ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sui vaccini una distribuzione «enormemente ineguale e ingiusta»
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1.Premesse 2.L’appello della «Fratelli tutti». 3.Una speranza delusa. 4.La fallacia della teoria della «mano invisibile». 5.La posizione della Chiesa. 6. Il potere incontrollato dell’economia 7. «Se li mori moiano»
1. Premesse.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha ribadito il 17 febbraio scorso, in un discorso al Consiglio di sicurezza, che la distribuzione dei vaccini nel mondo è stata «enormemente diseguale e ingiusta»: dieci Paesi si sono accaparrati il 75% di tutti i vaccini Covid-19 messi a disposizione dalle case farmaceutiche, mentre ce ne sono più di centotrenta che non hanno ricevuto neppure una dose.
Sulla stessa lunghezza d’onda la denuncia di the ONE Campaign – una ONG che si batte contro povertà e malattie prevedibili –, secondo cui le nazioni con le economie più avanzate nel mondo hanno accumulato un miliardo di dosi di vaccino anti-Covid in più del necessario, mentre molti di quelli in via di sviluppo non hanno ricevuto ancora neppure una fiala.
Da settimane Guterres invita i Paesi ricchi a non cedere alla logica del «nazionalismo dei vaccini» e, anche nel discorso del 17 febbraio, ha insistito perché si realizzi con urgenza «un piano globale delle vaccinazioni che riunisca tutti quelli che hanno il potere e le capacità scientifica, tecnologica e finanziaria richieste». «In questo momento critico», ha detto il segretario generale dell’ONU, l’equità sui vaccini è la più grande prova morale che la comunità globale si trova di fronte».
Parte da questo dato la proposta del presidente francese Emmanuel Macron, che ha chiesto all’Europa e agli Stati Uniti di inviare il 5% delle loro forniture ai Paesi che ne mancano del tutto. In realtà, la preoccupazione di Macron non è solo di ordine umanitario. I soli vaccini che stanno arrivando ai Paesi più poveri vengono dalla Russia e dalla Cina, che trovano in questo frangente un’occasione per allargare la loro influenza politica, specialmente in Africa. Ultimamente, però, il G7 sembra puntare, piuttosto che sulla redistribuzione dei vaccini, sul finanziamento del piano mondiale per la loro somministrazione, facendo esplicita menzione della necessità di aiutare i Paesi poveri, ma senza cambiare le regole di fondo che hanno determinato l’attuale squilibrio.
2.L’appello della «Fratelli tutti»
A pochi mesi dalla promulgazione dell’enciclica «Fratelli tutti» (4 ottobre 2020) l’emergenza della pandemia viene a confermare la tragica attualità della denunzia di papa Bergoglio e del suo appello a una svolta radicale nella gestione delle risorse a livello planetario. Proprio in apertura del documento si trova il riferimento a Francesco d’Assisi, il quale «invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» e «dichiara beato colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”» (n.1). È la logica del Vangelo, che il pontefice propone come sola risposta, anche a livello umano, al ritorno di un’idea dell’unità del popolo e della nazione» che «crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali» (n.11).
3.Una speranza delusa
Proprio nella «Fratelli tutti» si esprimeva la speranza che l’emergenza della pandemia costituisse un’occasione di fraternità: «Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme» (n.32).
La vicenda dei vaccini sta purtroppo dimostrando che il prevalere degli egoismi nazionali non è debellato dalla globalizzazione, anzi stabilisce con essa un’alleanza perversa e conferma le considerazioni più negative dell’enciclica. «Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il “divide et impera”» (n.12).
4.La fallacia della teoria della «mano invisibile»
Non è lo spettacolo che abbiamo avuto sotto gli occhi in queste settimane, dove, in stretta sinergia con gli egoismi nazionali, è apparso evidente il potere incontrollato delle multinazionali farmaceutiche, il cui fondamentale movente è di trarre il maggior profitto possibile dalla catastrofe umanitaria in atto?
Certo, dirà qualcuno, hanno fatto miracoli nel realizzare in pochi mesi quello che in tempi normali richiedeva un lavoro di anni. E che in questo abbiano avuto di mira il loro vantaggio economico non è una colpa, ma la logica dell’impresa in un sistema di mercato. E in fondo il loro interesse era lo stesso della comunità, confermando l’idea del fondatore dell’economia politica, Adam Smith, secondo cui c’è una «mano invisibile» che fa convergere gli interessi dei privati, pur caratterizzati da un fisiologico egoismo, nel bene di tutti.
Ma proprio quello a cui stiamo assistendo, a livello mondiale, nel caso della pandemia costituisce la più chiara smentita della teoria liberista di Smith. Lasciando il campo al gioco degli interessi particolari, il risultato è che quelli dei più forti prevalgono su quelli dei più deboli e, ben lungi dall’armonizzarsi con essi, in un bene comune in cui alla fine siano appagate le esigenze di tutti, li schiacciano senza pietà.
5.La posizione della Chiesa
Si verifica ciò che dice la «Fratelli tutti»: «Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti» (n.18). Centinaia di milioni di persone si stanno trovano ai margini della corsa alla salvezza fisica, perché sprovviste del denaro necessario ad avere quello che altri, più fortunati, sono riusciti ad avere, grazie alla maggiore capacità dei loro Paesi di pagare il prezzo richiesto dalle case farmaceutiche.
Davanti a questo vale la decisa presa di posizione della Chiesa, espressa nella «Fratelli tutti»: «Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti» (n.118).
6. Il potere incontrollato dell’economia
La logica puramente capitalistica delle multinazionali farmaceutiche – «gli affari sono affari…» – si è peraltro evidenziata anche nei confronti degli stessi Paesi ricchi, talora costretti a contratti iugulatori dalla loro condizione di debolezza verso chi deteneva il quasi monopolio di un farmaco indispensabile. Per non parlare dei ritardi e del mancato rispetto di questi accordi, di cui alcuni paesi sono stati vittime, protestando e minacciando azioni legali, ma trovandosi obbligati, alla fine, a fare buon viso a cattivo gioco.
È il prevalere del potere economico su quello politico, energicamente denunziato da papa Francesco, sia nell’ultima enciclica, sia nella precedente, «Laudato si’» , con il conseguente venir meno del primato del bene comune a favore degli interessi privati.
Non sembra esagerato prevedere che – se è vero, come sostengono alcuni scienziati, che il Covid-19 è solo il primo di una serie di virus che potrebbero in futuro aggredire l’umanità provocando pandemie non meno gravi di quella in corso – il mondo di domani è destinato ad essere controllato non dai politici, non dai militari, non dagli scienziati, ma dalle multinazionali farmaceutiche, da cui dipenderà la sopravvivenza fisica delle popolazioni.
C’è a chiedersi se sia questo il senso della giusta valorizzazione della proprietà privata. Citando la sua enciclica precedente, Francesco ha ricordato nella «Fratelli tutti» che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (n.120).
7. «Se li mori moiano»
Ma il deterioramento più grave non è quello che colpisce il sistema, bensì la regressione umana che questa situazione rivela. Le parole del segretario generale dell’ONU costituiscono una risposta a chi trovava pessimistica l’affermazione della «Fratelli tutti» secondo cui «nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono» (n.30).
Questo appare ancora più doloroso se si pensa che buona parte della popolazione privilegiata appartiene all’area occidentale del pianeta, cresciuta nella tradizione cristiana. Torna in mente il caso di quel frate, cappellano su una nave negriera, che nel suo diario, registrando con preoccupazione la difficile situazione in cui i naviganti si trovavano a causa di una bonaccia che immobilizzava il veliero, soprattutto la mancanza d’acqua, annotava con innocente franchezza il suo auspicio che il capitano decidesse di riservarla, da quel momento in poi, di riservarla solo all’equipaggio, non distribuendola più agli schiavi ammassati nella stiva. «E, se li mori moiano», concludeva, «ci vuol pazienza».
Può darsi che si trovino dei rimedi parziali alla grave situazione di discriminazione e di ingiustizia che abbiamo davanti agli occhi. Ma i problemi che essa evidenzia non si risolvono con mosse tattiche. È il sistema che va cambiato. Questo, però, esige un risveglio delle coscienze e una mobilitazione dell’opinione pubblica dei Paesi sviluppati – a cominciare dal nostro. L’alternativa è tra l’indifferenza di cui parla papa Francesco, e una rivolta etica (non necessariamente religiosa) che rifiuti di rassegnarsi a pensare che «se li mori moiano, ci vuol pazienza».
Recensione a G.Guizzi, Il «caso Balzac». Storie di diritto e letteratura, il Mulino, 2020, pp. 275
di Michele Perrino[*]
Se, nell’universo del diritto quale (almeno, essenzialmente) pratica sociale, neppure la scienza giuridica, quale scienza - appunto - eminentemente pratica è esclusivo appannaggio dei giuristi di professione, arricchendosi dell’apporto conoscitivo di tutti i soggetti in essa coinvolti; se ciò è vero, la più ampia e variegata “esperienza giuridica” è in realtà patrimonio, storia e vita quotidiana di tutti.
Ecco dunque come appaia naturale che, anche in letteratura, il cosiddetto romanzo realista non possa che incontrarsi con il diritto, quale componente immancabile dell’esperienza umana che quel romanzo vuole artisticamente presentare. Ed ecco anche come ben si spiega che Honoré de Balzac, da molti considerato il padre del romanzo realista, anche se di un realismo da “visionnaire passionné” (così come, è lo stesso libro qui recensito a rammentarlo, ebbe a definirlo Baudelaire) poiché intriso di partecipazione umana e presa di posizione morale, non potesse, nel redigere la monumentale opera della Comédie Humaine, non incontrare ad ogni passo l’esperienza giuridica, spesso ritratta nella dimensione delle amare vicissitudini dei protagonisti della stessa Commedia, quale metafora della vita umana. E ciò tanto più considerata la biografia di Balzac, che ricevette – malgrado l’innata vocazione letteraria – una iniziale formazione giuridica presso la Facoltà di diritto di Parigi dell’epoca e poi nel praticantato notarile e soprattutto da avvocato.
In questo fortunato e tutto speciale incrocio fra diritto e letteratura, ci guida con mano sapiente il recente lavoro di Giuseppe Guizzi dal titolo Il «caso Balzac». Storie di diritto e letteratura. E lo fa parlando non solo ai giuristi, ai quali pur offre una preziosa occasione “per guardare al diritto attraverso la lente della letteratura” balzachiana, con un felice esempio di Law and Literature. In effetti, dichiarato intento dell’Autore – professore ordinario e ben noto studioso di diritto commerciale, al tempo stesso impegnato intensamente e a vasto raggio nell’attività forense e in molto altro dell’esperienza professionale giuridica più qualificata – è principalmente quello di rivolgersi al “lettore meno avvertito sulle tematiche giuridiche”, per aiutarlo ad inquadrare il contesto storico-giuridico nel quale si muovono i personaggi della Comédie humaine e così cogliere i temi giuridici che sovente sono parte integrante della trama delle relative storie; e, al tempo stesso, a riconoscere, di quella esperienza giuridica e umana di cui la Commedia è il ritratto, “quanto ci può essere di comune e di eternamente irrisolto in ordine ai medesimi problemi quali si presentano ancora nel mondo moderno”: così da avvedersi di come il realismo dei romanzi balzachiani, pur descrivendo una realtà storicamente individuata, anche sotto il profilo delle vicende giuridiche che ne travagliano i personaggi, attinga in effetti, anche sotto il profilo del diritto e della sua umana esperienza, una “verità interiore” ben più duratura della realtà storica descritta (è ancora il libro di cui si scrive a ricordarlo, citando le parole usate da Hugo von Hofmannsthal, nell’introdurre l’edizione tedesca della Comédie del 1908).
La sterminata produzione di Balzac si svolge al tempo della c.d. Monarchia di luglio (1830-1848); ma le vicende narrate affrontano temi giuridici con radici profonde nella evoluzione normativa francese ed europea di tanti decenni addietro: dalle prime forme di statalizzazione del diritto e proto-codificazione, con le due Ordonnance di Luigi XIV, quella de commerce del 1673 (c.d. Code Savary) e l’ordinanza sulla navigazione marittima del 1681, nel campo specifico del diritto degli affari, e con l’affermazione del primato della legge sul diritto durante l’Ancien Régime, fino alla convulsa produzione normativa a ridosso della Rivoluzione francese e poi alla stagione napoleonica ed ai monumenti giuridici del Code civil del 1804 e del Code de commerce del 1807, pur sempre in chiave di primazia del sovrano e della legge sul diritto, con definitiva realizzazione dell’assolutismo giuridico, ancorché raccogliendo in parte i frutti della Révolution, sul piano dei principi illuministici di autonomia e razionalismo; per giungere alla Restaurazione e infine, appunto, al Regno di Luigi Filippo, coevo all’opera balzachiana; con un passaggio progressivo dalla difficile coesistenza di un diritto consuetudinario (Droit coutumier) di matrice germanica, prima radicato nella Francia settentrionale, con un diritto scritto promanante dal sovrano (Droit écrit), in precedenza più diffuso a sud del Paese, fino alla assoluta prevalenza del secondo sul primo.
Di quella evoluzione Giuseppe Guizzi offre nel libro una rappresentazione accurata quanto suadente, ripartita per macrosettori del diritto privato patrimoniale – il diritto dei contratti, delle successioni, dell’intermediazione finanziaria, dell’iniziativa economica e della concorrenza, dell’insolvenza e del fallimento, del mercato bancario e mobiliare, con una fulminante incursione nella crisi della giustizia e nei meccanismi (spesso squilibrati ed illusori) di risoluzione negoziata delle controversie per via di transazione – e svolta in costante contrappunto (di qui lo speciale fascino della ricostruzione, poiché ancorata a volti e storie umane, ancorché letterarie) con le opere e i personaggi fondamentali di Balzac.
Così, l’illusorietà degli astratti fondamenti illuministici della disciplina del contratto nel Code civil, in chiave di autonomia e capacità razionale del soggetto di autodeterminarsi, nel risolversi facilmente - in assenza di meccanismi di riequilibrio dei rapporti effettivi di forza contrattuale - nell’ingiustizia concreta del contratto, si rispecchia nelle vicende de Il curato di Tours, parte debole delle macchinazioni negoziali intessute da mademoiselle Gamard, così come nella sperequata vendita dei gioielli della contessa de Restaud all’usuraio Gobseck, e ancora nell’acquisto a prezzo vile della collezione d’arte del musicista Pons da parte del mercante Magus in Le cousin Pons, profittando oltretutto della buona fede di Schumcke, amico del cedente; nonché nelle inique negoziazioni cui soggiace il tipografo David Séchard con il padre prima, poi con i propri concorrenti fratelli Cointet nelle Illusioni perdute.
Le lotte per l’accaparramento di eredità innescate dalla imperfetta disciplina successoria introdotta dal Code civil (nel compromesso politico fra il riconoscimento, di radice romanistica, della libertà individuale testamentaria e l’imposizione di limiti alla stessa libertà, onde scongiurare la caccia ai vecchi successibili di cui rendersi beneficiari, tutelare la conservazione dei patrimoni famigliari e assicurare l’adempimento del dovere di provvedere ai bisogni dei prossimi congiunti) è esemplificata, in Ursule Mirouët, nelle dolorose vicende del dottor Minoret e della protetta Ursule rispetto alle brame degli eredi legittimi del primo, e ancora una volta in Le cousin Pons, nelle traversie di Pons esposto alle mire ereditarie di madame Camusot.
Le pratiche usurarie capaci di essere attuate, sfruttando le pieghe della disciplina della concessione di credito e dei titoli cambiari dell’epoca – anch’essa puntualmente ricostruita da G.Guizzi –, da parte di avidi profittatori, trovano plastica rappresentazione nel personaggio già richiamato dell’usuraio olandese Gobseck, o nel vortice in cui cade la contessa de Vandenesse pur di consentire al suo amante di pagare le cambiali in Une fille d'Ève.
I problemi suscitati dalla inadeguatezza della disciplina introdotta dal Code de Commerce nel 1807 - malgrado il suo progetto innovatore - nel cogliere il passaggio da un modello a capitalismo prettamente commerciale ad una economia di produzione industriale, con lacune ardue da colmare, vengono incarnati nell’avventura imprenditoriale del profumiere César Birotteau, allorché questi si avventura in una nuova impresa produttiva in forma societaria con il proprio commesso; e ancora Illusioni perdute ritraggono l’infausta battaglia competitiva che vede David Sechard soccombere rispetto ai più aggressivi e spregiudicati concorrenti Cointet.
Gli effetti di una regolazione eccessivamente punitiva dell’insolvenza, con la previsione fra l’altro dell’arresto interinale del fallito e di una procedura a forte connotazione autoritativa, trovano espressione nelle vicende, tratte da Eugénie Grandet, di Victor Grandet e dei tentativi del fratello Félix (il Papà Grandet) di comporne l’insolvenza facendosi beffe dei creditori, cui fa da contraltare il generoso intervento di Eugénie nel ripianare i debiti del cugino Charles, figlio del fallito, onde fugare l’infamia pure su di lui ricaduta, che ne avrebbe precluso l’ambita ascesa sociale; ed è ancora César Birotteau a tornare qui, impersonando la figura del fallito ex commerciante di profumi convertitosi all’industria, ora precipitato nell’insolvenza all’esito di manovre azzardate e condotte ingannevoli attuate pur di giungere alla ricchezza.
Così come è di nuovo il Papà Grandet del romanzo Eugénie Grandet a formare il modello letterario dello speculatore senza scrupoli, in un periodo di forti tensioni della finanza pubblica e di mutamenti legislativi, dove alla più restrittiva regolamentazione introdotta da Napoleone del mercato mobiliare ufficiale risponde presto la formazione di un mercato parallelo e sregolato (la Coulisse), e dove diviene facile arricchirsi profittando della campagna di vendita dei beni sottratti dallo Stato al clero e dell’altalenante mercato dei titoli di debito pubblico; cui si aggiunge il ritratto del banchiere alsaziano Frédéric de Nuncingen, che compare sia in Le Père Goriot che ne La Maison Nucingen, autentico esempio di predatore finanziario senza scrupoli, ascritto da Balzac alla categoria dei banchieri bollati come “lupi cervieri”.
E tornano infine, nel tratteggiare la profonda crisi della giustizia dell’epoca, pur a fronte delle riforme napoleoniche, le vicende di David Séchard nelle Illusioni perdute, di César Birotteau, di Schmucke in Le cousin Pons; insieme a quelle de Il colonello Chabert, reduce di guerra creduto morto e poi in vario modo impedito a riprendere il suo posto nella famiglia e nella società, nonché alle traversie del retto giudice istruttore Jean-Jules Popinot ne L’interdiction, travolto da maneggi politico-giudiziari a vantaggio della marchesa d’Espard che briga per far interdire il marito; senza che alle disfunzioni della giustizia valgano a porre sempre rimedio le soluzioni compositive negoziate – di modo che non sempre “un cattivo accomodamento vale più di un buon processo”, secondo l’antico adagio che compare nelle Illusioni perdute – dato che la transazione, che è pur sempre un contratto, patisce di questo i possibili, sopra denunziati squilibri.
Ne risulta un animato affresco, insieme, dell’opera balzachiana e del suo scenario storico-giuridico, nel quale i problemi del diritto e della giustizia condizionano ad ogni passo vicende ed esiti dei rapporti umani. Balza altresì nitido, dalla chiara rappresentazione offerta nel libro di Giuseppe Guizzi, il giudizio dello scrittore Balzac sull’esperienza giuridica oggetto delle sue opere: un giudizio disincantato e pensoso, spesso negativo, al cospetto di un mondo in cui si può avere “ragione in fatto e torto in diritto”, dell’avidità dei protagonisti pronti a piegare le regole al proprio tornaconto, dell’impotenza e a volte sordità del sistema giudiziario; dove si assiste ad un aspro conflitto fra diritto e giustizia, in cui “non sempre l’assetto di interessi imposto dalla legge è necessariamente quello più giusto”, o in altre parole in cui il diritto non attinge la giustizia, vista – non senza echi giusnaturalistici – come quella “conforme alla natura delle cose”.
In questa sostanziale sfiducia balzachiana nella giustizia umana, oltre che la caduta generale dei costumi nella società protagonista dei suoi romanzi, innervata di cupidigia in una temperie culturale, quella della Monarchia di luglio, che appare guidata dalla parola d’ordine dell’Enrichissez-vous, il ceto dei giuristi è, come e più degli altri cittadini, chiamato sul banco degli imputati: fra notai distratti o non equidistanti, o che perfino fuggono con il denaro dei clienti; avvocati (con l’eccezione di Derville) impegnati nel sabotaggio dei procedimenti, nella produzione di cavilli e nell’avvio di contestazioni pretestuose; magistrati (anche qui con salvezza del buon giudice Popinot, che proprio perciò si vede “sistematicamente posposto nelle progressioni di carriera”) poco disponibili alle ragioni della giustizia e piuttosto “arsi dal fuoco dell’ambizione”; professori universitari – ma qui passando dall’opera balzachiana alla realtà dell’epoca, come ricostruita dall’Autore nel libro qui recensito – supinamente (anche qui, è ancora G.Guizzi a rammentarlo, con le dovute eccezioni, come quella di François Nicolas Bavoux, processato per aver osato segnalare ai suoi studenti la necessità di riforma di disposizioni del codice penale) ridotti al ruolo di pavidi dettatori ed esegeti pedissequi della norma imposta dal sovrano.
Di tutto ciò Giuseppe Guizzi ci consegna una ricostruzione attenta quanto misurata e fluida, ricca di richiami alla letteratura critica balzachiana, a quella storico-giuridica così come alla dottrina giuridica civilistica e commercialistica sia storica che contemporanea, senza che mai ne risulti appesantito il testo, quasi diremmo senza avvedercene, per lo più in agili note a piè di pagina, mentre fluisce la rappresentazione come se questa consistesse, oltre che in un raffinato saggio di diritto e letteratura – quale in effetti è –, per così dire anch’essa una prova di letteratura nei e fra i romanzi di cui si discorre; con corredo di richiami – pure questi quasi in sordina e solo per chi voglia coglierli – agli eclettici interessi dell’Autore, suscitati dalla ricchezza delle opere balzachiane richiamate poste a confronto con la sua sensibilità: come quando si interroga su quale trascrizione per pianoforte della settima sinfona di Beethoven sia eseguita da Ursule Mirouët nel romanzo omonimo, o approfondisce il senso per cui Balzac fa risuonare il movimento eroico della finale della quinta sinfonia dello stesso Beethoven nella mente di César Birotteau, allorché questi ottiene la riabilitazione dopo il suo fallimento, poco prima di morire sopraffatto dalle emozioni; o nelle citazioni filosofiche (Husserl, Gadamer, per dirne solo alcuni) e anche cinematografiche, dal Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin al Gordon Gekko del film Wall Street di Oliver Stone.
Altro non è da dire in una recensione, per non privare il lettore del piacere della sua lettura. L’intento che Giuseppe Guizzi dichiara in principio del volume – schermendosene, con la ritrosia e misura che gli conosciamo, come fosse un eccesso di ambizione – di attrarre i lettori ad una più estesa conoscenza dell’opera balzachiana, così anche da indurre gli editori ad una sua più ampia pubblicazione in lingua italiana, è - credo - pienamente raggiunto: a partire da chi scrive, che a Balzac si accostò anni addietro quasi per caso, attraverso quella commovente gemma che è Il colonnello Chabert. Al contempo, la lettura del volume è, per i giuristi che in varie vesti concorrono al farsi dell’esperienza giuridica, occasione per riflettere su modi e ragioni del proprio ruolo e contributo.
[*]Professore ordinario di diritto commerciale presso l'Univesità degli Studi di Palermo
Bruno Capponi intervista Gilda Policastro
Gilda Policastro è una studiosa di Letteratura italiana, una critica letteraria e una scrittrice. Ha pubblicato diversi saggi, libri di poesia, romanzi. Insegna scrittura creativa presso l’Accademia “Molly Bloom” (con sedi a Roma e Milano), cura la rubrica settimanale “La Bottega della poesia” per l’edizione romana de “La Repubblica”. Tiene seminari di Diritto e Letteratura presso l’Università Luiss-Guido Carli. Ad aprile uscirà il suo nuovo romanzo per La Nave di Teseo.
1) Cosa fa una letterata – poetessa, romanziera, critica – in un dipartimento di giurisprudenza?
C’è un aspetto destinale e uno occasionale. Il primo è legato a una mia passione molto precoce per la giustizia: il primo romanzo che ho letto da ragazzina è stato Delitto e castigo e ricordo discussioni interminabili con mio fratello maggiore su cosa fosse il “diritto”, inteso come possibilità o presunzione di conoscere, ed eventualmente perseguire, come pretende di fare Raskolnikov, il bene dell’umanità. Mi sarebbe piaciuto studiare Giurisprudenza, ma caso più unico che raro, la mia famiglia mi incoraggiò nella direzione della Letteratura, per cui ero evidentemente portata, stando agli insegnanti e ai voti del liceo. Grazie al mio secondo romanzo, che era ambientato all’Università e parlava anche di concorsi, mi sono ritrovata a un incontro con dei giuristi, tra cui il Prof. Capponi, che in quest’occasione veste gli inediti panni di intervistatore (sorrido). Da quell’incontro, l’idea di proporre agli studenti una serie di Testimonianze sul Diritto come tema letterario e, in seguito a un altro incontro decisivo, quello col Consigliere Alfredo Storto, che collabora con l’Accademia della Crusca, l’idea ulteriore di un ciclo di seminari sulla “semplificazione della lingua del Diritto”.
2) Quali considerazioni ti suggerisce la lettura delle sentenze della Corte di cassazione che hai discusso con i tuoi studenti?
Per un parlante comune, la lingua del diritto può risultare davvero oscura: ed è il motivo per cui gode di così cattiva fama presso gli scrittori. Nel mio percorso didattico, rileggo con gli studenti Boccaccio, Ariosto, Manzoni, e poi i grandi romanzieri moderni, da Dickens a Dostoevskij, arrivando naturalmente a Kafka, che mostra meglio di tutti l’ingranaggio perverso in cui ci può trascinare la mancata conoscenza della legge, anche dal punto di vista linguistico (com’è evidente, ad esempio, nella cavillosa spiegazione interna al romanzo delle parole che utilizza il custode a danno dell’uomo di campagna nella “parabola della legge”). Per un letterato, abituato a conoscere la lingua nei suoi aspetti “differenziali” (rispetto alla lingua della comunicazione corrente), non è poi così traumatico ritrovarsi di fronte a un testo altamente formalizzato, con una sintassi spesso tortuosa e delle parole che non sono di uso comune (i cosiddetti tecnicismi). Quello che mi sorprende di più è la difficoltà da parte degli specialisti di registrare e dar conto dei cambiamenti della lingua nel tempo: ma è un aspetto che riguarda finanche la poesia contemporanea, non solo i saperi e i linguaggi speciali. Un altro aspetto curioso è che a difendere la specificità della lingua del diritto e la necessità che rimanga distante dalla lingua “che si parla al bar” siano anche gli studenti, che probabilmente per i loro studi specialistici acquisiscono una precoce familiarità con gli strumenti e il linguaggio talvolta effettivamente impervio del diritto.
3) Nel 2015, una sentenza delle Sezioni Unite Civili ha deciso che gli atti del processo, e dunque anche la sentenza, non sono protetti dal diritto d’autore, e quindi possono essere replicati (copia-incollati) senza incorrere in violazioni. Che pensi di questa impostazione?
Non mi sorprende se penso alla concezione del diritto che ho visto più radicata, nei miei studi recenti sull’argomento. Un sapere millenario e pressoché immobile dal Placito Capuano alle sentenze dell’altro ieri che commentiamo in classe. Però, proprio in considerazione degli studi più aggiornati, ho preso a riflettere su quello che la linguista Patrizia Bellucci in un suo libro intitolato A onor del vero (fondamenti di linguistica giudiziaria), chiama “l’aspetto creativo” della formulazione di una sentenza. Se l’invito dei linguisti ai giuristi è a considerare una sentenza nel contesto particolare e a ricreare, di quel contesto, le specificità (culturali, sociali, politiche, caratteriali) in un senso latamente “letterario”, non capisco perché non si debba tutelare, di una sentenza, anche l’autorialità. Ma qui forse sono in gioco questioni troppo specifiche e il mio sapere si arresta sulla soglia.
4) Pur non essendo una giurista, sei una professionista della parola: come pensi debba essere redatta una sentenza per riuscire comprensibile?
Meglio di me lo hanno spiegato eminenti linguisti come Bice Mortara Garavelli, Tullio De Mauro e Luca Serianni: è necessario che la sentenza non replichi pedissequamente quegli stereotipi che hanno reso il linguaggio del diritto l’obiettivo polemico degli scrittori, dal latinorum manzoniano ai paradossi del Commissario Magrelli (alter-ego leguleio di uno dei più importanti poeti contemporanei). Dall’inversione dell’ordo naturalis (che è anche una tabe del “poetese”, ovvero della concezione della poesia più attardata e paludata) alla tendenza al nominalismo e all’astrazione, all’eccessivo impego di eufemismi, perifrasi, dittologie sinonimiche, arcaismi, tecnicismi e così via. È convinzione unanime che un modello di chiarezza e precisione ancora valido sia la Costituzione, che non a caso fu stesa da giuristi e linguisti insieme. Una riflessione molto importante che condivido da subito con gli studenti la mutuo da Gian Luigi Beccaria, che tra l’altro ha coniato la definizione di “linguaggi settoriali”: la lingua del diritto è un codice, quindi è pensata per una cerchia limitata di persone, e però per scopi che riguardano tutta la comunità. È un concetto fondamentale, che vale, in generale, per tutti i linguaggi speciali, dalla medicina all’economia: la precisione non deve andare a scapito dell’accessibilità e, aggiungeva De Mauro, se da parte dei parlanti deve esserci uno sforzo di acquisizione di competenze e di conoscenze, in generale, rispetto a tutti gli ambiti del sapere, chi detiene in partenza delle conoscenze specialistiche non deve far valere le proprie competenze come arma di potere e sopraffazione, ma metterle a servizio del bene comune.
4) Cosa pensi dei corsi universitari impartiti da remoto?
Nonostante viva, per lavoro, di fronte a uno schermo per la quasi totalità delle mie giornate (o forse proprio per questo), all’inizio per me è stato decisamente straniante rinunciare alla dimensione dell’incontro “reale” con la classe: ma credo di averci fatto presto l’abitudine e mi pare così sia stato a maggior ragione per le generazioni dei cosiddetti nativi digitali. Io la mia tesi di laurea l’ho scritta con un pc in prestito, perché ancora non ne avevo uno, e il mio primo cellulare l’ho avuto dopo la laurea. Pleistocene, rispetto alle competenze di mio nipote di sei anni, che manovra agilmente il pc e il telefono del papà da quando ne aveva tre. Dubito sia un vero problema, dal punto di vista dell’apprendimento, stare seduti alla scrivania di casa propria invece che su un banco in aula, specie per persone già adulte e formate come gli studenti universitari. Lo è di più per la socialità, che certamente è un nucleo importante delle nostre vite, ma in una emergenza sanitaria senza precedenti nella storia recente è stato un prezzo da pagare per tutti, e credo che stia alle famiglie non indulgere troppo alla retorica della giovinezza negata (dalla pandemia, più che dalle misure adoperata per contrastarla). Non siamo in guerra, per fortuna.
5. Alla luce dell’esperienza fatta in un dipartimento di giurisprudenza, cosa ti sentiresti di dire ai giovani giuristi?
Mi ha sorpreso molto vedere pochissime mani alzate quando ho chiesto chi avesse letto Delitto e castigo o Il Processo, quindi l’invito spero non troppo paternalistico è quello a conservare degli spazi di curiosità e di approfondimento della conoscenza non solo intesa in senso professionale o finalizzabile, ma anche come fonte di evasione e di godimento, perché la letteratura è anche, anzi, primariamente questo. Devo però anche confessare la soddisfazione provata nel ricevere la mail di un’ex studentessa, ormai laureata, che mi ringraziava per aver “declamato Eschilo in classe con tanta passione”. Magari non ho propriamente “declamato” (ma non ci giurerei…), e però è vero che la mia passione per la letteratura e il diritto viene anche dai miei trascorsi classici: confrontarmi con le aporie della tragedia, e col senso del tragico che si annida nell’esistenza, è stato per me uno dei momenti più alti della formazione e poterlo trasmettere ad altre generazioni, credo sia davvero un momento emozionante (un’emozione non “sentimentale”, ma “intellettuale”, come diceva un poeta a me caro, Nanni Balestrini). Il grande vantaggio dello studio è che puoi non smettere mai. Quanto all’insegnamento, non l’ho mai considerato un travaso di nozioni, ma un incontro stimolante al di qua come al di là della cattedra.
La confisca senza condanna nel giudizio di impugnazione [1]
di Pasquale Fimiani
Fin dalla sua introduzione l’art. 578-bis c.p.p. ha posto dubbi interpretativi relativamente alle tipologie di confische per le quali, in presenza di reato estinto, il giudice di appello o la Corte di Cassazione possono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato. Le questioni interpretative si sono ulteriormente ampliate a seguito della “spazzacorrotti” che ha modificato la norma estendendo i poteri del giudice dell’impugnazione in tema di confisca relativa a reato prescritto a quella prevista dall’art. 322-ter c.p. (anche quindi quella per equivalente). Temi sui quali le recenti sentenze Perroni delle Sezioni Unite del 2020 e Cipriani della quinta sezione del 2021 consentono di ricostruire un quadro sufficientemente omogeneo, sia pure con qualche chiaroscuro.
Sommario: 1. Premessa - 2. L’ambito di applicabilità dell’art. 578-bis secondo la sentenza Perroni -3. L’art. 578-bis e la confisca per equivalente - 4. L’art. 578-bis e la confisca facoltativa del profitto del reato prescritto - 5. Profili temporali dell’applicazione dell’art. 578-bis.
1. Premessa
Fin dalla sua introduzione con il d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21 (c.d. riserva di codice), l’art. 578-bis c.p.p. aveva posto dubbi interpretativi relativamente a:
1) le tipologie di confische per le quali, in presenza di reato estinto, il giudice di appello o la Corte di Cassazione possono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato ed in particolare la riferibilità della norma alla speciale confisca da lottizzazione urbanistica prevista dall’art. 44 TUE;
2) il rapporto tra l’art. 578-bis c.p.p. ed il principio di diritto affermato dalla sentenza Lucci delle Sezioni Unite, n. 31617/2015, secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma 2, n. 1, c.p., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.
Le questioni interpretative si sono ulteriormente ampliate a seguito della legge n. 3/2019 “spazzacorrotti” che ha modificato l’art. 578-bis c.p.p. estendendo i poteri del giudice dell’impugnazione in tema di confisca relativa a reato prescritto a quella prevista dall’art. 322-ter c.p. (anche quindi quella per equivalente).
Il punto di partenza per esaminare tali questioni è il dictum delle Sezioni Unite penali con la sentenza Perroni del 30 aprile 2020, n. 13539, relativa ad un ricorso avverso una sentenza di appello confermativa della condanna per il reato di lottizzazione abusiva (art. 44 d.P.R. n. 380/2001).
Le Sezioni Unite, superato il dubbio di costituzionalità dall’art. 578-bis c.p.p. per eccesso di delega prospettato dall’ordinanza di rimessione, hanno enunciato i seguenti principi di diritto:
«La confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001».
La sentenza, inoltre, ha ritenuto di non poter valutare l’illegittimità della statuizione della confisca urbanistica sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità evocato dall’ordinanza di rimessione come questione rilevabile d’ufficio ed ha tratto la conseguenza di sistema della inapplicabilità della confisca in primo grado se il reato è già prescritto in quella sede, temi entrambi non oggetto del presente intervento.
2. L’ambito di applicabilità dell’art. 578-bis secondo la sentenza Perroni
Il dubbio di applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca da lottizzazione abusiva veniva argomentato dall’ordinanza di rimessione [2] con la genesi della norma, frutto del trasferimento – ad opera dell’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 21/2018, attuativo della delega della riforma Orlando per la riserva di codice – del comma 4-septies dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992 in tema di confisca allargata.
Secondo tale comma, introdotto con la legge 21 ottobre 2017, n. 161 di riforma del Codice antimafia, «le disposizioni di cui ai commi precedenti, ad eccezione del comma 2-ter» (relativo alla confisca per equivalente) «si applicano quando, pronunziata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il giudice di appello o la Corte di cassazione dichiarano estinto il reato per prescrizione o per amnistia, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato».
L’art. 240-bis c.p. (parimenti riformulato e frutto del trasferimento dell’art. 12-sexies c.p. da parte del citato d.lgs. n. 21/2018), cui l’art. 578-bis c.p.p. fa richiamo, non contiene, a differenza dell’abrogato art. 12-sexies, riferimenti né all’art. 295 del d.P.R. n. 43/1973 (T.U. doganale), né all’art. 73, escluso il comma 5, del d.P.R. n. 309/1990 (T.U. stupefacenti). Ciò per il necessario allineamento all’art. 3-bis c.p. per il quale, se una materia è disciplinata in un testo unico, le disposizioni che la riguardano devono essere inserite all’interno di tale corpus normativo; ed infatti, nei menzionati testi unici sono state previste due nuove disposizioni sulla confisca allargata (art. 6, commi 5 e 6, d.lgs. n. 21/2018).
Secondo l’ordinanza di rimessione, tale essendo la genesi dell’art. 578-bis c.p.p., la riformulazione rispetto al comma 4-septies dell’art. 12-sexies era finalizzata solo a ripristinare la situazione precedente e quindi a consentire l’applicazione della confisca al giudice dell’impugnazione anche (ma solo) ai reati prescritti in materia di contrabbando e di sostanze stupefacenti: in tal modo si spiega l’inciso dopo il richiamo alla confisca di cui all’art. 240-bis c.p. «e da altre disposizioni di legge» che non avrebbe quindi portata di carattere generale.
Conclusione che sarebbe stata rafforzata con l’inserimento, dopo tale inciso, con l’art. 1, comma 4, lett. f ) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. spazzacorrotti), dell’ulteriore «o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p.» (confisca per equivalente), poiché «l’uso della congiunzione disgiuntiva “o”», renderebbe evidente «sia la diversa natura della natura ablativa, rispetto alla confisca di cui all’art. 240-bis c.p., sia la voluntas legis di limitare tassativamente l’applicabilità della norma processuale alle confische menzionate», per cui sarebbe esclusa dallo spettro applicativo della norma la confisca urbanistica, in quanto di natura diversa sia dalla confisca allargata che da quella per equivalente.
Per la verità, sulla portata dell’art. 578-bis c.p.p. le Sezioni Unite si erano pronunciate già prima dell’udienza del 15 maggio 2019 in cui l’ordinanza di rimessione fu deliberata.
Infatti, il 7 febbraio 2019 era stata depositata la sentenza n. 6141 delle Sezioni Unite, assertiva dell’ammissibilità, sia agli effetti penali che civili, della revisione della sentenza del giudice di appello che, prosciogliendo l’imputato per l’estinzione del reato dovuta a prescrizione o amnistia e decidendo sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, abbia confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile.
La sentenza, non massimata sul punto, ha ritenuto applicabile la revisione anche alle sentenze previste dall’art. 578-bis in quanto, stante l’analogia con l’art. 578 c.p.p. «all’interessato va, sia pur incidentalmente, riconosciuto lo status soggettivo di “condannato” (sia pur limitatamente alle statuizioni di confisca che conseguano all’incidentale accertamento di responsabilità richiesto dalla norma)» e, nel riportare il testo dell’art. 578-bis, ha chiosato le parole «o da altre disposizioni di legge» con l’inciso, tra parentesi: «il riferimento evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali» (p. 27).
Vero è che l’ampia lettura, da parte delle Sezioni Unite, della locuzione «altre disposizioni di legge» che prevedono la confisca non era accompagnata da alcun iter argomentativo, ma sembrava evidente come le Sezioni Unite avessero già avallato i plurimi precedenti della terza sezione penale della Cassazione assertivi dell’applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica, per cui sfuggivano le ragioni per le quali l’ordinanza di rimessione ad esse non facesse alcun riferimento, né espresso, né implicito.
La sentenza Perroni non si è limitata a richiamare tale precedente, ma ha svolto ampie ed autonome considerazioni per giustificare l’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca urbanistica.
Viene riconosciuta l’esattezza della genesi della norma da parte dell’ordinanza di rimessione, ma si osserva che la stessa non ha solo rappresentato il sostanziale trapianto, nel codice di rito, del contenuto dell’art. 12-sexies, comma 4-septies del d.l. n. 306/1992, ma ha ulteriormente aggiunto, sin dalla versione originaria, il richiamo alla confisca «prevista da altre disposizioni di legge» e, successivamente, per effetto della modifica intervenuta ad opera dell’art. 1, comma 4, lett. f ), legge 9 gennaio 2019, n. 3, il richiamo alla confisca «prevista dall’articolo 322-ter del codice penale».
Questa evoluzione rende «evidente che, quali che siano state le ragioni che hanno determinato il legislatore ad introdurre la norma in oggetto nel codice di rito, la stessa non può che essere letta secondo quanto in essa espressamente contenuto, in particolare non potendo non riconoscersi al richiamo alla confisca «prevista da altre disposizioni di legge», formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere in essa anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale».
Per confermare tale ampia lettura dell’art. 578-bis c.p.p., le Sezioni Unite si confrontano con i tre argomenti che secondo l’ordinanza di rimessione ne limiterebbero l’applicabilità alla sola confisca allargata ed a quella prevista dall’art. 322-ter c.p.
In primo luogo, ritenere l’inciso «altre disposizioni di legge» riferibile esclusivamente alla confisca allargata relativa al reato di cui all’art. 295, comma 2, d.P.R. n. 43/1973 ed a quella relativa al reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1993 per il fatto che, in quanto disciplinate entrambe da testi unici, non avrebbero potuto, per il principio della “riserva di codice” di cui all’art. 3-bis c.p., essere espressamente menzionate nel codice penale, non considera che tale principio riguarda solo le «nuove disposizioni che prevedono reati», le quali «possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia», essendosi, cioè, voluto evitare che con leggi diverse da tali due fonti si possano introdurre nuove fattispecie di reato, mentre nella specie non si sarebbe trattato di introdurre nuove fattispecie di reato ma solo di menzionare, ai fini della regolamentazione della confisca per esse prevista, fattispecie già contemplate dall’ordinamento.
Non appare poi rilevante il fatto che la rubrica della norma riguardi unicamente la “confisca in casi particolari”, in tal modo sembrando alludere alla sola confisca “allargata” di cui all’art. 240-bis, che in rubrica riporta la stessa formulazione, in quanto «le partizioni sistematiche di una legge, in particolare titoli, capi e rubriche, non fanno parte né integrano il testo legislativo e quindi non vincolano l’interprete, in quanto la disciplina normativa sulla formazione delle leggi prevede che solo i singoli articoli siano oggetto di esame e di approvazione da parte degli organi legislativi» [3].
Ed infine, non riveste carattere ostativo ad una lettura inclusiva anche della confisca urbanistica il fatto che, alla “confisca in casi particolari” e a quella “prevista … da altre disposizioni di legge”, tra loro legate dalla congiunzione “e”, si sia poi aggiunta anche la confisca di cui all’art. 322-ter cit., attraverso la diversa congiunzione “o”, in quanto «la versione originaria era limitata ai soli due primi elementi mentre il riferimento alla confisca di cui all’art. 322-ter c.p. è stato il frutto di interpolazione successiva, sicché l’affidamento sull’appropriata utilizzazione delle congiunzioni (dapprima la “e” e, poi, la “o”) e sulle sue conseguenze interpretative appare in definitiva assai labile ove non rapportato, come necessario, alla formulazione primigenia caratterizzata dal semplice riferimento ad una confisca prevista dall’art. 240-bis nonché da altre leggi speciali; ed anzi, ben potrebbe dirsi che è la stessa aggiunta posteriore, in realtà, ed in senso opposto a quanto si vorrebbe, a rafforzare una lettura della disposizione inclusiva anche dei provvedimenti ablatori aventi portata lato sensu sanzionatoria, come indubbiamente è la confisca per equivalente e come è la confisca urbanistica, avente natura, per consolidata esegesi di questa Corte, di “sanzione amministrativa”».
Rinviando al paragrafo successivo per considerazioni specifiche sul riferimento alla confisca per equivalente, l’ampia lettura dell’art. 578-bis c.p.p. nel senso che il giudizio sulla praticabilità della confisca non debba arrestarsi in Cassazione in presenza di reato prescritto va condivisa, quanto alla confisca da lottizzazione abusiva, per due ulteriori ragioni specifiche.
La prima è che alla Cassazione non è preclusa, secondo il dictum della sentenza Matrone delle Sezioni Unite [4], la possibilità di pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio «se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando necessari ulteriori accertamenti».
Ben potrebbe, infatti, la sentenza di merito descrivere in modo puntuale lo stato dei luoghi, la consistenza dell’abuso ed i beni confiscati, in modo da consentire alla Corte di annullare senza rinvio per violazione del principio di proporzionalità e di decidere nel merito sulla confisca ai sensi dell’art. 620, lett. l), c.p.p.
Sarebbe anche in tal caso incongrua una soluzione che faccia dipendere la competenza del giudice penale piuttosto che della P.A. a decidere sulla ablazione delle aree abusivamente lottizzate dal come il giudice del merito abbia motivato nel descrivere gli elementi fattuali giustificativi della confisca da lui disposta o confermata.
La seconda considerazione si fonda sull’obbligatorietà dell’intervento del giudice penale quale garanzia dell’effettività della tutela in materia di illeciti urbanistici nel caso di inerzia della P.A. (retro).
Sarebbe invero incongruo consentire che il processo penale, sede propria di esercizio di tale funzione, debba arrestarsi senza consentirne il pieno e completo svolgimento, affidando la tutela ad un intervento dell’Amministrazione meramente eventuale, nell’an e nel quomodo.
Considerazioni queste che confermano come l’applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica potesse già fondarsi su ragioni di sistema, come rilevato da un primo commento alle Sezioni Unite Perroni [5] secondo cui «anziché intraprendere una faticosa interpretazione letterale, il più ampio consesso della nomofilachia avrebbe potuto privilegiare una lettura logico-sistematica», valorizzando «la circostanza che l’art. 578-bis c.p.p. costituisce il precipitato dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale proprio in relazione ai rapporti fra confisca ex art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001» [6].
Va poi sottolineato come le Sezioni Unite si sono concentrate sulla risposta al quesito della applicabilità dell’art. 578-bis c.p.p. alla confisca urbanistica, ma non hanno esaminato in modo pieno ed esaustivo la questione di quali siano le ipotesi di confisca cui si riferisce l’inciso «altre disposizioni di legge», tema che si pone sotto un duplice versante:
1) se la valorizzazione da parte delle Sezioni Unite della comune natura sanzionatoria della confisca urbanistica e di quella per equivalente consenta di affermare che anche quest’ultima ricade, in ogni caso, nello spettro applicativo della norma;
2) se l’art. 578-bis sia riferibile alla sola confisca obbligatoria od anche a quella facoltativa.
Rinviando ai seguenti due paragrafi per l’esame di tali questioni, sembra opportuno precisare sinteticamente l’operatività della regola della confiscabilità in presenza di reato prescritto nel corso del giudizio di impugnazione.
L’applicazione di tale regola nel giudizio di appello presuppone in ogni caso una condanna in primo grado, non essendo consentita la confisca se questo si sia concluso con assoluzione e la prescrizione maturi durante il giudizio di secondo grado, poiché lo stesso dovrebbe proseguire al solo fine di compiere l’accertamento di responsabilità, in contrasto con il dictum delle Sezioni Unite.
Per le stesse ragioni, qualora la prescrizione maturi nel corso del giudizio di cassazione, l’art. 578-bis è inapplicabile non solo nel caso di doppia conforme di assoluzione, ma anche qualora la sentenza d’appello abbia assolto nel merito l’imputato già condannato in primo grado, non potendosi ammettere la reviviscenza della confisca disposta in tale giudizio [7].
Diverso è il caso di condanna in appello conseguente alla assoluzione in primo grado, con applicazione della confisca, poiché in tal caso la prescrizione viene a maturare nel corso del giudizio di cassazione dopo una precedente pronuncia di condanna.
3. L’art. 578-bis e la confisca per equivalente
La sentenza Perroni ha esaminato la specifica questione dell’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca da lottizzazione urbanistica sulla base di un’ampia lettura della locuzione “altre disposizioni di legge” affermando, tra l’altro, che l’aggiunta delle parole «o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale» da parte della legge n. 3/2019 potrebbe contribuire a «rafforzare una lettura della disposizione inclusiva anche dei provvedimenti ablatori aventi portata lato sensu sanzionatoria, come indubbiamente è la confisca per equivalente e come è la confisca urbanistica, avente natura, per consolidata esegesi di questa Corte, di “sanzione amministrativa”».
Si pone dunque la questione se con tali affermazioni le Sezioni Unite abbiano inteso l’art. 578-bis c.p.p. riferibile a qualsiasi ipotesi di confisca per equivalente [8] e non solo a quella di cui all’art. 322-ter c.p.
Nonostante l’equivocità dell’incidentale riferimento alla confisca per equivalente tout court possa giustificare il dubbio [9], deve ritenersi preferibile la seconda opzione.
Occorre infatti considerare la genesi dell’art. 578-bis c.p.p., che ha trasferito nel codice di procedura il comma 4-septies dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992 in tema di confisca allargata, il quale escludeva espressamente dal suo spettro applicativo il comma 2-ter, relativo alla confisca per equivalente e, fin dalla sua prima versione, fa espresso riferimento alla sola confisca diretta ex art. 240-bis, comma 1, c.p., con pretermissione dell’art. 240-bis, comma 2, c.p. disciplinante la confisca per equivalente.
Per tal verso, come è opinione diffusa [10], la norma ha inteso fotografare lo schema delineato dalla sentenza Lucci nella parte in cui escluse la possibilità per il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, di pronunciarsi sulla confisca per equivalente anche quando vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio, atteso il carattere “afflittivo e sanzionatorio“ della confisca per equivalente, preclusivo della c.d. condanna sostanziale.
Vero è che con la legge n. 3/2019 è stato aggiunto il rinvio all’art. 322-ter c.p., comprensivo dell’intero dettato della norma e dunque anche del suo comma 2 relativo alla confisca per equivalente, ma tale addizione non sarebbe stata necessaria se il rinvio alle altre disposizioni di legge fosse stato già inclusivo della confisca per equivalente.
Sembra allora che il legislatore del 2019, avvertito di una potenziale interpretazione restrittiva quale quella proposta dall’ordinanza di rimessione, abbia inteso eliminare ogni dubbio sull’ampia portata della clausola, precisando che essa comprende anche la confisca di cui all’art. 322-ter c.p. Soluzione, questa, condivisa da quanti ritengono che la legge n. 3/2019, «nell’aggiungere – mediante l’uso della disgiuntiva “o” la cui funzione è proprio quella di segnalare la diversa natura della misura ablatoria associata – il rinvio all’art. 322-ter c.p., esprime la volontà di limitare l’ambito di operatività dell’art. 578-bis c.p.p. alle confische ivi indicate in via tassativa, senza che siano possibili applicazioni analogiche o assimilazioni» [11].
È peraltro indubbio che, per tal via, la legge n. 3/2019 finisca per escludere l’originario stretto collegamento dell’art. 578-bis con la specifica materia di cui si è occupata la sentenza Lucci, rendendo meno significativa la circostanza che tale sentenza giustifica il suo esito decisorio con esclusivo riferimento alla confisca obbligatoria del prezzo o profitto del reato (misure ripristinatore non iscrivibili nel paradigma dell’art. 7 Cedu) [12].
Soluzione, questa, sulla cui tenuta convenzionale e costituzionale occorrerà riflettere, quantomeno per la tensione con il principio di ragionevolezza che genera, a causa della diversa disciplina in tema di applicazione della confisca per equivalente in presenza di prescrizione, tra i reati contro la P.A. e gli altri [13].
L’affermazione incidentale contenuta nella sentenza Perroni deve quindi ritersi giustificatrice non già dell’applicabilità dell’art. 578-bis a tutte le forme di confisca per equivalente ma, stante l’estensione della norma alla confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter c.p., quale mero (ulteriore) argomento a sostegno della sua riferibilità alla confisca urbanistica in ragione della comune natura sanzionatoria.
Tale identità di natura, va aggiunto, non può giustificare l’applicabilità dell’art. 578-bis a tutte le forme di confisca per equivalente, in quanto tra le due ipotesi sussiste una fondamentale differenza per essere quella urbanistica una confisca diretta [14].
4. L’art. 578-bis e la confisca facoltativa del profitto del reato prescritto
La quinta sezione della Cassazione, con ordinanza n. 7881/2020 [15], aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione «inerente la legittimità o meno della confisca facoltativa diretta del profitto del reato ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1, in presenza di pronuncia di prescrizione, pur facente seguito a condanna di primo grado; altrimenti detto, quella del se la confisca facoltativa citata presupponga o meno un giudicato formale di condanna o, piuttosto, se la stessa possa semplicemente accedere ad un completo accertamento da parte del giudice del merito in ordine al profilo soggettivo e oggettivo del reato di riferimento, accertamento che può essere ribadito anche in una sentenza di proscioglimento per prescrizione».
Nella fattispecie la Corte territoriale, in qualità di giudice del rinvio, aveva confermato la confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., del profitto del reato di cui all’art. 416 c.p., già disposta con precedente sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, poi annullata dalla Sez. I penale della Corte di Cassazione n. 42887/2018, con rinvio limitatamente alla confisca del profitto derivante all’imputato dal reato associativo, chiedendo di “qualificare” la natura della confisca, se cioè disposta ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 240 c.p.
La Corte d’appello aveva sostenuto che, nel rimettere ad essa, quale giudice del rinvio, la qualificazione della confisca del profitto come obbligatoria o facoltativa, la Corte di Cassazione aveva, implicitamente, preso posizione in termini inequivoci in ordine alla applicabilità dei principi della sentenza Lucci anche alla confisca facoltativa di cui all’art. 240, comma 1, c.p. Sul punto la Corte territoriale aveva argomentato, sostenendo che «se il S.C. avesse ritenuto inapplicabile alla confisca facoltativa il principio affermato dalla sentenza S.U. Lucci, non avrebbe annullato la sentenza della Corte di assise d’appello demandando al giudice di rinvio di qualificare la confisca come obbligatoria o facoltativa e di accertarne i relativi presupposti. Infatti, una volta qualificati i beni in questione come profitto del (provato) reato di associazione per delinquere, il S.C. avrebbe potuto decidere direttamente in ordine alle statuizioni relative alla confisca». Infatti, l’esclusione dell’applicabilità dei principi affermati dalla sentenza Lucci avrebbe determinato, stante la mancanza di una sentenza di condanna, l’annullamento senza rinvio della sentenza relativamente alla confisca facoltativa. Dunque, secondo la Corte d’appello l’annullamento con rinvio sì giustifica in quanto la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il principio della sentenza Lucci anche al caso di confisca facoltativa, essendo il rinvio funzionale ad operare una «valutazione connotata da margini di discrezionalità, come tale preclusa al giudice di legittimità».
Questa lettura era confermata, secondo la Corte d’appello, dalla circostanza che la sentenza di annullamento della Corte di cassazione «non ha accolto l’esplicita deduzione della difesa che lamentava proprio il mancato rispetto dei principi affermati dalla sentenza S.U. Lucci», in quanto riferibili alla sola confisca obbligatoria del prezzo o del profitto e non alla confisca facoltativa del profitto, oggetto del processo.
Con provvedimento del 20 aprile 2020 [16] il Presidente aggiunto ha restituito gli atti alla Sezione remittente osservando che il giudice del rinvio aveva ritenuto essersi formato una sorta di giudicato implicito interno in ordine alla possibilità di disporre la confisca facoltativa in presenza di un reato estinto per prescrizione e che su questo tema l’ordinanza non si era soffermata, mentre avrebbe dovuto preliminarmente valutare l’eventuale esistenza della preclusione così come ritenuta dalla Corte d’appello e, solo dopo averla esclusa, rimettere la questione alle Sezioni Unite.
Va condiviso il dissenso dell’ordinanza nei confronti di una equiparazione tra confisca obbligatoria del prezzo del reato ex art. 240 c.p., comma 2, n. 1, e del profitto del reato ex art. 322-ter c.p. (fattispecie alla base della sentenza Lucci) e la confisca facoltativa del profitto ex art. 240 c.p., comma 1, fondata sulla comune finalità specialpreventiva.
Al contrario, come osservato dalla sezione quinta, le Sezioni Unite Lucci hanno «elaborato le loro tesi attorno ad una peculiare tipologia di confisca, fortemente connotata dalla funzione specialpreventiva di sterilizzare tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore. Una funzione, infatti, che, nell’interpretazione proposta dalle Sezioni Unite e nel bilanciamento con diritti fondamentali dell’individuo, come il diritto di proprietà e di iniziativa economica, è stata ritenuta prevalente con riferimento alla speciale tipologia di provvedimento ablativo obbligatorio considerato, ma che, proprio per tale peculiarità non sembra poter divenire criterio univoco di interpretazione in malam partem, anche laddove quel bilanciamento sia operabile partendo da presupposti diversi. E che la funzione socialpreventiva comune alla confisca facoltativa del profitto e a quella obbligatoria del prezzo del reato non possa valere ad esaurire il tema del rapporto fra le due misure, rendendole sovrapponibili quanto a disciplina applicativa, è dimostrato anche dal fatto che solo la seconda viene ritenuta, dal legislatore, compatibile col decreto penale di condanna (art. 460 c.p.p., comma 2)».
L’obbligatorietà delle confische cui si riferiscono la sentenza Lucci e l’art. 578-bis appare quindi decisiva per escluderne l’estensione alla confisca facoltativa del profitto, anche per coerenza con il principio di legalità che sovraintende al regime delle misure ablative [17].
Questa è stata la conclusione cui è pervenuta la quinta sezione con la sentenza n. 52/2021, negando una possibile “interpretazione generalizzante di sezioni unite Lucci che ne consenta l’applicabilità alla confisca facoltativa”.
Nell’argomentare tale esito la Corte ripropone la propria lettura della sentenza Lucci come riferita ad “una peculiare tipologia di confisca, fortemente connotata dalla funzione specialpreventiva di sterilizzare tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore”.
Rispetto a questa impostazione, già presente nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite cui è seguita la restituzione in sezione, del tutto nuova invece è l’interpretazione che la sentenza in discorso dà alla novella dell’art. 578-bis c.p.p.
Ed infatti, nell’ordinanza si era soltanto delimitata la sua riferibilità non ad “ogni ipotesi di confisca, ma solo con riferimento ad ipotesi di confisca obbligatoria specificamente enunciate (ex art. 240-bis, comma 1 ed ex 322-ter c.p.)”.
Veniva pertanto omesso nell’ordinanza ogni richiamo alla locuzione “altre disposizioni di legge” di cui invece in sentenza si ritiene di esaminare la portata con un richiamo alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentt. 6141/2019 e 13539/2020) per le quali si tratterebbe di “espressione riferita alle fonti legislative diverse dal codice penale”.
Va subito rimarcato, come già anticipato, che le Sezioni Unite 6141/2019 hanno affermato che l’inciso in discorso “evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali” e, pertanto, adotta un verbo, “evoca”, che non esclude la riferibilità anche a confische obbligatorie previste dal codice penale come ad esempio quella ex art. 416-bis, comma 7, c.p.
Quanto poi alla sentenza 13539/2020, le Sezioni Unite riconoscono senz’altro all’inciso in questione una valenza generale, capace di ricomprendere “anche” quelle disposte da fonti normative extra codice penale.
È evidente, dunque, come non possa ancorarsi al diritto vivente delle Sezioni Unite l’affermazione della sentenza 52/2021 per la quale “esulano dalla disposizione di nuovo conio dell’art. 578-bis le ipotesi di confisca dell’art. 240 c.p.”.
Un chiaro infortunio ermeneutico, finalizzato ad un ulteriore conforto della tesi di inapplicabilità alla confisca facoltativa di una confisca senza formale condanna, ma che dimentica la presenza nell’art. 240 c.p. anche del comma 2, n. 1, disciplinante la confisca obbligatoria del prezzo del reato, decisamente inclusa nello spettro applicativo della sentenza Lucci.
5. Profili temporali dell’applicazione dell’art. 578-bis
L’incidenza temporale della “spazzacorrotti” riguarda due profili.
Il primo concerne le conseguenze del nuovo regime della sospensione della prescrizione con la pronuncia della sentenza di primo grado, introdotto con la modifica dell’art. 159 c.p. a decorrere dal 1° gennaio 2020.
Considerato che la nuova disciplina è inapplicabile retroattivamente, trattandosi di novità produttiva di effetti sostanziali in malam partem (come anche l’ordinanza di rimessione n. 40380/2019 precisa), l’applicabilità dell’art. 578-bis finisce per impattare sui reati commessi precedentemente, sempre che, stante il dictum della sentenza Perroni, la prescrizione sia maturata dopo la sentenza di condanna in primo grado [18].
Per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, essendo sospeso il corso della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, l’art. 578-bis non può essere applicato dal giudice dell’impugnazione.
Il secondo versante in cui la “spazzacorrotti” pone questioni di regime transitorio riguarda l’applicabilità dell’art. 578-bis alla confisca di cui all’art. 322-ter c.p. per i reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della modifica della norma da parte della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019).
La questione non si pone per la confisca diretta del profitto e del prezzo prevista obbligatoriamente dall’art. 578-bis, in quanto il principio di irretroattività della legge penale non opera, trattandosi di misura di sicurezza (art. 200 c.p.).
Si pone invece per la confisca per equivalente, considerata la sua natura sanzionatoria.
Secondo un orientamento[19] «la norma in discorso, smussando la fisionomia punitiva della confisca per equivalente, non ha natura meramente processuale, ma almeno mista, dunque anche sostanziale. Ciò importa l’indefettibile ossequio al principio di irretroattività».
Altri[20] ritengono che l’art 578-bis c.p.p. è norma di carattere processuale per cui vige il principio tempus regit actum, pur criticando le conseguenze di tale qualifica, in quanto «si consentirebbe l’operatività del provvedimento di confisca per equivalente anche in via retroattiva, in contrasto con l’art. 2 c.p. e 25 Cost., 7 CEDU in punto di irretroattività della legge penale sfavorevole».
Sviluppando tali considerazioni si dovrebbe però affermare l’operatività di tale principio non solo nel caso in cui il legislatore introduca, per un determinato reato, la confisca per equivalente[21], ma anche quando, come nel caso di specie, la sua applicabilità sia estesa per effetto di una modifica di una norma processuale. Se, infatti, la ratio del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole è quella di tutelare l’affidamento e la libertà di autodeterminazione, questa esigenza di tutela dovrebbe valere anche in caso di applicazione di legge processuale, ma con effetti sostanziali in malam partem, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32/2020 [22], in merito al divieto di applicazione retroattiva delle modifiche peggiorative della disciplina delle misure alternative alla detenzione.
Coerentemente con tale impostazione, si dovrebbe concludere che, per i reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 578-bis da parte della legge n. 3/2019, il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non potrebbe disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente.
Tale soluzione è stata peraltro esclusa da una recente decisione della S.C.[23], in tema di peculato prescritto, la quale ha ritenuto l’art. 578-bis norma processuale di immediata applicazione, secondo il principio "tempus regit actum", anche ai fini della conferma o meno della confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato prevista dall’art. 322-ter c.p., poiché in essa «connotata, al pari di quella urbanistica, da un prevalente carattere afflittivo e sanzionatorio ..., convergono evidenti finalità ripristinatorie, di semplificazione probatoria ed esecutiva, che la differenziano sostanzialmente da una pura e semplice pena patrimoniale»[24].
Trattasi di un salto in avanti rispetto alla sentenza Lucci che, partendo dalla «funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile», aveva concluso nel senso che la confisca per equivalente è «connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza», affermando in altro punto che trattasi di «una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti", avente "carattere preminentemente sanzionatorio».
Il riferimento ad entrambi i profili, già presente nella sentenza Lucci non senza una certa ambiguità di fondo[25], viene ripreso e valorizzato per attribuire sostanzialmente una natura mista alla confisca per equivalente, senza però spiegare perché l’aspetto sanzionatorio risulti recessivo rispetto a quello ripristinatorio per consentire la piena applicazione principio "tempus regit actum", mentre, di contro, risulti prevalente per affermare che «la confisca di beni per un valore corrispondente al prezzo o profitto di taluni reati contro la pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 322-ter c.p. deve, per il suo carattere sanzionatorio, trovare fondamento in una norma sostanziale entrata in vigore prima dei fatti per cui si procede (vedi, L. n. 300 del 2000, art. 15)»[26].
La natura sanzionatoria sembra invece costituire un dato caratterizzante l’istituto in ogni sua applicazione, sol che si consideri che, secondo un orientamento consolidato, ai fini della confisca per equivalente rileva l'effettiva disponibilità giuridica dei beni, anche per interposta persona, al momento in cui sia disposto il vincolo, essendo ininfluente la circostanza che gli stessi siano stati acquisiti antecedentemente o dopo la commissione del reato[27] (situazione evidentemente incompatibile con la natura anche ripristinatoria).
Resta quindi in campo la possibilità di una interpretazione coerente con la sentenza della Corte costituzionale n. 32/2020 con la conseguente inapplicabilità dell’art. 578-bis alla confisca per equivalente relativa ai reati contro la P.A. commessi prima dell’entrata in vigore della sua modifica da parte della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019).
[1] Articolo tratto, con modifiche ed aggiornamenti, dal capitolo “La confisca senza condanna: la modifica dell’art. 578‐bis c.p.p.” dell’opera collettanea a cura di G. Fidelbo, Il contrasto ai fenomeni corruttivi, Dalla "spazzacorrotti" alla riforma dell'abuso d'ufficio, Giappichelli, 2020. Si ringraziano il curatore e editore per la concessione.
[2] In linea con l’impostazione di parte della dottrina (A. Esposito, Il dialogo imperfetto sulla confisca urbanistica Riflessioni a margine di sentenze europee e nazionali, in Archivio penale Web, 22 maggio 2019, alle cui argomentazioni l’ordinanza all’evidenza si ispira ampiamente).
[3] Viene sul punto richiamata Cass. pen., Sez. I, n. 16372/2015, De Gennaro.
[4] Sentenza n. 3464/2018, in Cass. pen., 2018, VI, Sez. II, p. 1880, con nota di R. Rizzuto, Le Sezioni Unite ampliano il potere di annullamento senza rinvio della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2018, VI, p. 766 con nota di M. Cecchi, Annullamento senza rinvio: la Cassazione rimodula i propri poteri ed in Giur. it., 2018, III, p. 748, con nota di C. Morselli, Annullamento senza rinvio della Cassazione (quale “Corte Suprema”): contenimento dei costi ed effetti deflattivi.
[5] A. Bassi, Confisca urbanistica e prescrizione del reato, cit.
[6] Nella stessa prospettiva avevamo ritenuto applicabile l’art. 578-bis nel Nostro, La confisca urbanistica nella lottizzazione abusiva prescritta, ne Il Penalista, 5 dicembre 2019., in cui si osservava: «L’art. 578-bis, al di là dell’idea originaria del legislatore, ben si presta a questa operazione di adattamento del sistema in funzione del controllo effettivo della legalità convenzionale della confisca urbanistica – sanzione; uno schema di adattamento, questo, già praticato e diffusamente argomentato dalla citata Sez. III, n. 8350/2019 nella parte in cui ha ritenuto che il principio enunciato dalla sentenza G.I.E.M. della necessaria partecipazione della persona giuridica al processo penale di cognizione in materia di lottizzazione abusiva, può essere attuato “nel rispetto dei principi convenzionali, attraverso l’applicazione estensiva di norme interne quali, l’art. 197 c.p. e l’art. 89 c.p.p.”, in tema di obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende)». Analogo approccio si rinviene in A. Pulvirenti, Il difficile connubio dell’art. 578-bis c.p.p., cit., secondo cui dell’art. 578-bis c.p.p. si deve «proporre una lettura convenzionalmente orientata, in virtù della quale la Cassazione, tutte le volte in cui non possa confermare la sentenza di proscioglimento e debba dichiarare estinto il reato per prescrizione o amnistia, deve annullare con rinvio al giudice di merito affinché accerti, nel rispetto degli indefettibili requisiti probatori, la responsabilità dell’imputato e la conseguente sussistenza dei presupposti applicativi della confisca».
[7] Conforme A. Bassi, Confisca urbanistica e prescrizione del reato, cit., secondo cui, in tal caso, «stante la divaricazione dei giudizi di primo e di secondo grado sulla penale responsabilità e l’impossibilità di far continuare il giudizio in sede di rinvio ai fini dell’”accertamento” dei presupposti del reato di lottizzazione abusiva strumentale all’adozione della confisca, pare arduo ritenere che la Corte di legittimità possa stimare “accertata” la sussistenza della lottizzazione abusiva, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nel senso prescritto dalle Sezioni Unite e dalla Corte di Strasburgo».
[8] Come sembra adombrare G. Civello, La confisca nell’attuale spirito dei tempi: tra punizione e prevenzione, in Archivio penale Web, 20 maggio 2019, secondo cui l’emanazione di una previa condanna rispetto al maturare della prescrizione è un canone generale traibile dall’art. 578-bis c.p.p. destinato a valere a fortiori nell’ambito di quelle confische che, come quella urbanistica, non abbiano natura di mera misura di sicurezza, bensì di vera e propria sanzione penale afflittiva.
[9] Alimentato dal fatto che nella “Documentazione per l’esame di Progetti di legge, Contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, prescrizione e trasparenza dei partiti e movimenti politici A.C. 1189-A”, predisposta dalla Camera dei deputati, è chiaramente indicato che la riforma dell’art. 578-bis c.p.p. estendeva la disciplina della confisca nel caso di prescrizione alla confisca per equivalente (p. 31).
[10] A. Dello Russo, Prescrizione e confisca dei suoli abusivamente lottizzati: non è necessaria una sentenza di condanna, neppure in primo grado? in Archivio penale Web, 17 marzo 2019; G. Ranaldi, Principio della “riserva di codice” e decisione sul reato estinto: prolegomeni di una tendenza in progressivo consolidamento, in Archivio penale Web, 18 giugno 2018.
[11] G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione. La legge n. 3 del 2019 (c.d. “spazzacorrotti”) trasforma gli artt. 578 e 578-bis c.p.p. in una disciplina “a termine”, in dirittopenalecontemporaneo.it, 4 febbraio 2019. Conforme R. Tuzzi, L’art. 578-bis c.p.p.: tra vecchi orientamenti pretori e nuove formulazioni codicistiche, in discrimen.it, 12 marzo 2019, per il quale sebbene la riforma dell’art. 578-bis c.p.p. non possa essere degradata a espressione di mero “lapsus calami”, l’adozione della confisca per equivalente “senza condanna” «suscita una contrapposizione con il principio di legalità di cui agli artt. 25, comma 2, 27, 117 Cost., 7 CEDU e 1 cod. pen., essendo … un vero e proprio provvedimento di natura sanzionatoria».
[12] Conforme V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in dirittopenalecontemporaneo.it, 27 maggio 2019, secondo cui «il dipanarsi di questa creazione giurisprudenziale sino alla confisca ex art. 322-ter c.p. ribalta gli approdi a cui erano pervenute le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza Lucci, che in nome di un asserito carattere afflittivo e sanzionatorio della value confiscation aveva escluso – a differenza della confisca diretta del prezzo o profitto storico del reato (art. 240 c.p.) – la possibilità di applicarla in caso d’intervenuta prescrizione. Tale innovazione normativa assesta pertanto un duro colpo agli sforzi giurisprudenziali – invero non del tutto convincenti – di sistematizzare la materia delle confische attorno alla dicotomia tra misura di sicurezza patrimoniale a scopo di prevenzione di una pericolosità di tipo obiettivo (confisca diretta, confisca allargata), com’è noto sottratta a svariate garanzie penalistiche, e confisca sanzionatoria (quella per equivalente), assoggettata a tutti i corollari del principio di legalità, al principio di colpevolezza, alla presunzione di non colpevolezza (e quindi alla necessità di una condanna), ecc.».
[13] Dubbi di costituzionalità di carattere generale sono espressi da L. Roccatagliata, Confisca per equivalente e prescrizione del reato. Le contrastanti indicazioni del Giudice di legittimità e i seri dubbi sulla compatibilità con il dettato costituzionale, in Giurisprudenza penale Web, 13 maggio 2020, il quale, commentando Cass. pen., Sez. III, n. 14218/2020, PG C/Palmieri, assertiva, sulla base della sentenza Lucci, della inapplicabilità della confisca per equivalente prevista dall’art. 12-bis, d.lgs. n. 74/2000, in ipotesi di reati tributari (nella specie, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11) dichiarati estinti per intervenuta prescrizione, ritiene che «una norma che permetta di irrogare la confisca per equivalente nei casi in cui il reato si sia estinto per intervenuta prescrizione sembra porsi in contrasto con il principio di colpevolezza e di presunzione di innocenza ex art. 27 Cost., dal quale si ritiene discenda l’ulteriore principio per cui l’irrogazione di una sanzione penale può conseguire solo ad un provvedimento di condanna». Non è invece condivisibile il diverso dubbio di costituzionalità espresso da G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione, cit., il quale ritiene l’art. 578-bis non compatibile «con il nucleo assiologico della presunzione di innocenza» già nella parte in cui si riferiva all’art. 240-bis, comma 1, c.p., considerato dall’Autore, non già misura di sicurezza atipica, ma sanzione punitiva, dovendosi invece ribadire la natura della confisca allargata quale “misura di sicurezza patrimoniale atipica” con funzione dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia, affermata dalla giurisprudenza fin dalle Sezioni Unite Montella del 2004 e confermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 33/2018 (richiamata adesivamente da Corte costituzionale n. 24/2019 nella quale espressamente si afferma che confisca di prevenzione e confisca allargata costituiscono altrettante species di un unico genus di confische di beni di sospetta origine illecita accertata mediante uno schema legale di carattere presuntivo).
[14] Emblematico il punto 11 della sentenza Lucci: «la confisca per equivalente … viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza».
[15] In sistemapenale.it, 9 marzo 2020, con nota redazionale di E. Florio, Alle Sezioni Unite la questione relativa alla applicabilità della confisca facoltativa ex art. 240 co. 1 c.p. in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione.
[17] L’ordinanza ricorda al riguardo la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 in tema di confisca di prevenzione, nella parte in cui ha affermato che l’applicazione della misura ablativa non può non tenere conto del compendio di garanzie che la Costituzione (artt. 41 e 42) e le Carte internazionali dei diritti umani (art. 1 Prot. add. Cedu) accordano ai suddetti diritti, tra le quali va annoverata la garanzia della legalità, ossia l’esistenza di una previsione di legge, che consenta al destinatario della misura limitativa del diritto di prevederne la futura possibile applicazione. Nella stessa prospettiva v. G. Civello, Confisca facoltativa e reato prescritto: rimessa alle Sezioni unite la questione della “confisca senza condanna”, in Archivio penale Web, 10 aprile 2020, per il quale «non appare ammissibile sostenere che una determinata confisca possa operare “senza condanna” nella misura in cui essa esibisca la medesima ratio special-preventiva di un’analoga misura ablatoria prevista altrove dall’ordinamento, poiché tale ragionamento sottende evidentemente una analogia in malam partem».
[18] Notazione fatta anche da G. Varraso, La decisione sugli effetti civili e la confisca senza condanna in sede di impugnazione, cit.
[19] V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo, cit.
[20] R. Tuzzi, L’art. 578-bis c.p.p.: tra vecchi orientamenti pretori e nuove formulazioni codicistiche, cit.
[21] Cfr. Sez. Un., Adami, n. 18374/2013, secondo cui «la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, l. n. 244 del 2007 ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 c.p., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata».
[22] Per primi commenti si rinvia a: A. Apollonio, I guardiani della legge: le ragioni dell’intervento della Consulta sulla “spazzacorrotti”, in giustiziainsieme.it, 13 febbraio 2020; F. R. Dinacci, Psoriasi interpretative: la legge nel tempo in tema di prescrizione e termini di custodia nell'emergenza Covid. Alla ricerca di una "legalità" perduta, in Archivio penale Web, 22 maggio 2020; F. Gianfilippi, Lo Stato di diritto e l’incostituzionalità di una interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in tema di concedibilità delle misure alternative. Una prima lettura della sentenza Corte cost. 32/2020 sulla “spazzacorrotti”, in giustiziainsieme.it, 2 marzo 2020; I. Giugni, La differenza fra “dentro” e “fuori” il carcere è radicale: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 1, co. 6, lett. b), della legge cd Spazzacorrotti, in diritticomparati.it, 11 marzo 2020; F. Martin, La sentenza 12 febbraio 2020 n. 32: la Consulta sancisce la prevalenza dello Stato di diritto e della tutela del cittadino, in giurisprudenzapenale.com, 24 marzo 2020.
[23] Cass. pen., Sez. VI, n. 14041/2020, Malvaso + 2.
[24] Precisa la decisione che «la confisca per equivalente ex art. 322 c.p. non ha la capacità di infliggere un quid pluris afflittivo, poichè si limita a privare l'autore di uno dei reati contro la pubblica amministrazione contemplati dalla norma di un valore equivalente a quanto da lui illecitamente ed effettivamente conseguito attraverso il reato e di cui sia divenuta impossibile l'apprensione diretta. Si tratta, in altre parole, di una forma di confisca che trova il proprio fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato e per la quale, non a caso, si ritiene applicabile il principio di solidarietà passiva, proprio delle misure riparatorie, che limita la misura ablatoria alla quota di prezzo o profitto conseguita effettivamente e personalmente da ciascuno degli imputati».
[25] In tema, cfr. V. Mongillo, Confisca per equivalente e risparmi di spesa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, II, 716 e, più di recente, G. Nuara, Confisca del profitto del reato e prescrizione: fra vecchi e nuovi orientamenti, in Dir. Pen. e Processo, 2020, VIII, 1049.
[26] La conseguenza, “ratione temporis” è che «ai fatti oggetto dell'accertamento demandato al giudice di rinvio, potrà eventualmente applicarsi solo la confisca di beni il cui valore sia equivalente al prezzo del reato di peculato, ma non quella del profitto di tale reato, atteso che mentre la prima è stata introdotta dalla L. 29 settembre 2000, n. 300 e, quindi, in data anteriore ai fatti per i quali si procede, la seconda è stata introdotta dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, e quindi in epoca successiva ai reati oggetto di accertamento».
[27] Ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, n. 41135/2019.
Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio del consigliere C.S.M. la decisione spetta al giudice ordinario (nota a Cons. St., Sez. V, 7 gennaio 2021 n. 215).
di Enrico Zampetti
1. La decisione in commento dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia relativa alla delibera del C.S.M. recante l’anticipata cessazione dalla carica nei confronti di un consigliere collocato a riposo nel corso del mandato. Il sopravvenuto collocamento a riposo è la causa della disposta cessazione, che di fatto impedisce l’assolvimento del mandato per l’intero periodo di quattro anni previsto dall’articolo 104 della Costituzione.
Nel pronunciare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il Consiglio di Stato conferma le conclusioni del giudice di primo grado che già si era espresso a favore della giurisdizione ordinaria[i]. In particolare, il giudice d’appello rileva che l'impugnata delibera sarebbe il “frutto di una mera attività ricognitiva della volontà di legge e puramente intesa all’automatica applicazione della stessa” ovvero di una “attività (vincolata) di verifica della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quelli costituenti un prius logico del diritto di elettorato passivo”. Conseguentemente, esclude che la delibera in contestazione possa inquadrarsi in una “manifestazione di autoritatività”, non essendo riconducibile ad alcun potere discrezionale e restando estranea a qualsiasi “apprezzamento comparativo di interessi in conflitto”. In quanto atto meramente “ricognitivo”, la delibera del C.S.M verrebbe pertanto ad incidere su una posizione di diritto soggettivo inquadrabile nel “diritto di elettorato passivo” nella sua “duplice portata genetica e funzionale: di diritto all’acquisizione, non meno che alla conservazione dello status elettivo”. La qualificazione della situazione giuridica in termini di diritto soggettivo radicherebbe così la giurisdizione ordinaria sulla controversia, in coerenza con i consolidati criteri di riparto affermati in materia elettorale[ii].
2. Nel qualificare la delibera del C.S.M. quale espressione di una “attività (vincolata) di verifica della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica”, la sentenza non indica il preciso fondamento normativo che sancirebbe la correlazione tra il mantenimento della carica e l’attualità del rapporto di servizio. Ciò non di meno, parrebbe presupporre l’esistenza di un’espressa disposizione che, ai fini della conservazione della carica, richieda lo status di magistrato in servizio per l’intera durata del mandato. Solo l’esistenza di una siffatta disposizione consentirebbe, infatti, di qualificare la delibera di cessazione anticipata come atto meramente ricognitivo “della volontà di legge”, ossia alla stregua di un atto che, senza implicare alcuna valutazione discrezionale, si limiti a certificare l’insussistenza del diritto di elettorato passivo, nella sua dimensione funzionale di “diritto alla conservazione dello status elettivo”.
Va, tuttavia, osservato che, nell’attuale contesto normativo, non sussiste una esplicita previsione che condizioni il mantenimento della carica allo status di magistrato in servizio. La permanenza in servizio per l’intera durata della carica non è, infatti, annoverata né tra le cause di sospensione, decadenza e incompatibilità previste dagli articoli 33 e 37 della legge sul C.S.M. n. 195 del 1958, né tra i requisiti di eleggibilità previsti dall’articolo 24, rispetto ai quali lo status di servizio è richiesto al “momento di convocazione delle elezioni”[iii]. Non sembra quindi un caso che, pur prefigurandone (più o meno implicitamente) l’esistenza, la pronuncia manchi poi di individuare esattamente la norma che, al sopraggiungere del collocamento a riposo, verrebbe a imporre la cessazione anticipata.
L’assenza di un’espressa previsione dovrebbe, quindi, escludere che, ai fini del mantenimento della carica, il consigliere debba permanere in servizio per tutta la durata del mandato, come peraltro parrebbe desumersi anche dalla riserva di legge in materia di accesso alle cariche elettive[iv]. Del resto, quando ha inteso correlare l’intera durata della carica al rapporto di servizio, il legislatore lo ha previsto espressamente, come ad esempio in ambito universitario, laddove l’articolo 2 co.11 della legge 240 del 2010 stabilisce testualmente che “l’elettorato passivo per le cariche accademiche è riservato ai docenti che assicurano un numero di anni di servizio almeno pari alla durata del mandato prima della data di collocamento a riposo”. In altre ipotesi, l’irrilevanza del rapporto di servizio ai fini della conservazione della carica si ricava direttamente dalla disciplina positiva. È, ad esempio, il caso dei giudici costituzionali scelti nell’ambito della magistratura, laddove l’articolo 135 Cost. stabilisce testualmente che “i giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrativa”, escludendo che per ricoprire la carica di giudice costituzionale sia necessario lo status di magistrato in servizio.
Si conferma così che i requisiti di accesso e conservazione delle cariche pubbliche sono generalmente oggetto di un’espressa disciplina normativa e che, di conseguenza, se un determinato requisito non è previsto dalla legge o da altra fonte idonea, lo stesso non può invocarsi per conformare o limitare l’elettorato passivo, nella sua duplice veste genetica e funzionale.
3. Vero è che l’assenza di un’espressa previsione potrebbe essere compensata da un’interpretazione sistematica della disciplina di riferimento, da cui desumere la necessaria correlazione tra (conservazione della) carica consiliare e status di magistrato in servizio[v]. In tal senso potrebbe intendersi quel passaggio della pronuncia in cui si sottolinea che il nesso tra cessazione anticipata e sopravvenuto collocamento a riposo discenderebbe “dal paradigma normativo, così come concretamente interpretato”[vi]. Tuttavia, nemmeno in tal caso la sentenza chiarisce esattamente quale sarebbe il processo interpretativo idoneo a giustificare la disposta cessazione, sicchè il fondamento della delibera rimane oscuro e incerto.
In base ad alcuni precedenti giurisprudenziali[vii] e a quanto emerso nel dibattito occasionato proprio dalla vicenda in esame[viii], qualche indicazione potrebbe trarsi dal principio di rappresentatività democratica che, secondo determinate ricostruzioni, informerebbe di sé la costituzione del Consiglio, soprattutto se quest’ultimo sia prevalentemente concepito come organo di “autogoverno” della magistratura[ix]. In questa prospettiva, i consiglieri togati sarebbero i rappresentanti della magistratura in seno al Consiglio, con la conseguenza che, una volta interrotto il rapporto di servizio per sopraggiunti limiti d’età, il consigliere non sarebbe più legittimato a ricoprire la carica, in quanto non più rappresentante della magistratura[x].
Sotto altro profilo, un ipotetico fondamento della disposta cessazione potrebbe anche ricavarsi dai principi generali di buona amministrazione, ove intesi a garanzia di un corretto funzionamento del Consiglio. Va da sé che, per giustificare in tal senso la cessazione anticipata, dovrebbe supporsi che la carica espletata da un magistrato in servizio garantisca il funzionamento del Consiglio più correttamente di quanto assicuri la carica espletata (per un periodo) da un magistrato ormai in pensione.
Senonchè, resta il fatto che la pronuncia omette un’esatta individuazione del principio o dell’approdo interpretativo da cui possa desumersi l’astratto fondamento della disposta cessazione.
4. Le poche considerazioni svolte consentono di esaminare più a fondo le conclusioni della sentenza, a partire dalla natura giuridica riconosciuta all’atto impugnato.
L’assenza di un’esplicita previsione che correli il mantenimento della carica allo status di magistrato in servizio rende problematica la qualificazione della delibera in termini di atto meramente ricognitivo della “volontà di legge”. Un’attività di mera ricognizione può, infatti, configurarsi solo se la previsione esista, poiché solo in tal caso l’atto amministrativo può fare applicazione di un preciso disposto normativo. Se la previsione non esiste, un’attività ricognitiva non parrebbe nemmeno ipotizzabile, proprio in quanto manca la disposizione di cui l’atto dovrebbe fare applicazione.
Se poi il fondamento volesse individuarsi nel richiamato principio di rappresentatività, la natura di atto ricognitivo resterebbe comunque problematica. Per riconoscere alla delibera una siffatta qualificazione dovrebbe, infatti, assumersi che l’unica soluzione idonea a garantire il principio s’identifichi necessariamente con l’anticipata cessazione dalla carica, se in quanto il rapporto di servizio s’interrompa in corso di mandato. Tuttavia, al di là di quanto possa emergere dai citati precedenti, non sembra affatto scontato che la cessazione anticipata sia l’unica soluzione idonea a dare attuazione al principio, soprattutto se si considera che il concetto di rappresentatività può misurarsi anche sulla scelta espressa dagli elettori e non soltanto sull’attualità dello status di servizio. Se, al momento dell’elezione, la magistratura ha designato come consigliere un determinato soggetto, pur sapendo che nel corso del mandato sarebbe stato collocato a riposo, un’eventuale cessazione anticipata risulterebbe in contrasto con la scelta espressa, poiché verrebbe a rompere quel rapporto di rappresentanza creatosi attraverso l’elezione. In altri termini, la soluzione può mutare in funzione della diversa concezione di rappresentatività che si prediliga, se esclusivamente orientata sull’appartenenza alla magistratura ovvero anche incentrata sulle scelte concretamente espresse dagli elettori. In quest’ottica, una decisione fondata sul principio di rappresentatività potrebbe risultare sempre il frutto di un apprezzamento discrezionale tra diverse soluzioni, sicchè (anche) la scelta della cessazione anticipata rappresenterebbe soltanto uno dei possibili esiti valutativi, ma non l’unica conseguenza imposta dall’applicazione del principio.
In linea di massima, considerazioni analoghe valgono anche per i principi di buona amministrazione posto che, in assenza di un’espressa previsione, solo un’apposita valutazione potrebbe in concreto rivelare se, ai fini del corretto funzionamento del Consiglio, sia preferibile la cessazione anticipata o la conservazione della carica per l’intera durata.
5. Se, dunque, in assenza di un’espressa previsione normativa, il fondamento della cessazione anticipata volesse individuarsi nei principi generali (variamente) implicati nell’interpretazione della disciplina positiva, la delibera del C.S.M. potrebbe coerentemente inquadrarsi come manifestazione provvedimentale di un potere amministrativo discrezionale. Si è infatti già sottolineato che, ove il principio fosse quello di rappresentatività, ma lo stesso vale anche per i principi di buona amministrazione, la delibera esprimerebbe soltanto una delle scelte astrattamente possibili. Conseguentemente, rispetto a una qualificazione in termini provvedimentali, la giurisdizione sulla controversia apparterrebbe al giudice amministrativo, dal momento che, in base ai tradizionali criteri di classificazione, la situazione giuridica incisa dalla delibera avrebbe la consistenza dell’interesse legittimo, non potendo comunque ricondursi al diritto di elettorato passivo così come concretamente configurato a livello legislativo. In questo senso, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe perfettamente coerente (anche) con l’articolo 135, co. 1, lettera a), c.p.a.[xi], che devolve alla competenza funzionale del TAR Lazio le controversie relative ai provvedimenti adottati dal C.S.M. nei confronti dei magistrati[xii].
[i] Sulla sentenza di primo grado del TAR Lazio, Roma, Sez. I, 13 novembre 2020 n. 11814, sia consentito rinviare a E. Zampetti, Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario, in questa Rivista, 19 novembre 2020.
[ii] Come noto, secondo il consolidato orientamento in materia di elezioni amministrative, al giudice ordinario sono devolute le controversie “afferenti questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati” in quanto relative a “diritti soggettivi di elettorato”, mentre al giudice amministrativo quelle “afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali” in quanto relative a “posizioni di interesse legittimo” (così TAR Lazio, Roma, Sez. I, n. 11814/2020, cit.; ex multis, Cons. St., sez. V, 15 luglio 2013 n. 3826; Cons. St., sez. V, 11 giugno 2013 n. 3211; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 7 novembre 2018 n. 10756).
[iii] La legge 24 marzo 1958 n. 195 “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura” prevede le cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza dalla carica di consigliere. Nel recare la disciplina dell’elettorato attivo e passivo, l’articolo 24 stabilisce che non sono eleggibili i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime”, gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che “al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica”; i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare”; i magistrati che abbiano prestato servizio “presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”; i magistrati che “abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”. A sua volta, nel prevedere le ipotesi di incompatibilità, l’articolo 33 sancisce che i componenti del Consiglio “non possono far parte del Parlamento, dei consigli regionali, provinciali e comunali, della Corte costituzionale e del governo”; che i componenti eletti dal Parlamento, finché sono in carica, “non possono essere iscritti negli albi professionali. Non possono essere titolari di imprese commerciali né far parte di consigli di amministrazione di società commerciali. Non possono altresì far parte di organi di gestione di unità sanitarie locali, di comunità montane o di consorzi, nonché di consigli di amministrazione o di collegi sindacali di enti pubblici, di società commerciali e di banche (…)”. Con specifico riferimento ai casi di sospensione e decadenza dalla carica, l’articolo 37 prevede che “i magistrati componenti il Consiglio sono sospesi di diritto dalla carica se sottoposti a procedimento disciplinare, sono stati sospesi a norma dell’articolo 30 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946 n. 511”; che “i componenti del Consiglio superiore decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo”; che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”.
[iv] Cfr. articolo 51 Cost., secondo cui “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.
[v] Resta inteso che una siffatta operazione dovrebbe pur sempre contenersi entro i limiti fisiologici dell’interpretazione, particolarmente stringenti in materia elettorale, senza possibilità di creare ex novo dei divieti oltre i significati evincibili dalle norme o dai principi interpretati.
[vi] Nello stesso senso la decisione di primo grado, quando sottolinea che “l’attività di verifica del Consiglio si è basata su una interpretazione del panorama legislativo e dei principi ad esso ricavabili”.
[vii] Cons. St., Sez. IV, 16 novembre 2011 n. 6051, secondo cui il C.S.M. sarebbe costituito “in base al principio di rappresentatività democratica”, con la conseguenza che “la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano”. In tale contesto – prosegue la decisione - “il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”. La pronuncia riguarda specificamente un provvedimento del CSM che aveva autorizzato il trattenimento in servizio sino al 75 anno di un membro togato. Avverso tale provvedimento aveva proposto ricorso il primo dei non eletti, deducendo l’interesse a contestare il provvedimento in quanto il suo eventuale annullamento gli avrebbe consentito di subentrare nel Consiglio al posto del consigliere che, in assenza del disposto trattenimento, sarebbe stato collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Di qui l’eccezione di carenza d’interesse al ricorso proposta dal destinatario del provvedimento di trattenimento in servizio, argomentata sul presupposto che la disciplina del C.S.M. non richiederebbe lo status di magistrato in servizio come requisito per il mantenimento della carica e che, pertanto, anche l’eventuale annullamento del provvedimento impugnato non avrebbe garantito al ricorrente l’utilità anelata, dal momento che l’ipotetico collocamento a riposo del consigliere non avrebbe impedito il residuo espletamento della carica. Nel disattendere l’eccezione, il Consiglio di Stato enuncia l’assunto sopra riportato, rilevando che, pur in assenza di un’espressa previsione di legge, la cessazione anticipata per intervenuto collocamento a riposo troverebbe fondamento nel principio di rappresentatività democratica; con specifico riferimento al Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, si veda anche Cons. St, Adunanza della Sezione Prima, 7 marzo 2007 n. 601/2007.
[viii] R. Russo, L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex? e S. Amore, Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M., entrambi in questa Rivista, 12 ottobre 2020; N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, in Questione Giustizia, 31 luglio 2020; M. A. Cabiddu, CSM: i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, anche quando si chiamano Davigo, in Questione Giustizia, 8 ottobre 2020.
[ix] È evidente che l’esatta qualificazione del C.S.M. rappresenta una questione di estrema rilevanza, a fronte dei diversi inquadramenti che tendono a valorizzarne ora la funzione di “autogoverno” della magistratura, ora a porne in risalto la funzione di garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura stessa. In quest’ottica, si può probabilmente ipotizzare che il principio di rappresentatività presenti una maggiore rilevanza in relazione ad una qualificazione del C.S.M. come organo di “autogoverno”.
[x] In questo senso, N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, cit., 4 ss.; R. Russo, L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex, cit., 5; per una diversa impostazione, S. Amore, Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M., cit., 11 ss. e M. A. Cabiddu, i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, anche quando si chiamano Davigo, cit., 4 ss.
[xi] Ai sensi dell’articolo 17, primo comma, l. n. 195 del 1958, come richiamato dall’articolo 135, lettera a), c.p.a., “tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per la grazia e giustizia”.
[xii] In senso contrario, il Consiglio di Stato esclude che la giurisdizione amministrativa possa desumersi dall’articolo 135 c.p.a., sul rilievo che la previsione, in quanto norma sulla competenza, postulerebbe a monte la giurisdizione amministrativa senza però fondarla. Senonchè, nella ricostruzione ipotizzata, la controversia avrebbe proprio ad oggetto una posizione di interesse legittimo e, di conseguenza, la prospettata giurisdizione amministrativa sarebbe perfettamente coerente anche rispetto alla citata norma codicistica.
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