altri elementi che si riferiscono all’attuale contingenza, a partire dall’effetto che la pratica delle esecuzioni ha ingenerato nell’opinione pubblica, la quale – come si è osservato – ha visto crescere in maniera rilevante l’opzione abolizionista.
Un aspetto che merita di essere sottolineato in maniera particolare è che l’abolizione della pena di morte è stata per lungo tempo un argomento da evitare per qualunque candidato alla Casa Bianca. Ad esempio, è rimasta nella storia delle campagne presidenziali statunitensi la risposta che il candidato democratico Michael Dukakis fornì, nel 1988, in occasione di un dibattito televisivo, nel quale rivendicava il suo abolizionismo anche nell’ipotesi in cui la vittima del crimine fosse stata sua moglie. La risposta fornita è stata considerata un grave infortunio, che ha contribuito in maniera non marginale alla sconfitta contro George Bush sr. alle elezioni che si sarebbero tenute poche settimane dopo (cfr., ad es., R. Simon, Questions that kill candidates’ careers, in Politico, 20 April 2007, https://www.politico.com/story/2007/04/questions-that-kill-candidates-careers-003617).
Ebbene, se nel 2016 il Partito democratico (ma non Hillary Clinton, candidata alla Presidenza) ha introdotto nella propria piattaforma programmatica l’impegno ad abolire la pena di morte (ciò che era stato fatto, in precedenza, solo nella piattaforma programmatica del 1972) e se nel 2020 l’impegno è stato confermato, Joe Biden ha sfatato il tabù e ha inserito l’abolizione, almeno parziale, nel programma di governo. Certo, lo spazio riservato al tema non è dei più rilevanti, ma è comunque molto significativo che, nella sezione del programma dedicata alla giustizia si possa leggere: «Eliminare la pena di morte. Più di 160 persone che sono state condannate a morte in questo paese dal 1973 sono state successivamente scagionate. Poiché non possiamo garantire di avere sempre casi giusti di pena di morte, Biden si adopererà per far approvare leggi per eliminare la pena di morte a livello federale e incentiverà gli Stati a seguire l’esempio del governo federale. Questi individui dovrebbero piuttosto scontare l’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata o condizionale» (The Biden Plan For Strengthening America’s Commitment To Justice, https://academized.com/justice).
In buona sostanza, il candidato Biden si è impegnato a utilizzare i mezzi della presidenza per far abolire la pena di morte a livello federale e per spingere gli Stati retenzionisti a fare altrettanto.
Si sarebbe potuto scrivere di più? Probabilmente no, giacché né il Presidente né il Congresso hanno il potere di imporre una abolizione della pena capitale che si estenda agli Stati. Solo il potere giudiziario potrebbe farlo, dichiarando la pena di morte «crudele e inusuale», e in quanto tale contraria all’Ottavo Emendamento alla Costituzione del 1787. Nel 1972, con la sentenza Furman v. Georgia (408 U.S. 238, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/408/238), la Corte suprema è andata molto prossima al farlo, censurando la disciplina della pena di morte presente nello Stato della Georgia, conseguentemente censurando, in maniera implicita ma inequivocabile, anche le analoghe discipline presenti in tutti gli altri. La reazione della classe politica e dell’opinione pubblica è stata però nel senso di percepire un abuso da parte del potere giudiziario, con il risultato di rafforzare grandemente l’opzione in favore della pena di morte. Da quel momento si è compreso che l’abolizione non avrebbe potuto essere il prodotto di una sentenza. Nel contesto attuale, d’altra parte, il problema neppure si porrebbe, dal momento che la maggioranza dei giudici della Corte suprema federale, come si è rilevato sopra, risulta ben lungi dall’accarezzare idee abolizioniste.
Se, dunque, l’abolizione deve passare da decisioni politiche, quanto dichiarato da Biden nel programma di governo sembra essere una strada obbligata: il Congresso dovrebbe dare l’esempio agli Stati, con l’eliminazione della pena capitale dalla legislazione federale; il Presidente dovrebbe dare lo stimolo, con incentivi (presumibilmente anche economico-finanziari) a quegli Stati che abolissero la pena.
L’ultimo scorcio della Presidenza Trump, con i suoi eccessi, ha forse fornito un ulteriore elemento alla causa abolizionista: l’occasione. Non a caso, in reazione alle ultime esecuzioni, vari esponenti democratici del Congresso hanno presentato e stanno presentando progetti di legge per l’abolizione della pena di morte e stanno sollecitando il Presidente Biden a commutare le condanne a morte federali (cfr. Death Penalty Information Center, Democratic Legislators Introduce Death Penalty Repeal Bills, Urge President Biden to Commute Federal Death Sentences, Jan. 20, 2021, https://deathpenaltyinfo.org/news/democratic-legislators-introduce-death-penalty-repeal-bills-urge-president-biden-to-commute-federal-death-sentences?token=910).
A Washington, forse, qualcosa si sta muovendo davvero. E pare che si stia muovendo, finalmente, nel verso giusto.
Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato
Intervista di Marcello Basilico a Arturo Maresca, Roberto Riverso, Paolo Sordi e Lorenzo Zoppoli
L’arrivo del primo vaccino anti-Covid ha suscitato, com’era prevedibile, molti interrogativi anche in ordine al suo impatto nelle dinamiche del mondo lavorativo. Da alcune settimane l’evidenza di una diffusa “obiezione di coscienza” ha fatto emergere il dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti, e sulle conseguenze del rifiuto del lavoratore, almeno di quello dipendente, nelle relazioni col datore pubblico o privato. Le soluzioni ipotizzate sono disparate, suggerite spesso dalle visioni soggettive del quadro dei principi e delle regole fondamentali dell’ordinamento, ma imposte d’altronde dall’assenza di una norma positiva.
La realtà è che, in una materia tanto delicata e complessa, che involge tematiche multidisciplinari e non tutte squisitamente giuridiche, sembra difficile per una volta identificare due schieramenti nettamente contrapposti (pro o contro la licenziabilità del lavoratore renitente). Per lo più le divergenze tra i commentatori appaiono più sfumate.
Giustizia Insieme ha coinvolto nel dibattito quattro illustri studiosi e operatori del diritto del lavoro, di estrazione e attività diverse, secondo la propria radicata vocazione pluralista e in un’ottica di allargamento massimo dello scenario giuridico-sociale.
Qual è la sua opinione sulla possibilità per il datore di lavoro d’imporre al proprio dipendente, soprattutto se addetto a taluni servizi, di sottoporsi al vaccino anti-Covid?
Arturo Maresca: «Si deve muovere dalla considerazione che il legislatore (art. 1, co. 457 ss., l. 178/2020) ha varato “il piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2” escludendone consapevolmente l’obbligatorietà sia per la generalità dei cittadini sia per specifiche categorie di lavoratori.
Prendendo atto della posizione così assunta dal legislatore – significativamente diversa da quella adottata per altri vaccini (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) – è ben difficile desumere un obbligo da norme (artt. 2087 c.c. e 20 e 279, d. lgs. n. 81/2020) che riguardano le misure generali di sicurezza del datore di lavoro e la necessaria cooperazione del dipendente. Anche perché il legislatore ha ritenuto di rimettere il presidio dei rischi specifici derivanti dal contagio ai protocolli di cui all’art. 29-bis, dl 40/2020 ed alla loro capacità mirata e dinamica di adattamento.
Quindi, seppure con la finalità di contrastare il rischio di contagio nei luoghi di lavoro, il datore, che non può somministrare direttamente il vaccino di cui non ha la disponibilità, non può neppure ordinare al lavoratore di vaccinarsi presso le competenti strutture sanitarie. Infatti questo ordine violerebbe l’art. 32, co. 2, Cost., perché finirebbe per costringere il lavoratore a sottoporsi “a un determinato trattamento sanitario”.
Pertanto l’eventuale rifiuto del lavoratore non costituirebbe infrazione disciplinare sanzionabile dal datore di lavoro che ha, però, diritto di essere informato se la vaccinazione sia avvenuta o meno, perché si tratta di un dato necessario alla gestione della prevenzione del contagio».
Roberto Riverso:» «Occorre chiedersi anzitutto se possa esistere che in nome della libertà di cura si metta a repentaglio la salute collettiva, dei colleghi e dei terzi presenti nell’ambiente di lavoro. Questo è il punto di caduta dinanzi alla drammatica epidemia in corso, da cui non si può prescindere. Si afferma per solito che senza una legge specifica ex art. 32 Cost. il lavoratore sia libero di non vaccinarsi. In realtà, nel rapporto di lavoro, bisognerebbe muovere dal “principio di prevenzione”, dal TU 81/08 (artt. 279, 42), dall’art. 2087 c.c., dall’art.3 Cost. Se, come penso, in presenza di rischio Covid qualificato (laboratori, ospedali, r.s.a., ambienti assimilabili per livello di rischio), il datore sia già obbligato, in base alle norme cit., a chiedere la vaccinazione quale misura di protezione della salute nell’ambiente di lavoro (salvo risponderne in tutte le sedi); anche il lavoratore sarà parimenti obbligato, in base alla legge (art. 20 TU) a prestare la propria collaborazione, vaccinandosi. Non può esserci scarto tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore in materia di sicurezza, né alcuna discrezionalità rispetto a misure da ritenere tutte necessarie; salvo ipotizzare l’incostituzionalità (ex artt. 32 e 3 Cost.) del TU e dell’art. 2087 c.c., come si evince dalle note sentenze della Corte Cost. 218/92 e 258/94 (con cui ha dichiarato come obbligatori gli accertamenti sulla sieropositività HIV per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi) ».
Paolo Sordi: «Non mi pare che nell’ordinamento sia rinvenibile una disposizione che consenta al datore di lavoro di imporre al dipendente di vaccinarsi, norma che, tra l’altro, dovrebbe soddisfare le condizioni richieste dalla riserva di legge prevista dal secondo comma dell’art. 32 Cost. . Tale non è, riterrei, l’art. 2087 c.c., norma che necessita di essere integrata da fonti extranormative (e ciò pur senza contare che, mi sembra, sia tuttora vigente l’art. 29-bis d.l. n. 23/2020 secondo il quale i datori di lavoro adempiono all’obbligo di cui alla predetta norma codicistica mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nei vari protocolli condivisi succedutisi nel corso del tempo), e neppure lo sono le disposizioni in tema di vaccini contenute nel d.lgs. n. 81/2008 dalle quali si può desumere l’obbligo per il datore di lavoro – in presenza di un rischio specifico – di porre a disposizione dei dipendenti i vaccini, non quello dei lavoratori di vaccinarsi».
Lorenzo Zoppoli: «Il datore di lavoro, in linea generale, non ha il potere di imporre a un proprio dipendente un trattamento sanitario personale come il vaccino anti-Covid. Però può esigere tale comportamento in due ipotesi in cui il lavoratore, ricorrendo determinati presupposti, è obbligato a vaccinarsi in base a regole vincolanti che integrano le obbligazioni contrattuali, sempreché le condizioni di salute del lavoratore consentano la somministrazione del vaccino. La prima è quando l’obbligo di vaccinarsi può essere ricondotto al codice deontologico del lavoratore (esempio medico o infermiere in situazioni ad elevatissimo rischio di contagio); la seconda quando il vaccino può essere necessario per garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro».
In ogni caso, quali sono gli effetti possibili, per il suo rapporto lavorativo, del rifiuto del dipendente di vaccinarsi?
Arturo Maresca: «Il datore di lavoro può trarre dalla scelta del dipendente di non vaccinarsi tutte le conseguenze che ne derivano sul piano giuridico, verificando se l’esecuzione della prestazione sia oggettivamente e temporaneamente impossibile con la liberazione dall’obbligo retributivo (art. 1256, co. 2, c.c.). Una verifica da effettuare non in astratto, ma in concreto avendo riguardo alla prevenzione del rischio di contagio e tenendo conto della compresenza con altri lavoratori (vaccinati e non) o di eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere con utenti/clienti.
Un g.m.o. di licenziamento sarebbe ipotizzabile soltanto se la perdurante impossibilità di utilizzo del dipendente dovesse impedire il funzionamento dell’attività produttiva».
Roberto Riverso: «Tutti coloro che si occupano della questione, anche quando escludono obblighi per le parti del contratto di lavoro, ammettono comunque il licenziamento oggettivo per inidoneità professionale, salvo le alternative praticabili, decorso un periodo di sospensione. Propendo, invece, per un’ interpretazione costituzionalmente orientata che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. E’ una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore».
Paolo Sordi: «Forse l’istituto del diritto dei contratti nell’ambito del quale le conseguenze dell’emergenza epidemiologica sul rapporto di lavoro subordinato potrebbero essere attendibilmente ricavate è quello della sopravvenuta impossibilità ad adempiere. Quest’ultima potrebbe essere ritenuta, in concreto, ricorrente solamente negli specifici casi in cui, per le particolari caratteristiche dell’attività dell’azienda e/o della prestazione lavorativa, le misure di sicurezza (diverse dal vaccino) già individuate e sperimentate (dispositivi di protezione delle vie respiratorie, distanziamento, ecc.) non siano tali da assicurare tanto lo svolgimento dell’attività lavorativa in sicurezza, quanto la conservazione dell’utilità della prestazione lavorativa per il datore. In queste ipotesi potrebbe configurarsi un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la cui legittima adozione richiederebbe comunque, la ricorrenza di tutte le altre condizioni richieste dalla disciplina generale dell’istituto (ad esempio, l’impossibilità di adibizione ad altre mansioni per il cui svolgimento non sia necessario vaccinarsi). Nessuna impossibilità ad adempiere – e, conseguentemente, nessun giustificato motivo oggettivo di licenziamento – potrebbero invece essere configurati, neppure in simili casi, rispetto a quei lavoratori che si sottoponessero (per loro scelta) alla vaccinazione».
Lorenzo Zoppoli: «Nella prima ipotesi sopra ricordata vengono meno i requisiti di idoneità professionale, il lavoratore non è più abilitato a svolgere la propria attività e può essere persino licenziato. Nel secondo caso molto dipende da quanto è indispensabile il vaccino al fine di garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro. Nell’effettuare questa valutazione rilevanza prioritaria devono avere le condizioni oggettive in cui viene resa la prestazione e la effettiva disponibilità di un vaccino efficace».
Ritiene auspicabile un intervento del legislatore al riguardo? Quali potrebbero essere la collocazione sistematica e il contenuto d’una norma siffatta?
Arturo Maresca: «Ritengo opportuno che il legislatore preveda un obbligo di vaccinazione (fatti salvi i casi di impedimenti per motivi di salute) per gli addetti alle attività essenziali, quelle che continuarono ad operare nel primo lockdown (marzo/maggio 2020) e, più in generale, quelle riconducibili nell’ambito applicativo della l. 146/1990.
Il legislatore dovrebbe formulare nell’ambito della legislazione emergenziale di contrasto al Covid-19 una norma ad hoc ispirata ai principi enunciati dalla Corte costituzionale (2.6.1994, n. 218; 23.6.1994, n. 258) quanto all’obbligatorietà degli accertamenti sanitari per chi espleta attività che comportano rischi per la salute dei terzi, nonché al bilanciamento ed alla “salvaguardia del valore della salute collettiva, alla cui tutela…sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie” ».
Roberto Riverso: «Il tema vaccini, oltre a quello di prevenzione, interseca il “principio di solidarietà” inteso come aspirazione ad una idea più alta di comunità e di avanzamento sociale; principio rispetto a cui non rileva se il vaccino sia obbligatorio o raccomandato (C. Cost. 107/2012). Distinzione, questa, che non ha ovviamente pregio neppure sul piano scientifico (C. Cost. 118/2020), posto che i vaccini raccomandati non sono meno necessari, né più pericolosi, di quelli obbligatori. Nell’ottica dei menzionati principi, servirebbe una prova di maturità collettiva con un’adesione massiccia e spontanea al vaccino da parte di tutti (lavoratori in primis), senza costrizione alcuna. Servirebbe invece una massiccia campagna di informazione e sensibilizzazione che fino ad ora è mancata, anche da parte sindacale».
Paolo Sordi: «Poiché la vicenda coinvolge diritti di sicuro rilievo costituzionale (diritto alla salute, libertà nella sottoposizione a trattamenti sanitari, libertà di impresa) mi sembrerebbe che quella delle Assemblee legislative sia l’unica sede idonea a realizzare un contemperamento tra i vari interessi in gioco e a far emergere in maniera chiara le diverse possibili soluzioni con le rispettive motivazioni.
L’eventuale disciplina, a mio avviso, dovrebbe essere inserita nel settore dell’ordinamento relativo alla sanità pubblica, più che in quello relativo al contratto di lavoro, perché è la tutela della salute collettiva che dovrebbe costituire il quadro generale di riferimento delle scelte operate dal legislatore concernenti un obbligo di vaccinazione, le sue modalità di attuazione, gli eventuali suoi limiti e le sanzioni in caso di inosservanza».
Lorenzo Zoppoli: «Il legislatore potrebbe intervenire essenzialmente per meglio definire quando l’obbligo del vaccino anti Covid entri nel codice deontologico di talune professioni, garantendo ovviamente il diritto ad essere vaccinati. Per quanto riguarda l’obbligo di vaccinarsi correlato al dovere datoriale di garantire la sicurezza sul lavoro - correlato in quanto il lavoratore è tenuto a collaborare alla sua realizzazione- ritengo che nel d.lgs. 81/08 ci siano già tutte le regole necessarie a modulare anche l’obbligo di vaccinarsi al fine di garantire le misure di sicurezza più efficaci. Le sanzioni potrebbero essere eventualmente previste in modo specifico dalla contrattazione collettiva senza necessità di ulteriori norme di legge».
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.