ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116)
di Enrico Zampetti
1. La sentenza merita di essere segnalata in quanto applica i principi affermati dalle recenti sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021 in materia di concessioni demaniali marittime.
Proprio il giudizio adesso definito era stato uno dei due selezionati dal Presidente del Consiglio di Stato nel deferire d’ufficio all’Adunanza Plenaria la questione della compatibilità con il diritto europeo della vigente disciplina nazionale in materia di proroga delle concessioni demaniali marittime (art. 1, commi 682 e 683, legge n. 30 dicembre 2018 n. 145; art. 182, co.2, d.lgs. 19 maggio 2020 n. 34), sottoponendo, segnatamente, i seguenti quesiti di diritto: “1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l'apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l'obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell'Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-executing, l'attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all'accertamento dell'efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva; 2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l'amministrazione dello Stato membro sia tenuta all'annullamento d'ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell'Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all'annullamento d'ufficio; 3) se, con riferimento alla moratoria introdotta dall'art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell'Unione europea, debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell'entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell'art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145”.
Le sentenze gemelle rese dall’Adunanza Plenaria hanno già alimentato un ricco e vivace dibattito dottrinale[1]. Con esse il Consiglio di Stato ha affermato l’incompatibilità delle attuali previsioni nazionali con l’articolo 49 del Trattato FUE e con l’articolo 12 della direttiva 2006/123 c.d. Bolkestein, precisando che “tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione”. Al contempo, per “evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere”, la stessa Plenaria ha, però, rinviato al 31 dicembre 2023 gli effetti delle proprie decisioni, sicchè, anziché cessare immediatamente, “le concessioni demaniali per finalità turistico- ricettive già in essere continueranno a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023”, in attesa del riordino del settore e dell’espletamento delle necessarie gare pubbliche.
2. La specifica vicenda contenziosa adesso definita origina dal ricorso proposto da un concessionario per l’annullamento del diniego di proroga della concessione demaniale marittima adottato dalla competente Autorità portuale, nonché per l’accertamento del diritto al “riconoscimento dell’estensione della durata” della medesima concessione, ai sensi della citata legge n. 145/2018.
L’Autorità portuale aveva negato la proroga assumendo l’inapplicabilità dell’attuale normativa nazionale per contrasto con il diritto europeo, e in particolare con l’articolo 12 della Direttiva Bolkestein, sulla scia di quanto già rilevato nel 2016 dalla Corte di giustizia con la sentenza Promoimpresa e da una parte della giurisprudenza interna[2].
Con la sentenza 15 febbraio 2021 n. 504, la Sezione III del TAR Sicilia, Catania aveva confermato la legittimità del provvedimento di diniego, rimarcando il contrasto tra la normativa nazionale e le norme e i principi del diritto europeo e la decisione era stata così appellata dal concessionario innanzi al CGARS. Tra i vari motivi di appello, veniva in particolare denunciata l’erronea applicazione delle regole in tema di prevalenza del diritto UE, sul rilievo che nel caso di specie l’amministrazione non avrebbe dovuto disapplicare, ma applicare, la normativa interna, anche in ragione del ritenuto carattere non self executing della direttiva Bolkestein. Essendo nelle more sopravvenuti i principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria, che riconoscono l’efficacia delle concessioni in essere sino al 31 dicembre 2023, l’appellante, in sede di discussione orale della causa, chiedeva in subordine “un accoglimento parziale della domanda, con proroga della concessione fino al 31 dicembre 2023” (così, testualmente, la sentenza).
Nel decidere l’appello, il CGARS ha affermato che “in applicazione delle norme multilivello l’eventuale proroga, senza pubblica gara, delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative deve considerarsi illegittima, trattandosi di un provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in violazione di direttiva autoesecutiva o di regolamento U.E.” e che “legittimo è, pertanto, il provvedimento adottato dall’Autorità di sistema portuale oggi impugnato e prive di fondamento le deduzioni che avverso lo stesso sono state formulate con il ricorso di primo grado e ribadite con l’atto di gravame”. Tuttavia, in ragione della precisazione della Plenaria per cui “le concessioni demaniali per finalità turistico- ricettive già in essere continueranno a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023”, la sentenza ha accolto “parzialmente la domanda di accertamento del diritto formulata con il ricorso introduttivo” e, come richiesto in subordine da parte appellante, ha accertato “l’efficacia della concessione demaniale marittima (…) sino al 31 dicembre 2023”, evidenziando che “l’accoglimento parziale è dovuto al decisum dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e non intacca, sotto alcun profilo, la legittimità del provvedimento impugnato, con conseguente esclusione di ogni profilo di colpa dell’Amministrazione”.
[1] Si veda il recente numero speciale della Rivista Diritto e Società n. 3/2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, con contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R.Rolli - D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di toritto - G. Carlomagno. Per gli ulteriori contributi sul tema pubblicati su questa Rivista, si veda F. P. Bello, Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 24 novembre 2021; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. Plen, in questa Rivista, 30 dicembre 2021; R. Dipace, All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, in Giustizia insieme, 21 luglio 2021
[2] Si veda, in particolare, Cons. St., Sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874, in www.giustizia-amministrativa.it.
Tutela del contraddittorio e pregiudizio effettivo
di Paolo Biavati
Sommario: 1. La sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 delle Sezioni unite. – 2. Una riaffermazione esemplare del principio del contraddittorio. – 3. Il pregiudizio effettivo. – 4. Ancora il pregiudizio effettivo: relativizzato, ma non eliminato. – 5. La lettura dell’art. 360-bis c.p.c. n. 2. – 6. Una composizione da trovare.
1. La sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 delle Sezioni unite
Con la sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021 le Sezioni unite intervengono a comporre un contrasto interpretativo sorto da tempo fra le sezioni semplici in tema di tutela del contraddittorio e pregiudizio effettivo. Si tratta di una decisione di indubbio rilievo, non solo per il suo esito, ma anche per i passaggi motivazionali con cui è stata costruita.
Conviene partire dal caso concreto, in sé molto semplice. Un attore cita in giudizio tre convenuti per ottenere una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c. nonché il risarcimento dei danni e vince in primo grado, sia pure conseguendo una liquidazione del danno inferiore a quella auspicata. Il medesimo attore e uno dei convenuti impugnano e la Corte d’appello di Roma conferma sostanzialmente la decisione del Tribunale, ma escludendo il convenuto appellante dall’obbligo risarcitorio.
Accade, però, che il giudice di secondo grado deliberi la decisione in camera di consiglio alcuni giorni prima della scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.
L’attore ed appellante principale, ancora insoddisfatto per l’entità della pronuncia risarcitoria, ricorre in Cassazione, in base a quattro distinti motivi, il primo dei quali consiste nella dedotta nullità della sentenza di appello, per essere stata decisa prima del deposito di tutti gli scritti difensivi finali.
Si è posta, quindi, la questione, se sia sufficiente per conseguire la cassazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., la violazione della regola processuale, ovvero se al ricorrente incomba l’onere di dimostrare quale pregiudizio egli abbia effettivamente subito a motivo dell’omessa presa in esame della sua memoria di replica.
Le Sezioni unite ripercorrono i due opposti orientamenti delle sezioni semplici e giungono ad enunciare un principio di diritto, che mi sembra opportuno riportare integralmente: “la parte che proponga l’impugnazione della sentenza d’appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero per replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; la violazione determinata dall’avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto ai difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo”.
2. Una riaffermazione esemplare del principio del contraddittorio
Troppe volte, nella mia esperienza di avvocato, mi sono sentito chiedere da colleghi e clienti, se il giudice avrebbe poi realmente letto le carte di causa. Certo, usualmente gli atti vengono letti con cura, ma la Corte d’appello di Roma non è davvero il primo giudice che decide senza avere letto tutto: soltanto che, nel caso di specie, l’omissione della lettura delle repliche (e, probabilmente, la molto rapida lettura delle comparse conclusionali, depositate pochi giorni prima) è risultata per tabulas.
Le Sezioni unite hanno rimarcato, in modo limpido, la necessità di rispettare il principio del contraddittorio. Audiatur et altera pars: completamente e fino in fondo. Nei diversi schemi procedimentali, il confronto fra le parti può svolgersi in modo più o meno articolato, ma, all’interno di un dato procedimento, a ciascuna parte deve essere assicurata la possibilità di esaurire tutte le proprie facoltà difensive. Se ciò non avviene, il contraddittorio è violato.
Credo che la sentenza in commento sia uno dei migliori apprezzamenti del ruolo e dell’attività del difensore nel processo, che non può essere compressa per reali o presunte esigenze di celerità. In una fase storica in cui sembra che il fattore tempo acquisti un rilevo centrale nel processo civile, fino quasi a scapito della giustizia della pronuncia, la linearità delle Sezioni unite è un significativo monito a tutti gli organi giudiziari e un richiamo non superfluo al legislatore della riforma.
Non si può davvero che aderire al principio di diritto enunciato[1].
3. Il pregiudizio effettivo
Al di là dell’esito, l’arresto delle Sezioni unite solleva, nel suo impianto motivazionale, diversi problemi che meritano attenzione.
Il primo è il ruolo del pregiudizio effettivo subito dall’impugnante nel sistema dei gravami.
L’orientamento giurisprudenziale da cui le Sezioni unite hanno preso le distanze è in realtà un orientamento crescente. Ad esempio, pochi mesi prima, un’ordinanza della seconda sezione della Cassazione ribadiva che l’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c. non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza dell’error in procedendo[2].
Annoto che qui si gioca una partita decisiva sul senso del processo e delle sue regole[3]. Lo scopo della sentenza, scrivono le Sezioni unite[4], “è sì quello di realizzare il diritto sostanziale, ma sempre nel rispetto delle regole e dei principi del processo giurisdizionale”. Certo, occorre decidere i casi secondo giustizia e verità, ma il metodo è quello dialettico del contraddittorio, da intendersi non come faticoso e disturbante peso per un giudice che potrebbe benissimo fare da solo, ma come via necessaria per valorizzare fino in fondo gli apporti dei contendenti.
La legge pone precisi percorsi che conducono alla decisione: anzi, il rischio è che talora si opti per soluzioni troppo destrutturate, quando questi percorsi sono lasciati all’eccessiva discrezionalità del giudice. Ora, la violazione dei “diritti processuali essenziali” costituisce un pregiudizio in sé, lesivo delle facoltà defensionali, e non richiede “l’individuazione di un pregiudizio “altro” (id est, un pregiudizio effettivo ulteriore) da porre a fondamento della sanzione di nullità”[5].
Portando il tema del pregiudizio effettivo alle sue estreme conseguenze, si giungerebbe all’azzeramento delle regole processuali, che diventerebbero una sorta di cammino consigliato, ma dal quale il giudice si potrebbe sempre discostare, visto che la valutazione della correttezza o meno della sua attività si misurerebbe, in definitiva, solo sul merito.
4. Ancora il pregiudizio effettivo: relativizzato, ma non eliminato
Con tutto questo, il tema del pregiudizio effettivo non può essere archiviato in modo sbrigativo[6].
È debole il punto di motivazione in cui le Sezioni unite precisano che la legge processuale italiana non vi fa riferimento, mentre ciò accade, ad esempio, nell’ordinamento francese[7]. È debole perché dimostra che in altri sistemi, non certo privi di garanzie, fra i diritti processuali e l’effettività del pregiudizio si è trovato un equilibrio.
Non viene preso in esame, ad esempio, l’art. 58 dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, laddove si precisa che l’impugnazione dinanzi alla Corte delle pronunce del Tribunale è proponibile per motivi relativi a vizi della procedura, recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente[8]. Le regole processuali dell’Unione non costituiscono un modello per i sistemi nazionali, ma ne sono uno specchio: raccolgono, cioè, i frutti di sensibilità diffuse, seppure non unanimi, all’interno dei Paesi membri[9].
In definitiva, l’argomento qui usato dalle Sezioni unite si ritorce contro il ragionamento sviluppato in altre parti della motivazione. Non è vero che qualunque vizio procedurale della decisione ne comporta nullità perché le regole sono intangibili: la soluzione italiana è tale (così sembra di poter arguire) soltanto perché manca una norma che stabilisca qualcosa di diverso. Ma la norma che oggi manca potrebbe domani darsi (così come attualmente si dà altrove).
Del resto, le Sezioni unite si pongono su questa linea anche quando ricordano, dopo l’enunciazione del principio di diritto, che di fronte alle sentenze di primo grado il problema si atteggia in modo diverso. La motivazione anche qui è lineare e ineccepibile: la conversione delle nullità in mezzi di gravame e la regola posta dall’art. 354 c.p.c., per cui il giudice d’appello, pur rilevata la nullità, decide nel merito, portano alla pacifica conseguenza che la parte non può limitarsi a impugnare la sentenza unicamente per vizi procedurali (diversi, ovviamente, da quelli dell’art. 353 c.p.c.), ma deve attaccare anche le statuizioni di merito[10]. E del tutto logicamente, esse precisano che, se il caso dell’omesso esame della replica si fosse posto dinanzi a un giudice di primo grado e la corte d’appello, senza rilevare la nullità, avesse poi deciso nel merito, un ipotetico ricorso per cassazione contro la pronuncia di secondo grado, fondato sul vizio processuale non rilevato, sarebbe stato inammissibile per difetto di interesse[11].
È forse il caso di aggiungere che la legge di delega di riforma del processo civile, al comma 8°, lettera o) del comma unico, impegna il legislatore delegato a riformulare gli artt. 353 e 354 c.p.c., riducendo le ipotesi di rimessione in primo grado ai soli casi di violazione del contraddittorio. Ne segue che, in sede di appello, lo spazio per impugnazioni soltanto sul rito si riduce ulteriormente.
Mi sembra, allora, che sia difficile espungere il tema del pregiudizio effettivo dal nostro sistema, ma che si tratti soltanto di relativizzarlo, in rapporto alle non identiche disposizioni che governano le impugnazioni di merito e quella di legittimità. Chi propone appello deducendo al contempo un motivo procedurale e un motivo sostanziale, viene implicitamente a dire che il vizio denunciato con il primo motivo ha avuto conseguenze (causando quindi un pregiudizio effettivo) perché ha trainato l’errore denunciato con il secondo.
In realtà, a ben guardare, le Sezioni unite non escludono né il punto dell’interesse ad impugnare, né quello del pregiudizio effettivo. Vengono a dire, piuttosto, che il principio del contraddittorio è così fondamentale ed essenziale, che ogni violazione delle regole che lo concretizzano suppone un pregiudizio in re ipsa, collocandosi sulla stessa linea del legislatore della riforma. Ma ciò che vale per il contraddittorio, non è detto valga per ogni altro caso in cui il giudice, anche in sede di appello, si discosti dalle regole del processo[12].
Mi pare, insomma, leggendo la sentenza in controluce, si possa distinguere fra un nucleo duro di regole che attengono al cuore del processo (come il rispetto del contraddittorio e l’imparzialità del giudice) e la cui lesione si riverbera sempre e comunque sulla decisione, e altre regole, dalla cui violazione può discendere o no, a seconda dei casi, un pregiudizio al diritto di difesa: e la linea di demarcazione fra i due gruppi di ipotesi non si identifica con la comminatoria o no di nullità assoluta dell’atto.
A margine del ragionamento, non sarebbe inutile riflettere sull’utilità degli scritti defensionali finali nell’ambito di un mezzo di impugnazione chiuso, come l’attuale appello civile. Non penso affatto che debbano essere eliminati, ma certamente andrebbero esplorate modalità per renderli più produttivi ai fini di un efficace confronto fra le parti. Nella svista della Corte territoriale romana, può avere giocato l’abitudine a vedere presentati e ripresentati sempre gli stessi temi.
5. La lettura dell’art. 360-bis c.p.c. n. 2
È anche molto interessante il passaggio motivazionale in cui le Sezioni unite ritengono di rafforzare la loro scelta fra le due diverse ipotesi interpretative basandosi sull’art. 360-bis, n. 2, c.p.c.
La lettura di questa controversa norma divide la dottrina. Alcuni (fra cui chi scrive) la vedono, nella logica del filtro, come uno step di controllo ulteriore rispetto ai cinque motivi dell’art. 360, comma 1°: così come il n. 1 rende inammissibile limita la proponibilità del ricorso in cassazione nei casi in cui la lamentata violazione di diritto non si ponga in contrasto con un orientamento giurisprudenziale consolidato, il n. 2 compie il medesimo percorso nei casi in cui il vizio procedurale lamentato non assurga al livello di violazione delle regole del giusto processo[13].
Altri autori reputano invece che l’art. 360-bis, n. 2 costituisca un insieme aperto di situazioni, che vengono a tutelare il giusto processo anche laddove non vi sia un’espressa sanzione di nullità e che, pertanto, si aggiunga ai casi coperti dall’art. 360, comma 1°, n. 4[14].
Le Sezioni unite optano per questa seconda interpretazione e se ne avvalgono per rafforzare la tesi della nullità della sentenza deliberata prima del decorso dei termini per le difese finali, benché le specifiche norme (per l’appello, l’art. 352 c.p.c.) non la dispongano in modo espresso.
Ora, a me pare che la nullità della pronuncia della Corte d’appello nel caso di specie discenda pianamente dalla violazione del contraddittorio e quindi degli art. 24, comma 2° e 111, comma 2°, cost. e che, pertanto, il richiamo all’art. 360-bis, n. 2, c.p.c. sia ininfluente rispetto alla soluzione correttamente offerta dalla pronuncia in commento. Invece, è interessante collegare la tesi delle Sezioni unite (di cui prendo atto per l’autorevolezza della fonte, ma che non mi convince) alla questione del pregiudizio effettivo: e anche qui, mi sembra di scorgere una contraddizione.
Immaginare l’art. 360-bis, n. 2, come una clausola aperta che allarga gli spazi di ricorribilità in Cassazione delle sentenze significa dire che si può impugnare per nullità anche oltre i casi esplicitamente regolati dalla legge. Ma allora, per stabilire il discrimine fra i vizi che possono essere oggetto di ricorso e quali no, ci si deve appoggiare su qualche dato esterno, che realizza in concreto il depotenziamento del diritto di difesa. Possiamo non chiamarlo pregiudizio effettivo, se la parola non piace, ma si tratterebbe comunque di un elemento che va oltre il dato letterale della norma.
6. Una composizione da trovare
Quando, nelle pronunce della Cassazione allineate all’orientamento smentito dalle Sezioni unite, si legge il riferimento alla “astratta regolarità dell’attività giudiziaria”, viene immediato osservare che le regole non sono un’astrazione. Le regole processuali sono la sostanza della difesa e il loro rispetto è sostanza del giudizio. Per questo la sentenza n. 36596 del 2021 è un punto fermo di notevole importanza.
Tuttavia, il tema del collegamento delle regole con il merito della causa, espresso da concetti come l’interesse a impugnare e il pregiudizio effettivo, non può essere messo all’angolo. Lo si deve invece tenere presente, sia pure declinandolo in rapporto alle norme positive e non assumendolo come un ipotetico principio che quelle norme supera e travolge.
È giusto non estremizzare[15] il principio di ragionevole durata, che, peraltro, non è solo un principio, ma ha una precisa forza normativa, di rilievo costituzionale. Non si può, nello stesso tempo, chiudere gli occhi di fronte ad una domanda, culturale e sociale, di effettività e di impiego razionale delle energie giudiziarie, che sono una risorsa finita e non moltiplicabile.
Sarebbe fin troppo facile chiedersi se la Corte d’appello di Roma, letta la nota replica, avrebbe cambiato idea oppure no. I giudici hanno sbagliato e, per così dire, devono – correttamente – rifare il compito. Però, una causa già decisa ritorna ad essere trattata, spostando indietro di almeno un paio di anni le lancette della giustizia. Le Sezioni unite hanno pienamente ragione, ma le parti dovranno sopportare altre spese e attendere ancora.
Non so se le sezioni semplici si atterranno pacificamente al principio di diritto enunciato o se, in qualche modo, cercheranno altre strade per fare emergere il pregiudizio effettivo anche oltre i confini tracciati dalla decisione in commento. Certo, una composizione dovrà essere trovata. Una strada, come accennato, potrebbe essere quella di distinguere fra regole che concernono i “diritti processuali essenziali” (a cominciare da quelle che presidiano il contraddittorio) e regole di altro profilo. La sentenza delle Sezioni unite è una roccia solida, ma, con le parole del mitico Lucio Battisti dei miei anni giovanili, “come può uno scoglio arginare il mare ?“.
[1] Pienamente adesivo il commento di CAPPONI, Buone notizie dalle Sezioni unite sulle nullità processuali (e sul rapporto tra norme e principi), in www.giustiziainsieme, 2021.
[2] Cass,. II, ord. 14 luglio 2021, n. 20067, in Guida al diritto, 2021, n. 34, p. 59. Nel caso di specie, era stata omessa la fissazione dell’udienza di discussione orale, pur ritualmente chiesta dalla parte. Del tutto analogamente Cass., I, ord., 6 settembre 2021, n. 24002, in Guida al diritto, n. 42, p. 77.
[3] Citare contributi sul punto vorrebbe dire richiamare l’intera produzione scientifica dei processualcivilisti. Mi sia consentito richiamare, in omaggio al Maestro recentemente scomparso, il notissimo (ma non sempre correttamente compreso) saggio di CHIARLONI, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987, p. 569 ss.
[4] Punto XV della sentenza commentata.
[5] Punto VIII della sentenza commentata
[6] Il tema è fortemente sviluppato dalla giurisprudenza, ma ancora avversato dalla dottrina maggioritaria. Si veda, di recente, per un’ampia disamina, svolta su posizioni tradizionali, la monografia di DONZELLI, Pregiudizio effettivo e nullità degli atti processuali, Napoli, 2020.
[7] Punto IX della sentenza commentata. Il richiamo è all’art. 114 del nouveau code de procédure civile, sui cui v. CADIET, JEULAND, Droit judiciaire privé, Parigi, 2016, p. 450.
[8] Per un ampio esame della giurisprudenza della Corte di giustizia sul punto, v. NAÔMÉ, sub. Art. 58 Statuto, in CONDINANZI, AMALFITANO, IANNUCCELLI, Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017, p. 296 ss.
[9] Mi permetto di richiamare un mio scritto, ormai risalente, che affrontava espressamente questo punto: Processo comunitario e formazione di un processo comune europeo (le regole in materia di prove), in Rivista di diritto processuale, 1994, p.769 ss.
[10] Sulla valorizzazione dell’art. 354 c.p.c. e sul potere-dovere del giudice di appello di decidere nel merito, si veda, in una fattispecie diversa, la recentissima Cass., S.u, 26 gennaio 2022, n. 2258.
[11] Punto XVIII della sentenza commentata. Sul tema, v. SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, Milano, 1990. Ci si potrebbe chiedere se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite valga anche quando la Cassazione è giudice del merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2°, c.p.c.
[12] Ovviamente, la difficoltà sta nel collocare correttamente le regole, con il rischio di soluzioni arbitrarie. È ciò che si è discusso fino da quando il tema del giusto processo è entrato in Costituzione. Sul punto, v. per tutti TROCKER, Il nuovo art. 111 della Costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2001, p. 398 ss. Più di recente, si legga l’importante contributo di PANZAROLA, Alla ricerca dei substantialia processus, in Rivista di diritto processuale, 2015, p. 680 ss.
[13] Ho espresso questo avviso in Argomenti di diritto processuale civile, 5° ed., Bologna, 2020, p. 517.
SASSANI (La Cassazione, in Diritto processuale civile, diretto da DITTRICH, II, Milano, 2019, p. 2734 ss.) rileva che la lettura restrittiva è conforme alla volontà del legislatore, anche se “pone non pochi problemi”.
CAVALLARO (Forma e contenuto della decisione, in Acierno, Curzio, Giusti, La Cassazione civile, 3° ed., Bari, 2020, p. 432 ss.) esprime l’avviso che tutte le violazioni denunciabili ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c., comportino una violazione delle regole del giusto processo (in apparenza, svuotando quindi il filtro di ogni efficacia), ma aggiunge poi “che il significato della disposizione è quello di imporre alla parte che denuncia un error in procedendo l’onere di illustrarne la decisività, ossia che quell’errore abbia inciso sul contenuto della decisione e abbia arrecato un effettivo pregiudizio al suo diritto di difesa”.
[14] In questo senso, v. LUISO, Diritto processuale civile, II, 10° ed., Milano, 2019, p. 447. Vi sono poi letture intermedie e più articolate, come quella di CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, 3° ed., Padova, 2012, p. 346.
[15] Così la pronuncia in commento, punto X.
L’affidamento in house providing e il richiamo alle origini euro-unitarie in nome delle prioritarie esigenze di semplificazione ed accelerazione funzionali alla ripresa economica dopo la crisi pandemica (nota a Cons. St., sez. IV, 19 ottobre 2021, n. 7023).
di Saul Monzani
Sommario: 1. L’affidamento "in house": genesi e sviluppo nell'ordinamento euro-unitario. - 2. I primi tentativi normativi volti alla limitazione dell'utilizzo dell'affidamento "in house" ed il ripristino di tale istituto secondo i connotati euro-unitari a seguito del referendum popolare e dell'intervento della Corte costituzionale a tutela del suo esito. - 3. La disciplina "speciale" di cui al Codice dei contratti pubblici e l'onere motivazionale rafforzato. L'affidamento "in house" torna una fattispecie eccezionale. - 4. Lo schema di Linee guida ANAC e il "richiamo" del Consiglio di Stato rispetto alle esigenze di semplificazione ed accelerazione delle procedure ad evidenza pubblica. - 5. La sentenza oggetto di commento: il carattere discrezionale della scelta di procedere ad un affidamento diretto e i conseguenti limiti del sindacato giurisdizionale.
1. L'affidamento "in house": genesi e sviluppo nell'ordinamento euro-unitario.
Il concetto di produzione "in house" da parte della pubblica amministrazione si rinviene originariamente nell'ordinamento del Regno Unito, ove tradizionalmente si è distinto, quanto alle modalità di esercizio delle proprie funzioni, tra la procedura, appunto, c.d. "in house", per cui l'attività di produzione dei beni, lavori o servizi sono svolti direttamente dagli organi od uffici dell'ente pubblico, e la modalità c.d. "contracting out", consistente nell'affidamento esterno attraverso strumenti di natura contrattuale, come l'appalto1. In particolare, sia la procedura del compulsory competitive tendering, prevista dal Local government, planning and land Act del 1980, nonchè dai successivi Local government Act del 1988 e del 1992 , sia la procedura del best value introdotta dal Local government Act del 1999, hanno imposto alle autorità pubbliche di individuare la soluzione organizzativa da ritenersi più economica, efficiente ed efficace per l'esercizio delle proprie competenze e per l'acquisizione delle risorse a tale scopo necessarie attraverso una procedura di comparazione che prevede il confronto tra l'auto-produzione da parte della medesima autorità e soluzioni alternative, tra cui l'affidamento a soggetti terzi.
Per quanto riguarda l'ordinamento euro-unitario, la nozione di affidamento "in house" si affaccia per la prima volta nella comunicazione della Commissione europea dell'11 marzo 1998 recante "Gli appalti pubblici nell'Unione europea" ove, semplicemente, ci si propone di definire compiutamente i caratteri dell'istituto in questione, ovvero dei contratti stipulati tra un'amministrazione e una società da questa interamente controllata.
É però grazie all'opera creatrice della Corte di giustizia che sono stati definiti i contorni del meccanismo in parola, tramite l'enucleazione in maniera via via maggiormente più precisa delle condizioni in presenza delle quali risulta legittimo un affidamento diretto di servizi pubblici, in deroga all'applicazione delle generali norme euro-unitarie in tema di concorrenza.
Il filone giurisprudenziale che ci si appresta a ricostruire conosce i suoi esordi già a partire dalle sentenze Arnhem2 e RI.SAN3, ove si è cominciato ad individuare nel rapporto di delega interorganica tra amministrazione aggiudicatrice e soggetto aggiudicatario, in un contesto di dipendenza finanziaria e amministrativa, sia a livello gestionale che organizzativo, di quest'ultimo nei confronti della prima, un fattore in grado di escludere la necessità di ricorrere alle procedure ad evidenza pubblica nell'affidamento dell'appalto.
Il principio così introdotto ha trovato una descrizione maggiormente compiuta nella paradigmatica sentenza Teckal4, la quale è venuta a costituire il punto di partenza per la successiva elaborazione giurisprudenziale. In particolare, in tale occasione, si è considerato che il presupposto per l'applicazione della disciplina euro-unitaria in tema di appalti, informata alla tutela e promozione della concorrenza, è la terzietà del prestatore rispetto all'amministrazione aggiudicatrice, facendone derivare la conseguenza che ove tale terzietà non sussista, venendo viceversa in rilievo una dipendenza finanzaria, amministrativa, gestionale ed organizzativa dell'affidatario rispetto al committente, si potrebbe legittimare un affidamento diretto a quel soggetto, il quale costituirebbe, in realtà, una mera articolazione organizzativa, ovvero un'emanazione, della pubblica amministrazione affidante, secondo un rapporto di delegazione interorganica che differenzia il medesimo da tutti gli altri operatori presenti sul mercato.
I due elementi fondanti un rapporto così come appena sinteticamente descritto sono stati individuati nell'esercizio, da parte dell'amministrazione affidante nei confronti del soggetto affidatario, di un potere di controllo "analogo" a quello che la prima è abilitata ad esercitare sui propri uffici, nonchè nel fatto che il secondo svolga la parte più importante della propria attività a favore dell'ente affidante, non operando così, se non in minima parte, in un contesto concorrenziale di mercato.
A partire dalla pronuncia appena ricordata, la giurisprudenza euro-unitaria si caratterizza per il tentativo di precisare soprattutto il requisito del controllo "analogo", il quale non trova precisi riferimenti nell'ordinamento dei Paesi membri ed, anzi, si pone talvolta in tensione con diverse regole proprie del diritto societario5, anche in una logica di circoscrivere le possibilità di affidamento diretto in luogo della effettuazione di una procedura ad evidenza pubblica.
Sul punto, si è cominciato a precisare che l'affidamento "in house" consiste in una sorta di "auto-produzione" da parte della medesima amministrazione, attuata attraverso un'articolazione organizzativa strumentale suscettibile di essere considerata, per le forme di controllo che l'ente pubblico risulta in grado di esercitare nei suoi confronti, alla stessa stregua degli uffici propri di quest'ultimo6. In altri, coerenti, termini, si è statuito che l'affidatario diretto di servizi pubblici deve costituire un soggetto che non è in grado di esprimere una volontà imprenditoriale autonoma, limitandosi ad attuare scelte ed indirizzi unilateralmente determinati dell'amministrazione di cui si pone come ente strumentale7.
La tendenza a circoscrivere, almeno in una certa misura, l'istituto dell'affidamento "in house" conosce un significativo momento nella sentenza Stadt Halle, attraverso la quale la Corte introduce, di fatto, un terzo requisito, ossia il capitale interamente pubblico dell'ente affidatario8; ciò ritenendo che la società controllata possa effettivamente perseguire l'interesse pubblico a condizione che la medesima non debba al contempo tenere conto di obiettivi di diversa natura derivanti dalla partecipazione di un soggetto privato, naturalmente animato da una prospettiva economica e lucrativa.
Un'altra pietra miliare nella costruzione dell'istituto in esame è stata posta della sentenza Parking Brixen, in cui si chiarito che l'affidamento diretto costituisce un'eccezione alle regole generali del diritto euro-unitario, che devono pertanto formare oggetto di un'interpretazione restrittiva. In tale ottica, la Corte ha posto la necessità di verificare, in concreto, se l'ente affidante sia effettivamente soggetto ad una forma di controllo in grado di consentire all'autorità pubblica affidante di esercitare, nei suoi confronti, una "influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni più importanti". A tale scopo, secondo i giudici europei, non è sufficiente la partecipazione anche totalitaria dell'ente pubblico socio, con l'esercizio dei conseguenti poteri tipici del diritto societario, ma è necessaria la predisposizione di strumenti di indirizzo e controllo di matrice pubblicistica maggiormente penetranti e limitativi, in concreto, dell'automia gestionale del soggetto affidatario9.
Il descritto arresto giurisprudenziale si segnala per avere innescato uno dei nodi più complessi e discussi in tema di requisiti per l'affidamento diretto, avendo introdotto, come già accennato, una necessità che collide, almeno per certi versi, con la disciplina codicistica in tema di società di capitali, soprattutto con riferimento alla società per azioni, ove vige una separazione tra prerogative gestionali degli amministratori e i poteri dei soci, mentre maggiori profili di compatibilità si rinvengono con riferimento alla società a responsabilità limitata, meglio in grado per sua natura di consentire al socio pubblico l'esercizio di quei poteri di gestione e decisione sugli atti fondamentali richiesti dalla giurisprudenza euro-unitaria ai fini della sussistenza del controllo "analogo".
Nella medesima scia, si colloca una successiva decisione della Corte di giustizia, la quale giunge a confermare la non idoneità, ai fini dell'affidamento diretto, di un situazione in cui dallo statuto della società affidataria emerga l'attribuzione al consiglio di amministrazione dei più ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della società stessa, senza che sia riservato all'amministrazione affidante alcun potere particolare di controllo o di voto in grado di arginare la libertà di azione riconosciuta all'organo di gestione, risolvendosi, viceversa, il controllo attribuito all'ente affidante nei (soli) poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci, con conseguente considerevole limitazione della possibilità in capo all'ente pubblico di influire sulle decisioni della società affidataria10.
Maggiori aperture, conseguenti forse anche ad un'accresciuta consapevolezza circa i temi in questione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, si sono registrate nella successiva giurisprudenza della Corte, ove hanno cominciato a trovare posto anche decisioni di segno positivo rispetto alla sussistenza dei requisiti legittimanti un affidamento diretto.
In tale prospettiva, si è valutata favorevolmente, ai fini in esame, una situazione in cui ad un comune, in qualità di socio di maggioranza, era attribuita la possibilità di designare i membri degli organi direttivi nonchè di condizionare l'attività dell'affidatario "in house" sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni più importanti, con l'effettuazione di un controllo contabile sulla società effettuato da un funzionario comunale dedicato11.
Sempre nell'ambito del filone maggiormente possibilista, si colloca anche un'altra importante sentenza della Corte in cui si è riconosciuto che, in caso di società partecipate da una pluralità di enti locali, il controllo da parte di questi ultimi deve essere effettuato congiuntamente, anche deliberando a maggioranza. Del resto, proseguono i giudici euro-unitari, diversamente opinando, la pretesa di un controllo individuale da parte di ciascuno degli enti soci vanificherebbe, di fatto, il diritto di ogni amministrazione aggiudicatrice di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici o di altro tipo, a fronte dell'inesistenza di alcun vero e proprio obbligo di far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi12.
In una successiva occasione ancora, la Corte di giustizia13 prosegue ad enucleare, in positivo, le caratteristiche di un adeguato sistema di controllo "analogo", avvallando un meccanismo per cui, nell'ambito della governance di una società pluripartecipata da enti pubblici, si sono innestati dei comitati di controllo a cui sono stati attribuiti, congiuntamente, significativi poteri anche di natura gestionale, a fronte della corrispondente delimitazione delle attribuzione dell'organo amministrativo. Il controllo "congiunto", inoltre, viene effettuato, nel caso deciso della Corte, tramite comitati rappresentativi di tutti i soci in cui ognuno di loro dispone di uguale diritto di voto, indipendentemente dall'entità del capitale posseduto; ciò per evitare la formazione di maggioranze precostituite in capo ai soci di maggioranza relativa e consentire a ciascun socio di esercitare un reale potere di incidere sulle scelte societarie, sia pure insieme ad altri in modo da formare la maggioranza numerica dei soci stessi14.
2. I primi tentativi normativi volti alla limitazione dell'utilizzo dell'affidamento "in house" ed il ripristino di tale istituto secondo i connotati euro-unitari a seguito del referendum popolare e dell'intervento della Corte costituzionale a tutela del suo esito.
Venendo al quadro normativo nazionale, le modalità di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, intendosi per tali quelli caratterizzati da una reddittività, anche solo potenziale, e che, di conseguenza, risultanto "contendibili" sul mercato da parte di più operatori15, sono state tradizionalmente contemplate dal comma 5 dell'art. 113 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti Locali (TUEL) di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, prima modificato e poi abrogato.
Tale, fondamentale, norma aveva previsto che l'affidamento dei servizi predetti potesse avvenire, alternativamente, nei confronti di: società di capitali individuate attraverso procedure ad evidenza pubblica; società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso procedure ad evidenza pubblica; società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente pubblico titolare del capitale sociale eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente pubblico che la controlla.
Nella prospettiva ora in esame, il legislatore non esprimeva alcuna particolare preferenza tra le opzioni organizzative predette, purchè, ovviamente, sussistessero, nel caso concreto, le rispettive condizioni di legittimità.
Successivamente, un aggiornamento della disciplina posta dal TUEL in una chiave di accentuazione della tutela della concorrenza e di promozione del mercato nell'ordinamento interno, è stato introdotto attraverso il disposto di cui all'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2018, n. 112, convertito nella l. 6 agosto 2008, n. 133, come ulteriormente modificato in seguito dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella l. 20 novembre 2009, n. 166.
In sostanza, la normativa risultante dagli interventi legislativi appena citati, dopo avere puntualizzato che "in via ordinaria" la gestione dei servizi pubblici locali è affidata ad operatori individuati tramite procedure ad evidenza pubblica, è giunta a limitare l'ipotesi dell'affidamento "in house" alle residuali ipotesi in cui sussistano "situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato". Inoltre, si prescriveva l'onere di pubblicizzare un'eventuale scelta in tal senso nonchè di motivarla in base ad un'analisi del mercato attraverso una relazione da inviare all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al fine dell'espressione di un parere preventivo.
Infine, venivano poste ulteriori restrizioni per le società "in house", quali il divieto di acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi e di svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati nonchè la sottoposizione al patto di stabilità interno dell'ente socio.
Il risultato di un siffatto intervento legislativo è apparso quello di ridimensionare, per non dire sopprimere, la possibilità di ricorrere ad un affidamento diretto nei termini stabiliti dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, con ciò andando a collidere con la regola, invalsa in ambito euro-unitario, per cui un'amministrazione aggiudicatrice detiene la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa affidati medianti propri strumenti, senza essere obbligata a ricorrere per forza a soggetti esterni16.
La stessa giurisprudenza nazionale dell'epoca aveva sottolineato che la creazione di un mercato comune e l'applicazione delle conseguenti regole a tutela e promozione della concorrenza non ostano allo svolgimento delle capacità organizzatoria della pubblica amministrazione, la quale, di conseguenza, è abilitata a decidere, in alternativa alla gara, di non rivolgersi al mercato, optando per l'auto-produzione di servizi pubblici17.
Tuttavia, la disciplina di cui al citato art. 23-bis venne considerata compatibile con il diritto euro-unitario, sul presupposto che quest'ultimo consente in ogni caso al legislatore interno di prevedere limitazioni dell'affidamento diretto più estese rispetto a quelle declinate dalla Corte di giustizia; in altre parole, secondo la pronuncia della Consulta che è intervenuta sul punto, l'ordinamento euro-unitario, nel prevedere solo regole "minime" pro-concorrenziali, lascia al legislatore nazionale un ampio margine di apprezzamento, con la conseguenza che nelle ipotesi - come quella di specie - in cui quest'ultimo prevede condizioni ulteriori aventi lo stesso "verso" del diritto comunitario, deve escludersi un contrasto18.
Sennonchè, a "scompaginare" il quadro normativo appena evocato, è intervenuto l'esito positivo del referendum popolare del 12 e 13 giugno 2011, il quale ha comportato l'abrogazione dell'intera disciplina posta dal citato art. 23-bis, nell'intento, come attestato dalla Corte costituzionale in sede di pronuncia di ammissibilità del referendum stesso19, di neutralizzare l'intervento legislativo volto a privilegiare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica da parte di soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica e di relegare, al contempo, le ipotesi di affidamento diretto tramite la gestione "in house" a situazioni del tutto eccezionali.
A seguito dell'esito referendario, il legislatore nazionale, al dichiarato scopo di adeguare la "disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione Europea", tramite l'art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella l. 14 settembre 2011, n. 148, aveva provveduto a dettare una nuova disciplina in tema di servizi pubblici locali di rilevanza economica, segnata, tuttavia, da uno reiterato spirito limitativo della gestione "in house".
Infatti, la citata normativa aveva previsto, ancora una volta, che, nell'impossibilità di procedere ad una vera e propria liberalizzazione, il conferimento della gestione in esclusiva di servizi pubblici locali dovesse avvenire, in via ordinaria, in favore di soggetti individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica. In deroga a tale ipotesi, l'affidamento diretto veniva consentito solo entro un certo limite di valore (prima 900.000 e poi 200.000 Euro) a società costituite secondo i requisiti dell'in house providing, le quali, perdipiù, continuavano ad essere sottoposte, tra le altre cose, al patto di stabilità interno dell'ente socio nonchè al divieto di acquisire servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi da quelli oggetto di affidamento diretto.
Tuttavia, il reiterato spirito legislativo nel senso di limitare le ipotesi di affidamento diretto non superò il vaglio di costitituzionalità, essendosi accertato come la disciplina in questione fosse contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, "in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti “in house”, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria", essendo peraltro "letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis"19. Sul punto, la Corte costituzionale ha osservato come la normativa esaminata comportava la limitazione delle ipotesi di affidamento diretto ai casi in cui non fosse possibile la liberalizzazione, subordinando tale ipotesi al rispetto di una soglia di valore il cui superamento determinava automaticamente l'illegittimità di un affidamento diretto, a prescindere da qualsiasi valutazione dell'ente locale. Così, ne veniva accertata la difformità rispetto alla disciplina euro-unitaria, la quale subordina la legittimità dell'affidamento diretto alle sole condizioni declinate dalla Corte di giustizia, giungendo alla conclusione nel senso della illegittimità costituzionale per violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.
Il risultato delle descritte vicende è da individuarsi nella constatazione per cui, stante il vuoto normativo venutosi a creare nell'ordinamento interno in tema di modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, la disciplina applicabile è da rinvenirsi in quella euro-unitaria, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum, senza più alcun riferimento a leggi interne20.
Per effetto di tale approdo, l'affidamento "in house" è giunto ad essere considerato una modalità organizzativa ordinaria, e non eccezionale, di gestione dei servizi pubblici locali, con la conseguenza che l'eventuale decisione in tal senso della stazione appaltante si deve basare unicamente sulla sussistenza dei presupposti, di origine euro-unitaria, e con possibilità di sindacato giurisdizionale solo nei casi, come avviene per tutte le scelte amministrative connotate da discrezionalità, di evidente travisamento dei fatti o manifesta illogicità21.
3. La disciplina "speciale" di cui al Codice dei contratti pubblici e l'onere motivazionale rafforzato. L'affidamento "in house" torna una fattispecie eccezionale.
Da ultimo, il Codice dei contratti pubblici vigente, di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 s.m.i., è giunto a formalizzare anche a livello interno le condizioni legittimanti l'affidamento "in house", recependo sostanzialmente la giurisprudenza della Corte di giustizia.
In particolare, l'art. 5 del predetto Codice ha così ricostruito gli elementi che consentono di procedere all'affidamento diretto di un servizio pubblico: a) l'ente o gli enti soci esercitano sulla società un controllo "analogo" a quello esercitato sui propri servizi; b) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione o dalle amministrazioni controllanti; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Inoltre, il disposto di cui all'art. 5 predetto ha anche fissato le caratteristiche del controllo "analogo", precisando, con particolare riferimento alle società partecipate da una pluralità di enti pubblici, che esso ricorre quando: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni socie, con la precisazione per cui singoli soggetti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni; b) tali amministrazioni sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni controllanti.
Sempre il Codice dei contratti pubblici vigente, rinnovando per l'ennesima volta la particolare attenzione per gli affidamenti "in house", sempre in chiave limitativa, ha introdotto un regime "speciale" rispetto a tale forma di gestione, prevedendo, all'art. 192, la necessità di sottoporre la decisione di procedere ad un affidamento diretto ad un onere motivazionale rafforzato. In particolare, si è previsto, ai fini della legittimità di una tale scelta, l'obbligo di fornire la dimostrazione della congruità economica dell'offerta dei soggetti "in house", avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto, in particolare, delle ragioni che giustifichino il mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche22.
In relazione all'approdo legislativo appena descritto, si è evidenziato che, ancora una volta, "la previsione dell'ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti "in house" muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese"23.
La predetta norma si affianca a quella, tuttora vigente, di cui art. 34, comma 20, d.l. n. 179/2012, conv. nella l. n. 221/2012, la quale prevede che "al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste".
La norma di cui all'art. 192 del Codice dei contratti pubblici è stata sospettata di incompatibilità con l'ordinamento dell'Unione europea nonché, di riflesso, con la nostra Costituzione, nella misura in cui si sottoponga l'affidamento "in house" a condizioni più stringenti rispetto a quelle dettate in sede europea, così da giungere a ritenere tale forma organizzativa residuale o eccezionale rispetto alla effettuazione di una procedura ad evidenza pubblica.
Tali dubbi sono stati fugati, essendosi ritenuto che sia possibile per gli Stati membri prevedere una disciplina più rigorosa in tema di tutela e promozione della concorrenza rispetto a quella europea (risultando, invece, precluso fare viceversa, ovvero diminuire le garanzie in ordine al rispetto di tale fondamentale principio di matrice europea). Si sono espresse in tal senso sia la nostra Corte costituzionale24, sia la Corte di giustizia dell'Unione europea25.
A tal proposito, si è osservato che, ove dall'onere di motivazione rafforzata si faccia derivare la possibilità di ricorrere all'affidamento "in house" solo in caso di dimostrazione circa l'impossibilità di indire una procedura ad evidenza pubblica, ciò significherebbe stabilire, ancora una volta, una gerarchia tra le varie forme di affidamento, con conseguente sacrificio della pur riconosciuta, a livello euro-unitario, libertà organizzativa delle autorità pubbliche26.
Fatto sta che ne è derivata, a livello giurisprudenziale nazionale, una nuova ed ulteriore tendenza restrittiva, in applicazione del predetto art. 192, della legittimità dell'affidamento diretto in relazione all'onere motivazionale prescritto. Sul punto, si è statuito, con formulazioni invero estremamente rigorose ed intransigenti, che “la scelta di sottrarre l'affidamento di un servizio al fisiologico confronto di mercato, optando per la soluzione auto-produttiva, deve trovare fondamento in dati oggettivi ed attentamente valutati, che giustifichino il sacrificio che quella scelta arreca alla libertà di concorrenza. Pertanto la motivazione non può fare leva su dati evanescenti, di carattere eventuale o meramente organizzativo, insuscettibili di manifestare un corrispondente significativo beneficio per la collettività, derivante dal ricorso al modello dell'in house providing, e di integrare una parallela valida ragione derogatrice del ricorso primario al mercato: occorre quindi evidenziare il perseguimento di obiettivi di carattere latamente sociale, percepibili al di fuori della dimensione meramente organizzativa dell'amministrazione e costituenti, nell'ottica legislativa, il "giusto prezzo" per compensare il vulnus che esso potenzialmente arreca al valore primario della concorrenza”27.
4. Lo schema di Linee guida ANAC e il "richiamo" del Consiglio di Stato rispetto alle esigenze di semplificazione ed accelerazione delle procedure ad evidenza pubblica.
A completare il complesso quadro in tema occorre anche considerare lo schema di nuove Linee guida di ANAC in tema di affidamento "in house", approvate con delibera dell'Autorità dell'8 settembre 2021, le quali, coerentemente a quanto poc'anzi illustrato, ribadiscono la necessità che, prima di ricorrere ad assegnazioni di appalti e concessioni secondo lo schema "in house", le stazioni appaltanti siano tenute a fornire e rendere pubbliche, con precise motivazioni relative alla convenienza e congruità economica nonchè ai benefici per la collettività, le ragioni che hanno portato a scegliere tale modalità invece della gara, dovendosi ritenere illegittimo un affidamento "in house" non adeguatamente motivato. Si ricorda, peraltro, che ai sensi del comma 1 dell'art. 192 del Codice dei contratti pubblici, la legittimità dell'affidamento "in house" è subordinata almeno alla presentazione della domanda, da parte degli enti affidanti, di iscrizione all'apposito elenco tenuto da ANAC, la quale iscrizione avviene previo riscontro circa la sussistenza dei requisiti previsti dall'Autorità stessa (con le vigenti Linee guida n. 7 con delibera n. 235 del 15 febbraio 2017).
In particolare, la valutazione di congruità economica potrà essere effettuata, secondo l'Autorità, assumendo informazioni sul concreto ed attuale contesto di riferimento, ovvero sulle condizioni offerte nel medesimo ambito territoriale per le stesse o simili attività rispetto a quelle oggetto di affidamento, nonchè sui prezzi medi praticati per prestazioni simili e comparabili. A tale scopo, nella prospettiva in commento, si possono prendere in considerazione i benchmark di settore, comparando l'offerta della società "in house" con le condizioni proponibili dall'impresa media del settore gestita in maniera efficiente. In tale ottica, si possono assumere a riferimento i costi standard definiti dalle Autorità di settore, i prezzi di riferimento elaborati da ANAC, quelli delle convenzioni CONSIP, i prezzi medi praticati da operatori privati e/o soggetti "in house" per prestazioni comparabili.
Per ciò che attiene, invece, alla valutazione dei benefici per la collettività, l'Autorità suggerisce di considerare, specialmente, gli obiettivi di universalità e socialità, sotto forma di eguaglianza di comportamento nei confronti degli utenti ubicati in un determinato territorio indipendentemente dalle circostanze particolari e dal grado di reddittività economica di ciascuna singola operazione, di imparzialità in termini di accessibilità fisica ed economica, di continuità nell'erogazione delle prestazioni e di garanzia di stabilità occupazionale.
In tema, è intervenuto il parere, sia pure facoltativo, del Consiglio di Stato28, il quale ha ritenuto di sospendere il proprio giudizio sullo schema di Linee guida in questione; ciò in considerazione del carattere estremamente dinamico del quadro normativo di riferimento, in relazione all'attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e delle annunciate riforme sulla disciplina dei contratti pubblici.
Nella predetta sede, è stato considerato, ai fini qui in esame, il disposto di cui al d.l. 31 maggio 2021, n. 77, conv. nella l. 29 luglio 2021, n. 108, recante "Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure".
In particolare, si è rilevato come l'art. 10 della predetta normativa abbia introdotto "Misure per accelerare la realizzazione degli investimenti pubblici" prevedendo esplicitamente la possibilità da parte delle pubbliche amministrazioni, proprio al fine di "sostenere la definizione e l’avvio delle procedure di affidamento ed accelerare l’attuazione degli investimenti pubblici", di "avvalersi del supporto tecnico-operativo di società in house" (comma 1), nonchè specificando che ai fini della motivazione di cui all'art. 192 del Codice dei contratti pubblici, "la valutazione della congruità economica dell’offerta ha riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e la motivazione del provvedimento di affidamento dà conto dei vantaggi, rispetto al ricorso al mercato, derivanti dal risparmio di tempo e di risorse economiche, mediante comparazione degli standard di riferimento della società Consip S.p.A. e delle centrali di committenza regionali".
Ciò considerato, si è sottolineata, nel parere ora in considerazione, la spinta normativa in atto verso l'attuazione urgente del PNRR, oltre che del Piano nazionale per gli investimenti complementari e del Piano nazionale integrato per l'energia e il clima, nonchè a favore, più in generale, della ripresa economica a seguito della fase più acuta della pandemia, purtroppo tuttora in atto.
In tale contesto, la materia degli appalti è stata considerata rivestire un rilievo centrale al fine di una gestione efficiente ed efficace del PNRR, la quale impone un recupero dello storico deficit di capacità realizzativa delle opere pubbliche e di spesa delle risorse pubbliche, anche di origine comunitaria, che caratterizza da tempo il nostro Paese.
Non a caso, tutte le recenti innovazioni legislative sul tema in questione si sono rivolte nel senso della semplificazione ed accelerazione delle procedure: basti pensare al disposto di cui al d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, nella l. 11 settembre 2020, n. 120, come successivamente modificato con il già citato d.l. n. 77 del 2021, il quale, tra le altre cose, ha introdotto deroghe al Codice dei contratti pubblici ampliando ulteriormente la disciplina semplificata dei contratti "sotto-soglia" nonchè introducendo disposizioni volte alla accelerazione delle procedure ad evidenza pubblica, ciò proprio "al fine di incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonchè al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell'emergenza sanitaria globale del COVID-19".
Sul punto, si è preso un considerazione, de iure condendo, anche il disegno di legge AS 2330 recante "Delega al Governo in materia di contratti pubblici", il quale espone, tra gli altri, l'obiettivo di assicurare il perseguimento di obiettivi di stretta aderenza alle direttive europee mediante l'introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione corrispondenti a quelli "minimi" richieste dalle direttive stesse.
Nel descritto contesto, pertanto, il Consiglio di Stato ha finito per invitare l'Autorità a riconsiderare la volontà, desumibile dal testo dello schema di Linee guida in questione, di ampliare ulteriormente l'obbligo istruttorio e motivazionale richiesto ai fini del legittimo ricorso all'affidamento "in house", nonchè del corrispondente intento di ridimensionare ulteriormente tale opzione organizzativa delle pubbliche amministrazioni la quale, in un momento emergenziale, può rivestire una certa utilità e funzionalità rispetto a priorità emergenti dal contesto economico e sociale.
5. La sentenza oggetto di commento: il carattere discrezionale della scelta di procedere ad un affidamento diretto e i conseguenti limiti del sindacato giurisdizionale.
La sentenza oggetto del presente commento29 interviene, nuovamente, sul tema della legittimità di un affidamento diretto "in house" nel contesto segnato, da un lato, dal regime speciale introdotto dal Codice dei contratti pubblici, ritenuto, come detto, legittimo sia da un punto di vista di compatibilità comunitaria che sotto il profilo della costituzionalità, nonchè, dall'altro lato, dall'evoluzione dell'ordinamento dettata dallo stato emergenziale conseguente alla pandemia in atto.
La pronuncia in esame pare in effetti calata nella realtà del momento in cui è stata emessa, rinvenendosi in essa la presa d'atto sia del confermato onere motivazionale rafforzato richiesto per il (solo) affidamento "in house", sia, d'altro canto, dell'inopportunità di acuire ulteriormente la "stretta" riguardante tale modalità organizzativa, la quale, come illustrato, potrebbe risultare funzionale alle esigenze di semplificazione ed accelerazione delle procedure ad evidenza pubblica in chiave di ripresa economica e di efficiente ed efficace processo di spesa e di investimento riferito alle risorse messe a disposizione per il rilancio post crisi pandemica.
Infatti, dopo avere ribadito che "la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti "in house" muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese", la decisione ora in considerazione dà comunque atto che la scelta di procedere ad un affidamento diretto consegue ad una valutazione discrezionale della stazione appaltante, da considerare, ed eventualmente censurare, alla luce dei consueti parametri di complessiva logicità e ragionevolezza. In altri termini, nella prospettiva in considerazione, l’obbligo motivazionale imposto all’ente refluisce, sul piano istruttorio, nella attribuzione allo stesso della scelta, tipicamente discrezionale, in ordine alle modalità più appropriate di affidamento del servizio. Ciò deve avvenire sulla base dei dati necessari al fine di compiere, in maniera oggettiva quanto completa, la valutazione di preferenza per l'affidamento diretto, sulla base della considerazione circa la soluzione organizzativa e gestionale praticabile attraverso il soggetto "in house", nonchè in merito alla capacità del mercato di offrirne una equivalente, se non maggiormente apprezzabile, sotto i profili della universalità e socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche.
In tale contesto, si ammette che la verifica del giudice amministrativo deve arrestarsi allo scrutinio esogeno delle modalità con cui è stata esercitata la funzione amministrativa attribuita alla stazione appaltante, avuto riguardo alla idoneità della motivazione ad illustrare la legittimità della scelta rispetto al quadro fattuale rilevato in maniera attendibile ed esaustiva30.
In forza di tali premesse, i giudici amministrativi sono giunti a riformare la sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto insufficiente ed inadeguato l'apparato motivazionale fornito in relazione al disposto affidamento "in house", riconsiderando gli elementi del caso concreto.
In particolare, gli elementi motivazionali valutati, positivamente, dai giudici d'appello sono stati, per quanto riguarda il ricorso al mercato, la constatazione della circostanza per cui nei precedenti venti anni solo quattro imprese hanno partecipato alle gare indette dalla stazione appaltante per il servizio in questione, ovvero quello di igiene urbana. Per ciò che attiene, invece, alla congruità economica è stata apprezzata l'attività istruttoria che ha comparato i costi sostenuti fino ad allora dall'amministrazione, nei confronti del gestore uscente, con quelli proposti dal soggetto "in house", messi a confronto anche con i prezzi medi praticati nelle zone limitrofe, come risultanti dall'osservatorio provinciale rifiuti. Inoltre, si è dato conto che nella relazione accompagnatoria si sono messi in evidenza i servizi e le attività aggiuntive dell'operatore "in house", i quali sono stati valutati (secondo un apprezzamento ritenuto esente da vizi) dal Comune in termini qualitativamente migliorativi rispetto alle pregresse gestioni, vista anche la possibilità di adattare in ogni momento le condizioni di erogazione del servizio alle mutate esigenze dell'amministrazione pubblica, con ciò comportando un beneficio per la collettività derivante dalla capacità di assicurare l’adattamento del servizio alle continue e mutevoli esigenze sociali della collettività, senza sopportazione di oneri aggiuntivi che invece il mercato avrebbe imposto a cagione del vincolo di cristallizzazione dell’offerta.
Pertanto, sulla base delle descritte circostanze del caso di specie, si è giunti a ritenere che "la scelta effettuata risulta coerente con i presupposti di fatto acquisiti al procedimento, ovvero non irragionevole né affetta da travisamento dei fatti, nonché adeguatamente supportata in punto di valutazione della congruità economica", "avuto significativamente riguardo alla congruità dell’offerta ricevuta, alla sostenibilità finanziaria, alla convenienza economica, alla qualità ed efficienza del servizio nonché ai benefici per la collettività, e tenuto conto, altresì, della resa esplicitazione delle ragioni sottese al mancato ricorso al mercato".
In definitiva, la sentenza oggetto del presente commento, nel contesto ondivago fin qui descritto in tema di modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, pare poter annunciare una, ennesima, inversione di tendenza, perlomeno in una certa misura.
Infatti, riportare la scelta di procedere ad un affidamento "in house" nel contesto della discrezionalità rimessa alla pubblica amministrazione nell'individuare la modalità organizzativa più idonea rispetto al perseguimento della missione di interesse pubblico alla medesima affidata, con i conseguenti limiti del sindacato giurisdizionale ai (soli) casi di manifesta illogicità o arbitrarietà, significa prendere le distanze da quella giurisprudenza di poco precedente che, come illustrato, tendeva a richiedere la dimostrazione dell'impossibilità vera e propria di ricorrere al mercato. Tale pretesa, infatti, rischia di tradursi nella richiesta di una prova quasi impossibile, risolvendosi, ancora una volta, in una sostanziale vanificazione della possibilità di auto-produzione del servizio pubblico da parte della pubblica amministrazione attraverso una struttura societaria formalmente distinta, per esigenze di maggiore efficienza ed efficacia, dalla medesima amministrazione ma sostanzialmente rientrante nella propria capacità organizzativa.
In altri termini, la pronuncia in questione risulta prendere atto del particolare contesto attuale, ancora segnato dalla crisi sanitaria, economica e sociale causata dalla pandemia, e, in particolare, dalla stringente necessità che ne deriva di considerare come prioritarie, non solo le esigenze legate alla tutela e promozione della concorrenza, ma anche quelle connesse all'urgente bisogno di rilancio economico attraverso uno snellimento e una accelerazione delle procedure ad evidenza pubblica, come testimoniato dalla recente produzione legislativa e probabilmente anche da quella di prossima introduzione.
Inoltre, nella prospettiva così delineata, lo strumento dell'affidamento "in house" può costituire un prezioso strumento a disposizione delle pubbliche amministrazioni nel momento in cui si ravvisi la necessità di adeguare velocemente le modalità e le condizioni di erogazione di un servizio pubblico alle esigenze di interesse pubblico che possono manifestarsi e modificarsi in maniera anche estremamente repentina sotto la spinta degli stravolgimenti causati, non solo a livello strettamente sanitario, ma anche economico, sociale, occupazionale, dalla pandemia.
Del resto, vale anche la pena di non dimenticare come la volontà popolare si sia espressa, in occasione del referendum del 2011, nel senso di un assetto organizzativo in materia di servizi pubblici locali che contempli la possibilità di optare, sia pure motivatamente, per un affidamento diretto nei confronti di un soggetto su cui la stazione appaltante sia in grado di esercitare un controllo "analogo" a quello esercitato sui propri servizi e dunque meglio in grado di valorizzare le esigenze sociali connesse all'erogazione del servizio stesso, secondo una sensibilità che non si può pretendere dal soggetto privato, il quale è naturalmente animato da uno scopo di lucro e, dunque, di massimizzazione del profitto, in attuazione di un contratto di servizio stipulato con l'amministrazione affidante che, come tale, sostanzialmente cristallizza le condizioni di erogazione del servizio per la durata dall'affidamento stesso.
Così, anche sulla scorta di quanto appena evidenziato, sembra che la sentenza oggetto del presente commento abbia dischiuso una possibile prospettiva di "ritorno" del quadro di regole in tema di affidamento "in house" che si attesti sui livelli "minimi" di promozione e tutela della concorrenza propugnati in ambito euro-unitario, senza esasperazioni o comunque accentuazioni che rischiano di privare a priori la pubblica amministrazione di uno strumento organizzativo potenzialmente adatto, in termini di flessibilità e capacità di adattamento, a fronteggiare il, purtroppo perdurante, stato emergenziale, il quale richiede flessibilità e rapidità di esecuzione delle scelte amministrative.
1Sul tema si v. A. Alaimo, A. Tempesta, Affidamenti diretti e "in house": l'esperienza del Regno Unito, in Amministrare, 2006, 425 ss.; J. Fenwick, K. Harrop, Servizi pubblici locali nel Regno Unito. Privatizzazione e concorrenza, in Dir. ec., 2000, 53 ss.
2Corte di giustizia UE, 10 novembre 1998, in C-306/96, Arnhem, in Racc., 1998, I, 6821.
3Corte di giustizia UE, sez. V, 9 settembre 1999, in C-108/98, RI.SAN, in Cons. St., 1999, III, 1905.
4Corte di giustizia UE, 18 novembre 1999, in C-107/98, Teckal, in Foro amm., 2001, 795.
5Sul tema sia consentito il rinvio a S. Monzani, Controllo "analogo" e governance societaria nell'affidamento diretto dei servizi pubblici locali, Milano, 2009, ivi ulteriori riferimenti.
6Corte di giustizia UE, sez. IV, 14 novembre 2002, in C-310/01, Diddi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 275.
7Corte di giustizia UE, sez. VI, 8 maggio 2003, in C-349/97, Comm. CE c.Regno di Spagna, in Riv. trim. app., 2004, 1069.
8Corte di giustizia UE, sez. I, 11 gennaio 2005, in C-26/03, Stadt Halle, in Foro amm. CdS, 2004, 3023. Sul punto si v. anche Corte di giustizia UE, Grande sez., 21 luglio 2005, in C-231/03, Co.Na.Me, in Foro amm. CdS, 2005, 2001, in cui non si è ravvisata un'adeguata forma di controllo in considerazione della partecipazione particolarmente esigua di un Comune affidante alla società affidataria nonchè della possibile apertura del capitale ai privati.
9In tema, secondo G. Caia, Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in www.giustizia-amministrativa.it, la società potrà dirsi rispondente al modello di delegazione interorganica quando il controllo dell'ente locale sia attuato con mezzi, quali clausole statutarie, nomine ex art. 1449 c.c., convenzioni di diritto pubblico per il controllo congiunto, idonei ad assicurare che essa costituisca effettivamente un soggetto strumentale senza una propria autonomia decisionale, se non per i profili esecutivi. Sempre sulla tendenza restrittiva rispetto all'in house, si v. anche A. Clarizia, La Corte suona il de profundis per l'in house, in Giust. amm., 2005, 1061 ss.; L.R. Perfetti, Miti e realtà nella disciplina dei servizi pubblici locali, in Dir. amm., 2006, 387 ss.; R. Ursi, La Corte di giustizia stabilisce i criteri del controllo "in house", in Foro it., 2006, pt. 1, 79 ss.; G.F. Ferrari, Ancora sui requisiti Teckal: la coperta è sempre più corta, in Dir. pubbl. comp. eu., 2006, 1367 ss. Più di recente, si v. sempre di G. Caia, Le società "in house": persone giuridiche private sottoposte a peculiare vigilanza e tutela amministrativa, in Giur. comm., 2020, 457 ss.
10Corte di giustizia UE, sez. I, 11 maggio 2006, in C-340/04, Carbotermo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 2, 526.
11Corte di giustizia UE, sez. I, 17 luglio 2008, in C-371/05, Commissione c. Repubblica Italiana, in Giur. comm., 2009, II, 5.
12Corte di giustizia UE, sez. III, 13 novembre 2008, in C-324-07, Coditel Brabant, in Foro amm. CdS, 2008, 2899. In tema si v. anche Corte di giustizia UE, sez. III, 29 novembre 2012, in C-182 e 183/11, Econord, in Foro amm. CdS, 2012, 2748, per cui "Qualora più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un'entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando un'autorità pubblica aderisce ad un'entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, secondo cui tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell'Unione, debbono esercitare congiuntamente sull'entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell'entità suddetta".
13Corte di giustizia UE, sez. III, 10 dicembre 2009, in C-573/07, Sea, in Guida al diritto, 2009, 46, 80.
14Sul punto cfr. R. Morzenti Pellegrini, Società affidatarie dirette di servizi pubblici locali e controllo "analogo" esercirato in maniera congiunta e differenziata attraverso strutture decisionali extra-codicistiche, in Foro amm. CdS, 2009, 2233 ss.
15Sul tema si v., tra le altre, Corte Cost., 17 novembre 2010, n. 325, in Giur. cost., 2010, 4501; Cons. St., sez. V, 23 ottobre 2012, n. 5409, in Foro amm. CdS, 2012, 2638; Cons. St., sez. V, 10 settembre 2010, n. 6529, in www.giustizia-amministrativa.it; Corte conti, sez. Controllo Lombardia, parere n. 163 del 31 marzo 2011, in www.corteconti.it.
16Così, tra le altre, Corte di giustizia UE, sez. III, 13 novembre 2008, in C-324/07, Coditel Brabant, punto 48, cit.; Corte di giustizia UE, sez. V, 13 ottobre 2005, in C-458/03, Parking Brixen, punto 61, cit.; Corte di giustizia UE, sez. I, 11 gennaio 2005, in C-26/03, Stadt Halle, punto 48, cit.
17Tra le altre, nel senso indicato, Cons. St., sez V, 30 novembre 2007, n. 6137, in Foro amm. CdS, 1153; T.A.R. Sardegna, sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407, in Foro amm. Tar, 2008, 264; T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 11 agosto 2009, n. 2011, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, sul punto, si v. C.E. Gallo, Affidamenti diretti e forme di collaborazione tra enti locali, in Urb. e app., 2009, 1181, secondo il quiale "non si può ritenere che la disciplina sulla concorrenza faccia premio sulla potesta auto-organizzatrice delle singole pubbliche amministrazioni". Sul punto cfr. anche F. Goisis, Nuovi sviluppi comunitari e nazionali in tema di in house providing e i suoi confini, ivi, 2008, 579 ss.
18Così Corte cost., 17 novembre 2010, n. 325, in Giur. cost., 2010, 4501.
19Corte cost., 26 gennaio 2011, n. 24, in Giur. cost., 2011, 247.
19Così, Corte cost., 20 luglio 2012, n. 144, in Giur. cost., 2012, 2877.
20Nel senso indicato si v. Corte cost., 26 gennaio 2011, n. 24, cit., nonchè Corte cost., 28 marzo 2013, n. 50, in Giur. cost., 2013, 811; Corte cost., 16 luglio 2014, n. 199, in Giur. cost., 2014, 3194.
21Così, ad esempio, Cons. St., sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4902, in Foro amm., 2017, 1991. Nello stesso senso, tra le altre, si v. anche Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257, ivi, 2015, 76; Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 762, in Foro amm. CdS, 2013, 516.
22Sul punto, cfr. Cons. St., sez. IV, 15 luglio 2021, n. 5351, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si è sottolineata, tra le altre cose, con specifico riferimento alla prospettiva economica, la necessità che l'amministrazione valuti la convenienza dell'affidamento del servizio secondo lo schema dell'in house rispetto all'alternativa costituita dal ricorso al mercato, attraverso una comparazione tra dati da svolgersi mettendo a confronto operatori privati operanti nel medesimo territorio, al fine di dimostrare che quello fornito dalla società in house è il più economicamente conveniente ed in grado di garantire la migliore qualità ed efficienza. Pià in generale, sul tema, cfr. G. Ruberto, La disciplina degli affidamenti in house nel d.lgs. 50/2016, tra potestà legislativa statale e limiti imposti dall'ordinamento dell'Unione europea, in www.federalismi.it.
23Cons. St., sez. III, 10 maggio 2021, n. 3682, in Foro amm., 2021, 783; T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 14 giugno 2021, n. 1021, ivi, 1042. In senso analogo si è espresso anche T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 8 aprile 2021, n. 329, ivi, 626, in cui si è statuito che l'art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara d'appalto, consentendo tali affidamenti solo in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché imponendo comunque all'Amministrazione che intenda operare un affidamento in regime di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefici per la collettività connessi a tale forma di affidamento. Ancora sul punto, T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 22 marzo 2021, n. 742, in www.giustizia-amministrativa.it, ha evidenziato come nell'applicare la norma in questione "l'Amministrazione deve, in particolare, dimostrare la reale convenienza di tale specie di affidamento rispetto alle condizioni economiche offerte dal mercato, con un onere motivazionale rafforzato, che consente un penetrante controllo della scelta, sul piano dell'efficienza amministrativa, e del razionale impiego delle risorse pubbliche, al fine di impedire una riduzione della concorrenza, in danno delle imprese e dei cittadini". Nel medesimo senso anche T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 14 gennaio 2021, n. 45, in Foro amm., 2021, 179.
24Corte cost., 27 maggio 2020, n. 100, in Giur. cost., 2020, 1209, la quale ha evidenziato, tra le altre cose, che il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee (cd. gold plating) va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli "oneri non necessari", e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie "che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive". In tema si v. V. Ferrari, Contratti pubblici: affidamenti in house vs concorrenza, legislazione regionale vs legislazione statale, favor per le imprese in crisi vs interessi dell'amministrazione, in Foro it., 2020, 3002 ss.
25Corte di giustizia UE, sez. IX, 6 febbraio 2020, nelle cause riunite C-89/19, C-90/19 e C-91/19, in Foro amm., 2020, 201, la quale ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche discende la "libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze". Conseguentemente, quel principio "autorizza a subordinare la conclusione di un'operazione interna all'impossibilità di indire una gara d'appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna".
26Sul punto cfr. E. Zampetti, I servizi pubbici nel contesto pandemico. Riflessioni su libertà organizzativa affidamento in house e principio di sussidiarietà, in questa Rivista, 2021.
27 Cons. St., sez. III, 12 marzo 2021, n. 2102, in www.giustizia-amministrativa.it; per un commento a tale pronuncia si v. A. Squazzoni, Affidamento in house e motivazione del mancato ricorso al mercato, in questa Rivista, 2021. In senso analogo anche Cons. St., sez. IV, 15 luglio 2021, n. 5351, in www.giustizia-amministrativa.it. Già in precedenza, Cons. St., sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564, ivi, aveva rilevato come l'art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici imponga che l'affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi: a) la prima condizione consiste nell'obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l'esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell'affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato fallimento del mercato rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a "gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche", cui la società in house invece supplirebbe; b) la seconda condizione consiste nell'obbligo di indicare, a quegli stessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all'opzione per l'affidamento in house(dimostrazione che non è invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento - con particolare riguardo all'affidamento tramite gare di appalto). Anche qui la previsione dell'ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
28Cons. St., sez. Cons., parere 7 ottobre 2021, n. 1073, in www.giustizia-amministrativa.it.
29Cons. St., sez. IV, 19 ottobre 2021, n. 7023, in www.giustizia-amministrativa.it.
30Sempre nel senso che la pubblica amministrazione detiene la possibilità, sulla base dei principi che regolano gli affidamenti pubblici anche a livello europeo, di scegliere con ampia discrezionalità se assumere il servizio in prima persona mediante le proprie strutture oppure affidarlo mediante "in house providing", ovvero mediante procedura di appalto, si v., di recente, T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 8 febbraio 2021, n. 1594, inForo amm., 2021, 308.
Mario Almerighi, un grande uomo partito troppo presto
di Michele del Gaudio
Il 19 gennaio 2022 è stato il suo onomastico.
È domenica, ma Mario è in ufficio… a studiare il processo denominato “Lo scandalo dei petroli”.
Il nuovo palazzo di giustizia del 1974 conserva il cortile interno, con il portico colonnato e lo scalone monumentale, dell'edificio settecentesco dell'ospedale di Pammatone, ma è fasciato da vetro, metallo e cemento in un connubio di luce remota e futura.
A Mario intriga, in pochi metri si percorrono secoli! E gli piace affidarsi alla stanza moderna, distaccata, fredda proprio perché l’attimo dopo può godere della superba, sensuale, antica architettura. Ci lavora volentieri, anche per i ricorrenti break visivi fra abrogato raffinato e vigente grezzo ma fecondo, soprattutto quando non ode transiti vocianti, carrelli appesantiti da vicende criminali, silenzi prontamente rimossi. Preferisce i bui fiochi dei pomeriggi invernali e delle laboriose ore notturne in attesa dell’atto decisivo, dell’intuizione determinante, del cerchio che si chiude.
Si accorge che la testa penzola e gli occhi arrossati reclamano un cuscino sognante.
Ma, mentre comincia a raccogliere i fogli che ondeggiano sulla scrivania, ne fissa uno, con l’intestazione accattivante. È la svolta!
È una lettera! Dell’associazione petrolifera nazionale! È diretta a quella ligure: “Ci siamo accordati con i partiti per dare loro questa somma. Tutti hanno pagato; solo voi no. Volete versare la vostra quota?”.
È una prova documentale della corruzione fra petrolio e politica!
Mario è eccitato! Nei suoi trentacinque anni non ha mai provato quell’emozione, non statica ma dinamica: una simbiosi in evoluzione fra gioia, leggerezza subito gravosa, responsabilità preoccupante, paura, inquietudine… Lui, il giudice, Mario ha le qualità per istruire un siffatto processo? le capacità per reggere un fardello così enorme ed informe? E il coraggio per incriminare ministri e deputati? Proprio il coraggio in quell’istante s’è rifugiato nell’andito più recesso del suo stomaco e lo ammonisce con una nausea mista a impercettibili conati.
Il tutto dura un oggettivo nanosecondo, una soggettiva era glaciale. Mario si tocca braccia e gambe e respira calmo. È o non è il giudice ragazzino che all’ultima assemblea dell’associazione magistrati si è beccato applausi convinti e prolungati?
“Fino ad ora la gran parte della magistratura non è stata proprio indipendente. C'è stata una specie di coesione di tutta la classe dirigente del Paese, dai politici ai magistrati, ai professionisti, agli imprenditori, ai funzionari pubblici. Per cui, se si è accusato un giudice, o un medico, o un sindaco, si è teso a coprire. Ma nella base della magistratura si estende la voglia di indipendenza in attuazione della Costituzione. È il momento di non guardare più in faccia a nessuno. È tempo di procedere anche contro i potenti, senza nessun timore reverenziale!”.
Queste parole gli pulsano nelle vene e, se non gli infondono una solida fermezza, almeno neutralizzano la paura e le impediscono di paralizzarlo, di condizionare le sue scelte.
L’indomani avrebbe preso in giro i colleghi di ventura Adriano Sansa e Carlo Brusco: “Leggete un po’! Grazie alla taccagneria di voi liguri scopriremo i santuari dello scambio di mazzette. Siete avari anche quando dovete pagare le tangenti!”. “Ma stai zitto, sardo scorbutico!” gli avrebbero risposto.
Ma è già domani, alle 7.00 bussa il custode.
È come un secchio d’acqua fredda sul viso. Le energie si arrampicano per i polpacci, il fegato, il cuore, la mente.
“È già qui, dottor Almerighi?”.
“Sì, ci sono dolci zanzare che volteggiano…” accenna in confusione Mario.
“Mi faccio il caffè, ne vuole anche lei?” taglia corto il custode, depositario delle sue ripetute veglie.
Mario non è ancora consapevole di essere uno dei primi “giudici d'assalto”, quelli veramente e finalmente indipendenti. Spontanei e non organizzati si diffondono a macchia d'olio. L'indipendenza preme forte come il vento e negli anni ’80 sono tanti i processi contro persone influenti. La gran parte non arriva a conclusione, perché, se sono indipendenti i giudici, non lo sono ancora i capi degli uffici giudiziari. Salvo eccezioni come quello di Falcone e Borsellino… il maxi-processo si fa non solo per loro, ma anche grazie al capo indipendente: Antonino Caponnetto.
Mario non conosce ancora Susanna che sarà sua moglie.
Non conosce ancora Valeria che sarà sua figlia, né Dario che sarà suo figlio…… né me che sarò il suo fratello minore: mi trasmette la sua utopia: sperare non è solo logico, ma vitale, perché ci obbliga all’impegno, ci rende felici già mentre sviluppiamo l’azione, a prescindere dal conseguimento dell’obiettivo… imparo osservando il suo agire, il suo trasformare ogni vittoria in umile tassello, ogni sconfitta in nuova energia, perché il bene sa vincere anche perdendo.
Quella notte però Mario c’è già tutto. È l’espressione dell’umanità in divenire.
Appunto per una giustizia non solo più efficiente, ma anche più giusta*
di Glauco Giostra
1. Il dibattito sulla riforma del processo penale ha suscitato un grande interesse non soltanto da parte degli addetti ai lavori, ma anche della politica, dei media e di ampi settori della società civile. Ed è questo un dato confortante perché sembra attestare la consapevolezza che la giustizia penale esprime la cifra della civiltà di un Paese. Non si può purtroppo non aggiungere, però, che il confronto ha spesso conosciuto sgangherate argomentazioni e accenti scomposti, rimandando una sensazione di deprimente rozzezza. Che ciascun locutore potesse ritenere di avere la giusta ricetta e la proclamasse stentoreamente può essere comprensibile, anche se poco giustificabile: mai, come in questa materia, vale il monito di Voltaire secondo cui «il dubbio può non essere piacevole, ma la certezza è ridicola». Ma a segnare un preoccupante degrado del confronto pubblico è la contagiosa tendenza a demonizzare le idee avverse, usando linguaggi e toni da stadio, o a invocare a sproposito l’usbergo di sacri principi costituzionali o di prescrizioni sovranazionali, con argomenti che, avrebbe detto Cordero, non valgono più di un pugno battuto sul tavolo.
Ciò può trovare spiegazione, non certo giustificazione, nella peculiarità dell’attuale situazione politica. Proprio perché, come si è detto, la giustizia penale è la più fedele carta di identità di un Paese, le scelte che la riguardano non sono semplici soluzioni di ingegneria giuridica per elaborare un efficiente e affidabile strumento di conoscenza, ma, presupponendo opzioni valoriali che definiscono lo statuto dell’individuo di fronte all’Autorità, hanno sensibilissime implicazioni culturali e politiche. Nella situazione data, un Governo che si avvale del sostegno di forze con opposte idealità, in particolare con speculari concezioni del rapporto tra Stato e cittadino, non può non incontrare insormontabili difficoltà ad approntare una riforma della giustizia penale razionale e coerente. La necessità di provvedere anche per ottenere gli ingenti finanziamenti dall’Europa può avere funzionato da collante, insieme alla capacità del Ministro della Giustizia e del Presidente del Consiglio di tenere insieme forze congenitamente centrifughe. Tuttavia, il compromesso cui inevitabilmente si è talvolta dovuti ricorrere non è di per sé un buon risultato, poiché per la giustizia penale non si tratta – come per molte altre trattative politiche – di trovare una linea mediana che soddisfi, con reciproci sacrifici, i contrapposti fronti ideologici, né di concedere qualcosa sia all’uno, sia all’altro per bilanciare le opposte pretese: il sistema giustizia rischia di perdere credibilità e di sommare gli errori di entrambi i poli dialettici, come talvolta è puntualmente avvenuto[1].
I toni manichei che hanno accompagnato e che verosimilmente continueranno ad accompagnare gli sviluppi della riforma trovano spiegazione o nella mancata consapevolezza della complessità della materia e delle controindicazioni di ogni soluzione, oppure nel desiderio di collocarsi, di marcare il proprio posizionamento politico-culturale, per il timore che approcci più problematici – di questi tempi distorsivamente percepiti come esitanti – condannino all’invisibilità mediatica o, peggio, siano causa di un’emorragia di consensi. Difficile dire quale spiegazione sia meno preoccupante.
2. Molti e molto autorevolmente interverranno qui a commento degli aspetti qualificanti dell’importante progetto all’esame del Parlamento: indugiare sui medesimi, da parte mia, potrebbe aggiungere ben poco. A me preme parlare di ciò su cui il disegno riformatore sostanzialmente tace, e di cui invece non si può non parlare nel momento in cui ci si ripromette di miglio rare il nostro modo di rendere giustizia. Almeno, se si vuole non soltanto una giustizia più efficiente e più rapida, secondo il meritorio e non disinteressato obbiettivo del momento, ma anche una giustizia più giusta[2]. Beninteso, per essere giusta la giustizia deve potersi realizzare in modo efficiente e in tempi ragionevoli, ma prima di ogni altra cosa deve costituire il più credibile sforzo per conseguire la verità, dando fondo a tutte le risorse conosciute, compatibilmente con il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo.
3. Il tornante epistemologico imboccato dal Codice di rito dell’89 – come è noto – aveva il suo punto di svolta nella prova dichiarativa. Si affermò un nuovo verbo processuale: tendenzialmente, l’unica prova attendibile, l’unico mattone utilizzabile per costruire la sentenza doveva essere la prova formata in contraddittorio. Le acquisizioni della psicologia cognitiva avevano da tempo «sbugiardato» la convinzione sottesa all’impianto del Codice del 1930, secondo cui il fatto storico, come un mosaico frantumato, lascia nella realtà fisica e nella percezione sensoriale umana tracce che è compito dell’investigatore rinvenire (investigazione come ricerca delle vestigia facti, cioè impronte del fatto). Non importa la tecnica di acquisizione di questi «reperti cognitivi”: più tessere del mosaico vengono recuperate, più agevole e attendibile sarà il compito del giudice che deve ricomporlo. Opzione metodologica che sarebbe senz’altro da sottoscrivere se la persona informata sui fatti fosse una res loquens e il suo prodotto narrativo non fosse destinato a cambiare a seconda di chi, come, dove, quando la compulsa. Le scienze della mente, invece, avevano da sempre dimostrato che la rievocazione del ricordo viene sensibilmente influenzata dalla tecnica maieutica: con il mutare del forcipe muta, talvolta anche in modo radicale, la conformazione del feto della memoria. Si convenne allora – e ancor oggi nessuna evidenza scientifica induce a riconsiderare quell’opzione – che la migliore levatrice del ricordo fosse la formazione dialettica della prova testimoniale. Quanto l’inquirente pubblico o privato raccoglie per mettere a punto la linea accusatoria o difensiva è materiale conoscitivo di scarto: ad avere valore probatorio, di regola, è soltanto ciò che il teste riferisce al giudice incalzato dalle domande delle parti.
4. Questa scelta gnoseologicamente qualificante del Codice vigente ha dovuto convivere con incongruenze normative e con degenerazioni delle prassi giudiziarie[3], che hanno compromesso la coerenza del sistema. Quanto alle prime, basterebbe ricordare la regola secondo cui, solo che sopraggiunga un’impossibilità di «interrogare» il testimone in dibattimento, si possono recuperare con valore di prova le sommarie informazioni rese dal soggetto durante le indagini (art. 512 c.p.p.) e che, senza l’accidente occorsogli, non sarebbero state neppure conoscibili dal giudice del dibattimento. Oppure la disposizione che conferisce valore di prova alle dichiarazioni testimoniali assunte in contraddittorio in altro procedimento (art. 238, primo comma, c.p.p.): un contraddittorio evidentemente privo di qualsiasi valore epistemologico nel processo a quem, a cui con tardiva e insufficiente resipiscenza il legislatore ha cercato di conferire senso, pretendendo che per essere traslabili in altro procedimento le dichiarazioni de quibus debbano essere state assunte con la presenza del medesimo difensore che assiste l’imputato nel processo di destinazione (art. 238, comma 2-bis, c.p.p.). Oppure, ancora, la norma che riconosce valore di prova alla testimonianza de relato, anche quando il teste indiretto sin dall’inizio fa riferimento a persona che sa già non essere più in grado di deporre e, quindi, di smentirlo (art. 195, terzo comma, c.p.p.). Per non dire, più in generale, dell’incongruenza di un appello tendenzialmente e sostanzialmente cartolare, in esito al quale può essere censurata e riformata una sentenza di primo grado fondata su testimonianze assunte dialetticamente davanti al giudice che l’ha emessa.
Queste e altre incongruenze non andrebbero sottovalutate, pena la credibilità del sistema: se vi fosse la volontà di rimuoverle, peraltro, non sarebbe complicato porvi rimedio, e in parte la giurisprudenza e il legislatore si stanno muovendo in questa direzione. Ma vi è una criticità molto più insidiosa, sotterranea, corrosiva; una criticità, soprattutto, a cui non è facile apprestare un antidoto: inutile cercare nella «farmacia giuridica» un medicinale che prevenga o sani questa patologia. Bisogna attrezzarsi per imparare a diagnosticarla e per ridurne al minimo gli effetti con una pluralità di interventi sinergici.
Se il Codice vigente ha rimosso l’ingenuità epistemologica su cui poggiava quello precedente – vale a dire l’irrilevanza della tecnica di elicitazione nella prova testimoniale −, temo che esso stesso poggi su un presupposto non meno fallace: l’inalterabilità del patrimonio mnestico. L’attuale sistema è costruito intorno all’idea che alla fonte dichiarativa possa attingere chiunque in qualsiasi fase del procedimento e con qualsiasi metodo, purché l’unico sapere testimoniale utilizzabile in sentenza resti quello assunto in contraddittorio dinanzi al giudice della decisione. Ciò presuppone che il ricordo costituisca una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato della memoria; che il problema sia soltanto quello di ritrovarlo, usando la potente «torcia» del contraddittorio e di riportarlo nell’appartamento dell’attualità, a disposizione di coloro che ne chiedono notizia. Il ricordo, invece, è materia viva e deteriorabile. Talvolta, addirittura, frutto di un’involontaria creazione. Ciò che il contraddittorio è in grado di garantire è la sincerità, non la veridicità delle risposte: nessun esame incrociato riuscirà a far riferire fedelmente quanto originariamente percepito a un dichiarante che crede nella verità del suo falso ricordo[4].
5. «L’oblìo e la memoria – scriveva Borges – sono inventivi». Già l’azione silente di Cronos inavvertitamente sbiadisce un volto, offusca un particolare, confonde le parole ascoltate, oblitera un dato, scuce una sequenza: il ricordo con il trascorrere del tempo diviene spesso «impresentabile» e talora la ragione, solerte, provvede creativamente a ricomporlo. Capita, altre volte, che tra il momento della percezione e quello della rievocazione del percepito invisibili «neuro-sherpa» prendano dall’esterno informazioni, le trasportino nello scantinato e le impastino con il materiale conoscitivo che vi è stato conservato, trasformandolo. Con una sintesi che anche l’ultimo degli studiosi di psicologia forense troverebbe grossolana potremmo dire che tra i fattori in grado di adulterare il ricordo potrebbe essere utile distinguere: il decorso del tempo; i condizionamenti endo-processuali (soprattutto gli «interrogatori») e le suggestioni esterne (soprattutto mediatiche). Sono fattori che, naturalmente, possono concorrere tra loro e con altri, ma che è opportuno tenere separati perché differenti possono essere gli strumenti per neutralizzarne l’azione. Il decorso del tempo. Forse nell’idea originaria del Codice, che prevedeva indagini agili e sommarie e un dibattimento improntato al rispetto del principio di concentrazione, ove realizzata, il de corso del tempo avrebbe dovuto avere meno modo di esercitare la sua azione corrosiva sulla memoria. Ma con il nuovo carico funzionale assegnato alle indagini e con un’articolazione della fase dibattimentale in cui tra le udienze ormai intercorrono mesi e talvolta anni, a essere rievocati con la testimonianza assunta nel contraddittorio delle parti sono, di regola, fatti avvenuti diversi anni prima[5]. Essendo il patrimonio mnestico – come si diceva – materia deteriorabile, sempre più spesso si susseguono i «non ricordo». E altrettanto spesso questi «falli» nel tessuto della memoria vengono rammendati ricorrendo impropriamente a ciò che quello stesso teste aveva dichiarato agli inquirenti: quando non ci si limita a sollecitarne una mera conferma, gli si leggono sue dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero e gli si chiede se si riconosce in quanto a suo tempo affermato, ottenendo quasi sempre una risposta del tipo «Certo, se l’ho detto sarà senz’altro vero». Prassi palesemente illegittima e che tanto rievoca il mortificante dibattimento previgente.
Il supporto normativo sarebbe costituito dall’art. 499, quinto comma c.p.p., a norma del quale «Il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti»; ma cosa questa disposizione abbia a che fare con la prassi di un pubblico ministero (o di un difensore) che al teste immemore si rivolge dicendo: «Ora le leggo cosa ricordava in prossimità dei fatti e lei mi dice se si sente di confermare», è difficile capire. Soprattutto quando il vuoto di memoria investe l’intero oggetto della testimonianza, questa surrettizia forma di «aiuto alla memoria» finisce per realizzare di fatto proprio ciò che il vigente Codice si riprometteva di evitare: cioè, che si conferisse valore probatorio agli atti di indagine.
6. «Prima di valutare se una risposta è esatta – ammoniva Kant – si deve valutare se la domanda è corretta». Ciò è tanto più vero nel procedimento penale, durante il quale la persona interrogata cerca istintivamente di intuire dalla domanda quale sia la risposta preferita dal suo esaminatore. Le domande corrette sono quelle (c.d. «aperte») che rendono questa ricerca vana, ma possiamo senz’altro affermare – con un eufemismo – che non sono le più frequenti. In genere, l’interrogato coglie nelle parole o nell’intonazione della domanda l’aspettativa di una risposta che abbia un certo segno.
Ci sono poi domande che tendono intenzionalmente a condizionare la risposta, quando non a suggerirla; e queste, in particolare, quand’anche non sortiscano da subito l’effetto voluto, vanno a depositare il loro sottotesto nel fondaco mentale del dichiarante, che senza rendersene conto difficilmente in futuro riuscirà a prescinderne[6]. Questa subdola suggestione della domanda che punta a farsi risposta risulterà tanto più condizionante quanto più autorevole sarà la figura dell’interrogante agli occhi dell’interrogato[7], che successivamente opererà in modo inconsapevole ogni possibile rielaborazione mnestica per cercare di non discostarsi da quanto l’interrogante aveva lasciato intendere fosse la «sua» verità[8]. Considerazione che da sola dovrebbe bastare per prendere convintamente posizione rispetto al contrasto giurisprudenziale insorto in merito alla possibilità per il giudice di rivolgere domande suggestive al teste: pur riconoscendo che argomentazioni strettamente esegetiche possono essere spese per sostenere l’orientamento opposto, si deve escludere che il giudice possa suggerire le risposte con le proprie domande, perché in tal modo inquina irreversibilmente il giacimento mnestico del testimonio.
È pur vero che la giurisprudenza più avvertita ha di recente annullato una decisione basata sulle dichiarazioni rese dal teste a seguito di domande suggestive rivoltegli dal giudice[9]. Ma ciò, pur essendo esito ineccepibile, non risolve il problema. Quando si rinnoverà la testimonianza, le interferenze esercitate da quell’insinuante condizionamento operato dal giudice non mancheranno di produrre i loro effetti, che paradossalmente verranno «validati» dall’esame in contraddittorio del medesimo teste, il quale difenderà con incrollabile fermezza il ricordo che ha ormai inconsapevolmente e irreversibilmente rielaborato.
La sollecitazione a riplasmare la memoria di alcuni eventi può anche essere indotta dall’ascolto dell’esame di altri soggetti sugli stessi[10]. Di qui, non soltanto la regola fondamentale che vieta l’esame contestuale di più testimoni (art. 497, primo comma, c.p.p.), ma anche la prescrizione, non di rado inosservata, di evitare che la persona citata, prima di deporre, «possa assistere agli esami degli altri o vedere o udire o essere altrimenti informata di ciò che si fa nell’aula di udienza» (art. 149, disp. att., c.p.p.)[11]. Quasi sempre, peraltro, i testimoni stazionano insieme e a lungo nella «astanteria» del tribunale prima di deporre, avendo modo di condividere ricordi e propositi testimoniali[12].
7. La memoria di un testimone è esposta non soltanto agli input interni al processo, ma anche a fattori esogeni non meno condizionanti. Per lo spazio che i nostri organi di informazione riservano alla cronaca nera è tutt’altro che infrequente la narrazione mediatica delle vicende giudiziarie che ne conseguono; narrazione quasi mai limitata alla sobria pubblicazione del contenuto degli atti del procedimento non più segreti, come pretende l’art. 114 c.p.p., di cui l’art. 684 c.p. blandamente sanziona l’inosservanza. I «riflettori dell’attualità» vengono puntati con scomposta bulimia non soltanto sugli sviluppi giudiziari del fatto di cronaca che per la sua gravità o per i soggetti coinvolti ha suscitato la preoccupata attenzione dell’opinione pubblica, ma anche sul contesto familiare o sociale che ne fa da sfondo, captando febbrilmente con la telecamera o con il microfono immagini e dichiarazioni dei protagonisti del processo e di coloro che su quel fatto o sul possibile responsabile si presume abbiamo qualcosa da dire[13].
In un frastornante rimbalzo multimediale, si alternano o affastellano: interviste a conoscenti o a parenti dell’accusato o della vittima; filmati-highlights predisposti dagli organi di polizia, anche tramite un montaggio ad arte, per promuovere un’operazione in vestigativa; conferenze stampa degli organi inquirenti o, talvolta, dei questori; dichiarazioni rilasciate dall’indagato, dalla vittima o dai loro avvocati; imitazioni foniche di intercettazioni; reportage; raccolta delle voci correnti nel contesto sociale dei presunti protagonisti del fatto di reato. Quando non si allestiscono addirittura talk show, in cui spesso improbabili esperti ricostruiscono movente e dinamica del delitto, con ciò raggiungendo il massimo della contaminazione mediatica: una sorta di foro alternativo nel quale si scimmiottano liturgie e terminologie della giustizia ordinaria. È con il contorno di un siffatto contesto che sovente si sviluppano le più delicate vicende giudiziarie[14]. Riesce difficile immaginare che la persona informata sui fatti non rimoduli subliminalmente il proprio ricordo per raccordarlo con ciò che vede e che sente a proposito dei medesimi. Molto spesso subirà una sorta di inespugnabile «subornazione mediatica», impermeabile a ogni contraddittorio, che rende inservibile, quando non fuorviante, il relativo contributo testimoniale. La giurisprudenza più avvertita ha già preso atto dell’insidiosità del fenomeno: talvolta ha dichiarato inaffidabile l’apporto del testimone, avendo il clamore mediatico irreversibilmente compromesso la sua credibilità[15], altre volte ha di fatto permesso di recuperare dichiarazioni del teste, rese quando verosimilmente la manipolazione mediatica non aveva ancora esercitato i suoi effetti[16]. Ma non è difficile rendersi conto di come siffatti rimedi presentino problemi non meno delicati di quelli che sono chiamati a risolvere[17].
8. Sembra dunque di poter concludere che la visione stereoscopica del contraddittorio consente, sì, di scrutare meglio nel patrimonio mnestico della persona informata sui fatti al momento in cui la si esamina, ma è impotente nei confronti delle manipolazioni che questo può aver subìto rispetto alla sua conformazione originaria. Il Codice dell’89 non ha tenuto conto dell’evenienza – sempre più frequente con l’esponenziale incremento dei media – che testi sinceri e dialetticamente escussi potessero riferire il falso: è un sistema imbelle rispetto alla prospettiva di un’ingiustizia fondata sulla sincerità[18]. Ignorare questo problema di fondo sarebbe atteggiamento irresponsabile ed eticamente deplorevole; pensare di risolverlo con un ritocco normativo, sarebbe espressione di sprovveduto velleitarismo.
Ciò che si può e si deve fare è anzitutto porre le condizioni affinché maturino una conoscenza e una consapevolezza dei rischi connessi alla inconscia trasfigurazione della traccia mnestica. È indispensabile che fin dal percorso universitario e poi, a seguire, negli incontri di aggiornamento professionale per magistrati, avvocati e appartenenti alla polizia giudiziaria si forniscano gli elementi di base del funzionamento della memoria: non già perché il giurista debba avere una competenza scientificamente approfondita dei meccanismi neuronali, ma perché sia culturalmente avvertito della complessità e dei limiti della percezione, del suo immagazzinamento, della sua deteriorabilità e della sua rievocazione. Condizione necessaria, ancorché largamente insufficiente, per cercare di contenere le deleterie conseguenze legate alla adulterazione del vissuto testimoniale.
Quanto agli antidoti di carattere normativo, non essendovi una soluzione univoca e facilmente percorribile, si deve lavorare a una serie di accorgimenti in grado di ridurre la contaminazione del convincimento giudiziale per falsi ricordi del testimone. Vi è, anzitutto, una precondizione di efficacia rispetto a ogni soluzione: che sia ridotto il tempo tra la percezione del fatto e la sua rievocazione con valore probatorio. Più questo intervallo temporale si dilata, più aumentano i rischi che il ricordo non soltanto deperisca, ma si contamini con sopravvenuti elementi spuri. Da questo punto di vista, la riforma in discussione – puntando prioritariamente a ridurre i tempi del procedimento penale – potrebbe indirettamente produrre effetti positivi al riguardo.
Come è noto, il sistema conosce anche un espediente «artificiale» per avvicinare il momento della prova ai fatti da provare, quando la fase del giudizio si prospetta pericolosamente lontana: l’incidente probatorio. La difficoltà, tuttavia, consisterà nel prefigurare presupposti che riescano sì ad assicurare la formazione anticipata della prova quando l’entità del tempo che presumibilmente trascorrerà prima del giudizio o l’abnorme risonanza mediatica del caso rischierebbe di deteriorare il contributo dichiarativo, ma che non si prestino a un abuso del rimedio, con conseguente anticipazione del baricentro probatorio alla fase delle indagini. Se non riuscirà ad affermarsi un indirizzo vòlto a far rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 392, primo comma, lett. a), c.p.p., anche la non rinviabilità del contributo testimoniale verosimilmente destinato ad arrivare «inquinato» alle soglie del dibattimento[19], sarebbe opportuna una circoscritta interpolazione normativa per riservare l’incidente alla situazione di evidente esposizione del teste a condizionamenti mediatici o ambientali.
A inquinare la fonte dichiarativa, tuttavia, non sono soltanto il fattore tempo o i condizionamenti mediatici, ma anche le stesse domande formulate per compulsarla: specialmente se formulate in un certo modo «conducente», possono ripercuotersi sul tenore delle risposte che la stessa persona informata sui fatti darà subito o nel prossimo esame[20]. E le risposte date dal teste vanno a sedimentarsi «silenziosamente» nella sua memoria: dopo la prima, ogni «testimonianza» rischia di fondarsi sul ricordo non già dei fatti, ma della testimonianza precedente[21]. Di qui l’esigenza di evitare al massimo la ripetizione degli «interrogatori», ma soprattutto di conoscerne effettivamente le concrete modalità di svolgimento. Il dogma della tendenziale irrilevanza probatoria delle indagini ha indotto a non preoccuparsi troppo di questo aspetto: se condotte con inaffidabili modalità dalla parte – si è ragionato – le conseguenze negative ricadranno sull’azione di questa, dal momento che i risultati conseguiti non reggeranno alla corretta formazione della prova in giudizio. Ebbene, almeno con riguardo ai contributi dichiarativi, si tratta di assioma smentito da accreditati e indiscussi studi sulla psicologia della memoria. Ciò che in superficie incontra la intransigente dogana della separazione delle fasi e dei fascicoli, sotterraneamente e incontrollatamente «passa» – per gli insidiosi meccanismi di manipolazione del ricordo – veicolato da un inconsapevole contrabbandiere: il testimone. Questi, in giudizio, andrà a ripescare nel magazzino della memoria, un ricordo rimodellato alla luce delle informazioni implicitamente o esplicitamente contenute nelle domande ricevute. Una insinuazione, una suggestione, una velata minaccia, un bluff, un dato presupposto nella domanda rivolta dall’inquirente alla persona informata sui fatti spesso inciderà sulla risposta che quella persona darà in giudizio, rispondendo con sincerità alle domande delle parti e del giudice.
La prevista inutilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rilasciate all’inquirente, dunque, è strumento impotente. È necessario che le parti possano vedere e sentire ciò che ha subìto «a monte quel teste»[22], per infirmarne eventualmente le affermazioni rese in giudizio o, all’opposto, per recuperare le dichiarazioni rese durante un inappuntabile «interrogatorio», quando successivamente la fonte dovesse risultare irrecuperabilmente compromessa. I verbali degli atti di indagine – approssimativi sempre, talvolta «addomesticati» – non possono essere sufficienti. Una video-registrazione degli atti è dunque necessaria[23] e oggi anche realizzabile senza particolari difficoltà di carattere organizzativo o economico[24]. Bisognerebbe, per contro, che gli «interrogatori» svolti senza questa garanzia restino non soltanto fuori dal giudizio, ma anche dal procedimento e che possano eventualmente costituire illecito disciplinare.
Si dovrebbero, poi, predisporre ulteriori misure a presidio della «verginità» del contributo testimoniale. Tra le altre: evitare che in caso di amnesie la sollecitazione in aiuto alla memoria si risolva nella lettura delle dichiarazioni precedentemente rese, secondo una prassi purtroppo ormai invalsa, e bandire di regola la possibilità di rivolgere domande suggestive, da chiunque provengano. Una volta fatto tutto il possibile per «proteggere» la genuinità del ricordo e della sua rievocazione, la rinnovazione della prova in appello, già in difficoltà di senso allo stato attuale, da simulacro di garanzia diverrebbe elemento di probabile inquinamento decisorio: non soltanto non potrebbe apportare alcun valore aggiunto, ma probabilmente nel bacino probatorio del giudice di secondo grado sfocerebbe un affluente che ha raccolto lungo il percorso detriti ed elementi inquinanti. Difficile immaginare che la prova dichiarativa replicata in appello possa esprimere un contenuto altrettanto affidabile di quello espresso in primo grado, impossibile – se in questo hanno dispiegato i loro effetti tutte le dovute garanzie – che ne possa esprimere uno migliore.
9. Si è certo consapevoli che gli accorgimenti sopra grossolanamente abbozzati necessiterebbero di ben più curata messa a punto, ma ciò che più premeva era richiamare l’attenzione su questa ineludibile criticità del nostro sistema processuale. Un sistema che ha verosimilmente individuato il miglior metodo per far sì che il testimone riferisca quel che ricorda, ma trascura di considerare che «quel che ricorda» potrebbe non essere più rispondente al vero: un sistema la cui ossatura epistemologica è affetta da una grave forma di osteoporosi.
Se non si vuole ancora una volta registrare mezzo secolo di ritardo rispetto alle ormai consolidate acquisizioni della scienza della mente; se si ha a cuore una giustizia più giusta e non soltanto più rapida; se si intende preservare e rivitalizzare l’idealità che permeava il Codice dell’89 – quella cioè di apportare al processo il miglior contributo testimoniale possibile – l’epistemologia forense deve fare un altro passo avanti: non basta più apprestare la miglior tecnica maieutica per la rievocazione del ricordo, nell’implicito presupposto che questo abbia un’inalterabilità minerale, ma bisogna cercare di evitare che l’argilla di cui è composto subisca la manipolazione del tempo e delle suggestioni esterne. Non si tratta di sconfessare le scelte di quarant’anni fa, ma, al contrario, di raccoglierne il testimone, poiché – come diceva Gustav Mahler – «tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco».
*Il presente contributo è apparso sul n. 4/2021 della Rivista "Politica del diritto".
[1] Esempio emblematico, l’introduzione di una iugulatoria causa di improcedibilità, irrealistica e discutibile, e di una non meno discutibile e insidiosa discrezionalità riconosciuta ai giudici procedenti di dilatare tali limiti quando la complessità del caso non consentirebbe loro di rispettarli
[2] Dal Ministero dell’Economia e delle Finanze apprendiamo che nel 2020 sono state indennizzate 766 persone per l’ingiustizia subìta (numero comprensivo sia delle riparazioni per ingiusta detenzione, sia di quelle per condanna inflitta a soggetti risultati innocenti a seguito di revisione). Si tratta di un numero che sottostima largamente la dimensione reale del fenomeno, sia perché l’innocente – uscito dall’incubo giudiziario – non sempre presenta istanza di revisione, sia perché talvolta le istanze presentate vengono respinte per una ritenuta «corresponsabilità» dell’imputato nella decisione errata. Beninteso, niente potrà mettere i pronunciamenti umani al riparo dall’errore, ma niente può esonerarci dal dovere di dar fondo a tutte le nostre risorse per contenerlo nei limiti. Cfr. postea, nota 18.
[3] Per una importante esemplificazione, si veda, al riguardo, il prossimo paragrafo.
[4] Quando una sollecitazione esterna entra nella mente del testimone capita qualcosa di simile a ciò che succede quando qualcuno si introduce senza le doverose cautele sul luogo del crimine: il lavoro della polizia scientifica ne risulta alterato, spesso irreversibilmente.
[5] Non è soltanto la distanza tra la percezione dei fatti – la codifica della percezione sensoriale, per dirla con il linguaggio delle neuroscienze – e la rievocazione del relativo ricordo a pesare sulla attendibilità della ricostruzione giudiziaria, ma anche quella, non meno deleteria per una giusta decisione, tra il momento di assunzione della testimonianza e la sua valutazione da parte del giudice.
[6] Dato che le scienze cognitive considerano ormai acquisito da circa mezzo secolo, cioè dai primi fondamentali studi della Loftus (E.F. Loftus, J.C.Palmer, Reconstruction of Automobile Destruction, in Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 13, 1974, pp. 585 ss.; E.F. Loftus, G. Zanni, Eyewitness Testimony: The Influence of the Wording of a Question, in Bulletin of the Psychonomic Society, 5, 1975, pp. 86 ss.) e di Gudjonsson (G.H. Gudjonsson, A New Scale of Interrogative Suggestibility, in Personality and Individual Differences, 7, 1984, pp. 195 ss).
[7] Un fenomeno che si accentua quando si ha a che fare con testimoni bambini: cfr. le considerazioni e gli ampi riferimenti bibliografici di G. Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 107 ss., 137 ss.; nonché, sul tema specifico, G. Gulotta, D. Ercolin, La suggestionabilità dei bambini: uno studio empirico, in Psicologia e Giustizia, 5, 2004, pp. 1 ss. Inaccettabilmente restrittivo, dunque, appare l’orientamento della Suprema Corte secondo cui la suggestionabilità del minore è rilevante ai fini del giudizio di attendibilità della sua deposizione solo quando il grado di influenzabilità individuale assume forme patologiche, come nelle personalità isteriche o immature (Cass., Sez. III, 4.10. 2007, dep. 21.11.2007, Rv. 238065 – 01)
[8] In tali circostanze opera al massimo grado l’effetto compliance, cioè quella tendenza a cercare di compiacere l’interlocutore che può portare «ad una modifica del resoconto testimoniale», quando non addirittura, «nel tempo, ad un vero e proprio cambiamento della memoria» (G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., p. 89). Effetto sicuramente rafforzato qualora l’interrogante mandi segnali di approvazione o disapprovazione delle risposte (c.d. «bias dell’intervistatore»): cfr., anche per riferimenti bibliografici, G. Gulotta, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 269-270.
[9] Cfr. Cass., Sez. IV, 6.02.2020, in Proc. pen. e giust., 2020, pp. 1204 ss., la quale ebbe a rilevare che «le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta e in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa ne hanno gravemente pregiudicato l’attendibilità, di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni rese da costei […] appare radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata».
[10] Parlano di «paradigma del contagio sociale», dandone interessante dimostrazione sperimentale, M.L. Meade, H.L. Roediger, Explorations in the Social Contagion of Memory, in Memory & Cognition, 2002, pp. 995 ss.
[11] L’inosservanza del divieto per il testimone di assistere all’esame delle parti e degli altri testimoni non determina, peraltro, alcuna nullità o inutilizzabilità della testimonianza assunta, «potendo semmai influire sulla valutazione di attendibilità di quest’ultima da parte del giudice» (Cass., Sez. VI, 10.03.2010, dep. 8.06.2010, Rv 247107-01).
[12] Sulla tendenza a conformare le proprie versioni quando i testimoni dei medesimi fatti hanno l’opportunità di interloquire tra loro, cfr. F. Gabbert, A. Memon, D.B. Wright, Memory Cnformity: Disentangling the Steps toward Influence During a Discussion, in Psyconomic Bullettin & Review, 13, 2006, pp. 480 ss., che ricreando artificialmente una simile situazione hanno dimostrato l’inequivoca osmosi delle memorie.
[13] Si aggiunga che pure il semplice «fenomeno sociale del “sentito dire”» e del pettegolezzo ha certamente un’influenza importante sul resoconto di un testimone (cfr. G. Mazzoni, Psicologia della testimonianza, Roma, Carocci, 2011, p. 23).
[14] È pur vero che i processi che guadagnano la ribalta mediatica nazionale sono statisticamente pochi. Ma, a parte che è su di essi che il teleutente si forma una malsana e perniciosa idea della giustizia e di ciò che viene valorizzato ove si fosse chiamati a offrire il proprio contributo testimoniale, si ha ragione di ritenere che anche per i processi che esauriscono la loro rilevanza a livello locale, si ripete spesso, in sedicesimo, lo stesso fenomeno. Si tratterà di suggestioni operate da fonti mediatiche da un lato a minor raggio di diffusione, dall’altro però più prossime.
[15] Nel famigerato caso del «mostro di Firenze», si ritenne «totalmente inattendibile la deposizione di A.B., emblematica dei possibili effetti nocivi che all’imputato possono derivare dalle suggestioni dei mezzi di informazione»; un riconoscimento operato «a distanza di circa 11 anni, quando televisione e giornali avevano ormai messo in moto il meccanismo dello “sbatti il mostro in prima pagina” ed il Pacciani era divenuto il possibile oggetto di tutte le suggestioni popolari» (Corte di assise d’appello, 13 febbraio 1996, in Foro it., 1997, 2, c. 65 ss.).
[16] La Corte di cassazione ha ritenuto ineccepibile la decisione della Corte di assise di appello di Milano che – nel processo per l’omicidio di Chiara Poggi – giornalisticamente noto come «delitto di Garlasco» – non aveva ammesso la rinnovazione delle deposizioni di due testimoni in ragione della perdita di genuinità nel frattempo delle loro dichiarazioni, «avendo il “tema bicicletta” […] costituito oggetto di una esagerata attenzione mediatica, tale da influenzare il ricordo delle testi, rendendo difficile, se non impossibile, distinguere tra ciò che le stesse avevano effettivamente visto quella mattina e quello che in seguito ricordavano di aver visto» (Cass., Sez. V, 12.12.2015, in Dir. pen. cont., 29.06.2016).
[17] Rinunciare al contributo di un teste ritenendolo irrimediabilmente condizionato dal martellamento mediatico è decisione delicata che può ledere gravemente le prerogative dell’accusa o della difesa, in base a una valutazione dagli incerti e opinabili parametri. Recuperare dichiarazioni già rese dal teste, poi, supponendo che siano state rilasciate prima che queste suggestioni operassero, è rimedio che ha senz’altro una sua plausibilità, ma che risente anch’esso dell’opinabilità del presupposto. E ancora: se i fattori di condizionamento fossero intervenuti nelle more del giudizio di primo grado, cosa dovremmo recuperare con valore di prova? Le dichiarazioni rese durante le indagini?
[18] Nel 1992 ha preso avvio negli Stati Uniti un programma, denominato Innocence Project, con l’obbiettivo di scagionare – soprattutto tramite l’utilizzo del test del DNA – le persone ingiustamente condannate. Da questa iniziativa sono germinate, specie nei Paesi anglosassoni, organizzazioni la cui azione, pur declinata in diverse modalità, ha precipuamente la stessa finalità istituzionale (da noi opera, dal 2014, l’Italy Innocence Project), nonché quella di elaborare tecniche e metodologie in grado di contenere gli errori giudiziari; con il medesimo obbiettivo sono state redatte in Italia, nel 2013, le Linee Guida Psicoforensi. Per un processo sempre più giusto (su cui si veda, per tutti, G. Gulotta, Innocenza e colpevolezza, cit.). Estremamente significativo, in questa sede, è il fatto che nella maggioranza dei casi l’ingiusta condanna scoperta grazie alle organizzazioni de quibus si basasse su un contributo testimoniale, su una errata ricognizione personale o su una falsa confessione (Cfr. G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., pp. 160 ss.).
[19] Per una lungimirante apertura esegetica in tal senso, cfr. F. Cordero, Codice di procedura penale commentato, II ed., Torino, UTET, 1992, p. 467.
[20] Decisivi spesso gli stessi «interrogatori» a cui il teste viene sottoposto prima del dibattimento, cfr. E. Gora, I. Rampoldi, Come nell’interrogatorio la domanda può influenzare la risposta, in G. Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 539 ss.
[21] Verità, sempre conosciuta da grandi scrittori. In un noto racconto di Borges, il protagonista va a incontrare un vecchio colonnello per sapere come erano andate le cose durante una certa battaglia. Il colonnello gli racconta con tale dovizia di parti colari, «con periodi così precisi e in modo tanto vivo» da fargli temere che avendo egli «narrato molte volte quelle stesse cose, […] dietro le sue parole non rimanessero quasi ricordi» (J.L. Borges, L’altra morte, in Id., L’Aleph, 1952, p. 71). Scrive Hector Bianciotti che «il signor Tenant avrebbe sempre ripetuto le stesse cose; forse le aveva dimenticate e gli rimaneva solo quel racconto imparato a memoria che si ripeteva senza più figurarsele» (Senza la misericordia di Cristo, Palermo, Sellerio, 1985, p. 71).
[22] Nella notissima e inquietante vicenda giudiziaria, giornalisticamente conosciuta come «Diavoli della bassa modenese», la Cassazione ha rigettato i ricorsi contro le assoluzioni pronunciate della Corte di appello, che aveva trovato sorprendente che dei colloqui avuti dalle due psicologhe con i bambini non sia restata traccia, mentre «sarebbe stato del tutto fisiologico provvedere alla registrazione». L’omissione era stata sostanzialmente giustificata con il tempo che avrebbe richiesto la trascrizione delle conversazioni. La Corte di secondo grado l’aveva ritenuta ragione insufficiente e considerato grave che nulla si potesse sapere «in ordine alle vivide modalità espressive, alle esitazioni, alle incertezze, agli imbarazzi, alle contraddizioni recate nelle narrazioni». La Cassazione ha condiviso i rilievi della Corte territoriale, rilevando come che ciò che «ha un peso indubbio sul piano della prova è che non esiste un reperto documentale afferente alle uniche informazioni selettive: le prime dichiarazioni dei piccoli, quelle cioè più genuine e meno aperte al dubbio di contaminazioni e suggestioni» (Cass., Sez. IV, 3.12.2014, dep. 23.01.2015, Rv. 3279-15).
[23] Cfr. al riguardo, per incisive considerazioni e per riferimenti comparatistici, G. Mazzoni, Si può credere a un testimone?, cit., pp. 92 ss. Nella legge delega per la riforma del processo penale di recente approvata, si fa riferimento alla video-registrazione o, almeno all’audio-registrazione, dei contributi testimoniali (art. 1, ottavo comma, lett. a e b), con previsioni il cui vincolo precettivo, peraltro, è piuttosto blando per la presenza di formule «esonerative»: molto dipenderà da come il legislatore delegato interpreterà il mandato politico del delegante.
[24] Non si ignora che la videoregistrazione costituisca un ulteriore elemento di «soggezione» per la persona informata sui fatti, già in una condizione di «inferiorità» psicologica, quando viene sentita per fini di giustizia, ma è costo più che compensato dai vantaggi che riesce a offrire.
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