ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pena di morte e pena perpetua: e il senso di umanità?*
di Davide Galliani
La vita e le opere di Primo Levi parlano molto a chi si occupa delle massime pene. Un solo esempio. Scrive Primo Levi: al pari della felicità perfetta, anche la infelicità perfetta non è realizzabile; questi due stati-limite non sono realizzabili perché la condizione umana è “nemica di ogni infinito”. Ha ragione Primo Levi. Infinitezza e perpetuità implicano l’assenza di limite, sono estranee alla condizione umana. Viene in mente chi si dichiarava contro l’ergastolo, la pena perpetua, perché incapace di immaginarsela. La pena perpetua, infinita, sta fuori dalla immaginazione dell’uomo, sta fuori dalla condizione umana, è inumana: se non possiamo immaginarci una cosa è perché quella cosa sta fuori dal nostro essere umani. Facciamo una radicale traduzione giuridica. Approvata la Costituzione, si era riusciti a definire con una qualche precisione il perimetro del divieto dei trattamenti contrari al senso di umanità: vietate le frustate, vietata (anzi punita) ogni violenza fisica. Non era molto, ma per i tempi era il massimo, essendo la mente, rispetto al corpo, ancora misteriosa. Franco Basaglia non aveva neppure ottenuto la libera docenza. Grosso modo con la svolta culturale del 1968, anche la rieducazione, il secondo corno dell’art. 27 Cost., ha iniziato a prendere forma. Da lì è stata una escalation, fino alla (giustissima) affermazione della Consulta, oramai del 1990: la rieducazione non può essere schiacciata da alcuna altra funzione della pena. È anche successo che la stessa Consulta abbia chiaramente affermato che senso di umanità e rieducazione non possono essere disgiunti, al contrario formano un tutto unico. Tuttavia, ed è questo il punto, la rieducazione si è presa il palcoscenico, mentre il senso di umanità è rimasto, per quanto più o meno contornato, al divieto delle frustate. Il senso di umanità ha mantenuto un più o meno preciso perimetro, ma lo spazio al suo interno non si è ingrandito, al contrario di quanto accaduto alla rieducazione, che ha attratto tutte le nostre attenzioni. Si pensi alle manette e alle gabbie in aula, ai blindati in carcere. Quale la tesi, quindi? Se vogliamo contestare la pena perpetua dobbiamo tornare a parlare di senso di umanità. Non ci siamo riusciti con la rieducazione, e dubito ci riusciremo. Del resto, contestare l’ergastolo ostativo significa (piaccia o meno) contestare anche l’ergastolo tout court. Ecco che, se non entriamo nel perimetro del senso di umanità, per restare dentro a quello della rieducazione, abbiamo già finito la battaglia. Voglio dire che le potenzialità offerte dal senso di umanità, per contestare la pena perpetua, devono essere approfondite. Peraltro, dato che la Consulta oramai legge quasi sempre il III comma dell’art. 27 Cost. insieme all’art. 3 Cost., avremmo anche un notevole guadagno. La pena perpetua, in quanto tale, in quanto perpetua, infinita, è contraria al senso di umanità perché non permette alcuna retribuzione medievale, nessuna eguaglianza costituzionale, zero proporzionalità giurisprudenziale. Infrange insieme il senso di umanità e la eguaglianza-proporzionalità: non tratta un uomo al pari di un uomo, ma ragiona con il sono tutti uguali. Un premeditato omicidio aggravato merita quanto dieci omicidi. La pena è uguale per tutti, perpetua, infinita. Può un giudice calibrare, parametrare, ragionare sul singolo fatto, sul singolo uomo? No, lo tratta come tutti gli altri, a disparità di fatto-concreto. Capisco che si possa dire: ma così la pena perpetua è anche contro la rieducazione, perché non può essere compresa come pena giusta, essendo identica a quella di chi ha commesso un fatto-reato diverso. Infrange la colpevolezza, e per questa via anche la responsabilità penale personale, se è vero (ed è vero) che anche il legislatore, e non solo i giudici e l’amministrazione, deve rispettare la rieducazione. Questo è vero, però si tenga in considerazione un ulteriore argomento. La rieducazione non esiste in tutte le Costituzioni del mondo, anzi. Noi siamo una (bella) eccezione. Mentre in tutte le Costituzioni del mondo esiste il divieto di trattamenti inumani (grosso modo, il cruel inglese). E la stessa Convenzione europea dei diritti umani, al pari del Trattato UE, utilizza l’inumano, non la rieducazione. Parlare di senso di umanità piuttosto che di rieducazione ci universalizza, ci sprovincializza. I rischi sono fortissimi, sbagliato negarli, inutile sottacere che dopo Auschwitz l’uomo rappresenta la più grave minaccia per sé stesso. Ma il rischio soggettivo di comprendere cosa sia il senso di umanità è bilanciato dal privilegio oggettivo del principio di eguaglianza. In fondo, non sono scindibili: non esiste un uomo fisso, non esiste un uomo eguale ad un altro. Il senso di umanità e l’eguaglianza insieme sono uno scudo, forgiano il limite, rappresentano la barriera più forte contro l’infinitezza, la perpetuità, che alimentano l’egoismo smisurato che oggi prevale ovunque, come se esistessero tanti padri eterni quanti padri in terra. Per venire alla pena capitale, la questione è conseguente. Non basta essere contro, per l’errore giudiziario o per principio (il quinto comandamento). Non basta: è pieno il mondo di politici democratici che combattono la pena capitale sostenendo che non bisogna uccidere perché la persona può essere (anzi deve essere) lasciata marcire in galera. Una posizione attraente: intanto ti salvo la vita, poi vediamo cosa succede. Ma faccio presente che poi vediamo che succede è tanto crudele e inumano quanto giustiziare subito una persona appena condannata a morte. Non vi sono alternative: chi è contro la pena capitale ma a favore della pena perpetua deve spiegare a sé stesso e poi a noi cosa è più inumano. Si dirà: il marcire in galera non va bene, sono favorevole alla pena perpetua con la possibilità un giorno di tornare in società. Chi dice questo abbia almeno la cortesia, per non infrangere l’ottavo comandamento, di andare un giorno nella sua vita in un carcere, il luogo che dovrebbe preparare il ritorno in società. Ammetto la replica: ma, con un carcere diverso, se una persona è sempre pericolosa non può tornare in società. Qui dobbiamo gettare la spugna. Siamo dentro ad un argomento divino, non umano. Se fosse umano mediterebbe che l’infinito non appartiene a ciò che noi (umani) possiamo immaginare, nemici come siamo di ogni infinità.
*Intervento al consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino del 30 gennaio 2021
Nomina dei componenti togati del Comitato Direttivo della Scuola superiore della magistratura: è l’auto-vincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo
di Mario R. Spasiano
Sommario: 1. I contenuti della sentenza – 2. Il quadro normativo di riferimento - 3. La discrezionalità tecnica e la regola dell’auto-vincolo
1. I contenuti della sentenza
Con sentenza resa in data 11 gennaio 2021, n. 330, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha avuto occasione di occuparsi della vicenda concernente la nomina, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, dei componenti togati del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura.
Nel giudizio di primo grado, un magistrato non risultato tra i prescelti, sulla scorta dei requisiti professionali vantati,aveva proposto ricorso al TAR Lazio adducendo plurime censure volte a sindacare l’operato del CSM per avere tale organo, a suo avviso: a) erroneamente ricostruito il suo curriculum professionale; b) prescelto magistrati in possesso di minori esperienze professionali nell’ambito della formazione, in mancanza di indicazione di specifici elementi preferenziali; c) non operato la pur necessaria valutazione comparativa, sostituendola con “una motivazione apparente e puramente assertiva” fondata su analisi parziali o persino erronee dei dati curriculari forniti dai candidati, così determinando un’evidente disparità di trattamento tra i candidati nella valutazione dei relativi requisiti; d) proceduto alle nomine senza indicare più specifici elementi motivazionali.
Il TAR Lazio, Sezione Prima, aveva accolto il ricorso in primo grado.
Il CSM proponeva appello al Consiglio di Stato che, pronunciandosi con la richiamata sentenza n. 330/2021, confermava l’esito del giudizio di primo grado.
Le doglianze di merito del CSM nel giudizio di appello si fondavano su un unico motivo, vale a dire la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26.
A questo punto, si rende necessario il richiamo del quadro normativo di riferimento.
2. Il quadro normativo di riferimento
Il d. lgs. n. 26 del 2006, intitolato “Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della L. 25 luglio 2005, n. 150”, disciplina appunto l’istituzione in questione, munita di competenza esclusiva in materia di aggiornamento e formazione dei magistrati ordinari.
Si tratta di una struttura didattica autonoma, con personalità giuridica di diritto pubblico, piena capacità di diritto privato e autonomia organizzativa, funzionale, gestionale, negoziale e contabile, secondo le disposizioni del proprio statuto e dei regolamenti interni, nel rispetto delle norme di legge.
La Scuola è preposta ad una gamma ampia di attività tutte aventi una prevalente componente di tipo formativo e tecnico-scientifico, fortemente incidenti, sotto il profilo culturale, sulla qualificazione professionale dei magistrati. Esse concernono:
a) la formazione e aggiornamento professionale dei magistrati ordinari;
b) l’organizzazione di seminari di aggiornamento professionale e di formazione dei magistrati e, nei casi previsti dalla lettera n), di altri operatori della giustizia;
c) la formazione iniziale e permanente della magistratura onoraria;
d) la formazione dei magistrati titolari di funzioni direttive e semi-direttive negli uffici giudiziari;
d-bis) l'organizzazione di corsi di magistrati giudicanti e requirenti che aspirano a incarichi direttivi di primo e di secondo grado;
e) la formazione dei magistrati incaricati di compiti di formazione;
f) l’attività di formazione decentrata;
g) la formazione, su richiesta della competente autorità di Governo, di magistrati stranieri in Italia o partecipanti all'attività di formazione che si svolge nell'ambito della Rete di formazione giudiziaria europea ovvero nel quadro di progetti dell'Unione europea e di altri Stati o di istituzioni internazionali, ovvero all'attuazione di programmi del Ministero degli affari esteri
e al coordinamento delle attività formative dirette ai magistrati italiani da parte di altri Stati o di istituzioni internazionali aventi ad oggetto l'organizzazione e il funzionamento del servizio giustizia;
h) la collaborazione, su richiesta della competente autorità di Governo, nelle attività dirette all'organizzazione e al funzionamento del servizio giustizia in altri Paesi;
i) la realizzazione di programmi di formazione in collaborazione con analoghe strutture di altri organi istituzionali o di ordini professionali;
l) la pubblicazione di ricerche e di studi nelle materie oggetto di attività di formazione;
m) l’organizzazione di iniziative e scambi culturali, incontri di studio e ricerca, in relazione all'attività di formazione;
n) lo svolgimento, anche sulla base di specifici accordi o convenzioni che disciplinano i relativi oneri, di seminari per operatori della giustizia o iscritti alle scuole di specializzazione forense;
o) la collaborazione alle attività connesse con lo svolgimento del tirocinio dei magistrati ordinari nell'ambito delle direttive formulate dal Consiglio superiore della magistratura e tenendo conto delle proposte dei consigli giudiziari.
Organi di governo della Scuola sono il Comitato direttivo, il Presidente e il Segretario generale.
Il Comitato direttivo, in particolare, composto da dodici membri, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d. lgs. cit., “adotta e modifica lo statuto e i regolamenti interni; cura la tenuta dell'albo dei docenti; adotta e modifica, tenuto conto delle linee programmatiche proposte annualmente dal Consiglio superiore della magistratura e dal Ministro della giustizia, il programma annuale dell'attività didattica; approva la relazione annuale che trasmette al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura; nomina i docenti delle singole sessioni formative, determina i criteri di ammissione ai corsi dei partecipanti e procede alle relative ammissioni; conferisce ai responsabili di settore l'incarico di curare ambiti specifici di attività; nomina il segretario generale; vigila sul corretto andamento della Scuola; approva il bilancio di previsione e il bilancio consuntivo”.
Ai sensi dell’art. 6, “Fanno parte del comitato direttivo dodici componenti di cui sette scelti fra magistrati, anche in quiescenza, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, tre fra professori universitari, anche in quiescenza, e due fra avvocati che abbiano esercitato la professione per almeno dieci anni. Le nomine sono effettuate dal Consiglio superiore della magistratura, in ragione di sei magistrati e di un professore universitario, e dal Ministro della giustizia, in ragione di un magistrato, di due professori universitari e di due avvocati.
I magistrati ancora in servizio nominati nel comitato direttivo sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura per tutta la durata dell'incarico (ovvero, a loro richiesta, possono usufruire di un esonero parziale dall'attività giurisdizionale nella misura determinata dal Consiglio superiore della magistratura)”.
I componenti del comitato direttivo sono nominati per un periodo di quattro anni; non possono essere immediatamente rinnovati e non possono fare parte delle commissioni di concorso per magistrato ordinario.
Essi, ai sensi dell’art. 8, esercitano le proprie funzioni in condizioni di indipendenza rispetto all'organo che li ha nominati.
3. La discrezionalità tecnica e la regola dell’auto-vincolo
Come si è fatto cenno, l’unico motivo di appello concernente il merito del giudizio, proposto dal CSM, ha riguardato la presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del d. lgs. n. 26 del 2006, ossia la modalità di nomina dei componenti togati spettanti allo stesso organo di autogoverno della magistratura.
E’ innanzitutto noto che il sindacato degli atti del CSM da parte della giustizia amministrativa (in particolare riguardante i provvedimenti di nomina dei magistrati a incarichi giudiziari) costituisce un tema oggetto di non recente dibattito con incerti orientamenti giurisprudenziali oscillanti tra le esigenze di difesa delle prerogative proprie di un organo a rilevanza costituzionale quale il CSM, chiamato a preservare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, da un lato, e il rispetto dei principi propri dell’attività amministrativa di cui all’art. 97 Cost. e alla L. n. 241 del 1990, nonchè del suo sindacato, dall’altro.
Negli ultimi anni, la cresciuta sensibilità per più diffuse e penetranti esigenze di tutela giudiziaria hanno finito col prevalere, inducendo il G.A. ad affermare ormai stabilmente la legittimità di un sindacato estrinseco sugli atti del CSM, ancorché questi risultino per lo più connotati da ampia discrezionalità tecnica. Il vaglio permane dunque circoscritto alla verifica della sussistenza di profili di irragionevolezza manifesta, travisamento dei fatti o arbitrarietà[1].
Nel tornare al caso in esame, l’appello proposto dal CSM contestava che il riferimento alla “nomina”, operato dalla disposizione di cui all’art. 6 cit., imponesse di fondare l’obbligo di attivazione di una vera e propria procedura selettiva di tipo comparativo, ritenendo piuttosto che la norma avesse inteso riservare “la più ampia discrezionalità” nella “scelta” dei componenti della Scuola al fine di assumere determinazioni che consentissero di coprire tutti i settori dell’attività formativa coperti dalla Scuola, a prescindere da qualsiasi forma di selezione di candidati in possesso delle maggiori competenze nei vari contesti che “visti nell’ambito della loro coordinata attività all’interno del Comitato, potrebbero non assicurare la completezza della proposta culturale della Scuola”.
A tale argomentazione la difesa del CSM aggiungeva poi che “l’onere di una comparazione diretta ed esplicita tra i diversi aspiranti si risolverebbe in adempimento eccessivamente laborioso e defatigante, e, comecchessia, foriero di una motivazione della delibera inevitabilmente poco lineare”: quest’ultima argomentazione, appare subito da segnalare, sarebbe stato meglio non fosse stata inserita nella difesa rivelandosi, come opportunamente rilevato dal Consiglio di Stato, un “adducere inconveniens”, privo di rilievo ai fini dell’apprezzamento della legittimità amministrativa.
Ad ogni modo, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, riteneva infondato il motivo di appello sulla base dell’argomentazione secondo la quale il potere di nomina di cui all’art. 6 cit. riveste un duplice carattere, strumentale (individuazione del destinatario della scelta), il primo, e formale (perfezionamento del procedimento di nomina), il secondo: nella fattispecie, si sarebbe prospettata una questione di contestuale nomina-scelta. Ad avviso del Giudice adito, tuttavia, mentre la competenza del Ministro nel procedere alle nomine dei componenti il Comitato direttivo a lui spettanti, in virtù della natura strettamente amministrativa dell’organo e della sua responsabilità politica, gli consente di operare la scelta intuitu personae (laddove l’apprezzamento del merito professionale e della capacità rispetto all’ufficio ad quem vengono rimessi all’autonomo apprezzamento discrezionale ministeriale), nel caso del CSM, organo non politico bensì di alta amministrazione di rilievo costituzionale, la relativa scelta non può essere connessa all’ufficio di destinazione, bensì alla particolare natura e struttura del CSM che, in ragione del suo carattere di organo di governo autonomo a base composta ed elettiva, gli impedisce di sottrarsi all’obbligo di operare mediante una vera e propria selezione secondo canoni di trasparenza, verificabilità, idoneità e razionalità al pari di qualsiasi attività amministrativa, con vaglio delle professionalità proposte, congrua motivazione dei provvedimenti, nel rigoroso rispetto di parametri di scelta strettamente professionali, non già di altra natura.
La prospettiva enunciata dal Consiglio di Stato, secondo la logica sulla quale essa fonda, appare chiara e coerente (non per questo necessariamente condivisibile): essa colloca a monte del ragionamento, la natura giuridica dell’organo selezionatore (il CSM), natura non politica, dalla quale fa scaturire, al di là del contenuto della disposizione normativa concernente il potere di scelta, l’obbligo di attuazione di una procedura selettiva fondata sul criterio comparativo.
L’impostazione si fonda evidentemente su un assioma (che appare invero da dimostrare) secondo cui il fattore condizionante la qualificazione di un’attività, dunque la sua sottoposizione ai canoni propri di qualsiasi attività amministrativa concernente nomine, sarebbe costituito dalla natura giuridica dell’organo che la pone in essere. Da qui, la necessaria correlazione tra profilo istituzionale (natura giuridica dell’organo) e profilo funzionale (natura dell’attività), il ché induce ad affermare consequenzialmente che mentre nel caso di un organo a natura (prevalentemente) politica, è impedito comunque al giudice addentrarsi nel sindacato delle modalità operative adottate, in quello di organo a natura non politica, la sua attività è in ogni caso sottoposta agli ordinari parametri del sindacato sull’azione amministrativa.
Il problema, evidentemente, è più complesso e non pare possa prescindere dalla considerazione della peculiare natura dell’organo di indipendenza e autonomia della magistratura, dallo specifico contenuto della disposizione attributiva del potere di scelta e finanche dalla peculiarità della nomina in questione.
Viene da chiedersi: siamo davvero certi che l’attività di un organo a rilevanza costituzionale e base elettiva quale il CSM non possa operare scelte fondate su un’amplissima discrezionalità tecnica, delimitata solo dai requisiti prescritti dalla legge? La risposta pare dover essere negativa se si voglia tener conto dell’autonomia rafforzata e garantita propria dell’organo in questione, sottoposto di certo alla legge, ma non alle procedure proprie di un qualsiasi altro organo della pubblica amministrazione. E, per converso, la natura prevalentemente (non esclusivamente) politica del Ministro può implicare che tutti i suoi atti (di nomina) siano aprioristicamente sottratti al sindacato di legittimità? Anche in questo caso la domanda appare retorica. Intanto, la lettura del testo dell’art. 6 cit. induce a rilevare che la norma detta una disciplina unica per le differenti tipologie di nomina ivi previste, sia quelle di origine CSM, sia quelle di fonte ministeriale. Ivi si definisce indifferentemente “scelta” quella operata dal CSM e dal Ministro, sulla base del possesso, da parte degli aspiranti, di un unico requisito; se la legge avesse voluto disporre in modo differenziato di certo avrebbe potuto adoperare diversa terminologia a fronte dei due distinti soggetti chiamati ad operare, il CSM e il Ministro, riservando al primo il riferimento al candidato “selezionato”. Al di là della disquisizione operata nella sentenza del Consiglio di Stato tra nomina-scelta e nomina-investitura, per tutte le nomine dei componenti il Consiglio direttivo della Scuola unico è il fattore condizionante, dovendosi in ogni caso trattare della scelta di magistrati, anche in quiescenza, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità: null’altro. Il magistrato che versi in quella condizione e che ne faccia domanda può essere nominato componente del Consiglio direttivo laddove ritenuto adeguato. Nessun ulteriore requisito è previsto dalla disciplina e soprattutto nessun riferimento ad una procedura comparativa di selezione emerge dalla disposizione.
Sotto altro profilo appare meritevole di considerazione anche un’ulteriore circostanza, ossia che la natura e la tipologia delle attività della Scuola in questione pongono in luce che si tratta di compiti a carattere formativo, culturale, organizzativo, persino di iniziativa scientifica: un’ampia gamma di attività il cui migliore complessivo assolvimento più che essere garantito dalla compresenza di concorrenti-tipo ideali, resi tali dal possesso di corposi curriculum professionali, pare fare riferimento all’esigenza di integrazione tra competenze complementari, la cui articolata e persino differenziata acquisizione non pare poter essere conseguita sulla scorta di una unica, omogenea e burocratica procedura selettiva fondata sulla verifica del possesso del maggior numero di titoli e sulla relativa comparazione, quanto da una scelta a carattere prevalentemente fiduciario (ancorché adeguatamente motivata), nel delicato e rilevantissimo fine di comporre un gruppo composito e affiatato in grado di assolvere efficacemente il compito di governo della Scuola Superiore per la formazione dei magistrati, compito per certi versi non meno delicato e complesso di quello proprio dell’investitura di talune funzioni dirigenziali.
Per altro verso, viene anche da osservare che se fosse prescritta implicitamente una procedura selettiva a carattere comparativo, non vi sarebbe ragione in base alla quale taluni componenti del Consiglio direttivo, sol perché di nomina ministeriale ma chiamati a svolgere le medesime funzioni degli altri membri, potrebbero invece risultare il frutto di scelte intuitu personae!
Tanto non prescrive la legge e tanto non si può ritenere di imporre al CSM tanto più che il Consiglio direttivo della Scuola Superiore, alla luce della disciplina normativa vigente, costituisce organo di governo di una istituzione strumentale allo stesso CSM e alle sue politiche generali di indirizzo anche nel campo della formazione della magistratura ordinaria, un ambito nel quale proprio il rispetto della indipendenza e dell’autonomia degli organi giudiziari, richiede il riconoscimento, nell’ambito delle prescrizioni legislative, di quell’amplissimo tasso di discrezionalità necessario al suo più corretto e coerente espletamento.
Eppure, nonostante queste riflessioni, la sentenza del Consiglio di Stato perviene ad un esito assolutamente condivisibile. La sentenza in commento coglie pienamente nel segno laddove definisce decisiva, al fine del rigetto dell’appello, la circostanza che il CSM abbia ritenuto di procedimentalizzare la selezione mediante un interpello tra gli aspiranti connotato non solo da una manifestazione di disponibilità, bensì da apposite relazioni, strumentali a fornire elementi di valutazione in ordine alla “idoneità specifica a ricoprire l’incarico” con riguardo “alle esperienze maturate nella giurisdizione sia di merito, nei differenti settori di competenza”, alle “pregresse specifiche esperienze nell’attività di formazione e in attività di rilevanza organizzativa”, alla “comprovata attitudine all’approccio multidisciplinare”, alle “attività di studio e di ricerca scientifica, connesse alle attività di formazione”, al “possesso di specifiche attitudini tecniche, culturali e organizzative”, alla “comprovata conoscenza delle problematiche della didattica e della formazione professionale”, alla “conoscenza di una o più lingue straniere, attestate da idonea documentazione o da autocertificazione”.
Insomma, una vera e propria articolata serie di informazioni ovviamente corrispondenti ad altrettanti criteri selettivi che, in assenza di precetti normativi, hanno fatto sì che la disciplina rigorosa dettata dallo stesso CSM costituisse un auto-vincolo alla sua azione, con la rinunzia all’esercizio di qualsiasi forma di nomina intuitu personae.
Scelta tale strada, il principio meritocratico indicato dal CSM non poteva non guidare e persino vincolare le modalità operative conseguenti, obbligando l’organo a motivare in ordine alla loro concreta attuazione anche in termini comparativi.
Tale impostazione, come condivisibilmente affermato dal Consiglio di Stato, andava applicata sin dalla fase iniziale c.d. della scrematura dei candidati, sebbene con modalità differenti rispetto alla fase finale. Nella realtà, se nella prima parte del procedimento in effetti non è mancato, a fronte dell’interpello articolato, un primo legittimo vaglio con confronto limitato ai titoli, ciò che non ha poi (illegittimamente) avuto luogo è stato il successivo più approfondito confronto analitico tra professionalità individuate secondo quanto ci si sarebbe attesi inconsiderazione del contenuto dell’interpello operato dal CSM.
Se dunque appare condivisibile quanto sostenuto dalla difesa del CSM secondo cui la risultante di un lavoro selettivo avrebbe potuto essere una compagine di selezionati complessivamente inadeguata ad “interpretare le variegate esigenze della formazione dei magistrati”, che non rappresentasse “un equilibrio … tra le diverse istanze provenienti dall’esercizio della giurisdizione su tutto il territorio nazionale”, tale profilo avrebbe dovuto essere tenuto in considerazione a monte dal CSM, prima di auto-vincolarsi all’applicazione di criteri selettivi dai quali non ci si sarebbe poi potuti più discostare.
[1] In tal senso, tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 11/2/2016, n. 597 e 3/3/2016, n. 875; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 2/3/2018, n. 2325 e 2/12/2016, n. 12070.
Conversando su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale
Intervista di Luigi Salvato a Renato Rordorf
Il travolgente e repentino sviluppo della tecnologia, la globalizzazione, l’affermarsi di un modello economico che, sia pure con differenti sfaccettature, sembra quello del turbocapitalismo, l’emergere di nuovi bisogni e nuove esigenze e la modificazione delle istituzioni politiche moderne, che sta avvenendo rapidamente e con intensità maggiore di quanto si abbia consapevolezza, rendono evidente la difficoltà (non soltanto nel nostro Paese) di governare il cambiamento e la società. Tali fenomeni hanno investito anche il diritto, quale forma di organizzazione sociale, e quindi la giurisdizione, dando luogo ad un coacervo di questioni, allo stesso tempo antiche e nuove, che riguardano la sua stessa essenza ed il modo in cui quotidianamente è esercitata. Sembra dunque opportuno sottoporre a Renato Rordorf sei domande su alcune di dette questioni, anche in modo, diciamo così, provocatorio, senza che sottintendano la mia personale visione di esse. La finalità non è, ovviamente, quella di ricevere soluzioni (che certo non possono essere affidate al limitato spazio di un’intervista), ma di tentare di fare emergere qualche profilo meritevole di specifica riflessione.
L’opportunità di rivolgere a Renato Rordorf tali domande è suggerita dalla constatazione che di alcune egli ha di recente offerto un’analisi nitida e lineare e dalla considerazione della sua pluridecennale attività (ad altissimi livelli) nell’esercizio della giurisdizione (di merito e di legittimità), oltre che della sua esperienza in un’Autorità indipendente ed in Commissioni ministeriali di riforma, nonché della sua attività in campo scientifico e dell’importante presenza nel dibattitto associativo. Ho inoltre avuto la fortuna di lavorare con lui presso la I Sezione civile della Corte di cassazione e di quel periodo conservo il ricordo di camere di consiglio segnate dai suoi interventi che per me hanno costituito vere e proprie lezioni (di diritto e di vita professionale), rafforzandomi nel convincimento che la vera formazione – intesa come trasmissione del saper essere e saper fare il magistrato, nonché quale maturazione del senso di appartenenza ad una comunità ispirata agli stessi ideali e finalità e, quindi, condizione essenziale del corretto, efficace ed efficiente esercizio delle funzioni giudiziarie – è e resta anzitutto quella che si realizza nella camera di consiglio e/o nel contatto lavorativo quotidiano con i colleghi più capaci, esperti e dotati di alto rigore morale.
Salvato Volgendo l’attenzione alle questioni sopra accennate, la prima (sotto ogni profilo) a venire in rilievo è quella del rapporto tra la funzione di chi pone la legge e di chi è chiamato ad interpretarla ed applicarla, quindi dei limiti dell’interpretazione. Dal punto di vista della magistratura associata la questione sembrava avviata a soluzione sin dall’ormai lontano 1965, quando il congresso dell’A.n.m. di Gardone approvò una mozione unitaria che conteneva una conclusione in cui si dichiarava «decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese». Il tramonto della modernità giuridica e dell’ideale illuministico del «diritto chiaro e preciso», l’irrompere della post-modernità in cui il diritto è «frutto di invenzione» (nell’accezione di Paolo Grossi) ed anche la giurisdizione comune opera per principi sembravano avere reso definitivamente vincente l’interpretazione c.d. ‘creativa’ (detto in sintesi, con le improprietà insite in ogni semplificazione).
Negli ultimi tempi è diventata invece sempre più frequente una normazione di estremo (finanche esasperato) dettaglio (ne costituisce significativa riprova la recente legislazione di emergenza), non implausibilmente ispirata alla finalità di restringere la discrezionalità del giudice e, quindi, in controtendenza rispetto agli esiti dell’evoluzione sintetizzata. La Corte costituzionale, in parte, ha ridimensionato l’interpretazione costituzionalmente orientata (che di quella creativa costituisce una delle più importanti tecniche), sostituendo al criterio della «impossibilità» del suo esperimento quale requisito di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale (nella declinazione offerta dalla sentenza n. 356 del 1996), quelli della «improbabilità» e della mera «difficoltà» dell’interpretazione correttiva, rimarcando il valore vincolante della lettera della legge (tra le più recenti, sentenze n. 221, n. 141 e n. 54 del 2019) stabilito dall’art. 12, primo comma, delle preleggi, che pure, sotto certi profili, sembrava divenuto desueto. Ha, inoltre, ripreso forza la tesi della doppia pregiudizialità (nel caso di contrasto delle norme interne con quelle dell’UE) e si è posta la questione dei rapporti tra Corte costituzionale e giudice comune in ordine alle disposizioni della Carta dei diritti. Infine, una parte della dottrina, anche di recente (il riferimento, in particolare, è ad uno stimolante scritto di Massimo Luciani) sta svolgendo una rinnovata riflessione in ordine al c.d. attivismo giudiziale, incarnato dall’interpretazione ‘creativa’, ed alle ragioni che fanno dubitare che sia di per sé preferibile e che comunque garantisca – sempre, al meglio ed appieno - la tutela e la realizzazione dei valori fondamentali stabiliti nella Costituzione e nelle Carte internazionali.
Nel contesto di tali segnali, che sembrano contraddittori, è possibile ipotizzare che la c.d. crisi della fattispecie sia, a sua volta, entrata in crisi, facendone riemergere la centralità? A riprova, inoltre, che nihil sub sole novi, potrebbe riproporsi la problematicità della vicenda del mugnaio di Potsdam che, come ha scritto Romano Ricciotti, per avere giustizia dovette sì accedere al giudice, ma poi (attraverso i suoi eredi) a Federico II? Le diverse dimensioni dell’interpretazione e le contraddittorie concezioni possono essere una delle principali ragioni del riesplodere della polemica (in realtà mai sopita), in ordine al se ed al come della responsabilità del giudice?
Rordorf Il rapporto tra il giudice e la legge o, se si preferisce, tra il legiferare ed il giudicare, tra il dettare e l’applicare le regole dell’agire, è questione antichissima: credo si sia posta sin da quando l’umanità si è dotata di quello straordinario strumento di organizzazione sociale che dai romani fu chiamato ius. Se una tale questione la si volesse davvero affrontare in tutta la sua complessità, occorrerebbe non solo coglierne le evidenti implicazioni di teoria generale del diritto, ma anche e soprattutto intendere il suo profondo radicamento nella storia. L’esercizio della giurisdizione attiene al modo di essere delle società umane ed è quindi condizionato dal modello di società in cui si cala; perciò è destinato a mutare in conseguenza dei continui cambiamenti che la storia imprime nel costume e nella sensibilità degli uomini, nonché nelle concrete modalità di vita, di sviluppo e di governo di ciascuna società.
Ha quindi ben ragione Luigi Salvato a richiamare, nella sua premessa, quei fenomeni di cambiamento sociale alla luce dei quali debbono essere affrontate le questioni che egli pone. E sottolineerei che, se quel cambiamento ha certo sempre rappresentato una costante dell’evoluzione umana, non altrettanto costante ne è stato il ritmo, che negli ultimi decenni sembra aver conosciuto una straordinaria accelerazione; ed è questo uno dei problemi con i quali occorre misurarsi, perché i tempi con cui i legislatori sono in grado di rispondere al mutare delle esigenze e della sensibilità sociale sono quasi sempre diversi, e più lenti, di quelli che si richiedono al giudice per soddisfare le nuove domande di giustizia che ne derivano.
Non è però nella chiave, pur molto affascinante, della riflessione teorica che vorrei provare a svolgere qualche breve considerazione, bensì partendo dai dati dalla concreta esperienza quotidiana della giurisdizione in cui mi sono a lungo esercitato. Un’esperienza di quasi mezzo secolo che, ovviamente, è stata figlia del suo tempo e si è modellata sulle caratteristiche e sulle esigenze che di quel tempo sono il naturale portato. Eppure, dovendo risolvere una controversia o giudicare di una condotta, mai ho neppur lontanamente pensato di poterlo fare senza cercare di individuare le disposizioni di legge che mi sembravano meglio attagliarsi alla vicenda sottoposta al mio esame. E credo che la totalità dei magistrati operino a questo modo, non foss’altro perché essi si trovano a dover rispondere a domande ed eccezioni che i difensori, a propria volta, formulano sempre sforzandosi di supportarle con riferimenti legali, dai quali perciò neppure il giudice potrebbe mai davvero prescindere. Parto da questo rilievo, che sfiora l’ovvietà, per sottolineare come la discussione circa la cosiddetta giurisprudenza creativa sia in larga parte fuorviante, o almeno rischi di dirigersi verso un falso bersaglio. Non v’è dubbio che spesso, come mi accingo a dire, l’individuazione e l’interpretazione del dato normativo applicabile in ciascuna specifica situazione, lungi dal presentarsi come un percorso dall’esito obbligato, impone al giudice di scegliere tra diverse possibili risposte. Ma, quale che sia la scelta, essa pur sempre presuppone un quadro giuridico di riferimento: un quadro di diritto positivo che il giudice deve sforzarsi di leggere nel miglior modo possibile (ed è a questo che anni di studio lo preparano) ma che preesiste alla sua decisione e non è certo creato da lui. Anche nella post-modernità giuridica, cara a Paolo Grossi, insomma, non si dà un “diritto libero”, ed il giudice che ha giurato fedeltà alla Costituzione non può mai ignorare che la Carta espressamente lo vuole soggetto alla legge: soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2), certo, ma pur sempre ad essa soggetto.
Ciò, tuttavia, non significa che l’operazione del giudicare si riduca ad una tecnica combinatoria di regole legali già date. Anche qui fa bene Luigi Salvato a ricordare il monito del congresso tenuto dall’ANM a Gardone, oltre mezzo secolo fa, in cui si metteva in guardia dal concepire l’interpretazione della legge come un’attività puramente formalistica “indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”.
Il compito del giudice in questo consiste: nel rendere giustizia. “Giustizia” è parola difficile, talvolta persino terribile, che può essere declinata in molti modi diversi, come insegna la storia, ma che pur sempre esprime un bisogno primario profondamente radicato nella socialità dell’umano. E’ un concetto ed un valore con cui ogni giudice, in qualsiasi grado, non può fare a meno di misurarsi, se non vuole trasformarsi in un burocrate della legge smarrendo l’essenza stessa della sua funzione, che è appunto quella di rispondere alla domanda di giustizia che la società esprime e che si manifesta in ogni singola vertenza sulla quale egli è chiamato a pronunciarsi. E’ vero che giustizia e legalità non sono concetti mai del tutto sovrapponibili, ma un fine di giustizia è pur sempre in qualche misura insito nella legge, che sovente ad esso direttamente o indirettamente rinvia (basti pensare all’importanza ed alla frequenza dei richiami all’equità nel testo degli articoli del codice civile), anche se quel rinvio non può esser riferito ad un’idea di giustizia assoluta ed astratta bensì a quella condivisa in una determinata società ed in un ben definito momento storico. E qui, di nuovo, consentitemi di richiamarmi all’esperienza maturata in tante e tante camere di consiglio. Quante volte capita di avvertire che la soluzione apparentemente più semplice di una questione di diritto, meglio ancorata al dato testuale della legge, condurrebbe però ad un risultato che si avverte immediatamente come ingiusto! Credo che ciò sia accaduto a tutti coloro che esercitano il difficile mestiere del giudice, e se le diverse sensibilità di ciascuno possono di volta in volta far propendere per un approccio più formalista o più sostanzialista resta comunque in tutti la chiara percezione di questo ineludibile punto critico.
Ma davvero v’è incompatibilità tra la soggezione del giudice alla legge ed il bisogno di soddisfare le istanze di giustizia che egli percepisce nel suo operare quotidiano? E non v’è il rischio che ogni giudice interpreti a modo suo il bisogno di giustizia al quale vorrebbe dare sfogo?
Ad entrambe tali domande darei risposta negativa. Non mi convince del tutto la pessimistica visione di un “diritto senza verità”, in cui il weberiano politeismo dei valori farebbe sì che ciascun giudice si ponga alla ricerca di una propria Grundnorm alla quale ancorare la sua decisione, come pensa Natalino Irti; mi pare francamente esagerato l’approccio apocalittico di chi, come Carlo Castronovo, profetizza l’eclissi del diritto; e nemmeno sopravaluterei la pur legittima preoccupazione di Massimo Luciani, laddove egli paventa che il soggettivismo della decisione, anche mediante l’uso non ben controllato della cosiddetta interpretazione conforme a Costituzione, possa condurre ad uno stravolgimento del precetto normativo e possa dissimulare forme di vera e propria disapplicazione della legge da parte del giudice.
Due considerazioni mi sembrano a tal riguardo necessarie.
La prima si ricollega a quanto già sopra detto a proposito dell’impossibilità per il giudice di prescindere comunque dal dato legale. La ricerca di una soluzione del caso concreto più rispondente all’esigenza di giustizia che da quel medesimo caso promana trova il suo limite naturale nella legge, che il giudice è pur sempre chiamato ad interpretare ed applicare. L’interpretazione e l’applicazione di un testo di legge non è mai un’operazione del tutto neutra, ed è frequente, come ho già ricordato, che si prospettino diverse possibili soluzioni. La caratteristica dei moderni ordinamenti, alla cui formazione concorrono fonti di diverso livello e di provenienza diversa, che sempre più accolgono norme frutto di differenti tradizioni giuridiche e che tendono ad abbracciare nella loro regolazione aspetti sempre nuovi e vieppiù mutevoli della realtà sociale, ne indebolisce inevitabilmente l’interna coerenza, favorisce l’ambiguità dei testi normativi e, di riflesso, amplia la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice. Ma pur sempre di interpretazione di quei testi normativi deve trattarsi, e per quanto ogni interprete possa sforzarsi di darne una lettura diversa, conformandola a quella che egli avverte come più idonea a realizzare la giustizia del caso concreto, vi sono comunque dei limiti che il significato comune delle parole (unitamente agli altri criteri interpretativi che la stessa legge enuncia) non consente mai di superare. Limiti che nel nostro tempo si vanno ampliando, è vero, e ciò spiega l’allarme di chi paventa un eccesso di soggettivismo giudiziario, ma che nondimeno esistono e vanno salvaguardati.
Al rischio del soggettivismo giudiziario – e qui vengo alla seconda considerazione che mi ero ripromesso di fare – si possono contrapporre due importanti antidoti: anzitutto, il fatto che l’istanza di giustizia, cui il giudice non può mai restare indifferente, deve pur sempre modellarsi sui principi generali cui è ispirato l’ordinamento, a cominciare da quelli enunciati nella Carta costituzionale; in secondo luogo, la consapevolezza che le decisioni giudiziarie ed il fondamento su cui esse riposano non sono monadi isolate ma si innestano in un sistema che, almeno tendenzialmente (ed a prescindere da fenomeni patologici in qualche misura sempre inevitabili), dovrebbe metter capo ad orientamenti giurisprudenziali dotati di un certo grado di coerenza e stabilità.
Nel ricercare la soluzione interpretativa di un testo di legge che meglio si armonizzi con l’esigenza di giustizia del caso concreto non è alla propria soggettiva concezione di giustizia che il giudice deve ispirarsi, bensì a quella che egli ricava dai principi generali cui ho prima fatto cenno. Il diritto, con i principi generali che lo innervano, è una funzione della società, non dell’individuo. E, se è indubbio che la naturale elasticità dei principi (non diversamente dalle clausole generali) offre talvolta spazio ad un’ampia gamma di soluzioni diverse, resta che anche i principi debbono comunque essere desunti da dati normativi, e principalmente da quelli enunciati nella Carta costituzionale (o da fonti di diritto europeo cui la stessa Costituzione apre la via), perché è lì che si esprime il modo di intenderli proprio della comunità di cui il giudice stesso fa parte e di cui è tenuto a rispettare il fondamento.
Ribadisco che vi sono sempre, insomma, dei limiti oggettivi che non è consentito varcare. E la garanzia che non li si varchi – garanzia, si capisce, pur sempre relativa – sta, oltre che nella formazione professionale richiesta a chi esercita la giurisdizione e nell’obbligo costituzionale di motivare i provvedimenti, nella pluralità dei gradi di giudizio e nella collegialità delle decisioni adottate nei gradi superiori. Al singolo giudicante non è consentito affidarsi unicamente alla sua individuale concezione della giustizia, ma gli si richiede la consapevolezza del fatto che ogni suo provvedimento è destinato ad inserirsi nel flusso di una giurisprudenza che è opera collettiva e che egli, certo, può cercare di far evolvere, ma sempre e solo attraverso il confronto dialettico con gli orientamenti altrui.
Ciò detto, non intendo certo negare che il già ricordato ampliamento della discrezionalità interpretativa del giudice, dovuto alle ragioni che ho prima sommariamente indicato, possa costituire un problema, specie se il giudice cede alla tentazione di abusare di quella discrezionalità; e non ignoro il pericolo che la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie ne possano risultare in qualche modo scalfite. Sono perciò convinto che sia sacrosanto lo sforzo di dare ad ogni disposizione di legge l’interpretazione il più possibile conforme ai principi desumibili dal dettato costituzionale, ed anzi è fondamentale che proprio a quei principi il giudice deve ispirarsi nell’esercitare la sua discrezionalità interpretativa, ma non mi nascondo che talvolta l’uso non sufficientemente avveduto del criterio dell’interpretazione conforme a Costituzione (o ai principi dei Trattati europei o della Convenzione sui diritti dell’Uomo) ha condotto ad interpretazioni eccessivamente forzate del dato normativo, laddove la difficoltà di conciliarlo con questa o quella disposizione costituzionale avrebbe dovuto piuttosto suggerire di rimettere la questione all’esame della Consulta, così eventualmente determinando la definitiva espulsione dall’ordinamento della norma dichiarata incostituzionale, senza il rischio di successive diverse valutazioni in proposito da parte di altri giudici.
Dubito, però, che per ovviare a questi possibili inconvenienti sia buon rimedio quello di ricorrere ad una legislazione a maglie più strette, nella speranza di poter ridurre la discrezionalità dell’intervento giudiziario ed impedirne veri o presunti sconfinamenti. La realtà, come è ben noto, supera sempre l’immaginazione del legislatore, e norme troppo minuziosamente dettagliate finiscono spesso per risultare troppo rigide e per non riuscire ad attagliarsi a molte fattispecie diverse da quelle che il legislatore aveva previsto, generando così lacune che inevitabilmente impongono poi al giudice di ricercare altrove il fondamento della propria decisione. Insomma, una vera e propria eterogenesi dei fini, per evitare la quale è spesso preferibile che il diritto positivo sia, invece, sufficientemente elastico in modo da fornire al giudice, pur se con un maggior margine di discrezionalità interpretativa, almeno una chiara indicazione di principio capace di orientarne la decisione in un’ampia gamma di casi e di adattarsi al rapido mutare delle situazioni nel tempo. E soprattutto occorrerebbe che gli interventi legislativi fossero più attenti all’esigenza di organicità e sistematicità del quadro ordinamentale e non invece frutto di spinte improvvise e disordinate. Auspicio che forse può apparire inattuale, in tempi di emergenza dovuta all’improvviso ed imprevisto scoppio di una pandemia, ma che in prospettiva di più lungo periodo credo conservi tutta la sua pregnanza.
Salvato La questione oggetto della prima domanda ha in sé insita quella del modello di magistrato. Nei sistemi di civil law, certamente nel nostro ordinamento, la soggezione del giudice al diritto legislativo giustifica che il magistrato sia un pubblico funzionario, reclutato mediante concorso e sembra tollerare una dose minima di creatività della giurisprudenza. La validità (e praticabilità) di tale modello non è messa in crisi dalla dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza? Ralf Dahrendorf ha scritto che sono due i presupposti della democrazia, «la società civile e il dominio del diritto», il secondo «è l’altra metà della costituzione della libertà. Anch’esso è esposto a diversi pericoli. Può dal canto suo diventare il dominio dei funzionari o almeno dei giudici». Non è quest’ultimo un rischio che può divenire concreto in un sistema caratterizzato dall’indicato modello di magistrato, in presenza di un’espansione della dimensione creativa dell’interpretazione, rendendo parimenti concreto il pericolo della lesione del fondamentale principio della separazione dei poteri, una volta che i giudici finiscono con l’operare scelte sostanzialmente politiche, dando conseguentemente forza all’interrogativo di Salvatore Mannuzzu, secondo cui occorre allora chiedersi «da dove viene, come si giustifica un loro potere così grande»? In ogni caso, la dimensione creativa dell’interpretazione può altresì incidere sulla finalità e sulla stessa modalità di redazione della motivazione dei provvedimenti del giudice?
Rordorf Temo di essermi dilungato troppo nel rispondere alla prima domanda, e cercherò quindi di essere ora più sintetico.
Non so quanto sia fondato il timore che l’ampliamento del campo d’intervento del potere giudiziario – se così vogliamo definirlo – comprometta il principio di divisione del poteri sul quale riposa uno dei fondamenti dello stato democratico: dipende dal rispetto di quei limiti che ho più volte prima richiamato. L’equilibrio del sistema è affidato sia alla capacità della stessa giurisprudenza di controllare e neutralizzare la tentazione di esorbitare dai confini naturali del proprio agire, sia dalla capacità del potere legislativo di svolgere correttamente la propria parte sforzandosi di recuperare la necessaria coerenza e sistematicità dell’ordinamento giuridico (per quanto possibile nelle condizioni storiche date) ed evitando il proliferare di leggi ambigue, lacunose o addirittura contraddittorie.
D’altronde, come ho già detto, l’accrescersi degli spazi di discrezionalità interpretativa del giudice dipende da fattori storici di lungo periodo, che non credo siano tali da mettere in discussione il principio della separazione dei poteri, ma che certamente non consentono di concepirlo secondo l’antico modello che pretendeva di confinare il giudice nel ruolo di semplice bouche de la loi.
Ciò ha fatto sì che andasse mutando col tempo anche il modello di magistrato: non più confinato ad un compito che si pretendeva fosse di mera tecnica giuridica (ma che forse mai è stato davvero soltanto tale), quasi indifferente alle conseguenze pratiche che la meccanica applicazione dei testi di legge avrebbe potuto causare e tendenzialmente perciò separato dal corpo sociale. Il giudice è chiamato oggi sempre più spesso ad operare delle scelte che richiedono invece una profonda comprensione della realtà sociale su cui le sue decisioni sono destinate ad incidere, e quindi anche una valutazione consapevole degli effetti che esse produrranno. Gli esempi di diretta influenza di decisioni giudiziarie sul concreto tessuto sociale potrebbero essere tantissimi, ma mi limiterò a farne uno solo: si pensi a come, ammettendo la possibilità di invocare la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione in ipotesi di violazione di interessi legittimi del cittadino, la notissima sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che rovesciò l’opposto orientamento sino ad allora costantemente seguito dalla giurisprudenza pur senza che alcuna modifica fosse stata frattanto apportata dal legislatore alle norme di riferimento, abbia profondamente modificato i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione e l’immagine stessa di quest’ultima come titolare di un potere di supremazia prima di allora solo limitatamente sindacabile.
E’ legittimato il giudice a tanto, pur in difetto di una diretta investitura democratica? Io penso di sì, perché la sovranità appartiene al popolo ma si esercita nelle forme previste dalla legge. Quindi anche la giurisdizione, che è appunto una forma di esercizio di sovranità, è pienamente legittima nella misura in cui trova nella Costituzione e nelle leggi in base ad essa emanate il proprio fondamento ed i propri limiti. Nelle complesse società moderne ha poco senso pretendere che ogni esercizio di potere presupponga un mandato elettorale; quel che importa è che colui il quale è chiamato ad esercitarlo sia designato in conformità al modello legale previsto dalla Costituzione, o dal Parlamento, che lo faccia attenendosi a quel modello e che vi siano strumenti atti ad impedirne l’abuso.
Di nuovo perciò, come sempre, la questione si risolve avendo riguardo non all’astratta definizione dell’ampiezza dei poteri dei quali il giudice dispone, ma nel concreto rispetto da parte sua dei limiti che a quei poteri sono comunque assegnati. Ed uno di tali limiti sicuramente risiede nell’obbligo di motivare le proprie decisioni, in modo da offrire non solo alle parti direttamente interessate ma all’intera opinione pubblica la possibilità di conoscerne ed eventualmente criticarne il fondamento logico e giuridico. Anche questo è esercizio di democrazia ed anche così si consente al legislatore di tener conto delle ragioni che ispirano l’evoluzione della giurisprudenza ed, ove lo ritenga necessario, di intervenire a propria volta per modificare di conseguenza il quadro normativo.
L’accresciuta responsabilità sociale del magistrato è un dato ineliminabile nella società in cui viviamo. Non credo giovi deprecarla. Occorre piuttosto prestare particolare attenzione sia al tema della formazione, sia a quello delle valutazioni di professionalità cui i magistrati sono periodicamente soggetti. Da più parti, e non senza ragione, è stata posta in evidenza la scarsa significatività di tali valutazioni di professionalità, quasi sempre stereotipate e poco inclini a porre in luce profili di criticità. Ed invece, oggi più che mai, sarebbe necessario un serio vaglio critico per assicurare che il magistrato assolva con serietà l’importante compito che gli è confidato, con piena consapevolezza dei liniti ad esso connaturati.
Salvato Uno degli ambiti in cui maggiormente si è esplicata la dimensione creativa dell’interpretazione è quello dei diritti fondamentali, con esiti positivi e così noti da rendere superfluo ricordarli. Nondimeno, non vanno sottovalutate le preoccupazioni di quanti hanno richiamato l’attenzione sull’esigenza di evitare di «consegnare i diritti fondamentali alla mercé del consenso» e di non alimentare la cd. juristocracy, termine utilizzato (come ricorda Marta Cartabia, La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali, 15 e 23, in Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei su “La Costituzione ieri e oggi”, Roma, 9-10 gennaio 2008) «per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali», con il rischio sia di pervenire a soluzioni «arbitrarie», appunto per questo, scarsamente tolleranti (Francesco Gazzoni), sia di determinare la prevalenza di una logica mercantile, se venga affermata la preminenza assoluta della libertà personale (Cesare Salvi). I diritti fondamentali devono inoltre essere considerati in una dimensione che non è, non può essere, soltanto individuale, ma è collettiva e che, appunto per questo, nel momento genetico eccede l’ambito di una specifica controversia. Non potrebbe allora essere necessario mantenere fermo il momento della loro positivizzazione mediante il riconoscimento in fonti normative (eventualmente anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale)? Se così non è, non vi è il rischio che i giudici assurgano a «padroni del diritto» e finiscano per restare i soli garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, «cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia» (Gustavo Zagrebelsky)?
Rordorf Il tema dei diritti fondamentali è affascinante, ma al tempo stesso spinoso, anche per il rischio di un sovraccarico di retorica che talvolta lo accompagna.
Sono diritti al pari degli altri ma, pur appartenendo a ciascun singolo individuo, costituiscono il fondamento su cui si regge la vita di una comunità; e sono fondamentali anche perché sono posti a fondamento di una serie di ulteriori diritti. Rifuggendo da suggestioni giusnaturalistiche, è nell’evoluzione storica della coscienza sociale che credo occorra ricercarne l’origine: quindi nel modo in cui i diversi ordinamenti giuridici sono andati modellandoli nel tempo. Ma, se è vero che il riconoscimento di alcuni di essi (come dignità, uguaglianza di trattamento, libertà nelle sue varie declinazioni, ecc.) appare indiscutibile e trova agevole riscontro nella Costituzione, nei Trattati europei ed in molteplici carte e convenzioni internazionali, resta nondimeno arduo individuarne un catalogo preciso e completo. Donde la funzione decisiva che in questo campo svolge la giurisprudenza, nazionale e sovranazionale (particolarmente in ambito europeo), sia nel rinvenire il fondamento stesso di tali diritti sia nella definizione del loro perimetro applicativo. E’ evidente che quando l’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea parla dei diritti fondamentali non solo riferendosi a quelli specificamente garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali ma anche a quelli “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, destinati a fungere da principi generali del diritto comunitario, per ciò stesso demanda all’interprete – e quindi, prima di ogni altro, al giudice – il delicato compito di rintracciare il fondamento di tali diritti nell’impianto costituzionale (non sempre scritto) dei singoli stati.
E’ vero, quindi, che in questo ambito la funzione della giurisprudenza può assumere una rilevanza anche maggiore che in altri, perché i dati testuali offrono margini interpretativi più ampi, ma non credo che ciò autorizzi conclusioni sostanzialmente diverse da quelle che mi è parso di poter trarre rispondendo alle domande precedenti. Anche qui, cioè, deve restare fermo che non è il giudice a creare i diritti, e tanto meno quelli fondamentali, ma è l’ordinamento a produrli (o, se si preferisce, a riconoscerli) nella varietà delle sue fonti cui il giudice dovrà attingere per dare a quei diritti concreta e ben motivata attuazione.
Problemi assai delicati sorgono, però, quando accade che, in determinate situazioni, si manifestino diritti fondamentali reciprocamente incompatibili (o che tali sembrano essere). E’ innegabile che anche i diritti fondamentali sono suscettibili di compressione, per effetto del necessario bilanciamento con altri diritti o valori ai quali cui l’ordinamento attribuisce pari importanza. L’attualità ne offre subito un esempio: il conflitto del diritto alla salute con varie esplicazioni del diritto di libertà, ed in qualche misura anche col diritto allo studio, che sono stati compressi per limitare la diffusione del contagio pandemico. E la cronaca di questi ultimi anni ha fato emergere anche altri ben noti casi di contrasto tra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro, ma credo sia superfluo indugiare in ulteriori esempi. Importa invece notare che qui si apre un’ulteriore sfera di discrezionalità dell’interprete, complicata spesso dal confronto tra le diverse Corti, nazionali ed europee, e dal fatto che non sempre i diritti riconosciuti in ambito europeo coincidono appieno con quelli della Costituzione.
Ma conviene qui tralasciare il delicato tema del confronto e del dialogo tra le corti, che condurrebbe troppo lontano. Val la pena piuttosto di notare che, se anche si voglia condividere l’istanza di una maggiore “positivizzazione” dei diritti fondamentali, cui allude Luigi Salvato nella sua domanda, ogni qual volta il legislatore (ordinario o costituzionale, nazionale o europeo) non abbia già fornito un chiaro criterio al quale attenersi sarà sempre inevitabile che il bilanciamento tra diritti e valori si realizzi sul piano giudiziario. Ma non me ne scandalizzerei: in qualche misura è logico che sia così, giacché il più delle volte quel bilanciamento non può operarsi in astratto ma deve essere calibrato in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto.
Salvato La dimensione creativa dell’interpretazione rimanda anche alla questione, a te cara, della specializzazione del giudice. Da tempo, ed anche di recente, hai infatti più volte sottolineato (soprattutto con riguardo al diritto dell’economia) che al giudice «si richiede di essere all'altezza del compito»; perché ciò accada, è imprescindibile che «egli sia dotato di un adeguato livello di specializzazione». La specializzazione, se intesa come possesso di un complesso di nozioni tecniche in una determinata materia, sembra tuttavia costituire una mera ripetizione del «centro dell’idea che i magistrati hanno di se stessi», espresso dalla formula «magistrato professionale», che identifica «il modello weberiano del funzionario, portatore di un sapere tecnico che lo legittima, sulla base del quale è stato selezionato ed è entrato a far parte di un apparato», in quanto egli deriva appunto la sua legittimazione dal fatto di essere colui che «sa come si fa» (Mario Dogliani). E’ questa la nozione di specializzazione che viene in rilievo o deve piuttosto aversi riguardo a quella che identifica il giudice in grado di comprendere, e governare, «le conseguenze dell’intervento che gli viene richiesto», consentendogli (ed imponendogli) di bilanciare gli interessi in conflitto in base ai principi generali dell’equità e della ragionevolezza (nella specie, economica)? L’eccessiva enfatizzazione della specializzazione (in entrambe le accezioni) non può avere in sé insito il rischio, evidenziato da Guido Calabresi, che il giudice, divenendo «specialista», finisca con l’essere rinchiuso dentro (e divenire prigioniero di) «un sistema di saperi tanto esclusivi quanto minuscoli»? Non è forse vero, come ancora ha scritto Guido Calabresi, che soltanto l’essere inguaribilmente “generalista” può consentire al giudice di porsi di fronte ai problemi con animo e curiosità liberi da preconcetti, condizionamenti, pigrizie intellettuali? L’eccessiva specializzazione e la settorializzazione che ne consegue non rischia, inoltre, di alimentare derive corporative e, comunque, di far smarrire quell’esigenza di unità ed unificazione della società, garantita proprio ed anche dalla giurisdizione, se esercitata da un giudice ‘generalista’?
Rordorf Il “sapere tecnico”, che legittima il magistrato ad esercitare la sua funzione, secondo il risalente modello richiamato da Luigi Salvato nella sua domanda, è costituito dall’intero bagaglio della sue conoscenze giuridiche, vagliate nelle prove concorsuali che egli deve superare per entrare a far parte dell’ordine giudiziario e successivamente coltivate con gli strumenti di formazione offertigli dall’amministrazione giudiziaria (oltre che, ovviamente, con la sua auspicabile, personale e continua applicazione allo studio). Tanto basta perché egli risponda alle caratteristiche tradizionali del magistrato professionalmente competente, che è tale in quanto in possesso delle cognizioni giuridiche che dovrebbero permettergli di padroneggiare indistintamente l’universo legale.
Quando si parla di specializzazione, però, credo ci si debba riferire ad altro, o quantomeno anche ad altro: cioè a quella particolare competenza che non si esaurisce nell’essere genericamente esperti di leggi e di diritto ma che attiene ad uno specifico settore nel quale le nozioni giuridiche sono strettamente intrecciate con altri tipi di sapere, sicché la sola capacità di maneggiare codici e pandette non basta né ad intendere fino in fondo le ragioni per cui quelle particolari leggi sono state dettate, né a valutare le conseguenze pratiche della loro applicazione.
L’esigenza della specializzazione, che piaccia o no, è un altro ineludibile portato dell’evoluzione delle società moderne verso una sempre maggiore complessità, e si manifesta perciò con assoluta evidenza in quasi tutti campi del sapere. In ambito giuridico è stata ancora scarsamente sino ad ancora poco tempo fa, e se ne è cominciato a prendere consapevolezza solo in epoca relativamente recente ed in misura assai limitata (per esempio, nel settore del diritto del lavoro a partire dagli anni settanta del novecento). Ma quell’esigenza si è fatta oggi più impellente, essenzialmente per due ragioni: in primo luogo perché il diritto ha esteso progressivamente il suo campo di applicazione a settori sempre più vasti e sempre più caratterizzati da regole tecniche di natura extragiuridica, tradizionalmente estranee al normale bagaglio di conoscenze del quale il magistrato medio è dotato; ed in secondo luogo perché, come già prima osservato, l’attenuarsi dell’interna coerenza e la minore sistematicità dell’impianto ordinamentale hanno accresciuto la discrezionalità interpretativa del giudice, per esercitare correttamente la quale è indispensabile che egli abbia piena consapevolezza degli effetti prodotti dalle proprie decisioni. La fiducia dei cittadini nella giustizia dipende anche dalla percezione che coloro ai quali spetta amministrarla sappiano davvero quel che fanno, ossia sappiano misurare le conseguenze del loro operato, che altrimenti rischia di essere avvertito come un fattore imponderabile.
Vi sono settori dell’ordinamento nei quali la stessa normativa è sempre più ampiamente tributaria di nozioni e principi tratti da altri rami del sapere. Basti pensare, per limitarsi ad un solo esempio, alla vigente disciplina del bilancio d’esercizio e dei bilanci consolidati delle società, la cui comprensione presuppone la conoscenza di concetti (ammortamenti, ratei, risconti, fair value, e così via) poco familiari all’orecchio del giurista di formazione tradizionale. O ancora, per restare nel campo del diritto commerciale, si pensi al dovere del giudice di verificare la “fattibilità economica” dei piani di concordato preventivo, prescritto dall’art. 47, comma 1, del recente codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che evidentemente richiede la capacità di misurarsi con la complessa dinamica di un progetto di risanamento imprenditoriale. Ed è allora evidente che, se privo di una competenza specifica, il giudice sarà propenso ad arroccarsi nel fortino delle sue sole conoscenze giuridiche e finirà sovente per dare una risposta formale e burocratica, quasi sempre del tutto inadeguata alla bisogna; oppure si affiderà a consulenti dei quali non è però in grado di controllare l’operato ed ai quali impropriamente delegherà così il proprio compito.
Non nego che possa avere un qualche fondamento la preoccupazione che l’eccessiva specializzazione provochi una visione troppo angusta dei temi che sovente si intrecciano tra rami diversi dell’ordinamento giuridico, impedendo al giudice di cogliere le implicazioni di sistema che solo in un orizzonte più aperto appaiono chiare e consentono di non smarrire il senso dei principi generali. Ma resto convinto che i tempi nei quali viviamo e la vieppiù accresciuta complessità dell’organizzazione sociale non consentano nostalgie per il giudice “generalista”, come non lo consentono ormai in quasi nessun tipo di professione intellettuale. Per ovviare al rischio sopra evidenziato non è all’indietro che occorre guardare, ma bisogna invece trovare il modo di contemperare la specializzazione con forme di rotazione delle funzioni, tali per cui soprattutto i magistrati più giovani possano acquisire esperienze anche in altri campi del diritto, senza per questo far venire meno la presenza in ogni ufficio giudiziario di un nucleo di magistrati specializzati nei settori del diritto che maggiormente lo richiedono. Il che peraltro – lo dico incidentalmente – imporrebbe di affrontare senza timidezze il tema della geografia giudiziaria per garantire che i tribunali abbiano tutti una dimensione adeguata a consentire le necessarie specializzazioni al proprio interno.
Salvato Il riferimento alla specializzazione del giudice rinvia all’esigenza, da te sottolineata, che il diritto non può ignorare la sostanza economica delle materie con cui si confronta e che «la leva giuridica» non è in grado «di sollevare il mondo dell’economia». Nondimeno, al fondo resta la centrale questione di stabilire se l’economia possa (e debba) esprimere le sue proprie regole, riducendo il contenuto delle leggi giuridiche alla competenza dei tecnocrati (potendo tutti i problemi ricevere una soluzione ‘tecnica’) o se, invece, debba affermarsi la prevalenza della «decisione politica» e, per questa, del «primato del diritto». Se così è, come appare preferibile, tra le principali finalità della giurisdizione non vi è anzitutto quella di garantire (oggi più di ieri) che l’apertura al libero mercato ed alle forze imprenditoriali avvenga sempre nel rispetto delle scelte di politica economica e sociale realizzate dalla nostra Costituzione, avendo quale faro l’esplicito richiamo dell’art. 41, che subordina la legittimità dell’iniziativa economica privata al rispetto del valore della dignità umana, e l’idea, insita nella Carta, di rendere compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale ‘giusto? Tale sfida può colorarsi di nuovi aspetti, tenuto conto del contenuto e dei caratteri della globalizzazione e di uno sviluppo tecnologico che sembra fare di talune ‘compagnie’ (in particolare, quelle padroni dei big data, orientate esclusivamente alla finalità del profitto) le effettive reggitrici dei destini e delle scelte della società?
Rordorf Sono totalmente d’accordo sul fatto che la necessaria attenzione alle esigenze dell’economia ed alle conseguenze economiche delle decisioni giudiziarie non debba far mai dimenticare che la giurisdizione ha il compito primario di garantire il rispetto dei valori di giustizia posti a base dell’ordinamento giuridico e ben rappresentati dalla nostra Carta costituzionale, a partire da quello della dignità umana.
Non so quanto sia corretto parlare di un primato del diritto sull’economia: sono due mondi da sempre destinati a convivere ed a condizionarsi reciprocamente. Tradizionalmente s’immagina che l’homo oeconomicus persegua l’utile prendendosi cura dei propri interessi individuali, ma la ricerca dell’utile sarebbe sterile se non fosse in grado di abbracciare anche interessi comuni ad un più ampio consorzio umano, perché nessuno è da solo sufficiente a se stesso, L’utile deve perciò necessariamente coniugarsi con il giusto, che è a fondamento del diritto cui spetta il compito di governare i conflitti e garantire la coesione sociale.
È vero, però, che il progressivo affermarsi, grazie anche alle nuove tecnologie informatiche, di un sistema economico (e soprattutto finanziario) assai meno condizionato del passato dai confini tra gli stati e la correlativa ascesa di imprese sovranazionali di grande dimensione e di peso economico paragonabile o addirittura superiore a quello degli stati medesimi (o di molti tra essi) hanno rischiato e tuttora rischiano di mettere, per così dire, fuori scala gli ordinamenti giuridici, ancora largamente legati ad una base nazionale. E si è andata nel frattempo affermando l’idea che gli stessi ordinamenti giuridici nazionali dovrebbero porsi quasi in concorrenza tra loro per risultare più attraenti agli occhi degli investitori economici. Un’idea che, francamente, mi è sempre parsa pericolosissima, perché rischia di produrre una sorta di concorrenza al ribasso, spingendo i diversi legislatori a dettare regole sempre più blande ed inevitabilmente così riducendo il tasso di legalità complessivo del sistema.
Dubito che sia possibile ovviare a questi rischi operando solo sul piano del diritto interno o facendo leva sul solo apporto della giurisdizione nazionale. La natura stessa di quel fenomeno che siamo ormai abituati e definire “globalizzazione” rende evidente che i rimedi vanno ricercati in un orizzonte più vasto, quanto meno in ambito europeo. Se infatti, da un lato, il rinchiudersi in logiche “sovraniste” appare una reazione incongrua e del tutto inadeguata, come anche le recenti drammatiche vicende della pandemia da Coronavirus mi pare stiano dimostrando, dall’altro lato occorre evitare che la logica di un’economia di mercato capace tendenzialmente di svincolarsi dal rispetto delle normativa nazionali dia vita ad un mercato senza regole, che in realtà sarebbe retto dalla regola del più forte e finirebbe per tradire quei valori di giustizia che sono il fondamento essenziale di qualsiasi stato di diritto.
Se si vuol tentare di salvaguardare un corretto equilibrio tra la logica economica che domina il mondo contemporaneo ed il rispetto dei valori di giustizia insiti nella nozione stessa di diritto, credo sia necessario alzare la posta in gioco. Occorre cercare, cioè, di dar vita a forme di sovranità sovranazionale – ovviamente mi riferisco anzitutto al contesto dell’Unione europea – nel cui ambito potrebbe essere più agevole evitare che gli animal spirits del capitalismo debordino dai confini che necessariamente il diritto deve loro porre; e forse anche il sistema giurisdizionale ed il complicato rapporto tra corti nazionali e corti europee andrebbe almeno in parte ripensato in un quadro costituzionale di più ampio respiro. Ma qui mi fermo, perché comprendo bene di aver toccato un tema che richiederebbe un livello di approfondimento assai superiore a quello che mi è consentito.
Salvato Sottesa ai problemi oggetto delle precedenti domande vi è la questione, questa davvero antica, della certezza del diritto, che attraversa e muove la Storia con la “S” maiuscola, ma anche minuscola, poiché - ammoniva Piero Calamandrei - «ci tocca da vicino nella sicurezza dei focolari, nella dignità di uomini, nella libertà individuale». Questa idea teorica appare oggi in declino ed il complesso di fattori accennato nella premessa ha determinato, come di recente ha scritto Giovanni Salvi, «l’evoluzione della certezza del diritto nella prevedibilità della decisione». Cosa questo voglia dire, come e cosa debba intendersi per prevedibilità e come vada perseguita costituisce tema noto, ampiamente dibattuto, da te sapientemente affrontato. In questa sede ritengo tuttavia opportuno più che riflettere su questo tema volgere l’attenzione ad alcuni mutamenti che stanno incidendo su di esso con effetti dei quali potrebbe non aversi piena contezza. Il riferimento è alle conseguenze dell’irrompere dei sistemi di intelligenza artificiale (al quale ho dedicato qualche considerazione in uno scritto in corso di pubblicazione). La nuova frontiera sembra essere infatti quella della giustizia predittiva, intesa come possibilità di decidere uno specifico caso, rimettendolo all’AI, attraverso l’ausilio di algoritmi, divenuta attuale grazie anche allo sviluppo del machine learning. La giustizia predittiva è già operante in alcune realtà, tra l’altro, nel diritto d’autore, in alcune modalità di gestione delle procedure di mediazione e di gestione alternativa delle controversie e, negli Stati Uniti, per la concessione della libertà su cauzione o in materia di recidiva. Peraltro, sembra essersi già avverata l’amministrazione predittiva, tenuto conto che il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo l'utilizzo di algoritmi informatici per la determinazione del contenuto di provvedimenti amministrativi, anche discrezionali.
Le domande che possono essere poste sono, in primo luogo, se tale scenario sia auspicabile e se, a questo, scopo, non occorra almeno distinguere le controversie da affidare a tale tipo di giustizia (sono evidentemente differenti, ad esempio, le decisioni concernenti i presupposti dell’insolvenza e/o della probabilità di risanamento di un’impresa che versa in una situazione di difficoltà economica, ovvero le condizioni del rilascio di un permesso di soggiorno, oppure l’affidamento dei minori). In secondo luogo, se occorra, da subito, riflettere sulle conseguenze già prodotte dall’attuale stato dell’evoluzione tecnologica, delle quali forse non si ha dovuta consapevolezza. Il riferimento, tra l’altro, è alla circostanza che la facilità del reperimento dei precedenti già da sola può comportare (finanche, come ho scritto, per mere ragioni di ‘comodità’ e di ‘pigrizia’) un’omologazione, attribuendo in modo strisciante (perciò solo pericoloso) forza vincolante (sia pure ‘di fatto’) ai precedenti, prima ed al di fuori di ogni questione teorica in ordine ai presupposti della stessa, nonché ai software di profilazione del giudice, del p.m., degli avvocati e delle parti (in base a dati che si ignora quali siano, da chi e dove detenuti), che possono diventare strumento di condizionamento, prima ancora che di predizione.
Rordorf Può ben darsi che la certezza del diritto faccia parte di quelle mitologie giuridiche della modernità dalle quali ci mette ripetutamente in guardia Paolo Grossi. Ma i miti, si sa, hanno sempre un fondamento profondo nell’animo umano: esprimono bisogni, timori, desideri che percorrono come un fiume carsico la storia dell’umanità. Non ce ne si può sbarazzare con un’alzata di spalle.
Non v’è dubbio che, per diverse ragioni già prima ricordate, l’insieme delle norme da cui è formato l’ordinamento giuridico si presenti oggi assai più complesso e meno facilmente leggibile di quanto fosse cento o forse anche solo cinquanta anni fa; ed è inevitabile che ciò renda il diritto più incerto. Rischia in conseguenza di ridursi anche il tasso di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che della certezza del diritto costituisce un corollario. Della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni è bene non fare dei feticci. Il diritto riguarda vicende umane che, per loro stessa natura, sono estremamente variabili: chi è chiamato a giudicarle deve sempre saperne cogliere la specificità, e questo non consente di predicare l’assoluta prevedibilità di qualsiasi decisione. Tuttavia qui si pone un problema del quale ci si deve far carico, non foss’altro perché, se l’eccessiva erraticità delle risposte di giustizia fa sì che situazioni simili o analoghe ricevano un trattamento giuridico diverso, ne risulta vulnerato il fondamentale principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Se, di conseguenza, è senz’altro auspicabile che i legislatori (nazionali e sovranazionali) si sforzino di dare maggior coerenza sistematica e maggior chiarezza al diritto positivo, non meno importante e consapevole dev’essere lo sforzo del mondo giudiziario di favorire il più possibile il formarsi di orientamenti giurisprudenziali tendenzialmente stabili e sorretti da motivazioni ben argomentate. Il che si traduce nel dovere – che definirei deontologico – di ciascun singolo magistrato di tener sempre conto dei precedenti che abbiano attinenza al caso da decidere e di discostarsene, se lo ritiene davvero necessario, solo sulla scorta di argomenti critici nuovi o, comunque, sorretti da un impianto motivazionale capace di mettere in discussione l’orientamento che si vorrebbe mutare. Qui, più che mai, mi sembra che l’etica della responsabilità debba riuscire a coniugarsi virtuosamente con l’etica della convinzione, nella necessaria consapevolezza che il giudice non è un decisore solitario ma opera all’interno di un sistema giurisdizionale dotato di una sua interna coerenza. L’esercizio della giurisdizione non è un terreno sul quale il singolo magistrato debba sperimentare le proprie avventure intellettuali.
Possono gli strumenti dell’intelligenza artificiale utilmente concorrere a rendere più certo il diritto e più prevedibile la giurisprudenza? Confesso che ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Benché ormai da molti anni anche io, come un po’ tutti, mi arrangi a trafficare con il computer e sia dovuto venire a patti con l’informatica, ne so davvero poco di intelligenza artificiale, e mi rendo conto che il timore dell’ignoto può offuscare o deformare la mia visione del fenomeno.
Quel che mi sembra però di poter dire è che altro è la funzione strumentale che queste nuove (o relativamente nuove) tecnologie possono svolgere per facilitare il giudice, l’avvocato o il giurista in genere nello svolgimento dei suoi compiti, altro il delegare tali compiti ad una macchina, sia pure dotata di intelligenza artificiale e programmata per decidere in base ad algoritmi predisposti dall’uomo.
E’ vero che neanche la sola maggior facilità del reperimento dei precedenti, oggi consentita dagli strumenti informatici, è del tutto neutra rispetto agli esiti del procedimento decisorio, perché potrebbe favorire il recepimento acritico da parte del giudice di massime sempre immediatamente a disposizione ed ostacolare quindi oltre il dovuto la capacità della giurisprudenza di rinnovarsi confrontandosi con il mutare della realtà sociale. Sono convinto, nondimeno, che i vantaggi siano, su questo piano, di gran lunga prevalenti sugli inconvenienti. L’enorme ampliamento delle possibilità di conoscere il tenore e le motivazioni dei provvedimenti giudiziari (per non parlare dei testi normativi) rende assai più trasparente l’esercizio della giurisdizione, agevola grandemente i professionisti e gli operatori economici che hanno necessità di tener conto degli orientamenti della giurisprudenza e, quanto ai giudici, consente loro con un minino di addestramento di compiere ricerche di precedenti non solo più rapide ma anche più complete. L’eventuale cattivo uso di questi strumenti da parte di taluni non può far velo alla loro generale utilità.
Tutt’altro discorso mi sembra da farsi a proposito dell’uso di algoritmi destinati ad incidere sulla decisione del giudice, o addirittura a sostituirla (i cosiddetti algoritmi decisori). Non sono affatto sicuro che, nella sua gelida logica, l’intelligenza artificiale sia sempre davvero in grado di cogliere tutte le infinite sfumature, non solo materiali ma anche psicologiche, che, come già in precedenza accennavo, rende straordinariamente variabile la realtà sulla quale la decisione giudiziaria deve cadere. Sono disposto a concedere che si possano immaginare tipologie di situazioni più semplici e di decisioni meglio standardizzabili, alle quali maggiormente si addice l’automatismo decisorio, ma ho l’impressione che ci si dovrebbe comunque acconciare a muoversi in un ambito piuttosto ristretto.
L’aspetto maggiormente critico è costituito però, se non m’inganno, dalla difficoltà di stabilire a chi competa predisporre gli algoritmi e secondo quali criteri debba farlo, oltre che di verificare poi dall’esterno come essi sono stati in effetti realizzati. Sono stati evocati, a proposto dell’uso di algoritmi nelle decisioni amministrative, i principi di conoscibilità, di comprensibilità e di non discriminazione, che ovviamente potrebbero valere anche se si ammettesse l’uso di analoghi algoritmi anche nelle decisioni giudiziarie. Resta però il fatto che, se la decisione giudiziaria è il prodotto di un algoritmo, non è facile comprendere come possa essere motivata, a meno di non ritenere che la motivazione riposi nel criterio in base al quale quell’algoritmo è stato elaborato. Ma, mi chiedo, fino a qual punto è possibile comprendere quel criterio anche da parte di persone non particolarmente esperte in materia di intelligenza artificiale? Non si rischia, allora, di compromettere quello che tutti consideriamo uno dei fondamenti della giurisdizione nel moderno stato di diritto, ossia appunto la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, tale da consentire su di essi un controllo diffuso e da giustificare il fatto che sono pronunciati in nome del popolo italiano? L’eccessivo tecnicismo del linguaggio giuridico costituisce già ora (ma non da ora) un ostacolo all’effettiva realizzazione dei valori di democrazia insiti in tali principi, ed è una delle cause non secondarie della sfiducia che sovente circonda l’esercizio della giurisdizione, visto quasi come un rito esoterico comprensibile solo ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Ho il timore che una giustizia amministrata secondo algoritmi esaspererebbe ancor più questo aspetto negativo.
Ed ancora, conseguentemente, per quali motivi e con quali argomenti – su base giuridica o di carattere informatico – si potrà immaginare che provvedimenti emessi in questo modo siano impugnabili, ed a quali strumenti l’eventuale giudice dell’impugnazione si dovrà affidare per sindacare la correttezza della decisione impugnata?
A questi interrogativi, come ho già detto, non so rispondere. Ma mi inquietano.
Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., sez. I, ord. n. 29625/20)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa. – 2. La questione rimessa alle Sezioni unite. 3. I diversi orientamenti giurisprudenziali sulla questione della giurisdizione in tema di indennizzo da acquisizione sanante. - 4. Le questioni aperte dopo l’assestamento del 2015. – 5. Provvisorie conclusioni … in attesa delle Sezioni unite
1. Premessa
L’ordinanza che si annota conferma l’idea, già espressa qualche anno fa, secondo cui «la tematica dell’acquisizione sanante si pone sempre più come questione di diritto processuale, ma al contempo continua a non rimanere avulsa da scenari più generali, posto che oggi il rispetto dei principi sanciti prima dalla Corte EDU, poi dalla Consulta, a garanzia del proprietario rispetto ad una espropriazione indiretta, passano soprattutto, a seconda dei casi, per la rigorosa applicazione e/o per l’affinamento di svariati istituti di matrice processuale»[1].
Si pensi al tema delicato del giudicato restitutorio e ai poteri del commissario ad acta. Secondo il Consiglio di Stato[2]la preclusione del giudicato restitutorio sussiste come regola generale, con alcune eccezioni individuate in modo più o meno netto[3]. La medesima sentenza, inoltre, ammette l’usucapione entro ristretti limiti[4] allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull'Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta, in violazione dell'art. 1 del primo protocollo addizionale della Cedu.
Ancor più recentemente si è esclusa la configurabilità nel nostro ordinamento della rinuncia abdicativa quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della p.a., a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo[5]. Le ragioni a sostegno di tale opinione sono molto significative[6]. In particolare, si è osservato che la figura non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo. Si è ricordato, sotto questo profilo, che in materia di espropriazione indiretta occorre evitare di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd. occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica.
Si prospetta, quindi, un coacervo di questioni generali strettamente avvinte, i cui nodi irrisolti determinano persistenti incertezze: non solo i rapporti fra diritto sostanziale e diritto processuale, né solo i rapporti fra diversi ordinamenti (nazionale ed europeo) in tema di proprietà[7], ma anche gli incerti confini tra diritto pubblico e diritto privato, anche in questa materia[8]. Si è detto dello spinoso tema dell’usucapione “sanante” e della rinuncia abdicativa. Ma il capo delle tempeste, vero e proprio crocevia di tutti questi rivoli d’indagine e problematicità, non poteva che essere il tema della giurisdizione. In questo caso i profili di ordine sostanziale ad essere chiamati in causa sono da un lato la natura dell’istituto dell’acquisizione sanante, dall’altro il rapporto tra indennizzi e risarcimenti contemplati all’art. 42 bis T.U. espropriazioni.
E così, la questione della giurisdizione si indirizza segnatamente proprio sugli indennizzi e i risarcimenti previsti all’art. 42 bis, che per il principio di concentrazione ed effettività della tutela (art. 7 c.p.a.) forse dovrebbero ricadere nella cognizione, ormai sempre più estesa (anche alla luce dell’abbandono della tesi della carenza di potere in concreto), del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. E tuttavia sul punto si è andata formando una giurisprudenza che, sulla scia della fondamentale sentenza della Corte cost. n. 71/2015, ritiene che l’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 preveda un autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo, con la conseguenza che, ove detto procedimento sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, il corrispettivo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale liquidato con il provvedimento acquisitivo ha natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore corollario che le controversie relative alla determinazione o alla corresponsione di esso sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario[9].
Anche in questo caso appare evidente il legame tra questione processuale e intima natura sostanziale dell’istituto dell’acquisizione sanante. È da tali premesse che è necessario partire per cogliere il parziale cambio di rotta suggerito dell’ordinanza interlocutoria che si annota, con la quale la Sez. I della Cassazione chiede alle Sezioni unite di rivedere l’orientamento consolidato per quanto attiene la fattispecie relativa alla quantificazione della somma di danaro da corrispondersi «a titolo risarcitorio» al proprietario in ragione dell’ablazione dell’area occupata (art. 42 bis, comma 3).
2. La questione rimessa alle Sezioni unite
La Sez. I, fermo restando che la giurisdizione sugli indennizzi spetta al g.o., contesta tale appartenenza nel caso del risarcimento per il danno nel periodo di occupazione senza titolo. L’indennizzo, come noto, riguarda il pregiudizio patrimoniale e quello non patrimoniale, determinato quest’ultimo nella misura del dieci per cento del valore venale del bene, sofferti dal proprietario destinatario del provvedimento di acquisizione. Senonché l’art. 42 bis, coma 3, stabilisce anche: «per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma».
Nell’orientamento giurisprudenziale precedente maturato si è ritenuto che anche questa posta rientrasse nella competenza funzionale della Corte di appello, sul presupposto che l’utilizzo della locuzione «a titolo di risarcimento del danno» fosse frutto di una «mera imprecisione lessicale che non altera la natura della corrispondente voce dell’indennizzo, il quale essendo unitario non può che avere natura unitaria»[10].
La Sez. I non condivide: la precedente interpretazione delle Sezioni unite, infatti, forzerebbe il dato letterale della norma, che parla di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima[11]. Non rispetterebbe neanche la sistematica del risarcimento del danno in materia espropriativa, in quanto, per porsi in linea di continuità con la riconosciuta legittimità costituzionale dell’acquisizione sanante, finisce per concepire quest’ultima come una sorta di ombrello che tramuta – sotto la comune copertura indennitaria – in lecito ciò che precedentemente era illecito.
Con una serie di distonie sul piano processuale, come quella relativa alla legittimazione passiva, giocoforza limitata alla sola p.a. che ha adottato il provvedimento di acquisizione sanante accedendo alla tesi indennitaria, ovvero quella relativa all’onere della prova, di fatto sovvertito nella misura in cui l’assorbimento nella fattispecie pan-indennitaria finisce per elidere tale onere, da un lato in base alla giurisprudenza consolidata in tema di poteri giudiziali di determinazione dell’indennità di espropriazione[12], dall’altro enfatizzando la forfettizzazione presuntiva del danno.
Anche sul piano sostanziale vengono individuati degli importanti presupposti teorici che sottendono la tesi avversata: la «definizione di una sanzione della condotta della p.a. sostenuta da una lettura della funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. che oblitera gli effetti redistributivi che si accompagnano al danno, quale costo da ripartirsi tra tutta la collettività, nella sola affermata necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori».
Al fondo, quindi, si afferma l’estraneità della fase risarcitoria al procedimento espropriativo propriamente detto, e si prospetta una prevalenza di tale dato sostanziale rispetto ai principi di ragionevole durata e concentrazione delle tutele. Che, peraltro, come diremo non è detto che siano effettivamente meglio rispettati aderendo alla tesi sinora invalsa in giurisprudenza.
3. I diversi orientamenti giurisprudenziali sulla questione della giurisdizione in tema di indennizzo da acquisizione sanante
Invero la questione non è sempre stata pacifica, e ha dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza, o, meglio, ad uno svolgimento in tre fasi[13].
In una prima fase si ritiene devoluto alla cognizione del g.o., ai sensi dell’art. 133, lett. g, c.p.a., l’indennizzo in parola. Si noti che sostiene tale esegesi anche la giurisprudenza amministrativa[14].
In seguito si segnalano pronunce in cui viene affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[15]. Si argomenta, fra l’altro, nel senso della natura rimediale dell’indennizzo rispetto alla pregressa illegittimità: in tal senso esso apparirebbe non già proiettato al futuro in vista dell’ablazione del bene, ma ripiegato sull’illecito pregresso. A maggior ragione ciò varrebbe con riguardo al pregiudizio non patrimoniale, non collegabile ad un atto lecito[16]. Si aggiunge, sotto il profilo strettamente processuale, che nel caso dell’acquisizione sanante, a differenza di quello “fisiologico” dell’ordinario procedimento di esproprio, spesso il contenzioso avente ad oggetto il provvedimento adottato ai sensi dell’art. 42 bis coinvolge contestualmente an e quantum, sicché in questi casi i principi di ragionevole durata del processo e concentrazione delle tutela militerebbero a favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e non già della Corte d’appello, tanto più a fronte della riluttanza delle amministrazioni ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante, dovuta all’insufficienza dei bilanci e al connesso obbligo di comunicazione alla Corte dei conti[17], che determina la contestuale valutazione di an e quantum in sede di ottemperanza, ove la giurisdizione esclusiva e di merito ne consentono il congiunto radicamento.
Dopo la sentenza della Corte cost. n. 71/2015 si afferma di nuovo, come si è già accennato, l’indirizzo favorevole alla giurisdizione del g.o., poiché l’acquisizione sanante è ormai da considerare, in modo costituzionalmente e convenzionalmente orientato, quale «procedimento espropriativo semplificato». Sicché oggetto della controversia non è l’operato illegittimo della p.a., bensì il legittimo provvedimento di acquisizione sanante, da cui il carattere indennitario del relativo ristoro. Peraltro si osserva che gli ulteriori argomenti posti a fondamento della "teoria risarcitoria" - cioè l'uso, da parte del legislatore, del termine “indennizzo” anzichè di quello “indennità”, e la previsione di tale indennizzo per il ristoro anche del “pregiudizio non patrimoniale” - appaiono intrinsecamente deboli: il primo, perchè presuppone una permanente, appropriata e precisa utilizzazione del lessico giuridico da parte del legislatore che, invece ad esempio, nello stesso art. 42 bis, comma 3, richiamando il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37 (che reca la rubrica “Determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile”) per la determinazione dell'indennizzo in caso di provvedimento di acquisizione di aree edificabili, mostra evidentemente di utilizzare i due termini come sinonimi; il secondo perchè il ristoro del pregiudizio non patrimoniale, automatico e predeterminato nel quantum in una percentuale del valore venale del bene, è misura accessoria inidonea ad incidere, di per se sola, sul riparto di giurisdizione[18]. Anche in questo caso la giurisprudenza amministrativa si è tendenzialmente uniformata alle prese di posizione delle Sezioni unite successive al 2015[19].
4. Le questioni aperte dopo l’assestamento del 2015
Come conferma l’ordinanza qui commentata, tuttora sono rimaste aperte alcune delicate questioni.
Prima di tutto quella relativa a quale giudice, nell’ambito della giurisdizione ordinaria, sia competente per le controversie relative alla misura dell’indennità prevista in un provvedimento di acquisizione sanante. Sul punto si è ritenuto che il carattere eccezionale della previsione della competenza in unico grado della Corte d’appello non rappresenti nel caso di specie un vulnus alla regola generale della competenza del tribunale o del doppio grado di giurisdizione di merito, poiché nello specifico settore delle espropriazioni per pubblica utilità la legge espressamente prevede varie ipotesi di competenza in unico grado della Corte d’appello, oltre a quella della opposizione alla stima ai sensi dell’art. 54 T.U. espropriazioni, sicché tale competenza è da considerarsi quale regola generale per la determinazione giudiziale delle indennità dovute nell’ambito del procedimento espropriativo[20].
Vi sono poi alcune questioni più strettamente processuali, riguardanti le specificità trattate nell’ordinanza qui commentata, che si sofferma sulla somma a titolo risarcitoria individuata al comma 3 dell’art. 42 bis.
Innanzi tutto il tema dell’onere probatorio, nel caso di pregressa occupazione illegittima (rispetto alla giurisprudenza consolidata sui poteri officiosi del giudice nel caso di indennizzo). L’opportunità di differenziare le due ipotesi di indennizzo previste ai commi 1 e 3 dell’art. 42 bis dalla somma a titolo risarcitorio prevista dal comma 3, secondo alinea, della medesima disposizione, a ben guardare si intravede già nel fatto che, una volta superata la tesi risarcitoria, anche in quest’ultimo caso dovrebbe applicarsi l’orientamento della Cassazione secondo cui il giudice procede autonomamente alla determinazione dell'indennità di espropriazione, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, qualificate anche come «indicazioni», o meri «punti di vista»[21].
Appare però non agevole applicare questa peculiare impostazione nel caso di pregiudizio per occupazione illegittima diverso da quello forfettizzato dalla legge in un ventesimo per anno dal valore venale del bene; qui, infatti, sembra più in linea coi principi generali che sia la parte interessata a dover prima dedurre e poi provare i fatti a sostegno della propria domanda. Non stupisce, quindi, che proprio nell’ordinanza qui annotata i giudici si pongano questo problema evidenziando che la forfettizzazione presuntiva del danno non può escludere modifiche sia in melius sia in peius nello scrutinio della posizione del privato.
Vi è poi il tema del principio di ragionevole durata e concentrazione delle tutele. Senza qui indugiare su come negli anni la ragionevole durata abbia ispirato nei giudici di legittimità interpretazioni spesso discutibili, fondate su una valorizzazione eccessiva del principio a scapito di regole processuali precise e del principio di legalità in materia processuale[22], il punto è che nel nostro caso non sembra neanche così scontato che la piena realizzazione di tale principio passi per la giurisdizione del g.o. e la competenza della Corte d’appello.
Invero la Cassazione nell’annotata ordinanza sembra continuare a crederlo, nella misura in cui però subordina tale principio alla coerenza con l’assetto sostanziale della materia, valorizzando l’estraneità della fase risarcitoria rispetto al procedimento espropriativo propriamente detto, che nella specie si estrinseca tramite acquisizione sanante.
E, tuttavia, non sempre è così. La giurisprudenza amministrativa appare particolarmente sensibile a questo problema, e ha finito per individuare talune “zone franche” che residuano nella giurisdizione esclusiva, anche accedendo alla tesi pan-indennitaria. Si tratta dei casi di interferenza con il giudicato, qualora il provvedimento ex art. 42 bis si innesti su una precedente decisione del giudice amministrativo che abbia specificamente dettato, ad esempio, i criteri specifici per valutare il valore venale del fondo. Secondo tale orientamento laddove si lamenti che l’amministrazione, nell’emettere il provvedimento ex art. 42 bis, si sia discostata dalla specifica indicazione valoriale scolpita nella decisione giudiziale, effettivamente si potrebbe sostenere che la successiva vicenda processuale concerna il doveroso controllo in sede di ottemperanza di decisioni nell’ambito delle quali erano state indicate dal giudice della cognizione le coordinate cui l’amministrazione intimata avrebbe dovuto attenersi anche laddove avesse ritenuto di emettere il provvedimento ex art. 42 bis[23].
Tale impostazione vanta una sana dose di realismo sulle modalità operative dell’istituto di cui all’art. 42 bis, e sulla centralità che rispetto ad asso hanno assunto in sede contenziosa i riti speciali del silenzio e dell’ottemperanza dinanzi al g.a. Senonché, a darle rigorosa coerenza di sviluppo, essa porterebbe a un possibile recupero dell’impostazione “rimediale”, che come si è detto ha già evidenziato la frequente compresenza nel contenzioso sull’acquisizione sanante di questioni indennitarie, e la notevole ricorrenza delle ipotesi di ottemperanza in materia, sicché si potrebbe dire, al contrario di quanto sostiene la Cassazione anche nell’ordinanza qui commentata, che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nell’intero arco di rimedi patrimoniali e non apprestati dall’art. 42 bis, eviterebbe la necessità di adire due giurisdizioni, e la sospensione del giudizio sull’indennizzo per pregiudizialità[24].
5. Provvisorie conclusioni … in attesa delle Sezioni unite
La soluzione prospettata dalla Cassazione, in questo senso, appare condivisibile, ma per ragioni forse opposte rispetto a quelle addotte.
A leggere l’ordinanza ci si chiede, infatti, se il diritto sostanziale debba prevalere sul principio di concentrazione delle tutele, con una propensione dei giudici per tale soluzione.
Al contrario, si potrebbe concludere a favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle poste risarcitorie muovendo più dal dato processuale che dal dato sostanziale.
Di fatti, appare ormai superata l’equiparazione fra attività illecita e risarcimento, come dimostrano i sempre più numerosi casi problematici di indennizzi da attività illecita, di cui alcuni argomentano con una certa ragione le finalità sanzionatorie[25], dalle quali viceversa l’annotata ordinanza vuole discostarsi.
D’altra parte, pure a voler parlare di indennizzo e non di risarcimento, come nella lettera della legge, si pone comunque il problema fondamentale della distinzione e dell’autonomia col procedimento espropriativo “semplificato” rappresentato dall’acquisizione sanante. Distinzione prospettata ancora dalla Sez. I della Cassazione, che peraltro ne evidenzia una natura riparatoria e non sanzionatoria, ma in effetti distonica rispetto alla non agevole operazione di “salvataggio” compiuta da Corte cost. n. 71/2015, allorquando la fattispecie venne inquadrata in modo unitario come «procedimento espropriativo semplificato».
Da un punto di vista processuale, invece, sembrano convincenti i rilievi della Sez. I circa la legittimazione passiva e la prova del danno, in quanto maggiormente in linea con il principio della domanda. Peraltro, il principio di concentrazione non è detto abbia a risentirne, perché la giurisdizione del g.a., salvo il caso di occupazione usurpativa, sarebbe legata alla giurisdizione del g.a. sul provvedimento di acquisizione sanante[26]. D’altra parte, se si accoglie tale impostazione, si ripropone il problema di un’effettiva concentrazione, e sarebbe forse corretto ritornare all’esegesi integralista del 2014 sposata per un breve periodo dal Consiglio di Stato, che ha offerto solide ragioni per una integrale concentrazione delle poste individuate dall’art. 42 bis in capo al g.a.
Viene prima il diritto sostanziale o quello processuale?[27] Ecco l’ennesima sciarada offerta dall’enigmatico istituto dell’acquisizione sanante.
Attendiamo con interesse le Sezioni unite per un’autorevole risposta.
[1] G. Tropea, Le persistenti “valvole di sicurezza del sistema”: l’acquisizione sanante come questione di stretto diritto processuale)?, in Dir. proc. amm., 2016, 636. Per una chiara esposizione sulle origini dell’istituto v. M. Conticelli, L’acquisizione sanante, in Dig. disc. pubbl., Agg. VII, 2017, Torino, 1 ss.
Sulle più recenti questioni in tema si v. anche l’intervista di R. Conti a R. Caranta, F. Goisis, G. Tropea, Cedu e cultura giuridica italiana 9. La Cedu e il diritto amministrativo, in questa Rivista, 5 marzo 2020.
[2] Cons. Stato, Ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2.
[3] i) Quando il privato non ha interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria, e non propone quindi una rituale domanda di condanna dell’amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino; ii) quando il proprietario ha interesse alla restituzione ma il giudice non si pronuncia sulla relativa domanda o si pronuncia «in modo insoddisfacente»; iii) quando il giudice amministrativo, ferma restando l’impossibilità di condannare direttamente in sede di cognizione l’amministrazione a emanare tout court il provvedimento in questione, imponga all’amministrazione, eventualmente anche nel rito sul silenzio, di decidere — ad esito libero, ma una volta e per sempre, e nel rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali — se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42 bis ovvero abbandonarla in favore di altre soluzioni (restituzione del fondo, accordo transattivo, etc.).
[4] A condizione che: i) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta; ii) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis; iii) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. perché solo l'art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Prima della pronuncia, buona parte della dottrina si era espressa in toni critici. Cfr. R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, acquisizione sanante, usucapione e valvole di sicurezza, nota a Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346, in Foro it., 2014, III, 590 ss.
[5] Cons. Stato, Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 2.
[6] La figura della rinuncia abdicativa, oltre a quanto osservato supra nel testo: i) non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante; ii) viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali.
[7] Cfr. F. Manganaro, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto di proprietà, in Dir. amm., 2008, 379 ss.
[8] Cfr. V. Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2012.
[9] «L’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale per la perdita del diritto di proprietà all'esito — nell'ambito di un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa amministrazione — del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto, non ha natura risarcitoria ma indennitaria, con l'ulteriore corollario che le controversie aventi ad oggetto la domanda di determinazione o di corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario». Così Cass., Sez. un., 25 luglio 2016 n. 15283, che ha affermato la competenza in unico grado della Corte d'Appello; Id., 29 ottobre 2015 n. 22096. In particolare, la Cassazione nella citata sentenza delle Sez. un., 29 ottobre 2015 n. 22096, ha sottolineato la natura espropriativa del nuovo istituto dell'acquisizione sanante, «innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato (commi 1 e 2, primo periodo) o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judice (comma 2, secondo periodo)»; ha precisato che, «quanto alla disciplina del riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo ... tale natura determina la piena riconducibilità dell'istituto alle ... disposizioni di cui all'art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., ed all'art. 53 del d.p.r. n. 327 del 2001» e che l'art. 42 bis consente di prefigurare quantomeno due grandi categorie di controversie, a seconda che il loro oggetto sia costituito dalla denuncia di illegittimità del provvedimento di acquisizione e dalla eventuale consequenziale richiesta di risarcimento del danno, oppure dalla domanda di determinazione o di corresponsione dell'indennità, rientranti nella giurisdizione, rispettivamente, del giudice amministrativo e di quello ordinario. La Cassazione ha affrontato la preliminare questione della natura indennitaria o risarcitoria dell'indennizzo, aderendo alla prima ricostruzione sulla base dei chiarimenti forniti dalla Corte costituzionale nella sentenza 30 aprile 2015 n. 71. La Consulta — nel respingere le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, 113 Cost. — ha infatti qualificato, in discontinuità con il passato, il nuovo istituto come una «sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma». Pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia proposta dal privato proprietario di un fondo per l'annullamento della delibera con la quale la p.a., che lo aveva illegittimamente occupato, ne ha disposto l'acquisizione sanante, ove la controversia attenga esclusivamente alla quantificazione dell'importo dovuto in applicazione di detto articolo, non venendo in contestazione l'utilizzo, da parte dell'Amministrazione, di tale strumento né la legittimità dello stesso in relazione alla sussistenza dei presupposti normativamente previsti per la emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante: Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2015 n. 5530; Id., Sez. IV, 15 settembre 2016 n. 3878; Id., Sez. IV, 1 marzo 2017 n. 941.
[10] Cass., Sez. un., 25 luglio 2016 n. 15283.
[11] In tal senso, in dottrina, v. già R. Conti, Diritto di proprietà e Cedu. Itinerari giurisprudenziali europei. Viaggio fra carte e corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, Roma, 2012, 180, il quale evidenzia la distonia fra l’espressione “indennizzo” e l’espressione “risarcimento”, arrivando peraltro a ritenere che lo stesso uso del termine “indennizzo” vada letto alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale volta a parificare dal punto di vista sostanziale l’indennità espropriativa al risarcimento del danno da occupazione appropriativa.
[12] Nella giurisprudenza della Cassazione è consolidato l'indirizzo secondo il quale il giudice procede autonomamente alla determinazione dell’indennità di espropriazione, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, qualificate anche come «indicazioni», o meri «punti di vista». Si v. Cass. 9 ottobre 2019, n. 25381, Id., 6 giugno 2018, n. 14632.
[13] Cfr. R. Artaia, La giurisdizione in materia di indennizzo da acquisizione sanante, in Urb. app., 2016, 398 ss.
[14] Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4445; Id., 29 agosto 2013, n. 4318; Id., 25 giugno 2013, n. 3455.
[15] Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993.
[16] Sul tema, da ultimo, v. A. Scarpa, Lesione della proprietà e risarcimento del danno non patrimoniale, in Giust. Civ., 2019, 353 ss.
[17] Aspetto che, a sua volta, è causa di frequenti delicate questioni giuridiche, come i poteri in materia del giudice del silenzio e quelli del commissario ad acta. Si v. M. Mazzamuto, Il fantasma dell’occupazione appropriativa tormenta i giudici amministrativi, nota a Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514, in Giur. it., 2012, 2668 ss.
[18] Cass., Sez. un., 29 ottobre 2015, n. 22096.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2015, n. 5530; TAR Sardegna, sez. II, 12 gennaio 2016, n. 13; Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 7 febbraio 2017, n. 151.
[20] Cass., Sez. un., 29 ottobre 2015, n. 22096.
[21] Cass., sez. I, ord. 25 giugno 2020, n. 12619: «Nei giudizi per la determinazione dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere-dovere di individuare il criterio legale applicabile alla procedura ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, né alla quantificazione, neppure necessaria, della somma eventualmente contenuta nell'atto introduttivo del giudizio, dovendo questa essere liquidata in riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o rigetto della domanda a seconda che venga accertata come dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata».
[22] Si v., per tutti, G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505 ss.; R. Villata, La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai «Cavalieri dell’apocalisse»?, in Riv. dir. proc., 2017, 106 ss.
[23] Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1910; TAR Marche, sez. I, 24 luglio 2019, n. 508.
[24] Così, infatti, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2014, n. 993.
[25] Cfr. A. Giannelli, Indennizzi da attività illecita delle pubbliche amministrazioni: una nuova “rete di contenimento”?, in Dir. soc., 2020, 509.
[26] Si è visto come in alcuni casi la giurisprudenza ha ritenuto sussistente la giurisdizione esclusiva del g.a., in caso di ottemperanza.
[27] Sul punto sono sempre meritevoli d’estrema attenzione le recenti osservazioni, favorevoli alla prima prospettiva, di R. Villata, Processo amministrativo, pluralità delle azioni, effettività della tutela, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di F.G. Scoca, che il chiaro Autore mi ha cortesemente consentito di leggere in anteprima.
Sospensione cautelare di legge regionale da parte della Corte costituzionale (Nota a Corte cost. 14 gennaio 2021 n. 4)
di Elisabetta Lamarque
Sommario: 1. Premessa - 2. I fatti - 3. La legge sospesa: c’è sempre una prima volta - 4. La “profilassi internazionale”: una materia sconfinata.
1. Premessa.
La pandemia da coronavirus sta mettendo alla prova ogni aspetto della vita istituzionale e sociale del nostro Paese, e porta allo scoperto, evidenziandoli, tutti gli snodi che già prima dell’emergenza si presentavano come più deboli o problematici.
Non sfugge a questo destino neanche il tema, storicamente sempre aperto, dei rapporti tra i livelli di governo[1]. Nella seconda fase dell’emergenza, anzi, le tensioni tra il governo centrale e quelli regionali sembrano essersi acuite, e tendono sempre più spesso a essere trasferite, da entrambe le parti, dalla sede istituzionale a quella giudiziaria, alla quale tra l’altro vengono sempre chieste risposte immediate, adottate in via cautelare, in quanto ragionevolmente ritenute le uniche idonee a tutelare in modo effettivo gli interessi relativi alla salute e all’economia che di volta in volta si ritengono lesi. Nel momento in cui si scrive, ad esempio, sembra avviata alla chiusura in sede politica la vicenda della erronea classificazione della Regione Lombardia in zona rossa, che tuttavia in prima battuta, come è noto, la Regione aveva voluto inspiegabilmente giurisdizionalizzare con un ricorso al Tar Lazio nei confronti del provvedimento ministeriale.
Il contenzioso tra lo Stato e le Regioni non è rimasto limitato alla giurisdizione amministrativa, ma è già arrivato alla giurisdizione costituzionale, nonostante i contrari auspici della migliore dottrina, che aveva fin dai primi tempi della pandemia auspicato un massiccio ricorso al principio della leale collaborazione proprio per evitare questo esito[2].
La Corte costituzionale, investita di un ricorso statale in via principale contro una legge regionale, ha voluto dare una risposta adeguata all’emergenza in cui ormai da molti mesi viviamo, e cioè tempestiva nei tempi e ferma nei contenuti.
Per raggiungere questo risultato la Corte, con l’ordinanza n. 4 del 2021, che qui si commenta, ha messo in campo contemporaneamente due potenti strategie.
Dal punto di vista processuale essa ha per la prima volta utilizzato un potere, quello di sospendere in via cautelare la legge impugnata, che le era stato conferito, dopo la riforma costituzionale del 2001, dalla cosiddetta Legge La Loggia del 2003[3]. Su questo profilo ci si soffermerà nel par. 3.
Dal punto di vista sostanziale, la Corte ha deciso il dubbio di costituzionalità in modo netto, utilizzando un titolo di competenza esclusiva dello Stato – la “profilassi internazionale” (art. 117, secondo comma, lett. q) – che ‘taglia la testa al toro’ non solo per la questione di legittimità costituzionale attualmente sottoposta al suo giudizio, ma anche per tutte le possibili future questioni di legittimità costituzionale di leggi regionali che volessero intervenire su aspetti del contenimento dell’emergenza sanitaria al di fuori dei limiti tracciati dalla legge statale. Questo secondo aspetto sarà brevemente trattato nel par. 4.
2. I fatti.
Nella prima fase dell’emergenza sanitaria la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste non si era segnalata per un particolare interventismo[4]. La crisi istituzionale che l’aveva travolta alla fine del 2019, con le dimissioni del Presidente della Giunta, di due assessori e di un consigliere, indagati per gravi reati[5], e con la conseguente successiva prorogatio della Giunta e del suo Presidente solo per l’ordinaria amministrazione, aveva certamente contribuito a far sì che le iniziative di questa Regione anche in relazione all’emergenza sanitaria rimanessero contenute almeno fino alle nuove elezioni, che si sono poi svolte il 20-21 settembre 2020.
Nel frattempo, la legislazione statale, dopo alcune oscillazioni, è pervenuta a una stabile definizione dei poteri delle Regioni nella gestione della pandemia. Ora le Regioni, “informando contestualmente il Ministro della salute” possono “introdurre misure derogatorie restrittive” rispetto a quelle disposte dai d.P.C.m. che via via si succedono nel tempo, ovvero “anche ampliative”, ma “nei soli casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d’intesa con il Ministro della salute”[6].
In questo quadro, sopraggiunge – nell’imminenza delle festività natalizie ed evidentemente con il principale obiettivo di salvare la stagione sciistica – la legge regionale valdostana che sarà poi oggetto dell’ordinanza della Corte costituzionale che qui si commenta, la quale si configura come una sorta di legge generale sulla gestione degli aspetti sanitari, economici e sociali della pandemia nel territorio della Regione autonoma[7]. In essa, tra le altre cose, si elencano alcune attività che restano comunque permesse nel rispetto dei protocolli di sicurezza, altre che sono permesse salvo che il Presidente della Giunta regionale voglia sospenderle (ad esempio le attività commerciali al dettaglio, i servizi di ristorazione, le attività artistiche e culturali, le strutture ricettive e le attività turistiche, oltre che naturalmente gli impianti a fune ad uso sportivo o turistico-ricreativo[8]), e altre ancora che il Presidente della giunta può autorizzare (gli eventi e le manifestazioni pubbliche[9]); e si prevede inoltre che la Giunta possa modificare i protocolli di sicurezza vigenti in tutto il territorio nazionale[10].
L’11 dicembre 2020 la legge regionale è pubblicata sul Bollettino ufficiale, ed è impugnata dal Governo a strettissimo giro, con ricorso notificato e depositato il 21 dicembre. Il ricorso contiene anche una motivata istanza di sospensione.
Anche i tempi della ‘lavorazione’ del ricorso della trattazione dell’istanza di sospensione da parte della Corte costituzionale sono straordinariamente ristretti: il ricorso è pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 dicembre e la camera di consiglio con l’audizione degli avvocati delle parti viene fissata per il 13 gennaio 2021[11].
Il 14 gennaio il collegio assume la decisione e nella medesima giornata l’ordinanza viene depositata nella cancelleria della Corte costituzionale. La stessa ordinanza dà conto che l’udienza per la discussione sul merito del ricorso è fissata per il prossimo 23 febbraio. Tuttavia, il Ministro degli Affari regionali e le autonomie ha già dichiarato di volere proporre al Consiglio dei ministri la rinuncia al ricorso, allo scopo di incentivare una gestione condivisa e non conflittuale dell’emergenza sanitaria con tutte le Regioni[12].
3. La legge sospesa: c’è sempre una prima volta.
Come si è detto, la Corte costituzionale, con l’ordinanza in commento, sospende in via cautelare l’efficacia di una legge, facendo per la prima volta uso di uno strumento di cui è dotata ormai da molti anni. Lo strumento ora è disciplinato dall’art. 35 della stessa legge sul funzionamento della Corte costituzionale, dove la sospensione della legge (statale o regionale, non è specificato) impugnata in via principale risulta subordinata (soltanto) al ricorrere di almeno una delle seguenti condizioni: o “il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica”, ovvero “il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini”[13]. La disposizione testualmente non richiede un’istanza di parte, e anzi sembra configurare il potere di sospensione come attivabile d’ufficio dalla Corte costituzionale; né impone la verifica dell’esistenza del fumus boni iuris, e cioè della valutazione sommaria della fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati.
L’ordinanza in commento, tuttavia, si esprime comunque sulla sussistenza del fumus di violazione, da parte della legge valdostana, della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “profilassi internazionale” (sul punto si tornerà infra nel par. 4) e, quanto al ricorrere degli altri presupposti previsti dalla legge, essa ritiene che sussistano, nel caso di specie, entrambi, argomentando come segue: innanzitutto essa rileva come “la legge regionale impugnata, sovrapponendosi alla normativa statale, dettata nell’esercizio della predetta competenza esclusiva, espone di per sé stessa al concreto e attuale rischio che il contagio possa accelerare di intensità, per il fatto di consentire misure che possono caratterizzarsi per minor rigore; il che prescinde dal contenuto delle ordinanze in concreto adottate”; di conseguenza, tutti i presupposti per l’esercizio del potere cautelare risultano soddisfatti, perché “le modalità di diffusione del virus Covid-19 rendono qualunque aggravamento del rischio, anche su base locale, idoneo a compromettere, in modo irreparabile, la salute delle persone e l’interesse pubblico ad una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia, peraltro non preclusiva di diversificazioni regionali nel quadro di una leale collaborazione”.
La motivazione sembra ineccepibile. In effetti, l’“interesse pubblico a una gestione unitaria a livello nazionale” di una epidemia che ha dimensione planetaria e ha ripercussioni immediate sul diritto alla salute e sullo stesso diritto alla vita dei consociati sarebbe stato un ottimo caso di scuola per illustrare agli studenti di un corso di giustizia costituzionale una possibile applicazione dell’istituto della sospensione cautelare di una legge regionale. Ma la realtà, purtroppo per noi, ha superato ancora una volta la fantasia degli interpreti.
Finora casi così estremi non si erano presentati e dunque il procedimento per la sospensione cautelare della legge impugnata era stato attivato una volta sola, e giustamente con esito negativo[14]. L’istanza di sospensione, che pure spesso le parti hanno avanzato in passato, il più delle volte era stata dichiarata assorbita da una tempestiva decisione sul merito delle questioni sollevate. Così era accaduto, ad esempio, nella nota sentenza del 2018 sulla normativa statale in tema di obblighi vaccinali impugnata dalla Regione Veneto[15]. Si era così correttamente parlato di un istituto ormai caduto in una sorta di “desuetudine applicativa”[16].
In una situazione di emergenza sanitaria come quella attuale – che la stessa Corte costituzionale ha già definito come “assolutamente eccezionale”[17] – l’istituto è stato rispolverato e ha potuto dimostrare di essere utile e forse anche necessario.
In ragione di ciò possono ora anche dirsi definitivamente superati tutti i dubbi che in dottrina avevano accompagnato la previsione della possibilità di sospendere l’efficacia della legge all’interno dei giudizi di legittimità costituzionale in via principale o di azione.
Lo stesso iter legislativo che aveva poi dato vita alla legge La Loggia aveva sul punto visto diverse incertezze ed era stato estremamente faticoso[18]. I dubbi immediatamente sollevati dagli studiosi si ponevano su vari piani. Si era notato, innanzitutto, che la disposizione sembra tradire il carattere di ‘giudizio di parti’ del giudizio di legittimità costituzionale in via principale: e questo non solo perché la sospensione può prescindere dall’istanza del ricorrente, potendo essere disposta d’ufficio dalla Corte costituzionale[19], ma soprattutto perché i presupposti per il suo esercizio, non riguardando i criteri per la distribuzione delle competenze legislative fra Stato e Regione, possono non coincidere con i motivi del ricorso. La disposizione, anzi, attribuisce alla Corte un potere davvero singolare – sconosciuto nel giudizio incidentale[20] – autorizzandola a disporre la sospensione della legge impugnata ultra petita in ogni senso: sia, come si è detto, perché la sospensione potrebbe non essere stata sollecitata dal ricorrente, sia perché nel ricorso introduttivo potrebbe non esserci neanche alcun cenno al fatto che la legge impugnata arrechi pregiudizio all’interesse pubblico, all’ordinamento giuridico della Repubblica o ai diritti dei cittadini.
Il secondo motivo di perplessità derivava dalla constatazione che sarebbe stato difficile immaginare – allora! – che in un sistema di giustizia costituzionale come il nostro, in cui convivono accesso diretto e accesso incidentale, potesse mai verificarsi l’eventualità, prospettata dalla disposizione in commento, che il pregiudizio per i diritti dei cittadini arrecato da una disposizione di legge si riveli, oltre che grave, anche “irreparabile”. Per ogni violazione concreta di un diritto costituzionale, si diceva, resta infatti sempre aperta per l’individuo, pur nelle more del giudizio in via principale, la via del ricorso a un giudice comune il quale, prima di confermare l’applicazione della legge di dubbia costituzionalità, sarà tenuto a sospendere il giudizio in corso e a sollevare l’incidente di costituzionalità di fronte alla Corte. Un simile argomento, tuttavia, è oggi stato spazzato via dai fatti, se si pensa alla irreparabilità del pregiudizio arrecato al diritto alla salute dei consociati che una mala gestione dell’epidemia immediatamente, e irreparabilmente, produce.
L’ultima serie di dubbi – a parere di chi scrive i più seri[21] – riguardava la conformità a Costituzione della disposizione in commento, in quanto l’attribuzione al giudice costituzionale del potere di sospensione della legge avrebbe forse dovuto avvenire con legge costituzionale, ai sensi dell’art. 137, primo comma, Cost. Se infatti si interpreta il primo comma dell’art. 137 come non limitato ai profili dell’accesso alla Corte[22], si può sostenere che il sub-procedimento volto alla sospensione della legge è una delle “forme” dei giudizi di legittimità costituzionale che richiedono di essere previste e regolate dalla fonte superprimaria[23], e concludere così che la disposizione in commento viola la riserva di legge costituzionale[24]. Il tutto, ovviamente, se si ritiene che il potere di provocare la cessazione definitiva dell’efficacia della legge dichiarata incostituzionale attribuito alla Corte costituzionale dall’art. 136 Cost. non comprenda in sé il potere di sospenderne provvisoriamente l’efficacia[25].
4. La “profilassi internazionale”: una materia sconfinata.
L’ordinanza in commento compie una scelta forte, e probabilmente irreversibile, nel momento in cui afferma, in modo netto e sintetico, adeguato alla valutazione sommaria del merito del ricorso tipica di un giudizio cautelare, che “la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera q), Cost.”.
La Corte costituzionale, dunque, rifiuta di distinguere tra diverse materie, eventualmente appartenenti a diversi titoli di competenza, statale e regionale, gli interventi legislativi nei differenti settori materiali (commercio, turismo e salute, ad esempio) che trovano la loro causa nell’emergenza sanitaria; e, soprattutto, non fa alcun cenno al possibile, naturale, inquadramento finalistico di tali interventi legislativi nell’unica materia della “tutela della salute”, di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni.
La Corte sceglie invece di tagliare via di netto ogni possibile competenza regionale e di indicare come unico titolo di competenza legislativa, per qualsiasi intervento volto ad affrontare la pandemia, una materia di competenza esclusiva dello Stato.
Il risultato è triplice. Innanzitutto in questo modo la Corte fa chiarezza una volta per tutte, in un periodo storico dove l’incertezza è la cifra che caratterizza la vita istituzionale, oltre che sociale del Paese, riportando a livello unitario le scelte su come gestire l’emergenza sanitaria. In secondo luogo, essa evita di imporre all’azione statale di seguire i moduli della leale collaborazione, dato che viene esclusa la sussistenza di quell’intreccio di competenze che impone, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’attivazione degli strumenti di leale collaborazione tra Stato e Regioni nell’attuazione della legge[26]. In terzo luogo, e si tratta di un risultato non di poco conto, la Corte indirettamente giustifica l’impiego, nella gestione dell’emergenza, della normativa statale di rango secondario, dato che l’art. 117, sesto comma, Cost. assegna allo Stato la potestà regolamentare, a rigore, soltanto nelle materie di sua competenza esclusiva[27].
Il costo di questi impagabili pregi – un costo necessario, a parere di chi scrive – è, ovviamente, una forzatura del dato testuale, perché la voce dell’elenco delle competenze esclusive dello Stato a cui la Corte costituzionale fa riferimento difficilmente sembra potersi prestare, letteralmente, all’uso che la Corte ne fa nell’ordinanza in commento.
Secondo il glossario del più recente rapporto (dicembre 2020) dell’ufficio del Ministero della Salute, direzione generale della prevenzione sanitaria, Coordinamento tecnico degli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera e dei
Servizi territoriali per l’Assistenza Sanitaria al personale Navigante, marittimo e dell’aviazione civile (USMAF-SASN), la “profilassi internazionale” è, propriamente, l’“attività di profilassi delle malattie infettive e diffusive, quarantenarie e non, che si svolge nei porti, negli aeroporti e nei punti di confine terrestri dislocati sul territorio”[28]. E questo è, del resto, il significato che l’espressione assume nel nostro ordinamento legislativo fin dagli Settanta del secolo scorso, quando nei primi decreti di trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni si faceva riferimento alla “profilassi internazionale” come attività mantenuta a livello centrale[29], e che si conserva costantemente nel tempo, passando nei secondi decreti di trasferimento[30], nella legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale[31] e poi nella riforma Bassanini del 1998[32], per riversarsi quindi inalterata nella riforma costituzionale del 2001. Nell’art. 117, secondo comma, Cost., tra l’altro, questo significato è confermato dalla sedes materiae: la lett. q), infatti, elenca, prima della “profilassi internazionale”, le materie delle “dogane” e della “protezione dei confini nazionali”, facendo intendere che anche la “profilassi internazionale”, come inequivocabilmente le altre due materie, indichi un’attività che si svolge alla frontiera, ai bordi, del territorio nazionale, e che proprio per tale ragione non può non essere di competenza esclusiva dello Stato.
C’è da dire, tuttavia, che la giurisprudenza costituzionale aveva, negli anni, già provveduto ad allargare progressivamente la nozione, occupandosi in particolare della profilassi veterinaria. In alcune pronunce degli anni Novanta il significato è ancora quello originario dei decreti di trasferimento delle funzioni amministrative, perché la profilassi internazionale veterinaria, di competenza dello Stato, sembra coincidere con l’attività di controllo, da parte degli uffici veterinari di dogana interna, di porto e di aeroporto, degli animali che comunque provengono dall’esterno del territorio nazionale[33]. L’estensione della nozione si verifica dopo la riforma costituzionale del 2001, perché la “profilassi internazionale”, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. q), sembra comprendere anche tutti quei controlli veterinari che, pur avvenendo sui capi di bestiame nati e cresciuti in Italia, sono imposti dall’esterno, e cioè da norme dell’Unione europea o internazionali[34]. Infine, nella già richiamata sentenza sulle vaccinazioni obbligatorie del 2018, la nozione esce dal campo veterinario, e abbraccia la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive dell’uomo, ma con l’identico significato già presente nella giurisprudenza costituzionale pregressa, di una profilassi qualificabile come internazionale solo in quanto imposta, o consigliata, in “programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale”[35].
L’ulteriore allargamento della nozione è presente in alcune recenti pronunce del giudice amministrativo rese in relazione proprio alla pandemia, nelle quali tuttavia vengono richiamati anche altri titoli di competenza statale esclusiva o concorrente[36], oltre che in qualche (saggio) suggerimento proveniente dalla dottrina[37]. Si può dire allora che l’ordinanza in commento rappresenta la punta estrema di questo processo, perché essa intende per “profilassi” non soltanto la previsione di controlli e precauzioni di tipo medico, ma ogni intervento legislativo volto a evitare in qualunque modo – anche attraverso il divieto di assembramenti, ad esempio – il contagio; e riferisce evidentemente l’aggettivo “internazionale” non alla dimensione della normativa che impone tale profilassi, bensì alla dimensione stessa dell’evento da fronteggiare (la pandemia, appunto).
L’operazione interpretativa compiuta ora dalla Corte, benché estrema, è a parere di chi scrive, come si diceva, giustificata non solo dalla colpevole assenza, nell’elenco dell’art. 117 Cost. delle competenze riservate in via esclusiva allo Stato, di una materia che invece il decreto Bassanini n. 112 del 1998 manteneva allo Stato con il nome “sorveglianza” e “controllo” “di epidemie e ed epizozie di dimensioni nazionali e internazionali”[38]; ma anche dallo stesso carattere estremo della situazione nazionale e internazionale in atto, che richiede di evitare il più possibile la conflittualità tra livelli di governo, ed esige quindi che sia affermato un chiaro e netto criterio di riparto delle competenze normative per fronteggiarla.
[1] Sul tema si vedano almeno, con varietà di accenti, G. Silvestri, Covid-19 e Costituzione, in www.unicost.eu; G. Falcon, Dall’emergenza COVID, pensando al futuro del sistema sanitario, in Le Regioni, 2020, pp. 453 ss.; F. Cortese, Stato e Regioni alla prova del coronavirus, in Le Regioni, 2020, pp. 3 ss.; C. Padula e G. Delledonne, Italy: The Impact of the Pandemic Crisis on the Relations Between the State and the Regions, in Coronavirus and the Law in Europe, a cura di E. Hondius – M. Santos Silva – C. Wendehorst – P. Coderch – A. Nicolussi – F. Zoll, Intersentia, 2020, all’indirizzo https://www.intersentiaonline.com/bundle/coronavirus-and-the; Id., Accentramento e differenziazione nella gestione dell’emergenza pandemica, in Le Regioni, 2020, pp. 753 ss.; A. Morelli, I rapporti tra i livelli di governo alla prova dell’emergenza sanitaria, in Quad. cost., 2020, pp. 747 ss.; B. Baldi e S. Profeti, Le fatiche della collaborazione. Il rapporto stato-regioni in Italia ai tempi del COVID-19, in Riv. it. pol. pubbl, 2020, pp. 277 ss.
[2] M. Ruotolo nell’intervista di L. Milella in La Repubblica del 25 febbraio 2020.
[3] L. 5 giugno 2003, n. 131, recante “Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”.
[4] V. Cavanna, Risposte regionali alla pandemia da COVID-19: il caso della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, in Le Regioni, 2020, pp. 931 ss.
[5] G. Tarli Barbieri, La crisi politico-istituzionale valdostana nella crisi del regionalismo italiano, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo - Tomo V – La democrazia italiana in equilibrio, Collana di studi di Consulta OnLine, 2020, pp. 10 ss.
[6] Art. 1, c. 16, del d.l. 16 maggio 2020, n. 33, recante “Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, convertito dalla l. 14 luglio 2020, n. 74, come modificato dall’art. 1, c. 2, lett. a), del d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito dalla l. 27 novembre 2020, n. 159: “Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni monitorano con cadenza giornaliera l’andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio sono comunicati giornalmente dalle regioni al Ministero della salute, all’Istituto superiore di sanità e al comitato tecnico-scientifico di cui all’ordinanza del Capo del dipartimento della protezione civile del 3 febbraio 2020, n. 630, e successive modificazioni. In relazione all’andamento della situazione epidemiologica sul territorio, accertato secondo i criteri stabiliti con decreto del Ministro della salute 30 aprile 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 2 maggio 2020, e sue eventuali modificazioni, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, può introdurre misure derogatorie restrittive rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2, ovvero, nei soli casi e nel rispetto dei criteri previsti dai citati decreti e d’intesa con il Ministro della salute, anche ampliative”.
[7] Si tratta della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 9 dicembre 2020, n. 11, recante “Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza”, che il Governo ha impugnato poi sia per intero sia in riferimento agli artt. 2, cc. 4, 6, 7, 9, da 11 a 15, 18 e da 20 a 25, e 3, c. 1, lett. a).
[8] Art. 2, rispettivamente cc. 11, 12, 14, 15,16 e 24.
[9] Art. 2, c. 9.
[10] In particolare art. 4.
[11] L’art. 21 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, rubricato “Istanza di sospensione”, prevede quanto segue: “Ove sia proposta istanza di sospensione ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il Presidente, sentito il relatore, convoca la Corte in camera di consiglio qualora ravvisi l’urgenza di provvedere. Con il medesimo provvedimento il Presidente può autorizzare l’audizione dei rappresentanti delle parti e lo svolgimento delle indagini ritenute opportune. La cancelleria comunica immediatamente alle parti l’avvenuta fissazione della camera di consiglio e l’eventuale autorizzazione all’audizione”.
[12] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/01/19/covid-boccia-proporro-ritiro-impugnativa-legge-anti-dpcm-vda_ee4b8da9-5c20-4871-85d2-f2cd7c8e04e8.html
[13] L’art. 9 della legge, rubricato “Attuazione degli articoli 123, secondo comma, e 127 della Costituzione, in materia di ricorsi alla Corte costituzionale” dispone, al c. 1, la sostituzione dell’art. 35 della l. 11 marzo 1953, n. 87, recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, con il testo che segue: “Art. 35. – 1. Quando è promossa una questione di legittimità costituzionale ai sensi degli articoli 31, 32 e 33, la Corte costituzionale fissa l’udienza di discussione del ricorso entro novanta giorni dal deposito dello stesso. Qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, trascorso il termine di cui all’articolo 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 40. In tal caso l’udienza di discussione è fissata entro i successivi trenta giorni e il dispositivo della sentenza è depositato entro quindici giorni dall’udienza di discussione”.
[14] Corte cost., ord. n. 107 del 2010.
[15] Corte cost., sent. n. 5 del 2018 (che richiama, nel medesimo senso, Corte cost., sentt. nn. 141, 145 e 155 del 2016).
[16] C. Caruso, La garanzia dell’unità della Repubblica. Studio sul giudizio di legittimità costituzionale in via principale, Bologna, 2020, p. 159.
[17] Corte cost., sent. n. 174 del 2020.
[18] Nel disegno di legge deliberato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 19 aprile 2002, e poi modificato prima della sua presentazione in Senato, infatti, si prevedeva che l’efficacia della legge impugnata restasse automaticamente sospesa fino alla decisione della Corte (e la previsione era stata criticata da M. D’Amico, Corte costituzionale e riforma costituzionale del Titolo V: adeguamenti ragionevoli e disposizioni problematiche, in Federalismi.it, pp. 52-53 e A. Ruggeri, Ancora sul disegno di legge La Loggia (postilla di aggiornamento in tema di fonti e di controlli), ivi, p. 31). Il disegno di legge presentato al Senato il 26 giugno (AS 1545) non conteneva alcun accenno alla sospensione della legge, né automatica né su ordine della Corte costituzionale; mentre solo in sede di commissione referente alla Camera dei deputati (AC 3590) è stato introdotto il potere della Corte di sospendere d’ufficio l’esecuzione della legge impugnata, e solo in seguito è stato completato l’attuale elenco dei presupposti che legittimano l’esercizio del potere. Sui lavori preparatori e sulle critiche dottrinarie all’istituto si rinvia alla completa trattazione di C. Caruso, La garanzia dell’unità della Repubblica. Studio sul giudizio di legittimità costituzionale in via principale, cit., pp. 157 ss.
[19] F. Drago, I ricorsi in via principale nel quadro del novellato Titolo V, in Federalismi.it, pp. 26-27.
[20] Ma nel giudizio in via incidentale le esigenze di tutela cautelare immediata del diritto costituzionale possono essere fatte valere davanti al giudice comune il quale, nelle more dell’incidente di costituzionalità da lui stesso sollevato, può temporaneamente disapplicare la legge della cui costituzionalità egli dubita e assicurare così una tutela effettiva del diritto costituzionale fatto valere in giudizio (sul punto sia consentito il rinvio a E. Lamarque, Direct Constitutional Complaint and Italian Style do not Match. Why Is That?, in Dialogues on Italian Constitutional Justice. A Comparative Perspective, a cura di V. Barsotti, P. G. Carozza, M. Cartabia e A. Simoncini, London-New York-Torino 2020, pp. 152-153).
[21] E. Lamarque, Articolo 9, in L’attuazione del nuovo Titolo V, Parte seconda, della Costituzione. Commento alla legge ‘La Loggia’ (l. 5 giugno 2003, n. 131), a cura di P. Cavaleri ed E. Lamarque, Torino, 2004, p. 253.
[22] Sulle due possibili interpretazioni dell’art. 137, primo comma, Cost. si veda, per tutti, D. Nocilla, Aspetti del problema relativo ai rapporti fra le fonti che disciplinano la Corte costituzionale, in Giur. cost., 1968, pp. 2003 ss.
[23] A. Predieri, Appunti sui provvedimenti cautelari nella giustizia costituzionale, in La giustizia costituzionale, a cura di G. Maranini, Firenze, 1966, pp. 201 ss.
[24] Lo rilevava, benché in termini dubitativi, P. Caretti, Il contenzioso costituzionale. Commento all’art. 9, in Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, a cura di G. Falcon, Bologna, 2003, pp. 193-194.
[25] G. Falzone, L’inibitoria giudiziale dell’operatività degli atti giuridici, Milano, 1967, pp. 12 ss.
[26] Sul punto si veda, ad esempio e per tutte, la sentenza n. 72 del 2019: “Versandosi perciò in un caso in cui la legge statale interviene in un ambito caratterizzato da inscindibile sovrapposizione o intreccio di competenze («nodo inestricabile», secondo l’espressione utilizzata dalla sentenza n. 21 del 2016), è ineludibile, in applicazione del principio di leale collaborazione, la predisposizione, da parte della legge statale – pur pienamente legittimata a intervenire – di un’adeguata modalità di coinvolgimento delle Regioni, con l’obiettivo di contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle competenze in questione con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie”.
[27] C. Padula e G. Delledonne, Accentramento e differenziazione nella gestione dell’emergenza pandemica, cit., p. 763, notano che sul punto in realtà la giurisprudenza costituzionale registra qualche oscillazione, ma ricordano che se non si ritrova un titolo di competenza esclusiva dello Stato, e qualora si volessero qualificare i noti d.P.C.m. di gestione ordinaria dell’emergenza sanitaria come atti normativi, sorgerebbe il problema del rispetto dell’art. 117, sesto comma, Cost. Con la soluzione offerta dall’ord. n. 4 del 2021, invece, questo problema non si pone, qualunque sia la natura dei d.P.C.m.
[28] Relazione sui dati di attività degli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera (USMAF) e Servizi per l’Assistenza Sanitaria al personale Navigante, marittimo e dell’aviazione civile (SASN), dicembre 2020.
[29] Art. 6, n. 1), del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 4.
[30] Art. 30, lett. a), del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616.
[31] Art. 6, lett. a), della l. 23 dicembre 1978, n. 833.
[32] Art. 126 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, in attuazione del preciso disposto della legge delega (art. 1, c. 3, lett. i, della l. 15 marzo 1997, n. 59).
[33] Corte cost., sentt. nn. 382 e 458 del 1993 e n. 351 del 1999.
[34] Corte cost., sentt. n. 12 del 2004, n. 72 del 2013, n. 173 del 2014, n. 270 del 2016.
[35] Corte cost., sent. n. 5 del 2018, par. 7.2.3. Si veda poi, in senso analogo, Corte cost., sent. n. 186 del 2019.
[36] Tar Calabria-Catanzaro, sent. 9 maggio 2020, n. 841 (par. 18.2.); Tar Sicilia-Palermo, sent. 25 settembre 2020, n. 1952; Tar Calabria-Catanzaro, sent. 18 dicembre 2020, n. 2077 (par. 9), oltre che Cons. St, sez. I, parere 7 aprile 2020, n. 735 (par. 7.3.). Fanno cenno a questa posizione dei giudici amministrativi anche G. Scaccia e C. D’Orazi, Laconcorrenza fra Stato e autonomie territoriali nella gestione della crisi sanitaria fra uniformità e differenziazione, in Emergenza Covid-19 e ordinamento costituzionale, a cura di F.S. Marini e G. Scaccia, Torino, 2020, p. 115.
[37] R. Balduzzi, Ci voleva l’emergenza Covid-19 per scoprire che cos’è il Servizio sanitario nazionale? (con un approfondimento su un ente poco conosciuto, l’INMP), in Corti supr. e sal., n. 1/2020, p. 70 e l’intervista a C. Mirabelli, Gestione dell’emergenza. Il giurista Mirabelli: “Tra Stato e Regioni c’è un problema di competenze”, in www.agensir.it, 16 aprile 2020. Anche tra gli studiosi, tuttavia, nessuno si era spinto a ipotizzare la soluzione radicale fatta propria dall’ordinanza in commento, che individua nella “profilassi internazionale” l’unica materia coinvolta negli interventi di gestione della pandemia, salvo forse L. Dell’Atti e G. Naglieri, Le fonti della crisi. Fra esigenze unitarie e garanzie costituzionali nel governo dell’emergenza da Covid-19, in BioLaw Journal, 2/2020, par. 3.
[38] Art. 112, c. 3, lett. g), del d.lgs. n. 112 del 1998, cit.
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