ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Soggettività delle persone di età minore e allontanamento forzato dei figli*
di Maria Giovanna Ruo**
Ringrazio per l’invito all’audizione sul tema “Soggettività dei minori e allontanamento forzato dei figli dal loro precedente contesto relazionale”, affrontato dal gruppo di lavoro coordinato dalle Professoresse Assunta Morresi, Tamar Pitch e Grazia Zuffa, nell’ambito dell’assemblea plenaria del CNB per la giornata del 27 gennaio 2022.
È un grande onore e una grande responsabilità, di cui sono grata, riferire in questo contesto sulla base dell’esperienza professionale e di studio che ho potuto maturare negli anni di esercizio della professione forense nel settore persone, relazioni familiari e minorenni.
Ringrazio in particolare il Prof. Lorenzo D’Avack al quale sono legata da gratitudine personale per essere sempre stato Maestro e punto di riferimento; la Prof.ssa Laura Palazzani, ricordando sempre con piacere i tanti stimoli ricevuti e maturati alla LUMSA, anche in fugaci incontri ma sempre preziosi, e che tanto mi hanno arricchito.
CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni, che è l’associazione che rappresento e presiedo da circa 20 anni e che ho contribuito a fondare ormai 23 anni fa, nel variegato panorama delle associazioni specialistiche familiaristiche riconosciute dal CNF tra le più rappresentative, ha da sempre scelto come propria cifra la promozione e la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, partendo proprio da quelli delle persone di età minore. Conta attualmente 65 sedi territoriali.
L’odierna audizione si svolge all’indomani dell’approvazione da parte della Camera in via definitiva della riforma sul processo civile con l. 206/2021 che riguarda anche specificamente, con un intervento ampio, articolato e approfondito, il settore persona, minorenni, famiglie, e che richiamerò quindi spesso, premettendo che in parte si tratta di interventi di legge delega, e bisognerà quindi attendere i decreti legislativi per valutare l’incisività su varie tematiche, in parte invece prevede norme immediatamente efficaci che entreranno in vigore 180 giorni dopo l’entrata in vigore della legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 dicembre 2021.
1. Soggettività della persona di età minore, quadro costituzionale, percorso di adeguamento interno: the best interest of the child
La soggettività giuridica delle persone di età minore potrebbe dirsi scontata: ma se teoricamente e astrattamente è da tempo così, non lo è stato nell’applicazione pratica delle norme e nella tutela dei diritti per il diffuso pregiudizio socio-culturale che i figli fossero -e siano- sostanzialmente sprovvisti di una propria reale e concreta autonoma soggettività, quasi appendici dei genitori e delle famiglie. La normativa codicistica riservava loro tutela sostanzialmente per gli aspetti patrimoniali del patrimonio personale.
È portato di un lungo percorso, dagli ultimi decenni del secolo scorso, la considerazione delle persone di età minore come soggetti autonomi, titolari di diritti personalissimi la cui tutela può non solo non essere garantita dai genitori (cui è principalmente affidata dal nostro sistema costituzionale ai sensi degli artt. 2, 3, 30, 31 Cost.), ma persino esserne compromessa. I genitori infatti si possono trovare in conflitto di interesse con loro o non essere in grado, anche incolpevolmente e inconsapevolmente, di tutelarli. In tali casi la famiglia non è più la formazione sociale in cui i loro diritti fondamentali sono attuati e in cui si svolge la loro personalità, ma può divenire il luogo della loro negazione. La casistica è ampia e mi riservo di tornare successivamente su alcune fattispecie che riterrei di segnalare per il loro particolare rilievo.
Nell’ordinamento interno lo snodo è costituito dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (l. 176/1991), che pone all’art. 3 il criterio di the best interest of the child come determinante e preminente di giudizio: da quel momento inizia una diversa considerazione delle persone di età minore come dotate di una piena soggettività personale e portatrici di diritti personalissimi la cui tutela viene affidata ai genitori, ma può essere anche da loro indipendente e anzi lo deve essere se da questi compromessa,. Il principio è penetrato sempre più grazie ai plurimi interventi della Consulta che lo hanno reso clausola generale dell’ordinamento.
Nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, secondo la giurisprudenza anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella tutela dei contrapposti diritti dei figli minorenni e dei genitori, deve prevalere la tutela dei primi; tra i diritti delle persone di età minore deve ricevere tutela prioritaria la sua salute, intesa in una prospettiva de futuro come tutela delle migliori condizioni possibili di sviluppo psico-fisico.
2. Centralità del diritto alla salute della persona di età minore e condanne CEDU all’Italia in materia minorile
La salute della persona di età minore va difatti intesa e salvaguardata su un piano dinamico, volto al futuro, per consentire il miglior sviluppo psico-fisico nel concreto, a quella persona di età minore, nella condizione storica, relazionale sociale in cui si trova, eliminando gli ostacoli che vi si frappongono.
Il sistema demanda prima di tutto ai genitori tale compito: sono ritenuti, sulla scorta delle indicazioni delle scienze mediche e sociali, le persone che meglio possono garantirlo come meglio possono garantire quello alla formazione della sua identità personale e sociale. Rilevante in questa prospettiva anche il sistema delineato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,, e in particolare del dettato dell’art. 8: in uno Stato democratico, nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, deve prevalere sempre the best interest of the child. In questa prospettiva, incombono allo Stato doveri negativi di non ingerenza nella relazione figli minori-genitori: deve essere rispettata la vita privata e familiare di genitori e figli, nel senso che vivere insieme, godere dell’apporto gli uni degli altri, ne costituisce contenuto essenziale e lo Stato non deve intervenire. Tuttavia se i genitori non sono in grado di garantire il miglior sviluppo psico-fisico dei figli, allora incombe alle Autorità nazionali invece intervenire celermente e tempestivamente, a tutela del best interest di questi ultimi, anche allontanandoli in casi estremi, in cui non sia possibile altro provvedimento a loro tutela, ma sempre attuando contestualmente interventi volti al potenziamento della genitorialità per il ricongiungimento genitore-figlio, che costituisce traguardo ineliminabile salvo che poi risulti impossibile nella prospettiva prima richiamata.
Non poche le condanne all’Italia per aver fallito l’obiettivo della tutela nella prospettiva di cui sopra[1]: la maggior parte riguarda i casi in cui le Autorità nazionali non sono state in grado di salvaguardare il rapporto dei figli minorenni con il genitore non convivente, quando deve essere ripristinato in quanto positivo per quel minore e ostacolato senza ragioni nell’interesse del figlio dall’altro di cui dirò più specificamente infra. L’ago della bilancia è sempre quindi il best interest nel caso concreto: se la relazione con il genitore con il quale il rapporto è ostacolato (e infine rifiutato dal figlio) è considerato positivo per lui, allora deve essere garantito. Se invece tale rapporto è negativo per il figlio minorenne, per questioni varie (ad es. il minore ha subito abusi psicologici, fisici, sessuali o ha assistito a violenze di vario genere nei confronti dell’altro genitore o di altro familiare -c.d. violenza assistita-), allora tale rapporto non deve essere forzato. Nel sistema delineato dalla giurisprudenza della Corte EDU, anche l’ascolto del minore che rifiuta l’altro genitore deve essere attentamente valutato alla luce delle concrete dinamiche relazionali genitori-figlio, come pure si vedrà infra.
Non sono mancate condanne al nostro Paese anche in tema di adottabilità, quando sono stati interrotti i rapporti con genitori fragili, la cui genitorialità non era stata correttamente sostenuta e potenziata: l’ultima recentissima, D.M. e N. c. Italia, ric. 60083/19, sent. 20 gennaio 2022; precedenti sempre nei confronti del nostro Paese sono: A.I c. Italia, ric. 70896/17, sent. 1 aprile 2021; Jiaoqin Zhou c. Italia, ric. 33773/11, sent. 21.01.2014; S.H. c. Italia, ric. 52557/14, sent. 13.10.2015. Non sono mancare sentenze di condanna in caso di interruzione ingiustificata della relazione nonni/nipoti, la cui relazione con i nipoti non è stata pure immediatamente ripristinata, lasciando consolidare situazioni nelle quali si è in definitiva dissolta: Solarino c. Italia, ric. 76171/13, sent. 09.02.2017; Manuello e Nevi contro Italia, ric. n. 107/10, sent. 20.01.15; Terna c. Italia, ric. 21052/18, sent. 14.01.2021. O condanne nel caso di minori inseriti in altri contesti familiari, senza successiva attenzione alle relazioni ormai consolidate con gli affidatari, lasciandoli soli in un conflitto di lealtà e di appartenenza a diverse famiglie e culture traendone conseguentemente un danno anche grave alla costruzione della propria identità: Barnea e Caldaru c. Italia, ric. 37931/15, sent. 22/06/2017.
3. Diritto alla bigenitorialità: gli strumenti di graduazione e affievolimento nell’interesse del minore (principio “elastico”)
Nel quadro costituzionale e della normativa pattizia, fonte sopraordinata ai sensi dell’art. 117 Cost. così come la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, deve essere ovviamente interpretata la normativa interna (disciplina codicistica e legislazione speciale) e debbono essere orientate le prassi applicative.
Ne consegue che anche il principio di bigenitorialità non è un principio assoluto, ma esso stesso relativo in ragione di the best interest of the child perché funzionale al suo miglior sviluppo psico-fisico. Se il paritetico apporto affettivo, relazionale, educativo di entrambi i genitori o di ciascuno di essi è funzionale alla sua realizzazione, non deve subire limitazioni; se viceversa il rapporto con entrambi i genitori, o anche con uno di essi ,potrebbe recare pregiudizio alla persona di età minore, la normativa offre una serie di strumenti di disciplina della responsabilità genitoriale che possano graduarne l’apporto.
E, quindi: ancorchè la regola (in funzione della presunzione della necessità di apporto paritetico di entrambi i genitori quando non vi sia convivenza tra gli stessi) sia l’affidamento condiviso a entrambi (che - lo sottolineo - non vuol dire pariteticità di tempi, ma pari apporto nelle decisioni di maggiore interesse e di ordinaria amministrazione), qualora invece l’apporto di uno o di entrambi fosse pregiudizievole, è prevista legittimamente una progressiva concentrazione della responsabilità genitoriale nel genitore più idoneo alla tutela del figlio minorenne con corrispondente affievolimento dei poteri/doveri dell’altro (affidamento esclusivo o superesclusivo), o persino invece l’attribuzione della responsabilità genitoriale a terzi con limitazione quindi di quella di entrambi i genitori (affidamento a parenti o a terzi oppure, tristemente noto per la sua nebulosità, affidamento ai servizi sociali) fino alla sospensione o ablazione dei medesimi genitori dalla responsabilità. Nei casi estremi, dopo un procedimento volto all’accertamento dello stato di abbandono morale e materiale, sarà dichiarato lo stato di adottabilità ai sensi della l. 184/9183 e la persona di età minore avrà un’altra famiglia adottiva previamente valutata per la sua idoneità a crescerlo e ad esercitare la funzione genitoriale nel di le interesse. La relazione con il genitore il cui comportamento sia pregiudizievole può/deve essere limitata, contenuta, anche rescissa in funzione del migliore sviluppo psico-fisico del figlio minorenne.
Ne deriva che in ogni caso deve esserci attenzione alla concreta persona di età minore, alla sua storia relazionale e sociale, alle sue necessità psico-fisiche, alla sussistenza di risorse interne da attivarsi nel quadro costituzionale e subcostituzionale sopra pur brevemente e banalmente descritto, nella consapevolezza che il principio di the best inerest è criterio elastico[2], la cui effettiva tutela non tollera banalizzazioni e generalizzazioni, perché ogni persona di età minore è un universo a sè stante. E che quando si tratta di minorenni ci si riferisce a un universo variegato da 0 a 18 anni, con diverse fasce di maturità e di sviluppo che debbono essere considerate con la massima attenta valutazione della situazione personale, relazionale e sociale concreta, sempre nella prospettiva che il primo obiettivo è l’empowerment delle risorse perché incombe alle Autorità il dovere positivo di ricongiungimento figli-genitori, salvo che non sia contrario a the best interest.
4. Il contributo di altri saperi all’individuazione di the best interest of the child nel caso concreto e le relative modalità processuali
Ovviamente, se nella fisiologia dei rapporti familiari tutto funziona, tali principi permeano la quotidianità e non assumono autonomo rilievo giuridico. Ciò succede nella patologia delle relazioni, quando entrano in crisi sia in senso orizzontale (crisi della relazione tra genitori) sia in senso verticale (crisi della relazione genitori e figli)- e la disciplina della responsabilità genitoriale è oggetto di decisione nei relativi giudizi.
A tale proposito assumono particolare rilevanza le valutazioni della c.d. idoneità genitoriale da parte di esperti sul piano psicologico-evolutivo, talvolta psichiatrico, purtroppo quasi mai pedagogico. La marginalizzazione della pedagogia provoca che le relazioni siano considerate quasi sempre da una prospettiva patologica e comporta -come conseguenza- che la capacità educativa non venga mai presa in considerazione nella valutazione dell’idoneità genitoriale nelle decisioni relative all’affidamento dei figli minorenni e alla loro tutela nelle situazioni di pregiudizio. Il cha particolare rilievo anche nelle questioni di violenza.
L’apporto di altri saperi necessari per la corretta valutazione di quale sia il best interest of the child nel caso concreto è nel nostro sistema processuale attuale (quando è nel contesto giudiziario che la tutela del minore è richiesta) assicurato attraverso strumenti diversi a seconda anche della tipologia di giudice procedente:
1)Relazioni socio-psico-ambientali affidate ai servizi alla persona (operatori sanitari e operatori sociali, in “varia formazione” a causa del Titolo V della costituzione in quanto vi è riserva di legislazione regionale in materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 Cost.): il giudice può demandare ai Servizi indagini socio-psico-ambientali. Vengono svolte al di fuori del contraddittorio e dei diritti di difese delle parti, e risultano quindi incontestabili anche se eventualmente errate: vengono definite in gergo cd. prova bloccata); talvolta peraltro si è giunti all’attivazione di un giudizio perché i precedenti interventi dei Servizi non hanno funzionato nel sostegno del nucleo familiare fragile e, quindi, le relazioni dei medesimi Servizi risentono di “pregiudizi” in senso proprio. La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021 è intervenuta con alcune norme immediatamente efficaci[3], ed altre previste invece nella legge delega[4]
2) Consulenze Tecniche d’Ufficio: il giudice demanda con un quesito indagini sulla idoneità genitoriale a un esperto psicologo, neuropsichiatra, neuropsichiatra infantile. Le indagini si svolgono in pieno contraddittorio con le Parti rappresentate da un Consulente Tecnico di Parte. La Riforma processuale di cui alla l .206/2021 è intervenuta non solo integrando l’art. 13 disp. att. c.p.c. con la previsione espressa di tali professionalità (prima non contemplate), ma anche integrando l’art. 15 disp. att. c.p.c. con la previsione dei professionali di cui i professionisti debbono essere forniti per avere ingresso nell’albo dei CTU. Altre norme sono invece contenute nella legge delega e riguarderanno metodi e contenuti disposte spesso nei procedimenti relativi a un esercizio non corretto della responsabilità genitoriale. Vi è da segnalare che spesso le CTU sono inutilmente intrusive e ridondanti, affrontano aspetti della vita privata e personale non pertinenti, e si concludono in modo stereotipato e scontato, senza considerazione della particolarità della situazione; e i giudici si appiattiscono sulle CTU, riportando nei provvedimenti spetto automaticamente le conclusioni stereotipate degli elaborati peritali.
3) Partecipazione degli esperti al collegio giudicante presso il Tribunale per i minorenni: è la modalità che desta più perplessità per l’assoluta incontrollabilità dei criteri di individuazione del best interest che trovano di solito sintetica esposizione nei provvedimenti finali (decreti). Anche su questo punto la Riforma di cui alla l. 206/2021 ha apportato importanti modifiche, che però entreranno in vigore nel 2024, istituendo un giudice unico (Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie) con esperti che integrano il collegio solo in alcune materie (adottabilità, adozione, migrazione).
5. L’allontanamento extrema ratio e casistica. Il procedimento ex art. 403 c.c.
L’allontanamento da uno o da entrambi i genitori dovrebbe essere attuato come extrema ratio quando la permanenza con uno o con entrambi i genitori comporterebbe grave e irreparabile pregiudizio per il figlio minorenne. L’allontanamento ovviamente vuol dire anche inserimento della persona di età minore in diverso contesto: o presso altri familiari, o presso una diverso nucleo familiare o presso una casa famigia. Questo è il più frequente, quantomeno in prima battuta. Tale allontanamento-affidamento può essere “consensuale” e cioè concordato con i genitori; o giudiziale, e cioè avvenire per iniziativa della Pubblica Amministrazione o iussu judicis. Mi soffermerò solo su questa seconda tipologia perchè più diffusa e più intrusiva. Sugli affidamenti consensuali aggiungo solo che difficilmente nella prassi sono effettivamente tali, in quanto il suggerimento da parte dei Servizi non lascia spazio all’effettiva volontà delle parti.
Gli allontanamenti e affidamenti coercitivi, dovrebbero essere attuati quando il permanere del figlio allontanato con uno o con entrambi i genitori comporterebbe per il primo un pregiudizio grave e irreparabile. L’allontanamento, nella sua prospettiva iniziale, dovrebbe essere sempre temporaneo e divenire definitivo solo se il potenziamento delle capacità genitoriali di colui o di coloro che con il loro comportamento sono pregiudizievoli per il figlio minore fallisca in un tempo congruo e sintonico con lo sviluppo psico-fisico di quest’ultimo.
Sussistono infatti situazioni emergenziali, in cui vi è necessità di intervento immediato e talvolta temporaneamente rescissivo del rapporto figlio/genitore la cui relazione sia pregiudizivole per il minore. La casistica è ampia: riguarda genitori con problematiche psichiatriche non compensate, con patologie che comportano un disallineamento dalla realtà -depressione, schizofrenia, bipolarismo etc.-; con agiti pregiudizievoli (violenti, o anche omissivi, o anche caratterizzati da ipercuria -ad es. Sindrome di Munchausen per procura; oppure genitori abusanti sul piano sessuale, direttamente o indirettamente (bambini usati o “venduti” per prestazioni sessuali); oppure genitori o parenti che li sfruttano economicamente schiavizzandoli; oppure genitori appartenenti a diverse aree culturali le cui prassi prevedono mutilazioni genitali, e/o matrimoni combinati e precoci con coercizioni delle bambine; oppure ancora situazioni di estrema povertà educativa, accompagnata da agiti vari (evasione dell’obbligo scolastico in situazioni di estrema precarietà abitativa, igienica, educativa).
In molti di questi casi, l’intervento di allontanamento deve essere immediato, in quanto i tempi intercorrenti con l’evento che lascia emergere il gravissimo e imminente pregiudizio per il minore debbono essere il più possibile contratti, incrementandosi altrimenti in modo esponenziale (e talvolta fatale) il danno. Sono i casi in cui la Pubblica Amministrazione deve intervenire immediatamente come previsto dall’art. 403 c.c., che però disegnava un’ingerenza della PA nella vita familiare al di fuori del dettato Costituzionale del giusto processo in quanto non prevede l’immediato controllo del giudice.
La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021, pubblicata nella G.U. 9 dicembre 2021, ha integralmente riformato la procedura con norme di immediata applicazione (in realtà entreranno in vigore il 22 giugno p.v.) riportandolo nell’alveo del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e 6 Conv. EDU, prevedendo che la PA informi nell’immediato del provvedimento di allontanamento assunto il Pubblico Ministero Minorile, che questi revochi il provvedimento infondato eventualmente assunto oppure ricorra al Tribunale per i minorenni per la convalida. Il Presidente provvederà a nominare il curatore speciale del minorenne, alla notifica ai genitori, a fissare un’udienza nella quale il provvedimento di allontanamento sarà convalidato o meno, con l’assunzione di una serie di ulteriori provvedimenti che dovranno essere volti, in caso di convalida, al recupero delle capacità genitoriali e alla formulazione di un progetto in tal senso, in modo da avere come concreto obiettivo il ricongiungimento dei figli allontanati ai genitori.
In altri casi, invece, l’allontanamento viene disposto a procedimento già avviato, quando dalle risultanze istruttorie emerge che è necessario, dal giudice che dovrebbe aver già consentito l’instaurazione del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa da parte sia dei genitori sia del figlio minorenne tramite il suo curatore speciale, che dovrebbe essere nominato stante il palese conflitto di interessi con i genitori rappresentanti legali. Il condizionale è d’obbligo a causa della cd. “prassi distorsive” vigenti dinnanzi ai Tribunali per i minorenni, dove le udienze anche istruttorie sono delegate a psicologi privi di adeguata preparazione giuridica. Anche a ciò ha inteso porre rimedio la l. 206/2021, ma con la legge delega, prevedendo che nel nuovo rito agli esperti, che faranno parte del collegio giudicante solo in sede distrettuale e per alcune materie (adozione e adottabilità, per quel che qui rileva), possano essere delegati singoli atti, ma non l’ascolto del minore.
Quanto alle modalità dell’allontanamento, è evidente che le stesse dovrebbero comunque essere rispettose delle esigenze psicologiche della persona di età minore e dei suoi affetti. Si ha invece notizia di allontanamenti con l’inganno, senza che il minore sia nemmeno informato: il bambino che entra da una porta per l’ascolto del giudice, ed esce da altra porta in stanza dove ci sono i servizi che lo portano via senza essere preavvertito e senza poter salutare la mamma; il minore che viene prelevato a scuola prima dell’ora di uscita dai servizi e viene portato in casa famiglia, dove reincontrerà la madre dopo giorni e giorni e per un’ora. Per non parlare del famigerato allontanamento di “Cittadella”.
Modalità brutali, da inquadrarsi come comportamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione EDU, indegni di uno Stato civile e democratico, che peraltro danno l’idea di come i minorenni continuino a non essere considerate persone, con la loro dignità, i loro affetti, il loro diritto di libertà anche affettiva, ma troppo spesso oggetto di provvedimenti di pseudo-tutela che prescindono dal rispetto delle più elementari esigenze psicologiche e che comportano un vulnus profondo anche nella relazione fiduciaria con le istituzioni. Con conseguenze gravissime anche in prospettiva.
6. Liberi di scegliere: gli allontanamenti dalle famiglie malavitose
Liberi di scegliere è un programma che tutela minori e donne che si allontanano dalla 'ndrangheta. L'iniziativa è stata avviata dell'ex presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella e trae spunto dall’osservazione che i giovani devianti di cui si doveva occupare la giustizia penale minorile erano sempre figli delle stesse famiglie di ‘ndrangheta’ destinati dalla nascita, senza poter scegliere, a un sistema valoriale aberrante, senza possibilità di sfuggirvi per il fortissimo condizionamento della sottocultura mafiosa imperante nell’ambito familiare.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha cominciato ad allontanarli dalle famiglie e a collocarli in luoghi protetti lontani dal luogo di origine. Le famiglie hanno reagito prima compatte con opposizioni e minacce da parte di tutti i componenti comprese le madri, completamente immerse in un sistema distorto che le vuole schiave e consenzienti, rassegnate a un clima di violenza e paura e a sapere che i loro figli sono destinati al crimine, a morire giovani in scontri a fuoco o a trascorrere la vita in carcere e le loro figlie sono votate a perpetuare tale situazione, perché tentare di sfuggire vuol dire condannarsi a morte: il sistema della malavita organizzata non tollera deroghe per coloro che vi sono nati.
La situazione si è progressivamente evoluta e si sta ulteriormente modificando. Sono ormai sempre più diffuse le scelte coraggiose di donne e madri che vogliono cambiare campo e ridare ossigeno anche alla loro voglia di libertà, di vita, di dignità. Si ribellano all’obbedienza ai clan per amore dei propri figli, cui vogliono garantire un futuro libero, rifiutando di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile. Donne che hanno deciso di infrangere codici millenari fondati sulla violenza, sulla minaccia e il rispetto timoroso di un ruolo subordinato. Chiedono aiuto per fuggire dalle mafie con i loro figli. Liberi di scegliere è quindi diventato un protocollo di intesa tra Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, Tribunale per i Minorenni, Procura per i Minorenni e Procura Distrettuale di Reggio Calabria, Procura Nazionale Antimafia e l’Associazione Libera ed è sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. Si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri. In questi casi talvolta l’allontanamento è solo dei figli dal clan malavitoso; talaltra di madri e figli, in località protette, con la possibilità di ricostruire un’identità sociale e culturale, lontana dagli stereotipi malavitosi.
7. Liberi di scegliere: i figli minorenni di comunità etniche e culturali con tradizioni coercitive. I casi “Saman”
Vi sono comunità etniche migrate nel nostro Paese che conservano tradizioni cultural-religiose per le quali la coercizioni nella sfera dell’esercizio dei diritti personalissimi dei figli non solo è tollerata, ma costituisce anzi un dovere socialmente sentito e imposto, da conservarsi e difendersi anche come simbolo di identità. Anche queste sono forme di violenza espressamente considerate dalla Convenzione di Istanbul: matrimoni combinati e precoci, mutilazioni genitali, interruzioni volontarie della gravidanza imposte.
I giovani che migrano con le loro famiglie nel nostro Paese e che entrano in contatto con la nostra cultura tentano talvolta di ribellarsi alle regole imposte dalla loro comunità di appartenenza, volendosene distanziare: ma non viene lasciata loro libertà di scelta. La cronaca riporta vicende drammatiche, quali quella di Saman, ormai scomparsa da mesi (si sospetta uccisa uccisa dai parenti, poi precipitosamente rientrati nel loro Paese di origine, il Pakistan), dopo aver rifiutato il matrimonio combinato. Altri casi meno noti riguardano violenze sessuali, fisiche, psicologiche inferte ai figli minorenni: spesso in questi casi non vi sono rilevatori sociali perché bambini e ragazzi sono letteralmente sommersi dalle mura di incomunicabilità del cerchio familiare e sociale anche per le insormontabili barriere linguistiche.
Questi minorenni non sempre frequentano le scuole e spesso sono segregati a casa. Se femmine, costrette a “servire” padre e altri lavoratori della stessa comunità occupandosi per ore della casa in cui vivono assiepati e dovendo spesso anche soddisfare i loro appetiti sessuali. Quando non sono sfruttati per ore e ore di lavoro (ovviamente nero) in pseudo laboratori insalubri in scantinati delle grandi città o nei campi. Non vi sono molti legami con il nostro mondo sociale, e si tratta di fenomenologie che rimangono spesso sommerse. Ma anche quando questi ragazzi riescono a ribellarsi e a denunciare, la soluzione per proteggerli è allontanarli, interrompendo ogni rapporto con la famiglia di origine, inserendoli in casa famiglia e limitando fortemente la loro libertà personale per evitare che, essendo rintracciati, possano essere vittime di violenza punitiva della loro disobbedienza ai genitori e alle regole della comunità. La limitazione della libertà personale che soffrono, senza nessuna mediazione tra una cultura e l’altra (forse servirebbero nuove figure professionali che potessero integrare conoscenze antropologiche, pedagogiche, psicologiche e sociologiche con capacità di mediazione culturale che siano veicolo tra una cultura e l’altra), finiscono con lo stritolarli tra i due sistemi valoriali, avvertiti in fondo come illibertari entrambi e incapaci di tutelarli. Hanno anche spesso timore per il momento in cui arriverà la maggiore età, e non saranno più tutelati ed esposti alla vendetta del loro sistema culturale, ma non inseriti nel nostro. Per questi giovani -che risultano essere un numero crescente- non sembra sussistano interventi appropriati e misurati sul loro best interest. In definitiva sono ancora più fragili dei minori stranieri non accompagnati per i quai è previsto quantomeno un sistema di tutela a misura delle loro esigenze dalla c.d. Legge Zampa (l. 47/2017). Possono finire con essere trattati con psico-farmaci, per tranquillizzarli liberandoli dal senso di paura, impotenza, solitudine.
8. La sottovalutazione (o pretermissione) della violenza assistita
Particolare attenzione meritano i casi di violenza assistita, definita dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso dell'Infanzia) come “il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori”. Ha effetti gravi dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti[5]. Non si tratta di definizione giuridica, ma esperienziale. E il primo tema è proprio questo.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul nel 2011 ed entrata in vigore il 1 agosto 2014, pur non definendo tale fenomeno, lo considera richiedendo che vengano predisposti servizi di supporto specializzati per le donne vittime di violenza e i loro bambini (art. 22); prevede all’art. 26 che le misure di prevenzione riguardino anche i bambini testimoni di violenza; all’art. 13 richiede campagne di sensibilizzazione. Ma, soprattutto, all’art. 31 obbliga gli Stati parti a prendere in considerazione gli episodi di violenza che abbiano coinvolto minori nel disciplinare affidamento, collocamento e diritto di visita da parte del genitore violento.
Nonostante ciò, la violenza assistita è fenomeno più che sottovalutato: piuttosto non considerato sia nei procedimenti civili che riguardano la relazione di coppia, spesso nei procedimenti penali promossi dal genitore vittima diretta di violenza, sia nei procedimenti minorili.
La violenza domestica infatti viene derubricata (e liquidata quasi con insofferenza dai giudici), quasi degradata, a conflittualità di coppia, con conseguenze di vittimizzazione secondaria delle vittime.
Si tratta invece di fenomeni completamente diversi. Nell’articolo recentemente pubblicato per GiustiziaInsieme[6], Nella Ciardo riporta la scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno o dell’altro fenomeno: “la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio” [7].
Nei casi procedimenti civili di crisi di coppia con elementi di violenza domestica e di genere, anche con inizio di prova già in atti, in forza di tale errati pregiudizio e banalizzazione, viene così imposto di default al genitore-vittima l’affidamento condiviso, e cioè la condivisione delle scelte con l’altro autore di violenza. Ciò comporta evidentemente vittimizzazione secondaria per il genitore vittima di violenza, costretta a concordare con l’autore le scelte fondamentali per il figlio che sostanzialmente non riescono ad essere assunte, con proliferare poi di ulteriori sub procedimenti quasi per ogni aspetto della vita del figlio - sportiva, di istruzione, ludica, sanitaria - e il proliferare di figure endo ed extraprocessuali: curatore speciale, coordinatore genitoriale, operatori socio-psico-sanitari, educatori) che viene in qualche modo paralizzata. Ma vi sono anche altri aspetti che meritano attenzione. E’ possibile che il figlio minorenne che ha assistito ad atti di violenza, nei confronti del genitore con il quale convive prevalentemente, rifiuti il genitore autore di violenza, o lo tema ed espliciti tale rifiuto nel suo “ascolto” processuale. Ma tutto ciò viene troppo spesso considerato aprioristicamente rifiuto non autentico ma condizionato dal genitore vittima di violenza che, vittimizzato ancora una volta in più, viene qualificato come “malevolo” o “alienante”, senza particolare attenzione alla storia concreta.
Al riguardo è necessario richiamare il "Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria", approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere nella seduta del 17 giugno 2021 https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1300287.pdf. Si legge nella Relazione: “…Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più”.
Anche di tali situazioni si occupa la l. 206/2021, parte nella delega al Governo, parte nelle norme immediatamente precettive, considerando in particolare il requisito della “comprovata esperienza professionale” nella violenza per l’ingresso nell’albo dei CTU e modificando di conseguenza l’art. 15 delle disp. att. c.p.c. nonchè stabilendo una serie di norme a tutela di vittime di violenza e dei loro figli.
Tuttavia deve modificarsi l’approccio culturale alla violenza domestica e di genere e in particolare deve essere stigmatizzato lo stereotipo che la mistifica come conflittualità. E’ infatti normale ed aberrante che anche in presenza di inizi di prove sulla violenza, i giudici in sede civile non li considerino, attendendo la condanna penale che sopravviene dopo anni e sottoponendo le vittime di violenza a rapporti continuativi con l’autore di violenza, quaificando anche loro come conflittuali se rifiutano la mediazione o si dichiarano contrarie all’affidamento condiviso (peraltro in coerenza con quanto previsto dalla ricordata Convenzione di Istanbul). E’ aberrrante che dei comportamenti violenti non si tenga conto ai fini dell’idoneità genitoriale che ha come contenuto precipuo il diritto/dovere di educare disciplinato dall’art. 29 della Convenzione ONU sui Diritti del fanciullo: secondo tale norma uno dei contenuti è il rispetto dell’altro genitore. Nonostante ciò non sono a conoscenza di provvedimenti che rimandino a tale contenuto espressamente ravvisando difetto di idoneità genitoriale sotto il profilo educativo negli autori di violenza. È aberrante che il figlio che rifiuta il genitore violento sia costretto a frequentarlo, senza che il primo abbia effettuato un reale percorso di revvedimento. Ovviamente chiedersi i motivi del triste primato dei femminicidi in Italia di fronte a tali bias giudiziari diventa un inutile esercizio retorico.
9. Il rifiuto immotivato dell’altro genitore e il peso da attribuire all’opinione della persona di età minore
L’Italia ha collezionato un “buon numero” di condanne dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui il figlio minorenne rifiuti immotivatamente il genitore non convivente. Si tratta di solito di situazioni in cui i genitori hanno stili valoriali, di vita ed educativi profondamente diversi, e il minorenne - sottoposto a un conflitto permanente di lealtà - si allea per fragilità con il genitore con il quale convive il quale da parte sua ritiene l’altro nocivo per il figlio come lo è stato per se stesso. L’obbligo positivo di ricongiungimento che incombe sullo Stato, infatti, non è soddisfatto dalla sola adozione da parte delle Autorità nazionali (giudici, servizi alla persona, altri organismi coinvolti) di misure automatiche e stereotipate che risultino inidonee ad evitare il consolidarsi di una situazione di separazione di fatto irreparabilmente pregiudizievole per la relazione figlio-genitore, generata talvolta anche dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie da parte dei servizi alla persona coinvolti nel procedimento. L’inutile decorso del tempo può avere infatti conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il figlio di età minore ed il genitore non convivente lasciando emergere e poi consolidare situazioni di rifiuto che divengono irreparabili. In questo quadro di principi si sono susseguite numerose sentenze. Numerose le condanne all’Italia [8] nelle quali si ripete il refrain che il nostro Paese ha attuato, spesso anche con lentezza e inefficienza, misure stereotipate. In effetti in questi casi i provvedimenti prevedono, circolarmente: affidamento ai servizi sociali con monitoraggio da parte degli stessi, incontri in spazio neutro con il genitore rifiutato, psicoterapia per il figlio “riottoso o riluttante” (che però rimanendo con il genitore che lo condiziona per il resto del tempo non ne consegue benefici), talvolta allontanamento dal genitore convivente e collocamento in una situazione di neutralità in cui il figlio possa riacquistare la libertà affettiva.
Anche di questi casi si occupa la l. 206/2021, nella legge delega, prevedendo al comma 23, lett. B) (e appare significativo che con tale previsione si aprano i princìpi di delega per l’introduzione del rito) che «il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell'affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza. In ogni caso, garantire che gli eventuali incontri tra i genitori e il figlio avvengano, se necessario, con l'accompagnamento dei servizi sociali e non compromettano la sicurezza della vittima».Poiché il figlio minorenne esprime autenticamente sentimenti di rifiuto per il genitore non convivente, il quale però è stato ritenuto adeguato sul piano dell’idoneità genitoriale, motivo per cui le Autorità nazionali debbono ripristinare il rapporto, diventa essenziale comprendere quale peso attribuire alla sua opinione. Ancora una volta, come indica la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sarà l’attenta analisi del caso concreto a indicare nel complesso gioco delle relazioni della triade genitori-figlio, se il rifiuto sia autentico e insuperabile, per caratteristiche del genitore rifiutato, o si debbano trovare rimedi perché invece è una suggestione da cui liberare la persona di età minore per restituirle piena libertà affettiva.
Concludendo questa riflessione sulla soggettività dei minori e il loro allontanamento dal nucleo familiare, mi sembra che l’attuale situazione nel nostro Paese permetta di fare una distinzione.
Sul piano generale e astratto, l’elaborazione giurisprudenziale e la produzione normativa, nel riconoscere soggettività piena alle persone di età minore anche nelle dinamiche familiari che possono vedere i loro diritti non rispettati e non tutelati dai genitori, individuano una serie di possibili interventi legittimi, compreso l’allontanamento che ne costituisce estrema ratio se misura temporanea accompagnata da provvedimenti doverosamente volti al ricongiungimento del figlio con i genitori e al loro sostegno, salvo che l’idoneità di questi si dimostri irrecuperabile anche con tali interventi; la normativa, grazie anche agli interventi di Riforma di cui alla l. 206/2021, si sta adeguando con opportune previsioni per quel che concerne istituti processuali e varie fattispecie.
Diversa, invece, la situazione sul piano concreto in sede applicativa Non sempre infatti si rileva una preparazione adeguata di tutti gli addetti ai lavori (operatori socio-sanitari, magistrati, avvocati) per la corretta individuazione degli elementi predittivi che rendano necessario l’allontanamento così come di quelli impeditivi del successivo ricongiungimento nell’interesse della persona di età minore. Non risulta infrequente che provvedimenti a tutela del diritto fondamentale della persona di età minore al miglior sviluppo psico-fisico non siano assunti; oppure che siano assunti in forza di un’analisi generica e banalizzante, priva di attenzione a quella concreta persona di età minore, alle effettive dinamiche relazionali, alle risorse in essere, superficiale e quindi errata.
Mi sembra anche che sia da sottolineare come non sussistano strumenti idonei per le categorie di persone di età minore più vulnerabili, sia per assenza di previsioni normative sia per assenza di adeguata formazione, come ad esempio i minorenni di etnie stranieri che si ribellano al codice d’onore delle loro comunità in contrasto con il nostro stato di diritto
Ringrazio per l’opportunità offertami di poter portare all’attenzione di codesto Ill.mo Comitato alcune riflessioni e, rimanendo ovviamente disponibile ad ogni eventuale integrazione, invio cordiali saluti.
* Contributo per i lavori del Comitato Nazionale di Bioetica - Presidenza del Consiglio dei Ministri, 27 gennaio 2022.
**Avvocato in Roma, Presidente di CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni www.cammino.org
[1] Mi permetto di rimandare al mio recente scritto su GiustiziaInsieme nel quale ho cercato di ricostruire il quadro delle condanne contro Italia riguardanti la violazione dell’art. 8 Conv. EDU in ambito minorile: “Area persona, relazioni familiari e minorenni: la riforma Cartabia risponde alle necessità di tutela effettiva”.
[2] Così il Commento del Comitato ONU all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, The right of the child to have his or her best interests taken as a primary consideration, 29 maggio 2013, https://gruppocrc.net/documento/commenti-generali-del-comitato-onu/
[3] Colmando la lacuna dell’art. 13 disp att. c.p.c. e individuando tra le professionalità l’inserimento anche delle seguenti discipline:“; 7) della neuropsichiatria infantile, della psicologia dell’et evolutiva e della psicologia giuridica o forense”. Inoltre l’art. 15 sempre delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, disciplina l’iscrizione all’albo dei Consulenti Tecnici, prevedendo i requisiti per le specifiche aree di competenza tecnica. L’art. 1, comma 34 della l. 206/2021 inserisce un secondo comma, riferito alle categorie inserite con il n. 7 del precedente art. 13 (neuropsichiatria infantile, psicologia dell’età evolutiva e psicologia la speciale competenza tecnica necessaria per essere inseriti
nell’albo dei CTU, sussista qualora ricorrano, alternativamente o congiuntamente, i seguenti requisiti:
1) comprovata esperienza professionale in materia di violenza domestica e nei confronti di minori;
2) possesso di adeguati titoli di specializzazione o approfondimento postuniversitari in psichiatria,
psicoterapia, psicologia dell’et evolutiva o psicologia giuridica o forense, purch iscritti da almeno
cinque anni nei rispettivi albi professionali;
3) aver svolto per almeno cinque anni attività clinica con minori presso strutture pubbliche o private”.
[4] La legge delega se ne occupa:
- art. 1, comma 23, lett. B: il giudice deve nominare il CTU con provvedimento motivato, indicando gli accertamenti da svolgere; il CTU deve attenersi ai protocolli e alle metodologie consolidate, senza ulteriori indagini
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub dd): sar prevista un’autonoma regolamentazione della CTU,anche con inserimento nell’albo dei CTU di specifiche competenze;
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub ee): il giudice può avvalersi di un iscritto all’albo dei CTU per essere coadiuvato per determinati interventi sul nucleo familiare per superare i conflitti tra le parti, fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni genitori/figli;
- Art. 1, comma 23, lett. z, sub gg), nn. 1 e 2: prevede varie incompatibilità per i CTU.
[5] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/cos-e-la-violenza-assistita-e-quali-le-conseguenze-sui-bambini
Impatto sullo sviluppo fisico: il bambino, soprattutto in tenera età, sottoposto a forte stress e violenza psicologica può manifestare deficit nella crescita staturo ponderale e ritardi nello sviluppo psico motorio e deficit visivi.
Impatto sullo sviluppo cognitivo: l’esposizione alla violenza può danneggiare lo sviluppo neuro cognitivo del bambino con effetti negativi sull’autostima, sulla capacità di empatia e sulle competenze intellettive.
Impatto sul comportamento: la paura costante, il senso di colpa nel sentirsi in un qualche modo privilegiato di non essere la vittima diretta della violenza, la tristezza e la rabbia dovute al senso d’impotenza e all’incapacità di reagire sono conseguenze che hanno un impatto sul bambino esposto a violenza. Inoltre possono insorgere fenomeni quali l’ansia, una maggiore impulsività, l’alienazione e la difficoltà di concentrazione. Sul lungo periodo tra gli effetti registrati ci sono casi più o meno gravi di depressione, tendenze suicide, disturbi del sonno e disordini nell’alimentazione.
Impatto sulle capacità di socializzazione: subire violenza assistita influenza le capacità dei più piccoli di stringere e mantenere relazioni sociali.
Cfr. anche United Nations Children’s Fund, Hidden in Plain Sight: A statistical analysis of violence against children, UNICEF, New York, 2014,
[6] Sebastiana Ciardo, La violenza sulle donne basasta sul genere: riflessioni-rimedi-prassi condivise. Nuove forme di tutela. GiustiziaInsieme, sabato 22 gennaio 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2098-la-violenza-sulle-donne-basata-sul-genere-riflessioni-rimedi-prassi-condivise-e-nuove-forme-di-tutela
[7] Prosegue L’Autrice: “Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato”
[8] Piazzi c. Italia, ric. 36168/09, sent. 02/11/2010 ; Lombardo c. Italia, ric. 25704/11, sent. 29.01.2013 ; Bondavalli c. Italia, ric. 35532/12, sent. 17/11/2015 ; Strumia c. Italia, ric. 53377/13, sent. 23.06.2016 : Improta c. Italia, ric. 66396/14, sent. 04.05.2017 ; Santilli c. Italia, ric. 51930/10, sent. 17.12.2013 ; Giorgioni c. Italia, ric. 43299/12, sent. 15.09.2016 : Endrizzi c. Italia, ric. 71660/14, sent. 23.03.2017 ; Luzi c. Italia, ric. 48322/17, sent. 5.12.2019 : A.V. c. Italia: ric. 36936/18, sent. 10.12.2020 . Nell’ultimo anno: R.B. e M. c. Italia, ric. 41382/19, sent. 22.04.2021; A.T. c. Italia, ric. 40910/19, sent. 24.06.2021; T.M. c. Italia, ric. 29786/19, sent. 7.10.2021.
Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare*
di Giovanni Fiandaca
Sommario: I. Premessa. - II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90. - III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale. - IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario. - V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale. - VI. Ampio ma acritico supporto mediatico. - VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme. - VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto della corruzione sistemica. - IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale. - X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità. - XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente.
I. Premessa
Una premessa sembra scontata. A trent’anni ormai di distanza, dovremmo essere a maggior ragione capaci di guardare a Mani Pulite con un atteggiamento mentale egualmente lontano dalla esaltazione celebrativa e dalla critica demolitrice preconcetta. Quella che è stata definita una “rivoluzione giudiziaria” non è stata una impresa giurisdizionale non solo straordinaria, ma anche così esemplare da additare a modello di riferimento meritevole di essere replicato, e non è stata neppure il risultato di un golpe o di una congiura ad opera di “poteri forti” o di settori politici in combutta con parte della magistratura. È stata piuttosto una impresa complessa per la molteplicità dei fattori anche di natura extragiudiziaria che la hanno influenzata, e altresì non priva di aspetti ambivalenti e persino paradossali. Insomma, l’esperienza complessiva di Mani Pulite presenta sia luci che ombre; e la valutazione circa la rispettiva prevalenza delle une o delle altre finisce con l’essere, inevitabilmente, condizionata dalla soggettiva angolazione prospettica e dall’orientamento politico di chi la effettua.
Proprio in considerazione della sua variegata complessità, Mani Pulite non può essere analizzata con le sole lenti del giurista. Non secondario rilevo assumono, infatti, profili di rilevanza sia storiografica, sia economica, socio-criminologica, politologica e financo psicologica. Ne deriva che anche uno studioso di diritto penale che sia interessato a rivisitare Mani Pulite nell’insieme delle sue peculiarità caratterizzanti, non può fare a meno di toccare o lambire territori disciplinari che trascendono la sua stretta competenza.
II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90
Cominciando dal generale contesto storico-politico, è noto che la situazione italiana dei primi anni Novanta dello scorso secolo era caratterizzata dall’esistenza di un sistema partitico già in grave crisi di legittimazione e di funzionamento e dalla ricerca di nuovi equilibri che però faticavano a manifestarsi. A determinare questa obiettiva condizione di incertezza e confusa transizione concorreva una pluralità di fattori di natura sia interna, sia internazionale (ci si riferisce per un verso all’effetto politicamente destabilizzante prodotto dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della “guerra fredda” e, per altro verso, alle ricadute della globalizzazione e dei rigidi paletti economico-finanziari imposti dal Trattato di Maastricht) che la storiografia ha messo in evidenza sia pure con approcci ricostruttivi variamente articolati. Ma vi è una tendenziale convergenza di vedute, tra gli storici, nel riconnettere le cause della grave crisi di sistema dei primi del Novanta a fattori politico-economici di debolezza e di stallo nello sviluppo risalenti agli anni Settanta e Ottanta, e progressivamente aggravatisi. Tra questi fattori, la storiografia contemporanea inserisce la risalente presenza di fenomeni corruttivi, l’emersione di alcune precedenti Tangentopoli e la sempre più insistita, negli anni successivi, tematizzazione della “questione morale”, impugnata come arma di battaglia da parte del Pci (poi Pds) e di forze politiche anche di destra (come il MSI), nonché di nuovi movimenti intenzionati a combattere i partiti di governo sempre più delegittimati[1]. Ma in questa denuncia della corruzione diffusa e nella lotta contro il degrado morale non erano soltanto impegnati alcuni partiti e movimenti: svolgevano un’azione di supporto anche settori (specie di orientamento progressista) del mondo intellettuale, del giornalismo scritto e parlato ed esponenti della parte della magistratura politicamente più impegnata (come Magistratura democratica), che però finivano così con l’accreditare una lettura orientata in senso forse troppo schematicamente moralistico di una crisi generale dovuta invece a un insieme complesso di cause eterogenee strettamente intrecciate[2].
Ancorché questa complessità multicausale dovesse mettere in guardia dall’attribuire all’azione giudiziaria un ruolo decisivo nel promuovere il rinnovamento politico e la moralizzazione del paese, il Pci divenuto Pds e le altre forze interessate a rimpiazzare – secondo una retorica allora in voga - il governo dei corrotti col “governo degli onesti” fornirono un pieno sostegno a Mani Pulite confidando, per calcolo anche opportunistico, che l’attività repressiva potesse favorire quell’auspicato rinnovamento che non si era capaci di promuovere per via politica. E questo ampio appoggio non venne meno neppure di fronte all’emergere, all’interno dello stesso orizzonte politico di sinistra, di dubbi e riserve sulla legittimità o correttezza di certe modalità operative del pool milanese, o di preoccupazioni sul possibile sconfinamento della giurisdizione penale dai suoi limiti istituzionali di competenza, essendo infine prevalsa – peraltro anche in ampi settori del mondo giornalistico e del ceto intellettuale – la convinzione che “il fine giustifica i mezzi”: cioè che l’obiettivo di risanare la vita politica rendesse tollerabile una guerra giudiziaria difficilmente compatibile con i principi del garantismo penale[3]. Ma la cultura garantista, in Italia, non è mai stata dominante fuori dai recenti della dottrina giuridica in particolare accademica.
È pur vero, d’altra parte, che non tutte le voci allora disposte a giustificare – per radicalismo etico-politico o machiavellico calcolo - certi eccessi e straripamenti giudiziari come costi da sopportare in vista dell’auspicato rinnovamento, hanno ribadito questo stesso punto di vista ormai a vent’anni o più di distanza: piuttosto, è andata aumentando la presa d’atto che è stato sbagliato confidare troppo nella funzione salvifica della magistratura, imprudente assecondare il giustizialismo popolare e miope non prevedere che gli effetti di un terremoto giudiziario sull’evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi[4].
Comunque la si giudici oggi, è storiograficamente pressoché pacifico che l’impresa di Mani Pulite ha dato un contributo decisivo alla uscita di scena dei partiti sino a quel momento al governo del paese. Ma questo contributo è stato con-causale, dal momento che nella catena eziologica di questa scomparsa bisogna tenere conto della presenza di altre concause: tra queste, è da porre in risalto l’incapacità dei dirigenti e degli esponenti dei partiti maggiormente coinvolti nelle indagini di reagire con atti politici, il loro annichilimento psicologico e morale, la loro soggezione passiva e spaventata agli umori antipartitici e giustizialisti della piazza, a loro volta alimentati dalla campagna mediatica di fiancheggiamento dell’azione repressiva; un quasi- suicidio politico, insomma, non impedito o agevolato da quei versanti partitici che – come nel caso del Pds – speravano di trarre vantaggio dal crollo dei vecchi partiti delegittimati[5]. Non manca anche di recente, però, chi sul piano causale tende altresì ad attribuire un non trascurabile rilevo al (supposto) “obiettivo ultimo” dei magistrati milanesi di occupare “spazi politici”, obiettivo che risulterebbe – tra l’altro – confermato dai numerosi passaggi successivi dalle file della magistratura alle cariche politiche nei partiti e in Parlamento, in particolare nelle file della sinistra[6]. Senonché sembra più verosimile - come si rileverà anche appresso - che i magistrati del pool, piuttosto che perseguire il precostituito obiettivo finale di assumere in proprio cariche politiche, fossero animati dall’intenzione lato sensu politica di ingaggiare una guerra giudiziaria contro un sistema corrotto.
III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale
Rispetto al problematico rapporto tra politica e giurisdizione, un nodo essenziale era stato segnalato già all’inizio del 1993 dall’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi: il quale rilevò che il contrasto della corruzione sistemica faceva assumere alla magistratura – cito tra virgolette – “un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze (…) ha caricato di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale”[7]. Ma, in verità, non si è trattato soltanto di un rischio. L’onestà intellettuale impone di riconoscere che la sovraesposizione politica del potere giudiziario connessa alla lotta alla corruzione sistemica, più che in termini di mero rischio, si è verificata come dato di fatto difficilmente contestabile (e ciò anche a prescindere dall’eventuale intenzione soggettiva dei singoli magistrati impegnati nell’attività investigativo-repressiva). A conferire una valenza oggettivamente politica all’azione giudiziaria era proprio il carattere sistemico della corruzione politico-amministrativa e il fatto, conseguente, che sul banco degli imputati finiva quasi un intero ceto politico in concorso con un ceto imprenditoriale colluso. E però sarebbe ingenuo non considerare più che verosimile una aggiuntiva volontà soggettiva dei magistrati milanesi di finalizzare le indagini anche ad obiettivi più generali di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva, in sé meritori ma di problematica compatibilità con gli scopi istituzionali della giurisdizione penale[8]. Certo, segnava un grande passo avanti – ed era perciò da salutare come una conquista in termini di civiltà e moralità giuridica – il fatto che il magistero punitivo si mostrasse finalmente capace di processare e sanzionare una macro-criminalità sistemica, così interrompendo anche simbolicamente una tradizione di prevalente e compiacente impunità di cui avevano beneficiato il ceto politico e il mondo economico-imprenditoriale (anche se a questa affermazione di giustizia e legalità egualitarie si accompagnavano popolari umori ‘giustizialisti’ di meno nobile sorgente). Ma questo importante passo avanti comportava, proprio per il sovrappiù di politicità connesso ad una repressione su vasta scala riferita al sistema politico-partitico, rilevanti costi sotto il profilo dell’equilibrio costituzionale complessivo; nel contempo, si alimentava nell’opinione pubblica (e in particolare nei settori più entusiasti del ‘repulisti’ giudiziario) l’illusione che la giustizia punitiva potesse fungere da strumento idoneo a estirpare la corruzione diffusa.
A prescindere dal coefficiente di pregiudiziale simpatia o antipatia verso Mani Pulite, una cosa sembra fuori discussione: l’abbattimento finale per via giudiziaria del sistema dei partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica ha rappresentato un evento molto drammatico e traumatico, produttivo di effetti di lunga durata rispetto a una ben nota patologia (soprattutto) italiana destinata a cronicizzarsi, cioè a quella sorta di grave nevrosi politico-istituzionale costituita dal conflitto tra politica e magistratura. Conflitto che ha – tra l’altro – fatto sì che una politica rimasta prevalentemente debole ha continuato a subire in varia forma un forte condizionamento inibente o oppositivo da parte del potere giudiziario, percependosi per di più – a torto o a ragione - come una specie di sorvegliata speciale quasi sotto controllo ricattatorio-ritorsivo, e comunque rivelandosi sino ad oggi incapace di riacquisire l’autorevolezza, la credibilità e il coraggio necessari per ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale.
Eppure, non si può dire che la magistratura penale considerata nel suo insieme abbia, dopo i primi anni Novanta dello scorso secolo, durevolmente mantenuto un livello alto di legittimazione e consenso per importanza e continuità di azioni investigativo-repressive, professionalità, efficienza, rispetto dei principi di garanzia e capacità di elaborazione culturale. Piuttosto, sono andati progressivamente aumentando i casi di indagini avventate o spericolate destinate a esiti fallimentari, di proscioglimenti o assoluzioni spesso tardive di politici e amministratori pubblici sospettati troppo affrettatamente di condotte delittuose[9], come pure sono andati crescendo i fenomeni di improprio protagonismo sia mediatico che politico di alcuni esponenti della magistratura specie d’accusa . E, dal canto suo, l’associazionismo giudiziario si è articolato in gruppi associativi (cosiddette correnti) sempre più trasformatisi da luoghi di riflessione e orientamento culturale in strutture di potere operanti secondo una logica clientelare e metodi di tipo spartitorio. Ma vi è di più. Questa degenerazione funzionale si è anche manifestata in forme di maggiore gravità a causa di note vicende che hanno fatto emergere precostituite cordate politico-magistratuali finalizzate a orientare la scelta dei vertici di importanti uffici giudiziari e, financo, relazioni a carattere favoritistico sfocianti in scambi corruttivi[10]. Sicché, il fenomeno della corruzione non è risultato estraneo neppure a quella istituzione deputata a fronteggiarlo con le armi del diritto e del processo penale. Ciò a riprova del fatto che l’appartenenza all’ordine giudiziario di per sé non garantisce un superiore livello di moralità, e che l’esercizio della funzione di magistrato di per sé non giustifica o rende credibile la pretesa di moralizzare gli altri.
IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario
Come non sono certo il primo a rilevare, l’esperienza di Mani Pulite si è intrecciata con e si è alimentata di pulsioni antipolitiche e ventate populiste riconducibili a movimenti e partiti (come la Lega o la Rete) espressivi della protesta contro l’establishment politico di allora, che essa ha dal canto suo contribuito a interpretare e rafforzare in guise tali da confondere peraltro il confine tra lotta politica e lotta giudiziaria. Se non allo stesso modo e nella stessa misura tutti i componenti principali del pool, la sua figura più popolare e al tempo stesso più discutibile, cioè Antonio Di Pietro, col suo inedito e ossimorico stile di magistrato (una sorta di grande poliziotto un po' duro un po' comprensivo[11]), le sue caratteristiche di personalità (un curioso incrocio tra un Robespierre e un “arcitaliano”[12]) e la sua sicura vocazione populista mediaticamente amplificata ha fornito un rilevante contributo alla crescita del populismo politico nel nostro paese, nonché all’affermarsi di quel fenomeno che è stato anche da me etichettato come populismo giudiziario, in seguito impersonatosi in altri pubblici ministeri-star più o meno emuli del loro predecessore molisano-milanese: pubblici accusatori accomunati cioè dalla pretesa di assurgere ad autentici interpreti dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza o addirittura di manifesta contrapposizione al potere politico ufficiale, così finendo col trarre (piuttosto che dal vincolo alla legge) dal consenso e dal sostegno popolare la principale fonte di legittimazione sostanziale del proprio operato[13].
Che un populismo giudiziario così inteso risulti irrimediabilmente incompatibile col nostro modello costituzionale di giurisdizione penale, è una conclusione che non richiede particolare dimostrazione.
V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale
Respingere il populismo giudiziario non equivale a criticare ogni manifestazione di condivisione e sostegno che l’azione investigativo-repressiva può ricevere dall’opinione pubblica o da alcuni suoi settori. Anche da questo punto di vista Mani Pulite è stata un’esperienza significativa che offre diversi elementi di riflessione.
Com’è noto, specie nelle fasi iniziali dell’inchiesta l’azione dei magistrati è stata incoraggiata e sostenuta da un ampio consenso sociale, tributato anche nei modi di un’accesa tifoseria. Questo sostegno esterno ha indubbiamente funto da potente fattore di incoraggiamento di un controllo penale esteso a livelli politici ed economici prima di allora mai attinti e ha rafforzato, nei magistrati che procedevano alle indagini, l‘orgogliosa consapevolezza di soddisfare istanze popolari di giustizia per lungo tempo eluse. Ma la medaglia aveva un rovescio. Nel senso che l’appoggio del pubblico non rispecchiava soltanto sentimenti nobili ispirati a valori di giustizia e legalità da affermare o ripristinare finalmente in concreto. Nel sostegno non di rado entusiastico all’attività repressiva si è anche manifestato un atteggiamento meno nobile e più irrazionalmente emotivo, vale a dire “un tumultuoso senso di rivalsa nei confronti dei potenti, un compiacimento alla vista di politici di spicco abbattuti dai loro piedistalli, condotti in giudizio per rispondere di imputazioni personali e sottoposti alle medesime sofferenze e disagi solitamente patiti dalla ‘gente comune’”[14]. Da qui una forte riemersione di quelle sotterranee componenti pulsionali del condannare e punire che, in dispregio delle finalità razionali della giustizia punitiva, finiscono col restituire alla stessa punizione statale una primordiale e irrazionale funzione vendicativo-ritorsiva, decisamente contrastante col principio costituzionale di rieducazione (a sua volta, peraltro, non privo di aspetti problematici in rapporto ad autori di reato riconducibili alla categoria dei ‘colletti bianchi’).
È anche vero che il consenso esterno era destinato ad affievolirsi progressivamente per effetto di diversi fattori causali. Tra questi, da un lato l’estendersi delle indagini a soggetti appartenenti a cerchie sociali di più modesto livello, con la conseguenza che il controllo penale finiva con l’ essere percepito come potenzialmente minaccioso (piuttosto che benvenuto) da parte di cittadini comuni appunto non immuni da relazioni di malaffare; dall’altro, il diffondersi tra la gente del dubbio – alimentato anche in maniera tutt’altro che disinteressata specie da alcuni imputati ‘eccellenti’ – che il pool milanese orientasse la sua azione giudiziaria sulla base di simpatie politiche o comunque perseguisse fini politici. Dubbio, questo, non risolvibile con certezza nel senso della fondatezza o dell’infondatezza, e perciò generatore di diffidenza e sfiducia quantomeno in quella parte del pubblico che risultava aliena da forme di condivisione fideistica dell’operato di Di Pietro e dei colleghi che lo affiancavano.
Comunque sia, è forse superfluo aggiungere che il rapporto tra pubblico esterno e giustizia penale è sempre problematico. Vale la pena in proposito ricordare quanto Leonardo Sciascia scrisse ormai non pochi anni fa: “Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia - che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”[15]. Meglio non si potrebbe dire! Sta proprio qui uno dei nodi più problematici e tormentosi della funzione giudiziaria, su cui ha posto di recente l’accento anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: rendere giustizia in modo “comprensibile” per il pubblico, ma senza al tempo stesso assumere le aspettative popolari o delle stesse vittime a criterio principale di decisione. Per contemperare in modo equilibrato comprensibilità e indipendenza di giudizio, non sono ovviamente precostituibili principi o regole generali validi una volta per tutte: occorre uno specifico talento, che trascende le competenze tecnico-giuridiche e poggia in non piccola misura sulla sensibilità personale (ed è proprio questo il problema, non essendo questo tipo di sensibilità facilmente acquisibile attraverso i corsi di formazione professionale!).
VI. Ampio ma acritico supporto mediatico
All’appoggio dei cittadini in carne ed ossa ha corrisposto, sempre in particolare nelle prime fasi dello scoperchiamento del sistema della corruzione, un grande sostegno del giornalismo scritto e parlato. Il ruolo determinante esercitato dai media, quale fattore in assenza del quale Mani Pulite non avrebbe potuto svilupparsi così come si è sviluppata, è emblematicamente confermato da un recente bel libro del giornalista Goffredo Buccini che ho avuto occasione di recensire sulle pagine del Foglio[16]. Il merito principale di questo libro – non soltanto a mio giudizio, ho motivo di supporre – consiste nell’avere sottoposto a lucida e coraggiosa revisione critica un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico, vissuta da Buccini insieme ad un gruppo di giovani giornalisti a quel tempo appassionatamente propensi a fornire un sistematico supporto all’attività investigativa e ai suoi sviluppi, nella convinzione speranzosa che l’appoggio della stampa potesse aiutare i magistrati a portare avanti l’opera di pulizia e così contribuire al rinnovamento morale e politico del paese. Solo che questo pregiudiziale appoggio tendenzialmente incondizionato (motivato anche dalla comune formazione politica di sinistra del gruppo di giovani giornalisti in questione), come lo stesso Buccini oggi autocriticamente rileva, incideva negativamente sull’obiettività del lavoro giornalistico, facendo venir meno o riducendo quella vigilanza critica rigorosa che in teoria spetta alla stampa allo scopo di controllare l’operato degli stessi giudici e di denunciarne eventuali errori, eccessi o abusi.
Sempre sul versante del rapporto col sistema mediatico, si può aggiungere che Mani Pulite ha fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato un duplice effetto - anche a mio giudizio - più negativo che positivo: da un lato, di duplicare il processo col rischio di far apparire secondario quello che si svolge nell’aula di tribunale; dall’altro, di rendere certi magistrati d’accusa sempre più simili a tribuni del popolo, che recitano ad un tempo in maniera confusiva ruoli giuridico-istituzionali e ruoli politico-mediatici. In particolare, poi, una famosa trasmissione televisiva come quella del processo Cusani ha mostrato come una ripresa mirata e ravvicinata delle reazioni, anche corporee ed emotive, delle persone interrogate possa diventare un impietoso “rituale di degradazione”, che moltiplica agli occhi del pubblico l‘effetto discreditante dello scenario penale[17]. Mi piace ricordare che contro il processo ripreso in tv si è espresso (proprio durante la stagione i Mani Pulite) un grande studioso della comunicazione come Umberto Eco, il quale arrivò estremisticamente a definire – in occasione della trasmissione del processo che vedeva imputato l’ex assessore Walter Armanini – la gogna mediatica un “attentato alla Costituzione”: “Questo tipo di gogna vale un ergastolo. È vero che in passato c’erano le pubbliche esecuzioni in piazza, ma proprio per questo noi ci riteniamo più civili dei nostri avi”[18].
Com’è noto, più in generale la prassi delle relazioni “incestuose” tra stampa e magistratura (in particolare d’accusa), sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata fino a tempi recenti con conseguenze negative su più piani, dal rispetto del principio della presunzione di non colpevolezza alla incentivazione del protagonismo pubblico e del “libertinaggio” esternante non solo dei pubblici ministeri ma persino di qualche magistrato giudicante. In proposito, mi limito a manifestare la mia condivisione di massima del decreto n. 188/2021 di recente emanato su impulso della Ministra Cartabia, che non costituisce né una “legge-bavaglio” né uno “sfregio alla Costituzione”, bensì un doveroso e opportuno (quantomeno) tentativo di promuovere un più corretto rapporto tra giustizia e informazione[19].
VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme
Sono abbastanza note le forme di manifestazione del fenomeno corruttivo tipico di Tangentopoli intercettato dai magistrati di Mani Pulite. Per richiamarle, riporto la sintesi contenuta nel recente libro di Piercamillo Davigo rievocativo dell’esperienza di lavoro da lui vissuta un trentennio fa: “Il quadro complessivo emerso dalle indagini fornì la prova indiscutibile di un diffuso sistema di malaffare basato su un mix fra corruzione amministrativa accentrata e corruzione amministrativa decentrata, che coinvolgeva molti partiti politici e le principali imprese italiane (…).
Sotto il primo profilo (quello della corruzione amministrativa accentrata), i principali partiti della maggioranza venivano finanziati illegalmente dalle più importanti imprese del paese, apparentemente senza un immediato rapporto sinallagmatico rispetto agli appalti pubblici, anche se molti dei soggetti che avevano pagato avevano precisato che i versamenti erano, comunque, collegati a determinate decisioni della pubblica amministrazione, di enti o di società a partecipazione pubblica, favorevoli alle imprese(…).
A livello locale (Regioni, Province e Comuni, con enti a questi collegati o con società partecipate) vi era un sistema di corruzione decentrato, con pagamento alle strutture locali dei partiti o a singoli esponenti di somme comunque rilevanti”[20].
Soltanto da parte dei tifosi più accesi e ingenui di Mani Pulite, ignari dei limiti di efficacia della sola repressione penale, si poteva sperare che una bufera giudiziaria potesse non soltanto abbattere l’illegale sistema di cui sopra, ma produrre anche duraturi effetti di sbarramento della corruzione nel nostro paese. È convincimento consolidato, suffragato da una grande mole di dati giudiziari e da qualche indagine socio-criminologica, che negli anni successivi la fenomenologia corruttiva - lungi dall’essersi esaurita o sensibilmente ridotta – sia piuttosto mutata nelle forme di manifestazione: nel senso che dopo Tangentopoli i partiti politici come tali hanno perduto centralità sia come organizzatori sia come beneficiari degli scambi corruttivi, mentre la corruzione è andata decentrandosi e privatizzandosi, cioè si è radicata in misura maggiore a livello locale e ha come finalità prevalenti l’arricchimento privato e il rafforzamento del potere personale; tuttavia, questo carattere più decentrato, diffuso e frammentato non comporta - secondo l’opinione di accreditati sociologi – una maggiore fragilità e occasionalità delle reti di relazione tra politici, funzionari pubblici e professionisti (nonché, specie nel Meridione, esponenti del crimine organizzato), essendo viceversa tali reti strutturate e risultando relativamente stabili[21]. Ammesso che questo quadro ricostruttivo risulti nel complesso sufficientemente fondato, si può anche pensare che le cose siano andate sotto certi aspetti peggiorando piuttosto che migliorando!
Si ripropone anche l’interrogativo se davvero da noi la corruzione sia maggiore che in altri paesi europei. In realtà, non è facile operare confronti affidabili. Di solito le statistiche disponibili fanno riferimento alla corruzione “percepita”, piuttosto che realmente accertata; per cui vi è il rischio che la percezione della maggiore o minore presenza del fenomeno sia influenzata dal livello della sua pubblicizzazione nei rispettivi paesi. In particolare, sulla presunzione che l’Italia sia tra i paesi più corrotti incidono senz’altro due principi caratterizzanti del suo ordinamento quali l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale, da cui derivano come effetto una maggiore quantità di indagini e di procedimenti penali (però, non di rado, sfocianti in archiviazioni o assoluzioni), e ciò indubbiamente influenza la convinzione pessimista diffusa nel pubblico [22]. Non a caso, persino Piercamillo Davigo ha ammesso di ritenere da tempo che “la vera specificità italiana non fosse la corruzione, ma l’indipendenza del pubblico ministero che aveva consentito di farla emergere”[23].
VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto nel contesto della corruzione sistemica
Forse è superfluo spendere parole sul perché il diritto e il processo penale non siano strumenti da soli sufficienti non solo a prevenire del tutto i fenomeni corruttivi, ma anche a ridurne in misura rilevante la diffusione. Si può ormai considerare una acquisizione pacifica, dal punto di vista criminologico e penalistico, che il diritto penale non serve a debellare in generale la criminalità, ma può servire tutt’al più a ridurne forme di manifestazione prive di profondo radicamento e/o esenti da forti fattori di condizionamento di natura storico-sociale, economica, psicologica ecc. Questi limiti fisiologici della giustizia penale si accentuano rispetto a comportamenti illeciti diffusi su larga scala, per la oggettiva difficoltà da un lato che i magistrati d’accusa possano venire a conoscenza di tutti i reati commessi e, dall’altro, che la macchina giudiziaria disponga di risorse materiali, tecniche e umane tali da potere perseguire e sanzionare migliaia e migliaia di fatti delittuosi. D’altra parte, l’obiettivo di una persecuzione penale a tappeto, il più possibile completa, sarebbe anche poco compatibile con un ordinamento di autentica ispirazione liberaldemocratica: un tale obiettivo implicherebbe, infatti, una vigilanza poliziesca così occhiuta, continua e totale da annullare gli spazi di libertà dei cittadini!
Ciò premesso in linea generale, è altresì noto che i reati di corruzione rientrano da sempre nel novero di quelli che presentano una elevata “cifra oscura” per l’alone di segretezza che comprensibilmente li avvolge e il comune interesse di corrotti e corruttori a ricorrere a manovre di occultamento degli scambi illeciti; questa connivenza omertosa e questi ostacoli frapposti alla emersione degli accordi delittuosi, facendo diminuire il rischio di una loro persecuzione giudiziaria, finiscono a loro volta col determinare un indebolimento dell’efficacia preventivo-dissuasiva della minaccia penale[24]. Ma, al di là dell’effetto deterrente, rispetto alle prassi corruttive diffuse si indebolisce la ulteriore funzione pedagogica che la legge penale dovrebbe in teoria assolvere. Secondo una opinione dottrinale ormai radicata, questa funzione di orientamento socio-culturale è più plausibile nei casi di ampia convergenza tra previa disapprovazione etico-sociale e censura penale, concorrendo la pena statale a consolidare e rafforzare nella coscienza dei cittadini l’interiorizzazione e il rispetto dei valori da tutelare e delle corrette regole di comportamento da osservare. Se invece i comportamenti penalmente sanzionabili sono non solo diffusi su larga scala, ma altresì estesamente tollerati (o addirittura approvati in determinati ambiti sociali o professionali), ecco che la percezione del loro disvalore viene meno o sbiadisce sensibilmente: per cui la pena minacciata prima della loro realizzazione o concretamente applicata dopo la loro commissione, in luogo di esplicare efficacia educativa, può essere avvertita come ingiustificata o arbitraria, finendo perciò col risultare inidonea a incidere sulle prassi comportamentali che andrebbero modificate.
Non sorprende, di conseguenza, che sulla ridotta efficacia del diritto penale vi sia ormai tendenziale concordanza da parte di studiosi di diverse aree disciplinari, e che l’insufficienza dell’azione giudiziaria sia apertamente riconosciuta anche da alcuni protagonisti del pool mianese di allora[25]. Così, una importante ricerca sociologica sulla corruzione post-Tangentopoli suggerisce che, al di là del preventivo calcolo individuale della possibilità concreta di essere puniti, un fattore non meno importante di incidenza sull’entità degli scambi illeciti è costituita da quello che Alessandro Pizzorno ha definito “costo morale” della corruzione: se la relativa “soglia è bassa perché vi è una carente cultura civica e una sfiducia diffusa nelle istituzioni, anche la tendenza a partecipare a fenomeni di corruzione tenderà inevitabilmente a salire(…). Da questo punto di vista, il contrasto efficace della corruzione dipende anche dalla coscienza civica, dalla fibra morale del paese”[26]. Un secondo fattore, connesso al livello dell’etica pubblica, da tenere in conto riguarda i meccanismi di selezione della classe politica a livello nazionale e locale e, dunque, la logica di funzionamento e la qualità dei partiti politici: quanto più si tratta di partiti deboli, culturalmente degradati e personalizzati nella leadership, tanto più divengono “terreno di troppo facile conquista da parte di reti di interessi e di affari che li utilizzano a fini privatistici”. Alla crisi e al progressivo indebolimento dei partiti si è, nello stesso tempo, accompagnato un processo di “decentramento irresponsabile”, cioè nel quale l’accresciuta disponibilità di risorse a livello locale e regionale non ha corrisposto l’introduzione di adeguati strumenti di controllo dal centro[27].
Se le cose stanno così, un più efficace contrasto della corruzione richiede strategie globali di intervento che, trascendendo il piano circoscritto della giustizia penale, hanno a che fare col funzionamento e con la qualità del sistema politico sia in sé stesso, sia nei suoi rapporti di interazione con l’economia pubblica e privata.
IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale
Per quanto da solo non decisivo, il terreno del diritto e del processo penale non va certo trascurato.
A) Nel riassumere le possibili indicazioni che in proposito derivano dalla esperienza di Mani Pulite, un primo dato – abbastanza noto almeno tra gli addetti ai lavori – riguarda il diritto penale sostanziale e può essere sintetizzato così: le concrete forme di manifestazione empirica della fenomenologia corruttiva venuta alla luce (carattere sistemico e strutturato, reti relazionali stabili tra soggetti appartenenti ad ambiti professionali diversi, sovvertimento dei ruoli criminosi tradizionali con passaggio di uno stesso soggetto nell’ambito della medesima vicenda dal ruolo di concusso a quello di corruttore o viceversa, messa “a libro paga” di un pubblico ufficiale da parte di un imprenditore privato che lo sovvenziona periodicamente per ottenerne una generale disponibilità ecc.) hanno messo a dura prova, sul piano interpretativo-applicativo, le tradizionali fattispecie incriminatrici dei delitti di concussione e corruzione contenute nel codice Rocco[28]. Per facilitarne l’applicazione alla nuova casistica concreta, si è assistito nella prassi giudiziaria a un accrescimento della discrezionalità qualificatoria e a una contemporanea dilatazione ermeneutica di tipo estensivo- analogico delle fattispecie scritte, in contrasto o comunque in forte tensione con i principi penalistici di riserva di legge e di tipicità (nello stesso tempo, si è accentuata la tendenza verso la cosiddetta processualizzazione delle categorie sostanziali, cioè a ricostruire giudiziariamente i requisiti costitutivi di delitti come la corruzione o la concussione in base a esigenze probatorie). Da questo punto di vista, l’esperienza giudiziaria milanese ha fornito una delle migliori riprove di come l’interpretazione e applicazione delle stesse leggi penali non possano, secondo una visione realistica, ridursi ad attività meccaniche o tecnicamente neutrali: piuttosto, esse richiedono che l’interprete-applicatore giudiziale – per dirla con un valente giusfilosofo delle ultime generazioni – “compia molteplici scelte, valutazioni, prese di posizione, spesso non chiaramente esplicitate, scelte che possono talvolta, o anche spesso, apparire come semplici questioni tecniche (…), ma che sono in larga parte, in ultima analisi, di natura etico-politica”[29]. Se così è, la cosiddetta rivoluzione giudiziaria si è anche alimentata di quote non piccole di politicità latamente intesa, insita inevitabilmente nel modo di adattare le figure di reato allora vigenti ai casi concreti.
Ma le difficoltà applicative e la preoccupazione emergente di rendere più efficace l’intervento penale, com’è pure noto, sollecitavano ben presto un dibattito nella prospettiva di possibili riforme legislative. Tale dibattito sfociò in due direttrici di fondo: una per così dire ‘estremistica’ esemplificata dal “progetto di Cernobbio” (elaborato da un gruppo di studio costituito da docenti universitari, componenti dello stesso pool milanese e alcuni avvocati) e mirante, in estrema sintesi, a superare la tradizionale distinzione tra concussione e corruzione unificandole in una fattispecie incriminatrice unitaria e, altresì, a introdurre cause di non punibilità per il corrotto o corruttore “pentito”; una seconda direttrice per così dire moderata, tendenzialmente fatta oggetto di maggiore consenso anche dottrinale, volta a modificare la originaria disciplina delle due suddette fattispecie in modo da superarne le risalenti difficoltà di differenziazione e da renderle più agevolmente applicabili all’evoluzione delle forme di corruzione venute alla luce[30].
Come sappiamo, per cercare di tradurre in legge quantomeno alcune delle esigenze politico-criminali emerse dall’esperienza di Tangentopoli si sono dovuti attendere, però, non pochi anni: è stata la cosiddetta riforma Severino del 2012 a riscrivere in larga parte il reato di concussione (con scorporo della condotta induttiva e suo trasferimento nella nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere) e i delitti di corruzione (con eliminazione della corruzione cosiddetta impropria e sua sostituzione con il nuovo reato di corruzione pe l’esercizio della funzione), inasprendo altresì il regime sanzionatorio. Ma, se si dà uno sguardo d’insieme agli orientamenti interpretativi della nuova giurisprudenza maturata rispetto alle modificate fattispecie, non si può dire che questa ampia riforma di un decennio fa sia risultata – al di là delle intenzioni – di fatto davvero utile in termini di effettiva semplificazione applicativa e di reale potenziamento della risposta penale[31]. Né risultati pratici apprezzabili sembrano conseguibili grazie alla successiva riforma cosiddetta “Spazzacorrotti” del 2019, concepita nell’ottica di un demagogico iper-punitivismo populista, che ha inasprito ulteriormente il trattamento sanzionatorio e ha introdotto una causa di non punibilità – peraltro non felicemente formulata – a favore del colpevole che denuncia volontariamente, prima di avere notizia dell’inizio delle indagini a proprio carico, il fatto delittuoso a carattere corruttivo commesso, fornendo indicazioni utili ai fini dell’accertamento processuale.
B) Rispetto poi al versante procedimentale e processuale, un profilo degno di nota – oltre al già accennato fenomeno di stretta interazione tra presupposti di diritto sostanziale ed elementi probatori – riguarda in primo luogo le tecniche di indagine adottate per portare allo scoperto gli episodi corruttivi. In proposito, si è più volte messa in evidenza la eccezionale abilità investigativa in particolare – e non a caso - dell’esponente-simbolo del pool milanese, cioè di Antonio Di Pietro: abilità caratterizzata sia da un pur discutibilissimo stile poliziesco (acquisito, verosimilmente, nel periodo precedente in cui lo stesso Di Pietro aveva operato come commissario di polizia), da metodi alquanto spregiudicati o sbrigativi e da un sapiente dosaggio di ‘bastone’ e ‘carota’ nel condurre gli interrogatori, sia da una spiccata capacità (comune invero ad altri colleghi del pool) di analizzare i movimenti bancari, sia ancora da una eccezionale capacità di utilizzare gli strumenti informatici per collegare elementi di conoscenza provenienti da indagini diverse[32]. Ora, se non mi sentirei neanch’io di additare a modello la figura del pm-superpoliziotto e il ricorso a modalità operative troppo disinvolte, non c’è dubbio invece che la padronanza dell’informatica e il possesso di approfondite conoscenze in ambito economico-finanziario e in materia di legislazione e prassi amministrative costituiscono ormai elementi imprescindibili del bagaglio professionale di un magistrato impegnato nel contrasto della corruzione.
Aspetti non poco discutibili di Mani Pulite, e più volte già criticati in varie sedi (anche accademiche), sono emersi riguardo alle modalità d’impiego della coercizione penale in fase sia cautelare che di successivo giudizio. Sotto il primo profilo, ci si riferisce all’uso della carcerazione preventiva a fini investigativi e confessori ben stigmatizzato – tra altri – da Giovanni Maria Flick in un libro del 1993 che reca come titolo “Lettera a un procuratore della Repubblica”, e che merita di essere ricordato anche per la risposta (riportata nel medesimo libro) dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. A Flick, che opportunamente sollevava anche più in generale “il problema del rapporto tra il processo alla responsabilità del singolo e il processo alla degenerazione del sistema, attraverso il primo”[33], Borrelli rispondeva invero con affermazioni del seguente tenore: “il pericolo di inquinamento, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del delitto”, in quanto concetti non formalizzabili in termini strettamente giuridici, “devono ricevere concretezza dalla comune esperienza e dal comune modo di ragionare del cittadino medio”; e ancora: “Vogliamo, per curiosità, provare a domandarci che cosa pronosticherebbe il cosiddetto uomo della strada circa la probabile condotta futura di un pubblico amministratore che fino a ieri ha concusso o si è lasciato corrompere? Di tanto in tanto dovremmo forse umiliarci fino ad aprire occhi e orecchie verso il mondo esterno e rapportarci (…) alla sensibilità media del popolo in nome del quale la legge si applica”[34]. Con tutto il rispetto per la sua figura e la sua memoria, direi che il procuratore Borrelli (pur essendo antropologicamente e culturalmente distante da Tonino Di Pietro), così ragionando, finiva anch’egli con l’esibire sintomi patologici di populismo politico-giudiziario!
Tra i costi umani più dolorosi di quella stagione, che rappresentano “la testimonianza tragica della catastrofe di un sistema”[35] ma, ad un tempo, del crollo psichico di alcuni suoi esponenti che non hanno sopportato la vergogna o lo stress della sottoposizione alle indagini (o a certi modi di condurle), rientrano una serie di suicidi. Sarebbe assai problematico – a maggior ragione oggi – cercare di stabilire un rapporto causale prevedibile tra questi eventi suicidiari ed eventuali modalità scorrette di conduzione dei procedimenti giudiziari. Ma non sembra neppure accettabile rimuovere il tormentoso problema ribadendo, con una sorta di fanatico moralismo, che “le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono e non su coloro che li perseguono”: così pensa a tutt’oggi, ad esempio, Pier Camillo Davigo[36]. Piuttosto, ritengo che una deontologia professionale adeguata all’insieme dei valori e diritti in gioco dovrebbe, tra l’altro, includere il dovere di orientare le scelte giudiziarie anche in base alla ragionevole previsione (per quanto possa risultare non facile!) delle loro possibili ricadute anche psicologiche[37]. Tanto più che non andrebbe dimenticato – come ben vide Francesco Carnelutti non pochi decenni fa – che già il sospetto, l’indagine, il giudizio suscitano angoscia e sofferenza in chi vi è sottoposto, e rappresentano dunque di per sé stessi una pena che si aggiunge a quella conseguente all’eventuale condanna[38].
Quanto poi al carico sanzionatorio complessivamente gravato sulle persone indagate che hanno effettivamente subito una condanna, una indagine a carattere statistico-giudiziario condotta nel 2007 è giunta alla conclusione che sono state inflitte pene mediamente molto miti sia per la concussione che per la corruzione, con frequente sospensione condizionale della loro esecuzione, largo ricorso al patteggiamento e misure alternative concesse in maniera quasi automatica (per cui sono risultati assai rari i casi di condannati che hanno espiato almeno una parte della pena in carcere)[39]. Ammesso che si tratti di una indagine esaustiva e affidabile, sembra potersene trarre una conferma del fatto che l’impresa giudiziaria di Mani Pulite, considerata nel suo insieme, non aveva come obiettivo principale il puntuale accertamento di colpevolezze individuali alla cui gravità commisurare, di volta in volta, una pena “giusta” e/o di potenziale valenza rieducativa: piuttosto, lo scopo prioritario era quello di scoperchiare e processare un intero “sistema” corrotto al fine di abbatterlo; e questa finalità (più latamente politica che giudiziaria in senso stretto) faceva sì che anche la concreta determinazione delle pene obbedisse a ragioni e valutazioni non coincidenti, o coincidenti soltanto in parte con quelle che in teoria dovrebbero più propriamente guidare le opzioni sanzionatorie in sede di condanna. Da questo punto di vista sembra, allora, potersi concludere che la ‘reale’ dimensione punitiva finiva con l’essere affidata, più che ad una punizione canonica applicata secondo parametri rigorosamente giuridici, alla censura morale e all’effetto discreditante – a loro volta mediaticamente amplificati nella riemergente forma di una pubblica gogna – impliciti nell’essere indagati, processati e poi condannati.
X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità
È abbastanza diffusa la convinzione che in questi trent’anni di distanza che ci separano da Mani Pulite siano rimasti sul tappeto, e si siano per di più aggravati, non pochi dei problemi che hanno determinato il crollo della cosiddetta prima Repubblica. Ha scritto di recente una storica di professione: “A tutt’oggi restano evidenti infatti le fragilità dei soggetti politici presenti sulla scena alla continua ricerca di una solida identità mai raggiunta, mentre non si restringe la divaricazione della forbice tra gli elettori e i loro rappresentanti, come testimonia l’astensionismo dilagante insieme alla sfiducia nella classe politica al governo e all’opposizione”. E ancora: “Lo dimostrano i fenomeni in continua crescita dopo il ’94, di populismo, giustizialismo, razzismo, xenofobia, oblio dei diritti, delle libertà e dei valori civili; ma anche l’evolversi delle polemiche antipartitiche o per meglio dire anti-establishment che si riassumono in un antagonismo pregiudiziale contro chi ha istruzione, competenze, educazione e persino fede nei valori non negoziabili del vivere civile. Pulsioni antipolitiche estese anche ai governanti europei, gli ‘spregevoli burocrati di Bruxelles’ contro i quali si scagliano i sovranisti”[40]. Una emblematica riprova della persistente situazione di grave crisi, incertezza, frammentazione e stallo in cui a tutt’oggi versano tutti i partiti e movimenti, di sinistra come di destra o di centro (ammesso che questa distinzione continui ad essere a risultare chiara!) l’ha fornita, da ultimo, la tormentata rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica (il secondo caso dopo la conferma al Quirinale di Giorgio Napolitano nel 2013). Né sappiamo come evolverà, nel corso del presente anno, la complessa e altresì conflittuale dialettica tra le disomogenee forze politiche che sostengono l’attuale governo di quasi-unità nazionale presieduto da un cosiddetto super-tecnico come Mario Draghi (più tollerato che amato, secondo quanto è andato emergendo, dalla maggior parte dei cosiddetti politici di professione o per elezione popolare!).
In questo quadro complessivo, problematico e poco rassicurante, si colloca anche un tentativo di riflessione sulla magistratura e sulla crisi di cui anch’essa soffre, e direi non da ora. Al di là della deriva correntizia, e della perdita di credibilità anche morale che sembra essersi aggravata di recente, c’è anche un problema di identità di ruolo: problema che a maggior ragione si ripropone e impone per il fatto che, negli ultimi decenni, in particolare la giustizia penale ha assunto in Italia una centralità, storica e politica, ben maggiore che in altri paesi europei. E ciò ha inciso e continua a incidere in misura abnorme sull’equilibrio costituzionale tra i poteri istituzionali e, al tempo stesso, sulle concrete dinamiche politiche. Come sappiamo, anche in frangenti temporali precedenti la corruzione politico-amministrativa di Tangentopoli l’azione repressiva si è caricata di rilevanti implicazioni politiche nel cercare di assolvere funzioni di cosiddetta supplenza rispetto a discipline legislative mancanti o a omessi interventi di una pubblica amministrazione inefficiente, nel contrastare altri mali sociali di rilievo sistemico (terrorismo, mafie), oppure è stata politicamente strumentalizzata (anche a prescindere dalla volontà soggettiva dei magistrati titolari delle indagini e dei processi) come strumento improprio di lotta tra partiti o fazioni in conflitto per la conquista di posizioni di supremazia. Ma nella stagione di Mani pulite l’azione giudiziaria ha presentato dimensioni politiche così macroscopiche, anche per l’ampio consenso sociale e la larga delega di fatto ricevuta dai settori politici e sociali più interessati al cambiamento, da non poter essere in nessun modo occultate, né sminuite. Che atteggiamento ha mostrato in proposito la magistratura considerata nel suo insieme?
Invero, non sono mancate sia voci critiche di singoli magistrati, che hanno evidenziato i rischi di un eccesso di consenso della pubblica opinione e di una conseguente sollecitazione verso forme di giustizia sostanzialistica e sommaria, sia della stessa Anm che ha messo in guardia dalla tentazione della magistratura di assumersi compiti esulanti dai suoi fini istituzionali[41]. Vale la pena in proposito richiamare, ad esempio, una parte dell’intervento conclusivo svolto dall’allora segretario generale Franco Ippolito al XXII Congresso nazionale del giugno 1993: “Gli applausi e le manifestazioni popolari attorno al palazzo di giustizia milanese sono certo espressione di una legittima pretesa dei cittadini che la legge valga davvero per tutti. Ma sono la spia di pericoli. Innanzitutto di un eccesso di aspettative nell’intervento giudiziario, destinate a rimanere in parte inevitabilmente deluse. In secondo luogo sono l’espressione di una spinta ansiosa al raggiungimento di ‘risultati’, con rischio di torsione dello strumento giudiziario, giacché la giurisdizione non deve essere una istituzione di scopo”[42]. Questo monito di Ippolito a rifiutare il modello della giurisdizione o del giudice “di scopo” - fatto proprio e ribadito, in anni più recenti, anche da Luciano Violante e da altri qualificati esponenti della cultura politica e giuridica - tocca il problema cruciale del rapporto tra politica e funzione giudiziaria, cioè quello che sotto più di un aspetto si prospetta come il problema più arduo da affrontare. In proposito, possibili indicazioni orientative sono desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, e in particolare dalla sent. n. 24/2017 relativa al celebre caso Taricco, nella quale la Corte fa affermazioni del seguente tenore: ai giudici “non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”; gli “ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law (…) in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”. Il senso sostanziale di questa presa di posizione della Consulta può essere plausibilmente inteso come equivalente alla tesi che la giustizia penale non è una giustizia ‘di lotta’, non ha il compito di contrastare fenomeni generali (compito che spetta invece al potere legislativo e a quello politico-amministrativo)[43]. In una analoga ottica visuale, proprio riguardo a Tangentopoli Bruti Liberati ha scritto nel suo libro di storia della magistratura italiana: “Mani Pulite indica la capacità di indagine di polizie e Procure, ma dovrebbe anche far riflettere sulle specificità del processo penale. Alla giustizia penale si deve chiedere di accertare, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti di reato specifici e responsabilità individuali e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali”[44]. Solo che, nelle pagine conclusive della stessa opera, sempre Bruti Liberati sembra in proposito implicitamente contraddirsi, o quantomeno mostrare una certa ambiguità di pensiero (retaggio dell’appartenenza a un gruppo associativo come Md, teorizzatore della funzione politica della giurisdizione?) affermando: “la storia di Mani pulite (…) è la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità”; e aggiungendo che la vicenda di Mani pulite insegna a distinguere tra il “protagonismo (improprio) di alcuni magistrati” in particolare d’accusa, e il “protagonismo (necessitato) della magistratura” sulla corruzione[45]. Orbene, se protagonismo necessitato della magistratura significa che quest’ultima in una stagione come quella di Tangentopoli si attribuì la funzione (missione?) – come alcuni elementi di riscontro sembrano confermare – di liberare l’Italia dal sistema della corruzione e di promuovere il rinnovamento politico[46], apprezzare questo protagonismo equivale a rilegittimare il ruolo del giudice di scopo anche al prezzo di “un’alterazione dei rapporti costituzionali tra magistratura e potere politico”[47]. (Come che sia, è un dato di fatto che la tendenza a concepire la giurisdizione come strumento di lotta contro fenomeni o sistemi criminali è andata sempre più diffondendosi negli anni, come si può constatare sia studiando provvedimenti giudiziari sia leggendo articoli o interviste rilasciate da singoli magistrati: una autopercezione di ruolo, questa, che si è ampiamente consolidata e perciò non facile da contrastare!).
Concordo invece pienamente con lo stesso Bruti Liberati nel ritenere che, oggi, “occorrerebbe una riflessione più approfondita su cosa si deve e non si deve chiedere alla giustizia penale” specie rispetto a fenomeni come corruzione, mafie, criminalità terroristica ecc. e, correlativamente, sul modello di magistrato penale più adeguato alle sfide del tempo presente[48]. Mentre sul ruolo della magistratura e sui modelli di giudice si era in Italia sviluppato un dibattito anche teorico di un certo respiro negli anni ’70, proseguito – direi, non a caso – nel corso degli anni ‘90 fino ai primi del 2000, negli anni successivi la discussione è andata invece (con qualche eccezione) spegnendosi[49]. A ridosso di Mani Pulite, ad esempio Vito Marino Caferra in un piccolo e brillante saggio aveva distinto le rispettive figure idealtipiche del magistrato “senza qualità”(identificato con un carrierista duttile), “politico”, “moralista” e “poliziotto”; ai nostri giorni Gustavo Zagrebelsky, in un libro sulla professione di giurista, differenzia con ben maggiore varietà i modelli tipologici del magistrato rispettivamente “tecnico”, “politico”, “empatico”, “redentore”, “vendicatore” e “sacerdote”[50]. Sarebbe intrigante entrare nel merito di tutte queste figure che, in quanto stilizzate in modo estremistico, evocano peraltro modelli più tendenziali che suscettibili di impersonarsi interamente in giudici in carne e ossa. Ma sarebbe fuori luogo farlo in questa sede.
XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente
In sintesi, rilevo che nella ormai non breve mia esperienza di studioso “tempopienista”, se da un lato mi è mancata l’esperienza concreta del foro, ho dall’altro esaminato parecchia giurisprudenza e frequentato un certo numero di magistrati, per ragioni di studio come pure a titolo amichevole. Per quello che sono riuscito a comprendere anche attraverso questa conoscenza diretta, escluderei innanzitutto che (almeno) in penale esista davvero nella realtà quella comune “cultura della giurisdizione” che dovrebbe accomunare pubblici ministeri e giudici, e il cui mantenimento viene a tutt’oggi enfaticamente raccomandato come argomento contro la cosiddetta separazione delle carriere. Esiste a mio avviso piuttosto, nella attuale magistratura penale, una certa confusione e frammentazione di mentalità e di stili operativi: esistono giudici simili a pubblici ministeri (e a pubblici ministeri addirittura di tipo poliziesco), pubblici ministeri simili viceversa a giudici; mentre sul modo di pensare e agire degli stessi pubblici accusatori può incidere il settore operativo di riferimento, a seconda che si tratti ad esempio di criminalità comune o di criminalità organizzata di tipo mafioso o di tipo terroristico ecc. Personalmente, da giurista accademico convinto (o meglio, illuso) che almeno i principi di fondo del costituzionalismo penale (europeo e nazionale) dovrebbero essere concepiti e applicati in maniera sufficientemente omogenea da tutti i magistrati, continua – lo confesso – a sorprendermi e irritarmi invece constatare che ad esempio che i pubblici ministeri antimafia (e in particolare quelli di orientamento più radicale o estremistico) sembrano obbedire a una Costituzione tutta loro, autonoma e diversa dalla Costituzione ufficiale: per cui la lotta a tutto campo al fenomeno mafioso diventa, nella loro ottica unilaterale e belligerante (propugnante una sorta di “diritto penale del nemico” in veste nostrana!), il superiore obiettivo costituzionale destinato in ogni caso a prevalere sulla protezione di ogni altro pur non secondario bene o diritto costituzionalmente rilevante[51] (emblematiche in questo senso le vibrate o gridate obiezioni, mediaticamente veicolate, che le procure antimafia hanno rivolto alla riforma Cartabia della prescrizione o continuano a muovere al superamento dell’ergastolo ostativo). Insomma, si tratta di un modello di pubblico ministero per così dire ‘combattentista estremista’, la cui compatibilità con i principi costituzionali del garantismo penale mi appare tutt’altro che scontata. Invero, ritengo da tempo che la stessa Scuola di formazione della magistratura dovrebbe fare di più di quanto non faccia, sul piano della cultura professionale, per promuovere il passaggio da un pluralismo eccessivamente conflittuale a un pluralismo più ragionevole di orientamenti di fondo, in vista appunto di quella tendenziale omogeneità di principi di riferimento (anche tra pubblici ministeri e giudici) che rappresenta più un obiettivo auspicabile che non una base di partenza di fatto esistente.
Sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo, però, aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico (se possibile, fuori da quelle pregiudiziali contrapposizioni e da quelle opposte tifoserie predominanti purtroppo da tempo specie nei dibattiti politico-mediatici. Ma siamo più capaci di confronti autentici?): sarebbe necessario che il potere giudiziario uscisse il più possibile dalla sua autoreferenzialità e si confrontasse con le realtà e culture esterne, dal momento che sembra improbabile che esso possa da solo rinnovarsi e rigenerarsi (oltre che moralmente) culturalmente. I rischi che da qualche tempo ravviso, osservando il complessivo orizzonte magistratuale contemporaneo, vanno al di là di un eccesso di pluralismo, di frammentazione di concezioni e opinioni o di una certa confusione e incertezza sul piano deontologico (riguardo sia alle relazioni con gli altri poteri istituzionali, sia alle modalità di condotta nella realtà esterna): vi è anche il pericolo che i giovani magistrati, sempre più privi di solidi ancoraggi culturali e valoriali (anche a causa dell’inaridimento della capacità di riflessione e orientamento delle correnti, nonché della scomparsa o del pensionamento di note e autorevoli figure di giudici-maestri), finiscano col far propria una visione tecnico-burocratica del loro ruolo e appiattita sugli avanzamenti di carriera, rinunciando a slanci ideali e aspirazioni culturali di più ampio respiro. È anche per reagire a un simile rischio che i gruppi associativi dovrebbero tentare di recuperare la loro principale funzione di strumenti di elaborazione, confronto e orientamento.
Proprio perché il modo d’atteggiarsi e di operare della giurisdizione penale è fortemente condizionato dalle interrelazioni sistemiche con gli altri poteri, il riorientamento culturale complessivo e il miglioramento anche qualitativo dei rapporti tra giustizia penale e sistema politico presuppongono forze politico-partitiche meno deboli, capaci a loro volta di recuperare identità e fondamenti culturali e – non ultimo – in grado di affrontare le grandi questioni sul tappeto prospettando idonee soluzioni concrete: se questi presupposti dovessero anche in futuro mancare, dal momento che “la politica non ammette vuoti”[52], il potere giudiziario potrebbe continuare a essere tentato di allargare (più o meno abusivamente) i propri spazi di intervento
*Il testo riproduce l'intervento del prossimo incontro-dibattito, organizzato dalla Anm sezione di Milano, su “Mani Pulite trent’anni dopo. Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli”, che si terrà presso l'Aula Magna del Palazzo di giustizia di Milano il 17 febbraio 2022.
[1] Rispetto alla fase storica che va dalla fine degli anni ’70 agli anni ’90 cfr. ad esempio G. Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli, Roma, 2016, 215 ss.
[2] Cfr. S. Colarizi, Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994, Laterza, Roma-Bari, 2022.
[3] Più diffusamente, S. Colarizi, op. cit., 24 ss. e passim.
[4] Per riferimenti a questi sopravvenuti ripensamenti critici di personaggi autorevoli rinvio a G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, 112 s.
[5] Per maggiori svolgimenti cfr. S. Colarizi, op. cit., 160 ss.
[6] S. Colarizi, op. cit., 187 ss.
[7] Citazione tratta dall’articolo di M. Pirani, I tribunali e la piazza, ne la Repubblica 16 gennaio 1994.
[8] Più diffusamente, G. Fiandaca, op. cit., 107 ss.
[9] Di recente, si veda ad esempio E. Antonucci, I dannati della gogna. Cosa significa essere vittima del circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata, 2021.
[10] Per rilievi in proposito rinvio a G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Zanichelli, Bologna, 2022, 107 ss.
[11] Cfr. in proposito ad esempio l’importante testimonianza di Giuliano Pisapia riportata nel bel libro di L. Ferrarella, L’intruso. Antonio Di Pietro da Mani Pulite alla politica, Limina, Arezzo, 1997, 199.
[12] Così si era espresso il poeta Giuseppe Conte: “era un Robespierre, ma con aspetti da italiano medio. E le due cose non vanno d’accordo”(cfr. L. Ferrarella, op. cit., 193).
[13] Per maggiori svolgimenti e riferimenti cfr. G. Fiandaca, op. cit., 105 ss.
[14] G. Forti, Il diritto penale e il problema della corruzione, dieci anni dopo, nel volume collettivo (a cura del predetto autore) Il prezzo della tangente. La corruzione come sistema a dieci anni da ‘mani pulite’, Vita e pensiero, Milano, 2003, 102 s.
[15] Parole tratte dal celebre articolo sul “caso Tortora” del 14 ottobre 1983, riprodotto in L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989, 80.
[16] G. Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, Laterza, Roma-Bari, 2O21, recensito da G. Fiandaca, Mani Pulite, coscienza sporca, ne Il Foglio 19 novembre 2021.
[17] Cfr. P.P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna, 1997.
[18] U. Eco, E’ attentato alla Costituzione il processo ripreso in tv (1993), ripubblicato in Id., L’età della comunicazione, La nave di Teseo, Milano, 2022, 75 ss.
[19] Per una presa di posizione senz’altro favorevole di fonte magistratuale cfr. ad esempio A. Spataro, No alla giustizia-spettacolo, ne L’Espresso 9 gennaio 2022.
[20] P. Davigo, L’occasione mancata. Mani Pulite trent’anni dopo, Laterza, Roma-Bari, 2021, 167 s. (nelle stesse pagine si evidenzia che il sistema illegale di finanziamento e attribuzione di appalti coinvolgeva anche le cooperative “rosse” e soggetti riconducibili al Pci e altresì che, in una realtà come quella siciliana, esso funzionava in collegamento con esponenti mafiosi di Cosa nostra).
[21] Ci si riferisce in particolare ai risultati dell’indagine sociologica – condotta utilizzando la banca dati delle sentenze della Cassazione e studiando i casi considerati nelle autorizzazioni a procedere del Parlamento -del gruppo di studiosi autori dell’apposito Rapporto della Fondazione Res, riprodotto nel volume collettivo Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, a cura di R. Sciarrone e con prefazione di C. Trigilia, Donzelli, Roma, 2017. Per riferimenti alla metamorfosi della corruzione politica post-Mani Pulite cfr. anche, sul piano storiografico, G. Crainz, op. cit., 345 ss. e ivi ampi riscontri pure a carattere giornalistico.
[22] Per rilievi analoghi, G. Pignatone, La corruzione percepita, ne la Repubblica 30 ottobre 2021.
[23] P. Davigo, op. cit., 169.
[24] Più diffusamente, G. Forti, op. cit., 85 ss. (e ivi riferimenti alle proposte, emerse in certe fasi del dibattito politico-criminale, di introduzione di “benefici premiali” volti a rompere la connivenza tra corrotti e corruttori e a favorire la denuncia dei patti corruttivi).
[25]Cfr.ad esempio P. Davigo, op.cit., 185.
[26] C. Trigilia, Prefazione alla ricerca della Fondazione Res riprodotta nel volume collettivo Politica e corruzione cit., XI.
[27] C. Trigilia, op. cit., XI s.
[28] In proposito, più diffusamente, tra altri, G. Forti, op. cit., 73 ss.; G. Fiandaca, Esigenze e prospettive di riforma dei reati di corruzione e concussione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 883 ss.
[29] G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, Torino, 2021, 2.
[30] Per riferimenti più dettagliati cfr. i lavori citati supra, nota 21.
[31] Per una disamina delle modifiche normative del 2012 e per riferimenti alla giurisprudenza successiva sia consentito rinviare a G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I, 6 ed., Zanichelli, Bologna, 2021, 205 ss.
[32] Si veda al riguardo la testimonianza di Giuliano Pisapia nel ruolo di avvocato riportata in L. Ferrarella, op. cit., 202 s.
[33] G. M. Flick, Lettera a un procuratore della Repubblica. Con la risposta di Francesco Saverio Borrelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 1993, 169.
[34] Passi riportati in G.M. Flick, op. cit., 12.
[35] G. Crainz, op. cit., 301.
[36] P. Davigo, op. cit., 66.
[37] Vale la pena richiamare il monito rivolto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 6 febbraio 2017 ai magistrati in tirocinio: “E’, comunque, compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti” (citazione tratta da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018, 332).
[38] E’ tornato di recente a riproporre la nota tesi carneluttiana N. Irti, La pena del giudizio e l’abbraccio soffocante del passato, ne Il Sole 24 Ore 28 luglio 2021.
[39] Ci si riferisce all’indagine riprodotta nel libro di P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, Roma-Bari, 2007; si veda altresì P. Davigo, L’occasione mancata, cit., 173, 232.
[40] S. Colarizi, op. cit., 15 s.
[41] Per riferimenti cfr. E. Bruti Liberati, op.cit., 261 ss.
[42] Quanto riportato tra virgolette è tratto da E. Bruti Liberati, op. cit., 263.
[43] D. Pulitano’, Il libro di un magistrato sulla magistratura nell’Italia repubblicana, in Dir. pen. cont., 11 aprile 2019.
[44] E. Bruti Liberati, op. cit., 276.
[45] E. Bruti Liberati, op. cit., 332 s.
[46] Si vedano, ad esempio, alcune dichiarazioni in questo senso emblematiche di Francesco Saverio Borrelli (“Il problema non è di uscire da Tangentopoli”, ma “di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale (…) proseguire l’opera fino alla eliminazione di quelle mani che pulite non sono” e di Antonio Di Pietro (“Il progetto Mani Pulite (…)” avrebbe dovuto comportare “la ricostruzione, il ricambio della classe dirigente, nuove leggi e nuovi agglomerati politici”), rispettivamente riportate da Il Sole 24 Ore 25 marzo 1995 e da Il Giornale 13 gennaio 1996.
[47] L. Violante, Magistrati, Einaudi, Torino, 2009, 106.
[48] E. Bruti Liberati, op. cit., 331.
[49] Tranne qualche eccezione, come ad esempio il già citato Magistrati di L. Violante, pubblicato nel 2009; fa riferimento, più di recente, a figure idealtipiche di giudice G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, Torino, 2021, 130 ss. Si veda altresì – volendo - G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa 6 maggio 2020.
[50] G. Zagrebelsky, op. cit., 130 ss.
[51] Più diffusamente, G. Fiandaca, Estremismo, cit.
[52] A. Panebianco, I pericoli di una politica debole, ne Il corriere della sera del 3 febbraio 2022.
La lotta alla mafia durante la pandemia da Covid-19: ricognizioni, errori e prospettive*
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. La lezione del Covid-19 - 2. Al posto dello Stato - 3. La mafia che “aiuta” - 4. La mafia che si fa “impresa” - 5. Gli errori e le prospettive.
1. La lezione del Covid-19
La gravissima crisi economica in cui il Paese è sprofondato nel marzo 2020, dettata dall’emergenza sanitaria per la diffusione pandemica del virus Covid-19[1], sembra ormai alle spalle, almeno a voler considerare i dati confortanti sulla crescita del PIL per l’anno 2021[2]. D’altro canto, la capillare diffusione del rimedio vaccinale e degli strumenti connessi, quale il Green Pass, consente ragionevolmente di ritenere non più praticabili le politiche governative di rigido e generalizzato confinamento personale, di limitazioni agli spostamenti e, conseguentemente, delle attività economiche; le quali, adottate a momenti alterni tra il marzo 2020 e il giugno 2021 per fronteggiare le c.d. "ondate" del virus[3], tracciano un arco temporale che oggi, e comunque col passare del tempo, può cominciarsi ad osservare non più in chiave acritica, coeva e contingente, ma con maggiore cognizione e con riferimento agli effetti che in concreto la pandemia ha determinato sul piano socio-economico.
La stagione emergenziale - che possiamo osservare ancora da vicino, ma in ogni caso fuori dal periodo più critico e certamente imprevisto delle prime "ondate" e delle conseguenti limitazioni della libertà di movimento e di impresa - è stata infatti un banco di prova per le politiche economiche e sociali, intese come tentativi di governare, da parte dei poteri pubblici, il mondo degli investimenti, dell’imprenditoria, del lavoro. La pandemia ha innescato cambiamenti attesi e inattesi, ha accelerato trend in ogni campo; ivi compreso quello dei fenomeni criminali poiché, a ben vedere, la lezione del Covid-19, che già adesso possiamo trarre e che sicuramente gli studiosi di domani sapranno meglio valorizzare, riguarda in particolar modo le disfunzioni della società (la disoccupazione, il lavoro nero, le economie sommerse, e via così fino ad arrivare all’attività illecita dei gruppi mafiosi) tanto da collegarle tutte[4].
Cosicché, neppure lo studio e l’osservazione delle mafie può prescindere da quella che è stata la lezione del Covid-19: un evento talmente dirompente da poter essere utilizzato quale lente convessa dei percorsi intrapresi da quella criminalità mafiosa che oggi si cela prevalentemente dietro i colletti bianchi; onde registrarne le mutazioni, captarne i cambiamenti e le evoluzioni[5].
Non va taciuto che la storia delle mafie percorre la storia del Paese degli ultimi ottant’anni, segnata nel profondo da gravi tragedie sociali e calamità naturali: tutte parimenti tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso. Così come il movimento indipendentista siciliano del dopoguerra è stato strumentalizzato da cosa nostra quale arma di ricatto per le nascenti istituzioni democratiche, così il terremoto dell’Irpinia del 1980 ha determinato uno scontro violentissimo all’interno della camorra per l’accaparramento degli appalti pubblici, dando vita alla sanguinosa guerra tra la nuova camorra organizzata e la nuova famiglia[6]. Come pure, il più recente terremoto dell’Emilia del 2012 ha fatto emergere, sul piano investigativo prima e giudiziario poi, la presenza operativa delle cosche mafiose calabresi in quell’area, ormai spinte alla delocalizzazione, al decentramento degli interessi mafiosi ed economici, alla pesante infiltrazione nel tessuto imprenditoriale[7]. Sono solo alcune delle tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso connesse ad eventi di grande rilievo nazionale.
Partendo da questi presupposti, un evento planetario, epocale e disastroso come lo scoppio della pandemia da Covid-19 è, per sua stessa natura, un’ulteriore tappa della lunga storia criminale delle mafie italiane; e adesso può cominciare ad essere osservato ed analizzato in quanto tale.
2. Al posto dello Stato
La storia delle mafie è la storia della sostituzione di un potere ad un altro potere: della sostituzione del potere statuale con quello mafioso. È un dato storico oramai accertato che la mafia sia nata e si sia sviluppata in virtù di un’esigenza di protezione espresso dalle più svariate fasce sociali: dalle più basse e povere alle più facoltose, dalle più reiette, fino ad arrivare a soggetti istituzionali[8]. I latifondisti siciliani e calabresi di metà ottocento dovevano proteggere i frutti della terra e controllare la vasta manodopera, in un contesto socio-politico in cui lo Stato (borbonico prima, sabaudo poi) era impalpabile: e per questo si servivano di gabellotti mafiosi che riscuotevano gli affitti e soffocavano ogni forma di ribellione[9]. E poco più tardi, sempre in Sicilia, i mafiosi sarebbero diventati la mano armata delle istituzioni che fronteggiavano il brigantaggio: «La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale» , rivela nel 1871 il magistrato siciliano Diego Tajani[10], poi divenuto ministro della giustizia dell’Italia liberale.
Anche col novecento ogni vuoto sociale lasciato dallo Stato viene riempito dalla mafia. Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri ha raccontato che suo nonno, proprietario di due miniere di zolfo, mandava i soldi per i pagamenti dei minatori in contanti con un uomo che viaggiava tranquillo perché nei punti più pericolosi c’era qualcuno a lui invisibile che con un fischio gli segnalava il via libera. «Chi erano i fischiatori? Erano mafiosi pagati da mio nonno per proteggere il percorso che veniva fatto settimanalmente. Allora non era previsto che la polizia o i carabinieri ti scortassero mentre effettuavi i pagamenti... quindi quello era un sistema che già si sostituiva allo Stato» [11].
Le stesse dinamiche si registravano, lungo i decenni, in Calabria con gli ‘ndranghetisti e nel napoletano con i camorristi. D’altro canto, l’immagine più veridica e nitida della mafia sta nella commedia di Eduardo de Filippo, Il sindaco del rione sanità (1960): don Antonio Barracano è un personaggio temuto e rispettato da tutti i cittadini, i quali si rivolgono a lui per comporre liti e chiedere giustizia, ben sapendo che lo Stato, nelle procedure attivate nei tribunali, non è in grado di assicurare giustizia con la stessa celerità e la stessa efficacia[12].
Sul finire degli anni settanta, con lo sviluppo del traffico di droga e l’avvio della globalizzazione delle attività criminali, quando la mafia da soggetto sociale si tramuta anche in soggetto economico con elevata capacità di guadagno e di spesa, comincia - nel senso sopra detto - a sostituirsi allo Stato anche sul piano della regolamentazione dell’economia[13]. La mafia diventa impresa surrogando con i propri metodi la libera concorrenza, ma al contempo creando facile ricchezza e posti di lavoro; assume le vesti di ente assistenziale, sostituendosi allo Stato, nei confronti delle popolazioni da soggiogare: la cosca mafiosa si eleva così, con un modello operativo che arriva fino ai giorni nostri, a punto di riferimento primario per chi non ha fiducia nella disciplina pubblica e ricerca mezzi di sussistenza oppure occasioni per avvantaggiarsi.
Lo spaccato proposto, che abbraccia oltre un secolo e mezzo di storia italiana, aiuta a comprendere più concretamente quali siano i rischi che oggi corre il Paese, da quasi due anni alle prese con l’epidemia Covid-19 e dai connessi, vertiginosi problemi socio-economici. Il propagarsi del virus ha infatti costretto lo Stato ad adottare rigorose misure di contenimento sanitario e di confinamento personale; misure diversamente graduate a seconda del periodo e della gravità della situazione pandemica, che nel complesso hanno penalizzato la gran parte degli operatori commerciali. Un’ampia fetta degli operatori economici si è ritrovata improvvisamente priva di entrate.
Lo Stato ha cercato di limitare i devastanti rilfessi economici su di una popolazione segregata nelle proprie abitazioni, e alle prese con un drammatico distanziamento sociale, con una politica di ristori confluiti nel mondo del lavoro[14]. Si è tenuto conto delle perdite di fatturato, rispetto agli anni precedenti, del singolo operatore: ma in ogni caso sono state erogate risorse insufficienti, distribuite sulla scorta di meri dati contabili (gli unici, d’altronde, obiettivamente verificabili) e senza considerare quell’ampia fetta di lavoro "nero"; che pure, al Sud comprende numeri di primaria grandezza. Lo Stato insomma, per suoi limiti funzionali, non è riuscito a fornire le adeguate prestazioni assistenziali richieste a gran voce dalla collettività e dagli operatori commerciali, che nel pieno della pandemia versavano in obiettiva difficoltà[15].
È in questo contesto che le mafie riescono ad avvantaggiarsi, sostituendosi allo Stato sul piano economico e socio-assistenziale: venendo incontro alla gente comune con piccoli aiuti in denaro e facendo leva sulle difficoltà per offrire lavori utili alla filiera mafiosa (si pensi alle c.d. "vedette" nello spaccio di sostanze stupefacenti, oppure all’utilizzo di prestanomi per l’intestazione fittizia dei beni)[16]. Ma anche venendo incontro agli imprenditori in stato di bisogno, mettendo a disposizione il loro denaro "sporco". Così facendo, le cosche raggiungono un triplice obiettivo: fidelizzare il comune cittadino e l’operatore economico; speculare sui prestiti concessi fino, al limite, a rilevare l’impresa beneficiata; riciclare capitali illeciti immettendoli nel sistema commerciale.
Non solo. In un momento di asfissia economica, con il contestuale allargamento delle maglie dei finanziamenti statali ed europei, le mafie (che per loro stessa natura dispongono di ingenti risorse conseguite in modo illecito ed anticoncorrenziale) hanno la possibilità non soltanto di aiutare, ma anche di farsi impresa, sovvertendo per tale via tutti gli equilibri del mercato[17]: approfittando proprio della maggiore propensione degli enti pubblici a finanziare, finanche a fondo perduto. La storia delle mafie ci insegna che nessuno meglio dei mafiosi-imprenditori riesce a muoversi tra le normative di stimolo dell’economia, spesso lacunose e incoerenti, divenendo costoro i primi destinatari delle misure.
La storia ci insegna, per questa via, che le mafie sono essenzialmente fenomeni politico-sociali[18] tesi a individuare rapidamente i mutamenti radicali di una società: il loro è, storicamente, un punto di vista privilegiato da cui scorgere in tempo reale i vuoti, a volte le voragini, che si aprono sul manto sociale ed economico. La rapida diffusione del virus Covid-19 ha colto tutti gli attori istituzionali (le Regioni, lo Stato, l’Unione Europea, le organizzazioni internazionali) impreparati, ad eccezione appunto delle mafie, che si sono mostrate pronte a raccogliere le enormi opportunità di profitto connesse all’epocale sfida alla pandemia: sia aiutando gli altri attori economici e sociali, sia facendosi impresa. Queste le due direttrici delle considerazioni che seguiranno.
3. La mafia che “aiuta”
Parlare di mafia che aiuta può apparire un paradosso: le mafie infatti operano col metodo mafioso (se così non fosse, non sarebbero tali), ovverosia facendo leva sulla forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo. Un gruppo mafioso riesce a conseguire una egemonia economico-territoriale proprio grazie alla capacità di assoggettamento che riesce ad esprimere tramite la violenza e la minaccia[19]. La presenza mafiosa è una forza prevaricatrice che si impone sul territorio e contrasta con metodi feroci chi vi si oppone: tanto da condensare un «ordinamento parallelo a quello ufficiale, caratterizzato dall’uso della violenza» , come tradizionalmente affermano gli scienziati sociali[20]. Eppure le mafie, dopo un certo periodo di esercizio della violenza, al fine di radicarsi più profondamente nel tessuto sociale assumono, in superficie, una immagine benevola; specularmente, cambiano anche le forme in cui si dispiega il metodo mafioso.
I teorici del fenomeno mafioso ci insegnano che il radicamento sul territorio di una mafia passa attraverso due essenziali passaggi storici, che tengono in conto un diverso rapporto con le popolazioni da soggiogare. Semplificando, potremmo dire che in un primo tempo il gruppo mafioso si impone esercitando violenza e intimidazione. E’ interessante al proposito l’affermazione di un importante storico del fenomeno: «Le quattro organizzazioni mafiose hanno avuto dall’inizio un metodo comune: utilizzare la violenza privata in tutte le sue espressioni (intimidazione, minaccia, ricatto, attentati, omicidi ma anche protezione pagata, mediazione forzosa e parassitaria che dà luogo a tangenti e a percentuali varie) come strumento di arricchimento e mobilità sociale» [21].
Dopo questa prima fase, la cosca per poter operare indisturbata deve evolversi: tende a diventare un elemento connaturato al contesto sociale di riferimento, e per riuscirci ricerca il consenso della popolazione[22]. E’ questo lo stadio - in cui tutte le mafie italiane oggi si trovano - ove i mafiosi si mostrano subdolamente come benefattori, spesso col volto pulito dei colletti bianchi; come coloro che "aiutano" la popolazione: sul piano economico, con piccoli e grandi prestiti a comuni cittadini e ad imprenditori, con l’agevolazione nell’assegnazione di appalti, con l’elargizione di posti di lavoro, con la pronta solvenza dei crediti; sul piano sociale, ponendosi come autorità in grado di fare giustizia, di dirimere le controversie, di fronteggiare efficacemente la micro-delinquenza[23]. Un compito sociale di mediazione tra la popolazione sempre più spaventata, diffidente, impaurita, dalle pulsioni illogiche e irrazionali [24] e la politica disattenta e lontana dai bisogni dei cittadini che, in tempo di crisi, viene ad essere più rilevante.
Ebbene, in questa fase di sviluppo del fenomeno mafioso, oggi in essere, il relativo metodo non è accantonato, ma viene accuratamente celato. Ma è un rapporto che nasconde in realtà forme di soggiogamento, esercitate non con la violenza ma con l’inganno: perché i mafiosi tendono la mano soltanto laddove l’opera prestata si tramuta in un beneficio tangibile per la cosca. E quello del Covid è, per i mafiosi, il periodo storico più propizio per intrecciare con la - sempre più ampia - fetta di popolazione bisognosa un vincolo di silente tolleranza del fenomeno mafioso, riconosciuto persino più utile e necessario dello Stato.
I quasi due anni di pandemia, causando la perdita del lavoro per molte categorie di persone ed acuendo situazioni di disagio e povertà, dimostrano che la popolazione abbandonata dalla mano pubblica è sempre più propensa ad andare incontro a chi è in grado comunque di elargire prontamente le risorse: specularmente, questo periodo mostra un aumento del potere mafioso, in termini di capacità di far fronte nell’immediato ai bisogni primari della gente più svantaggiata.
Già si è accennato alle piccole somme elargite da esponenti delle cosche a chi versa in stato di bisogno, utili anche solo a pagare le bollette o a fare la spesa; nell’ultimo periodo, a seguito del disagio finanziario vissuto da molte famiglie, è inoltre emerso un ulteriore aspetto a sostegno del ruolo di mediazione[25] delle mafie e della spregiudicata avidità degli affiliati, che non esitano a sfruttare misure assistenziali come il reddito di cittadinanza: indebitamente conseguite per sé o per altri soggetti estranei all’associazione, che a questa si rivolgono per la compilazione truffaldina delle pratiche necessarie. Le mafie, grazie anche alla filiera di professionisti e colletti bianchi di cui dispongono, ottengono rapidamente benefici economici continuativi per sé e per altri, determinando la gratitudine e, quindi, la messa a disposizione del percettore[26].
Si è anche fatto cenno ai posti di lavoro di cui una mafia dispone, direttamente o indirettamente: un dato che in questo frangente storico deve particolarmente allarmare gli attori del contrasto al fenomeno. Sul punto, va ricordato che tra i pochi settori per i quali si è registrato un forte incremento degli utili vi è appunto l’edilizia, a cui il Governo - già in pieno lockdown - si è rivolto individuando apposite misure di rilancio in forma di "bonus" da riconoscere a seguito di ristrutturazioni e costruzioni eco-sostenibili: ma si tratta di un settore che da sempre suscita gli appetiti anche delle mafie, perché è quello che permette di ottenere ampi margini di guadagno e di innescare più agevolmente meccanismi di riciclaggio di denaro, grazie alla mole di forniture necessarie ed alla possibilità di effettuare pagamenti non tracciabili (es. alla manodopera retribuita a giornata). Ma anche perché nell’ambito dell’edilizia i mafiosi dispongono di numerosi soggetti economici, direttamente o indirettamente controllati: basti pensare alla "protezione" che, nelle aree a controllo mafioso, si impone sui cantieri pubblici e privati; ma anche - forse sopratutto - all’assegnazione pilotata di grossi appalti ad imprese in odore di mafia per mano di amministratori pubblici collusi, che è da sempre il principale strumento di controllo economico del territorio da parte di un gruppo mafioso[27].
In quest’ambito, assecondando le previsioni del mercato, la domanda di lavoro a seguito della pandemia è risultata in forte crescita, e ciò ha permesso ai mafiosi di favorire assunzioni regolari o "in nero", o anche soltanto di offrire la paga per manodopera a giornata; si tratta di merce di scambio utile al conseguimento degli obiettivi primari di una mafia: radicamento e consolidamento su di un territorio.
Le mafie quindi aiutano direttamente, con favori ed elargizioni; contribuiscono all’ottenimento di benefici assistenziali e posti di lavoro nei settori economici da queste controllate (quale l’edilizia). Ma non solo.
Le cosche tendono la mano non soltanto attingendo dalle imprese direttamente o indirettamente controllate, dal proprio patrimonio di capitali illeciti, ma anche utilizzando fondi pubblici gestiti in maniera clientelare[28]. Dovendo ancora considerare le misure emergenziali adottate durante la pandemia, si pensi ai c.d. "buoni spesa": un aiuto straordinario per contrastare l’indigenza adottato nella primavera del 2020 dal Governo, che ha destinato ai comuni quasi mezzo miliardo di euro per iniziative assistenziali. Tuttavia, senza alcun controllo a monte sull’elargizione di tali buoni, nelle amministrazioni comunali infiltrate si è assistito ad una gestione personalistica degli aiuti, destinati soltanto ai soggetti che i gruppi mafiosi intendevano favorire[29]. Le cosche, tramite i loro esponenti nelle amministrazioni comunali, riuscivano così ad accrescere il consenso sociale anche con aiuti provenienti dallo Stato.
In questo modo la mafia, sostituendosi a compiti propri dello Stato, che ha quale primaria missione istituzionale quella di supplire alle disfunzioni dell’economia e ad una (per quanto possibile) equa ripartizione della ricchezza, grazie anche al favore mostrato dalla cittadinanza, sfrutta al massimo grado la situazione pandemica, la condizione di indigenza e bisogno della collettività: "aiuta" la popolazione e si infiltra nel tessuto economico-sociale del Paese, determinando gravi rischi per la tenuta democratica.
4. La mafia che si fa “impresa”
Poche settimane dopo lo scoppio della pandemia, con due distinte circolari, la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato[30] segnalava la necessità di prestare grande attenzione alle infiltrazioni della criminalità organizzata e mafiosa nel settore degli appalti pubblici e, più nello specifico, nelle forniture sanitarie. Il repentino congelamento dei consumi aveva infatti indotto il Governo ad adottare normative che agevolassero, in deroga, gli affidamenti diretti di lavori pubblici alle imprese, accentuando il trend che era partito l’anno prima con il decreto c.d. "sblocca-cantieri". L’obiettivo dichiarato era ridurre significativamente le tempistiche delle procedure di aggiudicazione: ciò, al fine di stimolare l’economia - se non altro sul fronte delle commesse pubbliche - agevolando e semplificando le gare d’appalto, i cui procedimenti venivano ritenuti troppo farraginosi.
In questo contesto, un’ulteriore semplificazione delle procedure di gara è stata predisposta per garantire nell’immediato, alle strutture ospedaliere, la disponibilità dei dispositivi di protezione individuale, quali mascherine e guanti protettivi, e di dispositivi medici (in particolare ventilatori polmonari), ma anche di infrastrutture d’accoglienza adeguate. Sopratutto nelle prime settimane dell’emergenza - in cui, come si ricorderà, sono stati adibiti e costruiti in poco tempo ampi spazi per la degenza dei malati Covid-19, o addirittura veri e propri "Covid hospital" - nel settore sanitario sono state adottate procedure emergenziali, la cui scarsa trasparenza degli affidamenti veniva controbilanciata dall’urgenza del momento.
Il richiamo degli organi di polizia ad innalzare la soglia di attenzione si collega appunto all’allargamento delle maglie dei controlli nelle procedure di affidamento di lavori e servizi da parte di enti pubblici; che, come detto, sono sotto la lente di ingrandimento delle associazioni mafiose, bramose di sottrarre - con i propri metodi conniventi, corruttivi e anticoncorrenziali - risorse allo Stato per raggiungere gli obiettivi di prevaricazione e di arricchimento.
A distanza di molti mesi da quei moniti rivolti dagli organi del contrasto, sono oggi emerse evidenze di indagine che confermano il tentativo (spesso andato a buon fine) da parte delle mafie di inserimento nei settori maggiormente coinvolti dall’emergenza da virus Covid-19: sono stati ad esempio scoperti redditizi giri d’affari di imprese di diretta derivazione dai clan mafiosi che si erano subito convertite in operatori di sanificazione degli esercizi commerciali e pubblici, con l’immancabile ausilio di prestanome cui fittiziamente intestare le società[31]. E con riferimento alle strutture sanitarie, è stato anche confermato il pericolo di infiltrazione mafiosa (e in particolare ‘ndranghetista, in una terra - la Calabria - in cui ben due aziende sanitarie provinciali sono state commissariate per mafia), con una spinta alla corruzione dei dirigenti delle strutture agevolata dall’implicita minaccia dell’esercizio del metodo mafioso da parte degli agenti corruttori[32].
È doveroso a questo punto ricordare che il legislatore del 1982 ha così descritto l’associazione mafiosa: "L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". Tra le altre caratteristiche del gruppo mafioso, il legislatore dunque non ha certo lasciato in ombra la mafia che si fa impresa[33], mediante la disponibilità di una riserva di capitali "sporchi" e prestanome, con l’esercizio dei pieni poteri sociali ovvero la compartecipazione "a distanza" di società sane, che si servono dei mafiosi per sbaragliare la concorrenza[34]. Ed infatti, la mafia che si fa impresa è tesa ad acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici: la mafia è in questi termini descritta dal legislatore come un’impresa che tende al monopolio sfruttando, all’occorrenza, il proprio metodo d’intimidazione; e un obiettivo talmente ambizioso non può fare a meno degli appalti pubblici, né degli aiuti di Stato.
In tempi di pandemia di notevole interesse sono le proiezioni dell’impresa mafiosa: crisi e mutamenti di regole e di percorsi ordinari che consentono all’impresa mafiosa di operare sul mercato con maggiore spregiudicatezza, sfruttando le condizioni più favorevoli del mercato. Proiezioni che coprono un ampio spettro d’azione: la mafia "impresa" non è solo quella che cerca di aggiudicarsi appalti pubblici, ma anche quella che, al pari delle altre imprese in difficoltà, cerca di avvantaggiarsi dalle nuove forme di credito rapido (quali quelle garantite dallo Stato varate a seguito della depressione economica scaturita dal Coronavirus) - con la differenza sostanziale che l’impresa mafiosa non può subire alcun tracollo, considerata l’iniezione continua nelle sue casse di liquidità illecita. Essa non può fallire: l’impresa mafiosa non è mai, realmente, sullo stesso piano degli altri soggetti economici, perché è appendice di un gruppo dedito ad attività criminali; eppure, riesce (truffaldinamente) a mostrare le difficoltà legate alla contingenza storica, al pari delle altre imprese, per accedere agli aiuti di Stato.
Si consideri, al riguardo, il c.d. "decreto credito" varato nell’aprile del 2020, con cui si forniscono gli istituti bancari di strumenti che agevolano il ricorso al credito, con una garanzia in parte pubblica. La misura è stata ideata per consentire alle piccole e medie imprese italiane di tamponare le perdite e superare le contingenti difficoltà: nondimeno, da più parti[35] è stato segnalato il rischio che a fruire di un tale beneficio siano anche le imprese mafiose, dietro il cui schermo societario possono nascondersi soggetti condannati per mafia o per altri reati sintomatici (es. contro la pubblica amministrazione) oppure sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. D’altro canto, i primi mesi di applicazione di questa speciale disciplina creditizia hanno messo in luce quanto difficile sia accertare, dietro l’organigramma societario, gli effettivi beneficiari dei fondi; e ancor più difficile verificare se la liquidità erogata sia stata effettivamente destinata ad arginare i danni prodotti dalla ridotta mobilità sociale. Lo strumento adottato insomma, che si pone a metà strada tra il prestito (privato) e l’erogazione (pubblica) a fondo perduto, sfugge tanto alle verifiche bancarie in ordine alla tenuta finanziaria del richiedente, tanto ai controlli normalmente connessi agli aiuti elargiti alle imprese.
Autorevoli esponenti della magistratura[36] hanno segnalato che, in tal modo, si attiva una gigantesca iniezione di liquidità nel mercato delle imprese, eppure nessuno strumento tecnico-giuridico viene previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose: questo strumento creditizio rinuncia per es. alla tracciabilità dell’uso del finanziamento, attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati, in grado di facilitare l’individuazione di anomalie e rischi di riciclaggio; come si è rinunciato a subordinare l’accesso al credito agevolato al preventivo assolvimento di un obbligo dell’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale. Ne consegue la possibilità che ad essere soddisfatti siano, oltre alle imprese effettivamente bisognose, anche gli interessi speculativi di strutture mafiose; e, in ultima analisi, del rafforzamento per quella mafia che si fa impresa.
Proseguendo sul versante dell’imprenditoria mafiosa: la pandemia, avendo generato una crisi di liquidità senza precedenti, ha inoltre accentuato il fenomeno dell’usura, che consente alle mafie di impadronirsi di nuovi soggetti economici. La crisi asseconda in questo senso la vocazione monopolista delle mafie: spinge da un lato gli imprenditori a richiedere risorse liquide e immediate a uomini dal volto pulito e amichevole, dietro cui si nascondono le cosche. L’imprenditore mafioso ha, di primo acchitto, un atteggiamento benevolo: offre aiuto all’impresa in difficoltà, con prestiti facili dai tassi d’interesse apparentemente allettanti. Un’ offerta che l’imprenditore insolvente non è quasi mai in grado di rifiutare; salvo scoprire, subito dopo, di dovere restituire somme esorbitanti e, in mancanza di liquidità, spesso finisce col cedere l’intera azienda[37].
D’altronde, la crisi è il momento in cui il sistema economico opera una sorta di selezione naturale, tra chi è in grado di reggere il peso delle difficoltà, e di uscirne rafforzato, e chi invece perisce, per essere espulso definitivamente dal mercato. Ecco perché è talvolta l’impresa mafiosa a cercare - o meglio: anticipare - l’operatore economico, proponendo offerte apparentemente vantaggiose per superare il momento di difficoltà: non solo prestiti usurai, ma anche strategie di evasione fiscale sicura o di ottimizzazione dei costi d’impresa con attività fraudolente. Il fine è sempre lo stesso: spingere all’indebitamento con gli stessi soggetti mafiosi, imporsi dentro l’impresa in difficoltà ed acquisire nuove fette di mercato a discapito di chi patisce la crisi.
L’infiltrazione nel tessuto economico dei mafiosi imprenditori e dei loro capitali illeciti è silenziosa, ma continua e costante, e aiuta le cosche a riciclare l’ampia riserva di denaro sporco generato dalle attività delittuose dell’associazione, attivando modalità di reimpiego in grado di convertire il denaro "sporco" in denaro "pulito"; e il reinvestimento dei profitti è un’attività assolutamente necessaria in tempi ordinari, e di gran lunga agevolata - per le ragioni sopra accennate - nel periodo storico che stiamo vivendo.
5. Gli errori e le prospettive
L’aver anzitutto ricordato alcuni dati storici incontestabili - ed in particolare che la mafia si pone al posto dello Stato in quanto soggetto politico per sua stessa natura - è stato necessario per individuare, in termini generali ma già col conforto di numerose evidenze giudiziarie a disposizione, il modo con cui le mafie si mostrano e operano in tempi di profonda crisi economica e sociale, quale quella scaturita dalla pandemia. Si è visto come le mafie operino su due direttrici: quello dell’aiuto (subdolo) ai soggetti in difficoltà e quello del rafforzamento delle proprie posizioni economiche. Ma si è anche visto come le mafie non cessino mai di essere entità predatorie, e sempre in questo duplice senso: in una stagione di aiuti economici i fondi vengono depredati per sé o per altri (è la mafia che aiuta) oppure per rafforzare la propria posizione imprenditoriale (è la mafia che si fa impresa). Sono essenzialmente queste le direzioni del crimine organizzato mafioso che si registrano in tempi di Covid-19.
Non è ancora possibile quantificare il grado di penetrazione delle compagini mafiose nella società e nell’economia italiana a seguito della spaventosa crisi generata dal virus: non è possibile quantificare il numero dei soggetti beneficiati dalle cosche mafiose (in cambio di una contropartita che, presto o tardi, verrà pretesa), di persone rimaste vittima del fenomeno usuraio perpetrato col metodo mafioso; il numero di aziende e imprese in difficoltà finite nelle mani delle organizzazioni mafiose, né la consistenza dei capitali illeciti messi in circolazione attraverso le attività lucrose delle imprese mafiose[38]. Eppure in buona parte già lo rilevano le risultanze investigative e processuali fin qui disponibili, in cui le attività mafiose di carattere economico-imprenditoriale mostrano un notevole incremento: emerge adesso con maggior forza un «interesse per l’impresa nelle indagini di criminalità organizzata»[39], tanto da suggerire l’abbandono «di una prospettiva per così dire "mafiocentrica", per puntare l’attenzione su quei fattori di contesto che consentono alla mafia di prosperare» . Bisogna quindi andare a guardare, oggi, il contesto in cui le mafie operano, che non è più soltanto quello economicamente asfittico del Meridione (in cui pure i soggetti economici ben conoscono l’esistenza dell’organizzazione e dell’impresa mafiosa e, talvolta, vi si affidano, per necessità o per convenienza), ma è anche quello del ricco Nord Italia, ove si guarda più alle capacità economiche che all’esercizio della violenza: sempre più terreno di coltura delle nuove forme mafiose, derivate o meno dalle compagini tradizionali[40].
Le prime risultanze investigative sul periodo coperto dalla pandemia quindi confermano una pesante infiltrazione delle mafie nelle economie legali. Un dato che si evince in positivo (in relazione alle indagini appunto messe a segno dagli organi inquirenti) ma anche in negativo: «l’aumento delle cancellazione di imprese sane può considerarsi il diretto portato dell’operatività dei soggetti economici mafiosi, che deviano la concorrenza, egemonizzando i settori di mercato in cui sono inseriti» [41].
Certamente può dirsi che il ritorno della questione mafiosa in relazione all’economia, nei provvedimenti giudiziari e nelle osservazioni degli organi di controllo e degli studiosi, fanno intendere che la prepotente domanda di legittimazione sociale delle mafie, di riconoscimento delle loro leadership sociali ed economiche di fronte agli stravolgimenti epocali vissuti a partire dal 2020, è stata soddisfatta: perché se è vero che le mafie, storicamente, sono state caratterizzate da un andamento carsico[42], è vero, per converso, che la cosca «sembra scomparire nei periodi di forte repressione, per riapparire, più forte e determinata nelle fasi di debolezza delle istituzioni e di crisi economica» [43]. Nè può escludersi che il meccanismo interno dell’attività mafiosa abbia, a seguito della comparsa del Covid-19 e delle relative - e sopra percorse - "occasioni" di rafforzamento e di guadagno, definitivamente abbandonato la violenza quale modalità d’azione: da attuare, per il mafioso sempre più homo oeconomicus, solo se strettamente necessario. E questo muta - come è già mutato - l’approccio dell’analisi e del contrasto del fenomeno, certamente resi più complessi.
Non è possibile neppure parlare di "errori", tali da aver determinato questo infausto risultato; piuttosto, come emerge dagli aspetti gestionali della crisi sopra ripercorsi, si evince un approccio superficiale alle misure di crescita, sotto l’aspetto legalitario, che non tiene conto dei risultati acquisiti in decenni di rigoroso contrasto alle cosche - non tiene conto, in particolare, della imprescindibile lezione di Giovanni Falcone, secondo cui le mafie sono sì fenomeni umani, ma sopratutto economici[44].
Può dirsi che da parte dei decisori pubblici, almeno fin qui, è stata compiuta la leggerezza di avere sottovalutato il rischio, da un lato, che al welfare state potesse subentrare il c.d. "welfare mafioso di prossimità"[45], ovvero quel sostegno attivo alle famiglie, agli esercenti commerciali, agli imprenditori in difficoltà, in cambio di connivenza, condivisione dei profitti, conquista di posizioni di mercato; dall’altro, che le misure di stimolo dell’economia potessero avvantaggiare, in primo luogo, proprio le imprese mafiose.
Come già si è ricordato: era il 1980 quando la camorra riusciva a mettere le mani sul business della ricostruzione del terremoto in Irpinia; erano ancora gli anni ottanta quando cosa nostra si sedette allo stesso tavolo della politica per inaugurare una imponente stagione di opere pubbliche realizzate in deroga di bilancio, in Sicilia, con l’obiettivo di riallineare il Sud al Nord; ed è stato ancora un terremoto, quello emiliano del 2012, ad aver sollecitato l’intervento degli imprenditori mafiosi presenti nell’area (in collegamento, in particolare, con le cosche calabresi). La storia delle mafie ci insegna che è nei periodi di emergenza, sfruttando le incertezze del legislatore e dell’esecutivo, che i gruppi mafiosi adottano con la massima efficacia i loro metodi, le loro politiche anticoncorrenziali; rafforzandosi sul piano economico e sociale.
Ancora si fronteggiano da un lato l’esigenza di garantire ossigeno e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro la necessità di snellire le procedure di gara per stimolare l’economia e di agevolare l’erogazione di aiuti e sussidi, per tamponare l’indigenza. Ma questi obiettivi non possono andare a discapito dei controlli sugli effettivi utilizzi e sugli effettivi beneficiari dei denari pubblici; che, nel panorama attuale, andrebbero invece rafforzati. I presidi di legalità nelle procedure di affidamento di appalti o di concessione di benefici, procedure che interessano le mafie dal volto benevolo che mediano tra poteri pubblici e privati, dovrebbero essere implementati, non depotenziati. E quanto all’attuale spadroneggiamento delle imprese mafiose: come di recente ha segnalato un autorevole organo di controllo[46], è essenziale il monitoraggio dei ruoli chiave delle imprese per cogliere se, negli assetti proprietari, manageriali e di controllo, vi siano soggetti privi di adeguata professionalità che appaiono come prestanome.
Rispetto ai provvedimenti e alle misure ripercorse, sul piano della prevenzione suppliscono alle carenze normative i prefetti, con l’emanazione - in esponenziale aumento nell’ultimo anno - di interdittive antimafia: un provvedimento che vieta in radice alle aziende che celano rapporti con le mafie di partecipare ad appalti pubblici e di avere rapporti con la pubblica amministrazione[47]. Ma si tratta di una misura tampone, certamente inidonea a contrastare l’infiltrazione nell’economia pubblica e privata da parte delle mafie. E’ invero opportuno che sia il legislatore a maturare la consapevolezza dei rischi che il Paese sta correndo in questo frangente, le cui ulteriori incertezze nel prevenire il dissipamento delle risorse potrebbero essere pagate a caro prezzo da cittadini e da imprenditori negli anni a venire: è quindi necessario rivedere i moduli emergenziali fin qui adottati e assecondare istanze di controllo e di tracciabilità dei fondi nelle stesse leggi che istituiscono le risorse; oppure stipulare dei protocolli di legalità a margine di ciascun aiuto economico a privati e imprese, a margine di ciascuna procedura di gara semplificata per ragioni emergenziali.
Ci muoviamo, peraltro, in un orizzonte temporale dominato dal c.d. "Recovery Fund", il fondo per la ripresa che l’Unione europea a fine luglio 2020 ha messo sul piatto per rilanciare le economie dei 27 Paesi membri travolte dalla crisi del Covid-19[48]. Com’è stato segnalato dagli studiosi, la concreta gestione di queste risorse è un’opportunità, tanto per il progresso unitario del Paese, tanto per i propositi delle mafie, non solo d’arricchimento dei propri sodali, ma anche d’infragilimento della collettività: che quanto più si mostra disgregata, quanto più è propensa ad accettare le condizioni di subdolo sviluppo dettate dai mafiosi[49].
Nei prossimi mesi l’Italia sarà destinataria di questi fondi (una parte di contributi a fondo perduto, una parte di prestiti): e ci si chiede se sia possibile fare in modo che la più poderosa immissione di liquidità degli ultimi settant’anni nel sistema economico, con investimenti programmati dalle pubbliche amministrazioni di inedita portata, non conduca ad ulteriori situazioni di vantaggio per le mafie imprenditrici. Sarebbe un imperdonabile scacco, non solo sul piano economico, ma anche sul piano sociale e della tenuta democratica del Paese.
*Il presente contributo arricchisce ed amplia, con ulteriori argomentazioni e l’aggiunta di note, la relazione tenuta al convegno di studi Mafie tra continuità e mutamento: analisi, esperienze, narrative organizzato dall’Università di Messina - Centro studi sulle mafie, il 27-28 settembre 2021.
[1] Che si sia trattato di una delle più grandi crisi economiche - a livello planetario - degli ultimi decenni lo confermano gli analisti: cfr. Mitigating the COVID Economic Crisis: Act Fast and Do Whatever It Takes, a cura di Baldwin e Weder DiMauro, Centre for Economic Policy Research, London, 2020, con un focus sulla situazione italiana svolto da Alesina - Giavazzi, The EU must support the member at the centre of the COVID-19 crisis, p. 51 ss.; Report on the comprehensive economic policy response to the COVID-19 pandemic, Consiglio Europeo – comunicato stampa n. 223/20, 9 aprile 2020; ancora, sull’Italia, cfr. Produzione industriale italiana in calo di oltre il 50% in marzo e aprile. Una caduta senza precedenti, report del Centro studi Confindustria, 4 maggio 2020, rinvenibile su www.confindustria.it.
[2] Le previsioni di crescita del PIL del Paese per l’anno 2021 si attestano infatti attorno al 6% (a fronte del crollo della ricchezza nel 2020 nella misura del 9%), in linea d’altronde con i trend di crescita degli altri paesi europei (cfr. Banca d’Italia, Bollettino economico, 4, 2021, p. 51 ss.): ciò comporta il definitivo superamento della fase più critica della depressione economica vissuta nel 2020.
[3] L’espressione "ondata epidemica" con riferimento al virus Covid-19, che certamente connota la gravità del fenomeno, è stata inizialmente adottata nel report Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente - anno 2020 (Istituto nazionale di statistica - Istituto superiore di sanità), Roma, 2020, e poi penetrata nel linguaggio comune.
[4] Oltre a incidere pesantemente sulla crescita economica dei paesi coinvolti, la pandemia ha anche innescato ovvero contribuito ad accelerare processi potenzialmente idonei a modificare radicalmente il contesto socio-economico di riferimento. Sul punto, cfr. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano in una prospettiva comparata (report CONSOB), a cura di Linciano, Roma, 2020; Banca d’Italia, Indagine straordinaria sulle famiglie italiane, Roma, 2020, rinvenibile su www.bancaditalia.it.
[5] Al riguardo e` indicativo quanto ha affermato il Ministro dell’Interno alla Camera dei Deputati l’8 aprile 2020: «L’attuale fase di emergenza che stiamo vivendo sta incidendo profondamente anche sul tessuto economico e sociale. In tale contesto, è necessario mantenere alta la guardia, per scongiurare possibili rischi di infiltrazione della criminalità organizzata nella fase di riavvio delle diverse attività economiche attualmente in sofferenza. [...] Particolare attenzione dovrà essere rivolta verso determinati reati spia, indici di fenomeni di infiltrazione criminale, anche mafiosa, nelle pieghe economico-finanziarie, tra le quali l’attività estorsiva, l’usura, l’attività di riciclaggio» (Resoconto stenografico dell’Assemblea, XVIII legislatura, seduta n. 324 dell’ 8 aprile 2020, rinvenibile su www.camera.it). Il rischio dell’infiltrazione mafiosa nel sistema economico piagato dal Covid-19 è stato fin da subito sollevato da autorevoli commentatori, quali De Raho, Il procuratore nazionale antimafia De Raho: “I clan hanno necessita` di collocare i soldi liquidi: ecco come si approfitteranno della crisi”, in Corriere della Sera, 2 aprile 2020; De Lucia - Petralia - Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19 (intervista a cura di Apollonio), in Giustizia Insieme (web), 20 aprile 2020.
[6] Per l’approfondimento in chiave storica di tali eventi cfr. Ciconte, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, 2008, Soveria Mannelli, p. 159 ss. e p. 306 ss.; cfr. anche Sales, Storia delle mafie italiane. Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Mannelli, 2015, spec. p. 53 ss.; Paoli, Fratelli di sangue. Cosa nostra e ‘ndrangheta, Bologna, 2000, p. 20 ss.
[7] Vd. Pignedoli, Operazione Aemilia: Come una cosca di ‘Ndrangheta si è insediata al Nord, Reggio Emilia, 2015; Soresina, I mille giorni di Aemilia. Il più grande processo al Nord contro la ‘Ndrangheta, Roma, 2019.
[8] «Interpretando la protezione come una merce vera e propria è possibile spiegare il senso di molte attività mafiose» (Gambetta, La mafia siciliana: un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 62). Nell’opera, che teorizza il concetto di protezione mafiosa, si evidenzia peraltro che quando trasformazioni economiche significative – come un boom in un mercato locale o una transizione da un sistema di contrattazione ad un altro – non sono governate dalle autorità danno origine ad una domanda di protezione cui si collega, nelle aree piagate dal fenomeno, immancabilmente un’offerta mafiosa in tal senso.
[9] Cfr., per tutti, Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo, Bologna, 1980, p. 128 ss.
[10] Tajani, Mafia e potere. Requisitoria del 1871, Pisa, 1993, p. 45.
[11] Camilleri-Lodato, La linea della palma, Milano, 2003, p. 31.
[12] Il tema, reso artisticamente da De Filippo, è ben trattato, sotto l’aspetto scientifico, da Fiore, La politicizzazione della camorra. Le fonti di polizia a Napoli (1840-1860), in Meridiana, 78, 2013, p. 134 ss. nonché da Di Majo, I grandi camorristi del passato, Napoli, 2012; vd. anche Mascilli Migliorino, Povertà e criminalità a Napoli dopo l’unificazione: il questionario sulla camorra, in Archivio della provincia napoletana, 3, 1980, p. 290 ss.
[13] Ciò è ben illustrato nello studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, 1983, p. 55 ss.; Becchi-Rey, L’economia criminale, Roma-Bari, 1994, p. 32 ss. Per uno spaccato criminologico attuale della questione vd. Savona, La regolazione del mercato della criminalita`, in Aa.Vv., Verso un nuovo codice penale: itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, p. 203 ss.
[14] Ristori che hanno contribuito a sostenere: i) le imprese, per contenere l’incremento del tasso di insolvenza, il crollo degli investimenti e il calo della produttività anche collegato all’eventuale mantenimento di misure di distanziamento sociale necessarie per prevenire successive ondate di contagio; ii) le famiglie, in modo da mitigare la contrazione del reddito disponibile e dei consumi; iii) il sistema bancario, in modo da mitigare gli effetti di un peggioramento della qualità del credito sulla stabilità delle banche e sull’erogazione di crediti a famiglie e imprese (vd. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano, cit., p. 17). Cfr. anche Misure fiscali e finanziarie per l’emergenza Coronavirus - Camera dei Deputati - Servizio Studi, 25 giugno 2021, in www.camera.it
[15] L’insufficienza del sostegno pubblico nel contesto epidemico si registra su scala planetaria: si veda il rapporto Oxfam Shelter from the storm. The global need for universal social protection in times of Covid 19, a cura di Barba, van Regenmortal e Ehmke, Oxford, dicembre 2020.
[16] «Uno dei principali obiettivi delle mafie è quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando "risorse" proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo» : De Lucia, in De Lucia-Petralia-Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19, cit. Una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale poggiato sul consenso è stata promossa efficacemente in Italia da Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione (nuova edizione), Roma, 2009, p. 48, fino al piu` recente lavoro di Sciarrone-Storti, Le mafie nell’economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Bologna, 2019, p. 69 ss.
[17] Come infatti è stato sottolineato, «Un imprenditore legittimo, costretto ad operare in regime di concorrenza con colleghi "criminali" dotati di ricchissime fonti di denaro liquido, è destinato a soccombere» (Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, p. 52); sul profilo anti-concorrenziale del riciclaggio dei proventi mafiosi vd. anche Riciclaggio e imprese. Il contrasto alla circolazione dei proventi illeciti, a cura di Arnone e Giavazzi, Milano, 2011, p. 10 ss.; Masciandaro, Analisi economica della criminalità, teoria della regolamentazione e riciclaggio finanziario, in Mercati illegali e mafie, a cura di Zamagni, Bologna, 1993, p. 243 ss.
[18] La dimensione politica è costitutiva del fenomeno mafioso. Da questo punto di vista, la mafia si caratterizza come un gruppo politico in senso weberiano, poiché presenta le caratteristiche principali di tale categoria di gruppo, vale a dire un sistema di regole e di norme, un apparato in grado di farle rispettare, una dimensione territoriale, la coercizione fisica (Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso d’analisi, Palermo, 1994, p. 125). Vd. anche Id., La mafia come soggetto politico. Ovvero: la produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in La mafia, le mafie tra vecchi e nuovi paradigmi, a cura di Costantino e Fiandaca, Roma-Bari, p. 118 ss.
[19] Com’è noto, il metodo mafioso si condensa nelle modalità d’azione dei partecipi di cui al terzo comma dell’art. 416-bis c.p.: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri» .
[20] Hobsbawn, I banditi, Torino, 2002, p. 34; cfr. nei medesimi termini Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1917; tale concetto accede poi ai successivi studi sulla fenomenologia mafiosa: tra questi, si veda Cerami - Di Lello - Gambino, Istituzioni, mafia e realtà politico-sociale, in Aa.Vv., Mafia e istituzioni, Roma, 1981.
[21] Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012, p. 9.
[22] Il riferimento sociologico più utile e illustrativo sul tema lo si rinviene nel pensiero di Lupsha, che individua non due ma tre stadi di affermazione del crimine mafioso: lo stadio predatorio, in cui il mafioso, per imporre condizioni di assoggettamento, è costretto ad utilizzare in maniera indiscriminata e costante la violenza; lo stadio corruttivo, in cui si infiltrano i poteri pubblici costituiti; ed infine lo stadio simbiotico, in cui l’ente mafioso viene visto oramai come parte integrante del contesto sociale, come elemento "utile" di governo dell’economia e della società: cfr. Lupsha, Transnational Organized Crime versus the Nation State, in Transnational Organized crime, 48, 1996, p. 21 ss.
[23] Un altro dei compiti che l’organizzazione mafiosa si prefigge: vd. Sciarrone, Mafia e potere: processi di legittimazione e costruzione del consenso, in Stato e mercato, 3, 2006, p. 369 ss.
[24] Cfr. CENSIS, 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2021, Roma, dicembre 2021.
[25] Va ricordato che la mafia emerge nell’Ottocento come forma di mediazione: cfr. le tesi, piuttosto consolidate tra gli studiosi, di Ferrarotti, Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema dello sviluppo nazionale, Napoli, 1978; Gribaudi, Mediatori, Torino, 1980.
[26] In Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, luglio-dicembre 2020, consultabile su www.senato.it, p. 23, che è lo specchio della più recente attività giudiziaria e di contrasto al fenomeno mafioso (e che per tale motivo verrà più volte citata nel prosieguo), si fa riferimento alle numerose evidenze d’indagine che riguardano l’indebita percezione di benefici assistenziali da parte di soggetti mafiosi ovvero di soggetti a questi vicini e da questi "aiutati".
[27] Nell’importante studio di Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 302, l’interesse delle mafie in quest’attività è legato al fatto che è statisticamente più facile che l’edilizia e il suo indotto siano inquinati dalle offerte truccate e dalle intese collusive; la mafia favorisce e protegge gli accordi sia di corruzione sia di collusione, agevolando ed amplificando le storture del mercato mediante l’immissione di denari "sporchi" e l’esercizio del suo metodo.
[28] Anche questo tema ha un rilievo socio-criminologico: secondo La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, 2005. p. 171, i politici meridionali piuttosto che amministratori capaci di impiegare efficacemente le risorse di cui dispongono, sono visti prevalentemente come mediatori tra centro e periferia e a livello locale, tra concessione e richieste di benefici economici.
[29] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 23.
[30] Si tratta di due circolari del DCA datate 27 marzo e 4 aprile 2020, indirizzate a tutti i Questori d’Italia, che segnalano la necessità di prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus.
[31] Vds. il Report 4/2020 dell’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione dell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, Roma, dicembre 2020, spec. p. 87 ss., ove si accenna al ruolo determinante dei prestanome in tutti i casi in cui occorre aggirare verifiche preventive (es. la stipula di protocolli di legalità) e riscontri successivi da parte dell’autorità giudiziaria.
[32] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., pp. 12-13; l’esercizio solo eventuale del metodo mafioso da parte degli affiliati impegnati in pratiche corruttive con pubblici funzionari è un tema esplorato, volendo, in Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 130 ss.; Id., Estorsione "ambientale" e art. 416-bis.1 c.p.al cospetto dei modelli mafiosi elaborati dalla giurisprudenza, in Cass. Pen, 2018, p. 3483.
[33] Oltre al già citato studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., va richiamato lo studio sull’impresa mafiosa di Pellegrini, L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Roma, 2018, p. 74 ss.
[34] Ed in tale ambito è stato di recente registrato come numerosi imprenditori, a seguito dello scoppio della pandemia, abbiano favorito l’ingresso nelle imprese di soggetti appartenenti alle cosche mafiose per beneficiare del loro peso criminale e delle loro tecniche intimidatorie, al fine di garantirsi, illecitamente, una vantaggiosa posizione di mercato (ma si pensi, anche, al difficoltoso recupero dei crediti in tempi di crisi economica): cfr. Report 4/2020, cit., p. 87.
[35] Sul punto si veda la Circolare del ministro dell’Interno ai Prefetti del 4 maggio 2020, Emergenza epidemiologica da COVID-19. Misure urgenti in materia di accesso al credito delle imprese, reperibile su www.interno.it, in cui si evidenzia che è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Interno, dell’Economia e delle Finanze, e la società SACE, «strutturando un modello collaborativo in grado di consentire, ad un tempo, la completa funzionalità dello strumento e l’esigenza di impedire il beneficio di qualunque utilità di fonte pubblica a vantaggio di un’ impresa in odore di condizionamento malavitoso» ; tuttavia, lo strumento "privilegiato" di controllo rimarrebbe l’auto-certificazione del possesso dei requisiti da parte del richiedente; sul punto vd. anche Saviano, Coronavirus. Perche´ la mafia vuole prendersi cura dei nostri affari, in La Repubblica, 26 aprile 2020; ed anche, volendo, Apollonio, Non rischiamo che le mafie si prendano il Paese, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 aprile 2020.
[36] Greco - Melillo, Greco e Melillo: “Ecco perche´ il Decreto Credito e` pericoloso”, in La Repubblica, 11 aprile 2020; Morosini, Emergenza socio-economica e pericolo mafioso, in Quest. Giust. (web), 16 ottobre 2020.
[37] Segnala il concretizzarsi del rischio di usura, e di acquisizione diretta o indiretta delle imprese da parte di organizzazioni criminali, nel periodo storico attuale, l’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria connessi con l’emergenza da Covid-19, 11 febbraio 2021.
[38] E’ significativo che lo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), The impact of Covid-19 on organized crime - Research brief, report rinvenibile su www.unodc.org, distingua i settori economici vulnerabili all’infiltrazione del crimine organizzato tra quelli in difficoltà (Economic sectors vulnerable to infiltration by OCGs due to their financial distress caused by the COVID-19 crisis) e quelli con previsioni di crescita (Economic sectors vulnerable to OCG infiltration because of their opportunities to benefit from the COVID-19 crisis).
[39] Così il Procuratore di Milano Francesco Greco in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, cit., p. 282.
[40] Sulle mafie al Nord si guardi il ricognitivo lavoro Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, a cura di Santoro, Bologna, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.; per i problemi tecnico-giuridici che il fenomeno solleva cfr. Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[41] Così Michele Formiglio, Prefetto di Mantova, in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 283.
[42] In letteratura il primo ad utilizzare questa espressione, relativamente al fenomeno mafioso (camorristico) è Sales, La camorra, le camorre, Roma, 1988, p. 74.
[43] In questo senso, secondo Catino, La mafia come fenomeno organizzativo, in Quaderni di Sociologia, 14, 1997, «La visibilità dell’organizzazione sembra essere un indicatore negativo dello stato di sviluppo di un sistema sociale» .
[44] E, ancor più incisivamente: «la mafia, essendo in prima istanza un fenomeno socioeconomico, non può venire efficacemente repressa senza un radicale mutamenti della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo» (Falcone, Cose di cosa nostra, in collaborazione con Padovani, Milano, 1995, p. 153).
[45] La mafia infatti oggi si accredita «presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno finanziario e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale» (Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 12).
[46] Vd. Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria, cit.
[47] Si registrano peraltro proficue interazioni e collaborazioni con i locali uffici di Procura che consentono approfondite istruttorie in tema di interdittive antimafia: cfr. Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 237.
[48] L’Italia, prendendo atto del fallimento delle politiche di sostegno adottate (talvolta compulsivamente) nel periodo emergenziale, grazie anche alla concessione di cospicui aiuti euro-unitari, ha redatto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), pubblicato il 5 maggio 2021 su www.governo.it: trattasi del più grande piano di pacchetti economici mai varato dal dopoguerra. Di interesse quanto dichiarato dal Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho all’ANSA il 28 aprile 2021: «Le mafie, diversamente dalle imprese sane, non hanno bisogno di liquidità ma piuttosto hanno l’esigenza di collocarle. Laddove lo Stato, l’Europa, intervengono per aiutare la ripresa dell’economia, già si esclude in parte il rischio che le mafie intervengano con i propri fondi per appropriarsi da dentro delle imprese e quindi di infiltrarsi. D’altro canto vi è anche l’ulteriore finalità delle mafie, quella di intercettare i flussi finanziari che provengono dallo Stato e dagli altri enti pubblici» .
[49] Sales, Il Recovery e il divario del Sud, in La Repubblica, 3 dicembre 2021, sottolinea - sulla scorta dei dati storici e previsionali a disposizione - che senza un radicale mutamento d’approccio nella gestione dei fondi pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni del Meridione, il PNRR e la relativa mole di finanziamenti destinati al Paese rischia di divaricare ulteriormente la distanza Nord-Sud e di frammentare ancora di più il corpo sociale: a tutto vantaggio delle organizzazioni mafiose.
La permanenza nel braccio della morte ovvero il tempo sospeso tra speranza e sofferenza
di Rocco Poldaretti
Sommario: 1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon». – 2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza. – 3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza? – 4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive.
1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon»
Il braccio della morte, ovvero il luogo in cui il condannato si trova ad attendere l’esecuzione della pena capitale sin dal momento della condanna, è stato a lungo al centro del dibattito giuridico nazionale e sovranazionale, in cui si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra la salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti umani ed il perseguimento delle logiche della pena capitale.
In quest’ottica, la tutela costituzionale dei valori fondamentali dell’individuo si tradurrebbe nelle scelte dei singoli ordinamenti che, in varia misura, possono essere ispirate a principi tra loro divergenti: da un lato, la correttezza procedurale, e dall’alto la maggiore efficacia dello strumento sanzionatorio.
La delicata questione è stata oggetto di una riflessione del Justice Breyer della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale, nella sentenza Glossip c. Gross[1], ha evidenziato sotto forma di dissenting opinion l’angusto «dilemma» che affligge la pratica della pena di morte.
Secondo il giudice, “in un sistema concernente la pena di morte che ricerchi la correttezza procedurale, l’affidabilità conduce a ritardi che aggravano seriamente la crudeltà della pena capitale e pregiudicano significativamente la logica dell’irrogazione di una condanna a morte, [mentre] un sistema che riducesse i ritardi pregiudicherebbe gli sforzi dell’ordinamento giuridico di assicurare l’affidabilità e la correttezza procedurale”[2].
Il dilemma verrebbe pertanto ad essere ridotto all’aut aut tra una pena di morte presumibilmente funzionale a perseguire legittimi scopi penologici[3], oppure un sistema procedurale che, presumibilmente, ricerchi affidabilità e correttezza nell’applicazione di tale pena[4].
All’interno di questo dualismo, che sovente si traduce in soluzioni di prevalenza – e non di totale esclusione – dell’uno sull’altro, si colloca poi la questione degli effetti del tempo trascorso dal condannato nel braccio della morte.
In questo senso, con l’espressione «death row phenomenon»[5] si indica l’insopportabile ritardo legato all’angoscia onnipresente e crescente relativa all’esecuzione della pena capitale[6], attraverso un giudizio incentrato sulla persona del ricorrente, ovvero con particolare attenzione alla sua età e al suo stato mentale all’epoca del reato, con il reale rischio di sottoporre lo stesso ad un trattamento inumano e degradante[7].
L’esistenza del braccio della morte non deve però portare a concludere che qualsiasi ritardo costituisca un trattamento disumano; poiché, altrimenti, l’alternativa di prevedere una esecuzione immediatamente successiva alla sentenza costituirebbe una patente violazione del diritto all’appello, alla revisione della condanna oppure alla richiesta di provvedimenti di clemenza, evitabile soltanto attraverso la strada dell’abolizione[8].
Occorre pertanto fare chiarezza su un duplice interrogativo: da un lato quello di cercare di definire il vasto orizzonte temporale che connatura il c.d. «death row phenomenon» e dall’altro quello di individuare il momento a partire dal quale l’attesa del condannato cesserebbe di essere giustificata, esponendolo a sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili[9].
2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza
Nonostante l’assenza di una soluzione univoca sul punto da parte della giurisprudenza delle varie corti supreme e costituzionali, si evidenzia come alcune di esse, in realtà, abbiano intrapreso percorsi convergenti, circoscrivendone la durata “massima” una volta che il provvedimento è divenuto definitivo.
Le prime pronunce in tale direzione si devono alla Corte suprema indiana la quale, nel 1983, aveva in un primo momento riconosciuto come disumanizzante la permanenza del detenuto nel braccio della morte per un periodo superiore a due anni, periodo entro il quale si sarebbero dovuti esaurire tutti i rimedi esperibili contro il provvedimento che dispone la pena capitale[10].
Poco dopo, tuttavia, la Corte è tornata sui propri passi, dapprima evidenziando le perplessità relative alla portata applicativa che la soluzione avrebbe potuto avere[11]; poi attraverso un overruling, affermando come non possa essere predeterminato alcun termine fisso di ritardo a partire dal quale avrebbero origine le insopportabili sofferenze del condannato[12].
Una diversa chiave di lettura rispetto all’approdo finale della Corte indiana è invece offerta dalla giurisprudenza del Judicial Committee del Privy Council[13] e della Corte suprema dello Zimbabwe[14], che hanno ritenuto disumana o degradante la permanenza nel braccio della morte per una durata superiore, rispettivamente, ai 52 e 72 mesi nell’uno, e cinque anni nell’altro caso.
Sulla stessa scia sembra inserirsi anche la decisione della Corte Costituzionale dell’Uganda del 2005, con la quale i Justices hanno stabilito che l’esecuzione della condanna configura un trattamento disumano quando viene condotta oltre il termine di tre anni dal momento in cui il provvedimento diviene definitivo – e non, come nei casi precedenti, dalla emissione della prima sentenza – costituendo, al contempo, il termine massimo per decidere sulla domanda di grazia del condannato[15].
3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza?
Tuttavia tali concezioni, in cui la sofferenza dell’individuo viene ad identificarsi nella eccessiva durata o nell’eccessivo numero dei giudizi che, a vari livelli, consentono di ribaltare la condanna oppure di convertirne la pena, non hanno trovato terreno fertile nel dibattito giuridico di altri paesi retenzionisti.
Nell’ordinamento statunitense, in cui la Corte suprema federale ha sempre negato le varie richieste di certiorari sull’argomento, non sono mancate, da parte di corti d’appello, visioni di segno diametralmente opposto.
In questo contesto, il ritardo nella esecuzione viene difatti concepito come una conseguenza necessaria che sul piano pratico segue l’elenco di strumenti processuali forniti al condannato, cosicché la scelta di volerne profittare non renderebbe il ritardo contrario alla Costituzione[16]; mentre l’accoglimento di una qualsiasi domanda di questa natura potrebbe fornire un pericoloso incentivo a ritardarne volontariamente le tempistiche[17].
Questa “diversità di ritardo”[18] che contraddistingue l’ordinamento statunitense riflette al contempo una diversa percezione della sofferenza del condannato: l’interminabile attesa cui esso è sottoposto non costituirebbe la causa di sofferenze fisiche e psicologiche, quanto piuttosto l’unica fonte della speranza di poter godere, anche solo per più tempo ed all’interno di strutture detentive, del proprio bene “vita”.
Nella stessa direzione si pone anche l’ordinamento giapponese, in cui il termine massimo di sei mesi per l’emissione dell’ordine di esecuzione previsto dal Codice di procedura penale[19] si traduce, nella prassi, in una semplice “advisory provision”[20], con la permanenza nel braccio della morte di periodi che oscillano tra i 15 ed i 20 anni[21].
Il quadro di ingiustificati ritardi di carattere sostanziale viene poi integrato dalla controversa pratica di eseguire la condanna a morte a distanza di poche ore dalla notifica dell’ordine di esecuzione.
Tale attività, che provoca nel detenuto uno stress continuo ed ininterrotto fin dal momento della condanna, verrebbe a giustificarsi nella volontà di rimandare, per quanto possibile, il fortissimo impatto emotivo che l’atto avrebbe se notificato con anticipo, cercando al contempo di conservarne lo stato di serenità dell’individuo[22].
La questione non assume invece gli stessi termini nel sopraccitato ordinamento statunitense, dove il condannato non solo ha diritto a ricevere tempestivamente la notifica dell’ordine di esecuzione, ma dispone anche di mezzi di impugnazione atti a farne valere gli eventuali vizi[23].
Orbene, all’interno della inscindibile dicotomia tra speranza e sofferenza che definisce il braccio della morte, si inserisce da ultimo la singolare scelta legislativa dell’ordinamento cinese di prevedere, contestualmente alla sentenza di condanna e sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, la possibilità di sospendere la pena di morte per un periodo di due anni, al termine del quale – se medio tempore il condannato non ha commesso nessun altro reato doloso – la pena viene automaticamente convertita nel carcere a vita oppure nella misura di 25 anni[24].
In questi termini, il braccio della morte verrebbe ad acquisire una dimensione temporale ben precisa e l’esito verrebbe ad essere interamente rimesso all’effettivo pentimento del condannato, costituendo una interessante lente d’osservazione attraverso la quale traguardare nuovamente i confini della questione.
Alcuni autori sostengono tuttavia che tale periodo sarebbe comunque idoneo a provocare nell’individuo un forte stato d’ansia legato alla (necessaria) autoriforma ed alla incerta applicazione della pena di morte[25]; mentre secondo altri[26] ciò non valicherebbe le soglie che, a diverse latitudini, tratteggiano la linea di confine dei trattamenti disumani e degradanti[27].
4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive
Volendo trarre qualche considerazione conclusiva si evidenzia come, in realtà, persino una soluzione ancorata a fattori che rientrano nella sfera di controllo del condannato non sia di per sé idonea a fugare ogni dubbio circa la possibilità che, nelle more dell’esecuzione, quest’ultimo non sia esposto ad un forte e perdurante stato di angoscia.
Speranza e sofferenza sarebbero dunque due elementi (rectius, conseguenze) ineliminabili del braccio della morte, il cui delicato bilanciamento sembra porsi al centro del «dilemma» sulle diversità sistemiche del Justice Breyer.
La predeterminazione di un termine massimo di durata del braccio della morte consentirebbe di porre un limite alle sofferenze fisiche e psicologiche del condannato, limitando però al contempo anche la speranza di continuare a godere del proprio diritto alla vita.
Al contrario, un più ampio orizzonte temporale si tradurrebbe nella effettiva dilazione del momento in cui l’individuo verrebbe privato del bene “vita”, acquisendo pertanto maggior rilevanza rispetto allo stato di angoscia cui esso è costantemente sottoposto.
Le diversità di concezioni e l’impossibilità di individuare una soluzione univoca sarebbero dunque il riflesso della natura stessa del braccio della morte, che come un pendolo oscilla incessantemente tra speranza e sofferenza, a cui ci si può sottrarre, forse, soltanto attraverso l’impervia strada dell’abolizione.
[1] Sentenza 576 U.S. 863, 29 giugno 2015, https://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-7955_aplc.pdf.
[2] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32.
[3] Per una più attenta disamina degli stessi, cfr. N. Bobbio, Il dibattito attuale sulla pena di morte, in Id., L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1977, p. 201 ss; per un approfondimento sullo scenario statunitense si veda altresì D. Garland, Peculiar Institution: America's Death Penalty in an Age of Abolition, Oxford University Press, 2010; nonché J. S. Liebman, P. Clarke, Minority Practice, Majority’s Burden: The Death Penalty Today, in Ohio State Journal of Criminal Law, 2011, vol. 9, p. 255 ss.
[4] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32, cui peraltro il Justice ha precisato che, delle due, “non si possono avere entrambe”.
[5] Termine adoperato in un primo momento dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Kirkwood c. Regno Unito, n. 10479/83, 12 marzo 1984, https://www.refworld.org/cases,COEC-OMMHR,3ae6b6fc1c.html.
[6] Sul punto, cfr. anche Judicial Committee del Privy Council, sentenza Noel Riley and Others v Attorney-General for Jamaica, 1 AC 719 (1983), 28 giugno 1982, https://www.casemine.com/judg-ement/in/5779fac6e561096c93-13158b, in cui si è parlato di “anguish of alternating hope and despair, the agony of uncertainty, the consequences of such suffering on the mental, emotional and physical integrity and health of the individual”.
[7] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Soering c. Regno Unito, n. 14038/88, 7 luglio 1989, par. 111, https://hu-doc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-57619%22]}. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che l’estradizione di un individuo verso uno stato in cui, per il reato addebitatogli, può essere applicata la pena di morte, costituisce una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, in ragione del “periodo molto lungo da passare nel braccio della morte”.
[8] P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Calenzano, Leo S. Olschki, 2021, p. 238.
[9] Sulla insopportabilità delle conseguenze psicologiche cfr. Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza In Re Medley, 134 U.S. 160, 161, 3 marzo 1890, https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/134/160.html; in dottrina, cfr. L. A. Rhodes, Pathological Effects of the Supermaximum Prison, in American Journal of Public Health, 2005, vol. 95 (10), p. 1692 ss.
[10] Cfr. sentenza T. V. Vatheeswaran vs State of Tamil Nadu, 1983 SCR (2) 348, 16 febbraio 1983, https://indiankano-on.org/doc/1536503/. Si segnala altresì la precedente sentenza Ediga Anamma vs State of Andhra Pradesh, 1974 SCR (3) 329, 11 febbraio 1974, https://indiankanoon.org/doc/1496005/, in cui la Corte aveva convertito la pena capitale con la pena dell’ergastolo sulla base, tra le altre, di un periodo nel braccio della morte superiore a due anni.
[11] Sentenza Sher Singh & o. vs The State Of Punjab, 1983 SCR (2) 582, 24 marzo 1983, https://indiankanoon.org/doc/1166797/.
[12] Sentenza Triveniben vs State of Gujurat, JT 1988 (4) ST 112, 11 ottobre 1988, https://indiankano-on.org/doc/144619408/.
[13] Sentenza Pratt and Morgan v Attorney General of Jamaica, 2 AC 1 (1993), 2 novembre 1993, https://www.casemine.com/judgement/uk/5b599a772c94e02f4938ac4f.
[14] Sentenza Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe v. Attorney General of Zimbabwe, 1993 (4) SA 239 (ZS), 24 giugno 1993, https://www.refworld.org/cases,ZWE_SC,3ae6b6c0f.html.
[15] Sentenza Susan Kigula & 416 Ors v Attorney General [2005], UGCC 8, 10 giugno 2005, https://ulii.org/ug/judgment/constitutional-court-uganda/2005/8.
[16] Cfr. l’opinione concorrente del Justice Thomas, sentenza Knight c. Florida e Moore c. Nebraska, U.S. 98-9741 e 99-5291 (1999), 8 novembre 1999, https://www.law.cornell.edu/supct/pdf/98-9741P.ZA; della Corte d’Appello del Nono Circuito si vedano invece la sentenza Richmond c. Lewis, 921 F.2d 933 (9th Cir. 1990), 26 dicembre 1990, https://www.casemine.com/judgement/us/5914bfe5add7b04-9347b092c, in cui si è sostenuto che così come “l’imputato non deve essere penalizzato per il perseguimento dei suoi diritti costituzionali, [dall’altro lato] non dovrebbe neanche essere in grado di trarre vantaggio dal perseguimento, in ultima analisi, infruttuoso di tali diritti”; nonché la sentenza McKenzie c. Day, 57 F.3d 1461 (9th Cir. 1995), 8 maggio 1995, https://casetext.com/case/mckenzie-v-day/?PHONE_NUMBER_GROUP=P.
[17] A. A. Sun, “Killing Time” in the Valley of the Shadow of Death: Why Systematic Preexecution Delays on Death Row Are Cruel and Unusual, in Colombia Law Review, 2013, vol. 113, p. 1605.
[18] Ibid., p. 1602.
[19] Art. 475, c. 2.
[20] M. Obara-Minnitt, Japanese Moratorium on the Death Penalty, Palgrave Macmillan, 2016, p. 35.
[21] P. Schmidt, Capital Punishment in Japan, Brill, 2002, p. 196.
[22] Sul punto, cfr. report Hanging by a thread: Mental health and the death penalty in Japan, Londra, Amnesty International, ASA 22/005/2009, 2009, settembre 1-94, p. 29.
[23] Per una disamina dei due modelli cfr. D. H. Foote, “The Door That Never Opens”?: Capital Punishment and Post-Conviction Review of Death Sentences in the United States and Japan, in Brooklyn Journal of International Law, 1993, vol. 19, issue 2, p. 386 ss.
[24] Artt. 48-50 della Legge penale della Repubblica popolare cinese.
[25] Cfr. Z. Ning, The Debate Over the Death Penalty in Today’s China, in China Perspectives, 2005, vol. 62. Sul punto si veda inoltre J. A. Cohen, The criminal process in the People’s Republic of China, 1949-1963, Harvard University Press, 2013.
[26] Cfr. M. Seet, China’s Suspendend Death Sentence with a Two-Year Reprieve: Humanitarian Reprieve or Cruel, Inhuman and Degrading Punishment?, in Asian Yearbook of International Law, 2017, vol. 20, p. 163 ss.
[27] Si evidenzia come la questione debba ancora essere oggetto di diretta considerazione da parte della giurisprudenza delle corti supreme e costituzionali. A titolo meramente esemplificativo, cfr. Corte Federale del Canada, sentenza Lai Cheong Sing and Tsang Ming Na v. Canada (Minister of Citizenship and Immigration), 2007 FC 361, [2008] 2 F.C.R. 3, 25 aprile 2007, par. 100, https://www.refworld.org/cases,CAN_FC,48eccb782.html, in cui si è limitata a dire che la questione circa la crudeltà dello strumento sanzionatorio non rileva poiché, nel caso di specie, non erano presenti i requisiti richiesti dalla legge per accedervi.
SE QUESTA È NOMOFILACHIA. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO 2.0 SECONDO L’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO (recensione al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 “La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria”)
di Fabio Francario
1.- Veramente innumerevoli sono gli spunti di riflessione critica offerti dalle sentenze gemelle n 17 e 18 rese il 9 novembre 2021 dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sul tema (della proroga) delle concessioni balneari.
Il fascicolo monotematico dedicato al tema dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021 ne offre un primo immediato compendio grazie all’impegno dei vari Autori che si sono immediatamente cimentati in un commento, quasi a prima lettura, delle pronunce, evidenziando gli spunti problematici per i profili ritenuti di maggior interesse da ciascun Autore.
Il numero speciale si apre con un’ampia introduzione curata da Maria Alessandra Sandulli che, dopo aver sottolineato come nell’occasione l’Adunanza Plenaria abbia (coraggiosamente) elaborato una sua soluzione all’irrisolto problema della proroga delle concessioni “assumendo sulle proprie spalle il pesante fardello di scelte che competevano e competono piuttosto al potere legislativo”, opera una preliminare ricostruzione generale del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, nel quale s’innestano le proroghe legislative della scadenza fino al 31 dicembre 2033, la pronuncia Promoimpresa CGUE 14 luglio 2016 e variegate pronunce del giudice amministrativo nazionale. Un ruolo centrale nella ricostruzione del quadro è attribuito alla lettera di messa in mora della Commissione UE del 3 dicembre 2020, con riferimento alla quale la Sandulli sottolinea innanzi tutto che “la lettera non si è limitata ad affermare l’incompatibilità del modello di “proroga generalizzata e indiscriminata” con il diritto UE, ma ha espressamente sottolineato la necessità di individuare “con legge” i criteri e le modalità di affidamento delle concessioni balneari per garantire il rispetto dei surrichiamati principi”, evidenziando sotto questo profilo la problematica dell’impugnabilità delle pronunce in Cassazione per eccesso di potere giurisdizionale. Sempre la stessa lettera messa in mora escluderebbe poi chiaramente la possibilità di ritenere che tutte le concessioni balneari italiane presentino quell’interesse transfrontaliero certo che imporrebbe l’apertura del mercato unionale e convincimento non dissimile sarebbe manifesto, a detta sempre dell’Autrice, nella stessa sentenza Promoimpresa, che del pari esclude che la condizione di scarsità della risorsa possa o debba ritenersi insita nel nostro bene costiero. Osservazioni che portano a concludere che “Meglio sarebbe stato allora forse reinterrogare in modo più puntuale la Corte di Giustizia, anche sotto il profilo della possibilità di riconoscere effetti diretti verticali “inversi” della Direttiva al fine di consentire all’amministrazione di applicare immediatamente le sue disposizioni nei confronti dei concessionari”. L’Autrice passa poi a evidenziare vari profili critici delle sentenze, concludendo con una nota di preoccupazione per i problemi che ne conseguono.
Il contributo di Fabio Ferraro (Diritto dell’unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’adunanza plenaria?) approfondisce i profili relativi ai temi dell’ambito di applicazione del diritto primario dell’Unione, della direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva servizi) e della sua efficacia self-executing, fino ad arrivare ad esaminare le questioni del contemperamento del principio del primato del diritto dell’Unione con quello dell’autorità del giudicato, e dell’efficacia temporale delle sentenze della Corte di giustizia, osservando come le sentenze “si conformano per molteplici profili al diritto dell’Unione e richiamano in modo puntuale la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, mentre per altri profili individuano delle soluzioni che possono apparire distoniche rispetto ad alcuni principi ormai sedimentati nell’ordinamento dell’Unione o che comunque richiedono una ulteriore riflessione”.
Sulla stessa linea si muove Elisabetta Lamarque (Le due sentenze dell’adunanza plenaria... le gemelle di shining?), dopo aver preliminarmente osservato che “da qualche tempo accade che quando un giudice supremo del nostro ordinamento decide di imboccare una strada nuova e impervia, e pertanto esposta ai forti venti delle critiche della dottrina e delle sempre possibili ribellioni degli altri giudici, sceglie di farlo attraverso uno strumento certamente dotato di un peso e di una visibilità maggiori di quelli di una semplice sentenza, oltre che, almeno nelle intenzioni di quel giudice, più resistente alle prevedibili intemperie: quello della ‘doppietta’ di sentenze di identico, o analogo, contenuto, depositate in pari data e identificate con numeri successivi”, osservache nel caso di specie l’Adunanza Plenaria non si è però limitata a ciò, ma ha preso in prestito, indebitamente, strumenti propri della Corte costituzionale (l’istituto dei controlimiti opposti all’ingresso nel nostro ordinamento del diritto dell’Unione europea dotato di effetti diretti e la tecnica del differimento degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento), ai quali la stessa Corte costituzionale ha fatto ricorso solo raramente e in occasioni particolari e che, soprattutto, non ha mai osato applicare insieme per decidere la medesima questione. Si tratta di strumenti, sottolinea con fermezza l’Autrice, che devono ritenersi sottratti alla disponibilità dai giudici comuni e che l’Adunanza plenaria non dichiara espressamente di applicare, ma aziona di fatto, ad esempio nel momento in cui sostiene che la norma europea che impone il principio della gara per l’assegnazione delle concessioni balneari trascura esigenze “irrinunciabili” dell’ordinamento italiano o in cui assimila i beni demaniali in questione ai “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” o ai “diritti inalienabili della persona” che possono essere invocati come controlimiti.
Il contributo di Giuseppe Morbidelli (Stesse spiaggi, stessi concessionari?) mette in luce come l’effetto ultimo prodotto dalle sentenze gemelle sia di dare luogo “indirettamente ad una rete di protezione delle situazioni in atto”. L’Autore sottolinea in particolare come l’Adunanza Plenaria abbia sostanzialmente aperto alla possibilità di corresponsione di un indennizzo ai concessionari (“l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi” (v. n. 49)), dando una lettura avversativa dell’art. 49 cod. nav. (“Devoluzione delle opere non amovibili”), il quale come noto dispone che “salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”.
Sul profilo della remunerazione degli investimenti effettuati dai concessionari si concentra anche l’attenzione di Marco Calabrò (Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria), il quale, dopo aver sottolineato che nelle ipotesi di concessione demaniale marittima con finalità turistico-ricreativa le opere realizzate dal concessionario non sono “necessarie” per l’utilizzo dell’area stessa (come invece spesso accade in relazione alle concessioni demaniali portuali) e che ciò rende l’operatore economico tendenzialmente libero nel se e nel cosa realizzare, analizza in questa prospettiva il disposto dell’art. 49 cod. nav. che lega la devoluzione delle opere al patrimonio dello Stato al momento della “cessazione” della concessione.
Marcella Gola (Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?) muove dall’adesione dell’Adunanza Plenaria ad una concezione sostanzialistica del provvedimento di concessione come attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica ed alla conseguente scontata rilevanza nel mercato e per la libera circolazione dei servizi. Concentra conseguentemente la propria attenzione sul profilo delle procedure selettive che dovranno essere bandite per sottolineare come l’obiettivo europeo dell’apertura dei mercati dovrà tuttavia necessariamente considerare le peculiarità del turismo nazionale, da valorizzare come sistema, risorsa centrale per il nostro Paese non solo per l’estensione delle coste, ma anche per lo stretto collegamento con i luoghi e la cultura locale, parte integrante dei quali deve essere considerata, ai fini dell’opportuno bilanciamento, anche la natura prevalentemente familiare delle imprese interessate.
Una correzione di prospettiva nella ricostruzione del regime giuridico del demanio costiero e dei suoi usi, non risolvibile interamente nel concetto di concorrenza, è auspicata anche da Giovanna Iacovone (Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione), la quale sottolinea che le caratteristiche del bene, e nel caso specifico la fragilità delle coste e dell’ecosistema al cui interno esse “vivono”, dovrebbero indurre il legislatore ad una regolamentazione dell’uso del bene stesso in funzione della sua conservazione e valorizzazione in modo da valorizzare la funzione pubblica del demanio marittimo e delle spiagge, esigenze e valori la cui considerazione dovrebbe parimenti governare la disciplina delle future procedure selettive.
Sul problema della natura giuridica delle concessioni demaniali balneari si è invece concentrata l’attenzione di Ruggiero Dipace (L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria), con particolare riferimento ai profili della distinzione tra provvedimenti di autorizzazione e concessione e della distinzione tra concessioni di beni e di opere o servizi. Secondo l’Autore, la proposizione di una rilettura dell’istituto in chiave “funzionale e pragmatica” sembrerebbe suggerire che si stia intraprendendo un percorso simile a quello che ha portato ad attribuire natura negoziale alle concessioni di lavori e di servizi, ma sia l’esplicito riferimento al tema dell’“interesse transfrontaliero certo”, che, come è noto, si riferisce essenzialmente all’attività negoziale delle pubbliche amministrazioni, che l’affermazione secondo la quale “il confronto concorrenziale è estremamente prezioso per garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza, potendo contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita”, che suppone il riferimento ai “servizi pubblici”, tradirebbero ambiguità e confusione in ordine all’oggetto della concessione.
Il profilo della disapplicazione da parte dell’Amministrazione della norma nazionale contrastante con la direttiva self executing viene affrontato da Renato Rolli e Dario Sammarro (L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del consiglio di stato (adunanza plenaria) ricostruendo l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria. Il tema è ripreso anche da Piergiuseppe Otranto (Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela),soprattutto nella sua correlazione, per un verso, con la negata qualificazione in termini di autotutela dell’intervento “dichiarativo” richiesto alle singole amministrazioni; per l’altro, con la cosa giudicata.
L’assunto che le aree costiere italiane presentano un interesse transfrontaliero certo “tutte e nel loro insieme” (che è, cioè, il valore della categoria del demanio marittimo unitariamente considerata a determinare quello di una singola concessione, la cui considerazione atomistica costituirebbe un “artificioso frazionamento” dell’importanza e della “potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale”) è al centro delle riflessioni di Marco Ragusa (Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?), il quale critica il fatto che, tra gli indirizzi rivolti alle amministrazioni (e in parte al legislatore, il cui auspicato intervento rappresenta una delle giustificazioni a fondamento della originale moratoria al 2023 disposta dalle due decisioni), non ve ne sia alcuno attinente alla pianificazione degli usi del demanio marittimo e alla puntuale identificazione ex ante delle aree concedibili (sia all’interno di un singolo tratto costiero, sia nel quadro complessivo del demanio marittimo nazionale, in tesi rilevante nella sua unitarietà). Non è infatti pensabile, secondo l’Autore, misurare la “potenzialità economica” delle aree gestite patrimonialmente senza previamente considerare proprio l’estensione e il valore della componente asservita a una (normale) destinazione non patrimoniale.
Il contributo di Enrico Zampetti (La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria) mira a evidenziare che ciò che il diritto europeo vieta sono le proroghe automatiche e generalizzate, ma non necessariamente le proroghe rapportate alle circostanze concrete che possono mirare a tutelare le legittime aspettative dei concessionari uscenti, soprattutto nei casi in cui si renda necessario garantire il riequilibrio economico della concessione. La critica si appunta conseguentemente sull’attribuzione di una rilevanza assoluta e incondizionata al principio della concorrenza, che in realtà deve sempre misurarsi, anche ai sensi dell’articolo 41 Cost., con altri interessi che talvolta possono provocarne una temporanea attenuazione.
Gli interventi si concludono ripubblicando l’articolo precedentemente apparso sulla rivista Federalismi.it a firma di Beniamino Caravita di Toritto, già condirettore della rivista e prematuramente scomparso lo scorso anno, e di Giuseppe Carlomagno, nel quale vengono tracciate le possibili linee di riforma del settore alla luce dei principi comunitari contenuti nella Direttiva Bolkestein e di quelli affermati nella sentenza CGUE Promoimpresa (La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma).
2.- Il fascicolo monotematico di Diritto e Società raccoglie dunque alcune prime riflessioni della dottrina sulle sentenze gemelle, ma gli spunti di riflessione critica sono in realtà innumerevoli. Ogni volta che si ripete la lettura delle sentenze, per cercare di meglio intenderne significato ed effetti, crescono i dubbi e le perplessità, in maniera tale che diventa impossibile farne anche solo una elencazione ragionata ed esaustiva.
La prima cosa che si può osservare, dunque, è che la lettura delle sentenze origina in chiunque, sia esso un cultore o studioso del diritto amministrativo, un pubblico amministratore, un operatore economico del settore, un magistrato, una sensazione di generale disorientamento.
Ciò che sicuramente colpisce è, innanzi tutto, la quantità degli istituti giuridici che vengono tirati in ballo. Non si ragiona, infatti, intorno ad un unico, per quanto complesso, istituto per chiarirne principi informatori o applicativi particolarmente controversi, ma si lavora per trovare la soluzione ad un problema creato dall’inerzia del legislatore.
In secondo luogo, colpisce il fatto che gli istituti evocati vengono richiamati dandone per scontata e presupposta l’utilizzabilità nel caso di specie o giustificandone l’impiego con affermazioni meramente assertive, laddove il loro impiego appare quantomeno fortemente problematico; senza nemmeno adeguatamente preoccuparsi della loro coerenza o non contraddittorietà in una logica di sistema. Le pronunce sembrerebbero ubbidire piuttosto ad una logica machiavellica: il fine (consentire e al tempo stesso limitare la proroga al 2023) sembrerebbe giustificare l’impiego di qualsiasi mezzo (istituto giuridico) utile a tal fine. Seguendo una logica di sistema, che richiede la dovuta attenzione alle esigenze di credibilità e di eguaglianza per rispondere alle quali gli istituti giuridici vengono creati, dovrebbe invece avvenire esattamente il contrario; e cioè che la decisione dovrebbe scaturire dall’applicazione dei secondi, e non viceversa.
Si ha così la netta sensazione che l’esercizio di una funzione nomofilattica sia evocato in realtà soprattutto a cercare di rinforzare l’efficacia di una decisione, che, se pur (forse) utile a dare un “segnale” alla Commissione UE, appare difficile leggere come esercizio tipico di una funzione giurisdizionale. E’ evidente che l’attenzione della Plenaria non si concentra o comunque non si limita a precisare quale debba essere, in presenza d’interpretazioni contrastanti, il principio di diritto che deve essere applicato per decidere il caso controverso e quelli analoghi. Più che la pronuncia di un’Adunanza Plenaria, sembrerebbe di leggere una pronuncia resa dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, dal momento che vengono espressamente indicati i criteri che dovranno essere seguiti dal legislatore nel provvedere al riordino della materia, sia sotto il profilo della disciplina del rapporto concessorio (obbligo d’indennizzo), che dei criteri di selezione dei futuri concessionari e delle relative procedure. Per quanto è dato di sapere, prima delle pronunce gemelle, nei giudizi pendenti nessuna parte ha mai chiesto al giudice amministrativo di definire ciò.
Anche lo schema di una funzione tipicamente consultiva risulta però ben presto superato: il legislatore viene in realtà completamente sostituito nel momento in cui si ritiene possibile (“congruo”) stabilire il termine massimo di efficacia del regime di proroga fino al 31 dicembre 2023. Peraltro, un attimo dopo aver precisato che il diritto eurounitario non consente più alcuna proroga e che sono pertanto nulle le proroghe disposte ex lege. Il legislatore nazionale non può disporre contro il diritto eurounitario, l’Adunanza del Consiglio di Stato sì. La piega presa diventa inarrestabile: il legislatore non può nemmeno disporre diversamente dall’Adunanza Plenaria/ Generale del Consiglio di Stato : “eventuali proroghe legislative del termine così individuato … dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’unione”. E la sostituzione, a ben guardare, non si limita soltanto al legislatore, ma si estende al giudice penale (“la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale”), al Giudice delle leggi e alla Corte di Giustizia UE, escludendo che la valutazione del contrasto della norma di legge nazionale con il diritto dell’Unione possa essere oggetto dei rispettivi giudizi di costituzionalità o d’interpretazione eurounitaria.
Nella evocata logica machiavellica, gli istituti giuridici impiegati sembrano subire quasi tutti una torsione innaturale.
A cominciare dal principio del contraddittorio.
L’Adunanza Plenaria è investita della questione ai sensi dell’art. 99 co. 2 c.p.a., d’ufficio, con decreto presidenziale che seleziona due soli ricorsi nell’ambito di un contenzioso ampiamente diffuso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza e dirimere contrasti giurisprudenziali, con chiaro e dichiarato intento nomofilattico. Ritiene di doversi limitare ad enunciare il principio di diritto e dichiara inammissibili tutti gli interventi, svolti direttamente innanzi all’Adunanza Plenaria o nel giudizio di merito, limitando di fatto la partecipazione alle sole parti principali del giudizio a quo. Il fatto di essere parte in altro giudizio vertente su una quaestio iuris analoga è ritenuto insufficiente per qualificare l’interesse a partecipare nel giudizio in cui si definisce la regola di giudizio da applicare successivamente, sebbene ciò che ha giustificato la necessità di una pronuncia nomofilattica è stata proprio la considerazione “degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori”. Anche in tal caso, dunque, vengono pacificamente applicati principi tutt’altro che scontati e sussiste una evidente torsione dei principi e delle regole sull’ intervento processuale e sul contraddittorio che allontana il lettore dalla possibilità di condivisione del dictum.
Questione senz’altro centrale nell’impianto delle decisioni è quella del carattere auto esecutivo o meno della direttiva Bolkestein, dalla soluzione della quale dipende la possibilità di disapplicazione o meno della norma nazionale. Implica, in buona sostanza, che (anche) la direttiva è immediatamente applicabile e invocabile nel rapporto cittadino – PA se le sue disposizioni sono “incondizionate e sufficientemente precise” (CGUE 22 giugno 1989, Flli Costanzo). Difficile o quantomeno fortemente opinabile assumere che si sia in presenza di disposizioni “incondizionate e sufficientemente precise” quando l’art 12 della Direttiva, prima di statuire chiaramente che la concessione “non può prevedere la procedura di rinnovo automatico”, afferma che il divieto si applica solo “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili” e che solo in tal caso gli Stati membri sono tenuti a seguire “una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. Senza considerare il ricorrere dell’ulteriore condizione dell’interesse transfrontaliero certo. L’Adunanza Plenaria non ha invece dubbi nel ritenere che la direttiva de qua presenti un “livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad imporre di conseguenza una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità”, aggiungendo che il carattere self – executing sarebbe stato espressamente riconosciuto dalla sentenza CGUE Promoimpresa. In ciò la sostanza della motivazione, che per il resto riproduce le argomentazioni proprie già della sentenza Flli Costanzo, che si collocano però questa volta in un contesto profondamente diverso: lì si trattava di rimuovere il limite che la norma nazionale poneva alla possibilità di tutelare una ben definita situazione di diritto o comunque pretensiva riconosciuta dalla norma comunitaria; qui di creare un limite nell’attesa che venga definita una nuova disciplina, di disapplicare cioè in malam partem. Anche a prescindere dall’utilizzabilità di tale argomentazione, sta il fatto che la stessa Adunanza poco oltre afferma che non v’è dubbio che il legislatore debba intervenire “con una disciplina espressa e puntuale”, confermando con ciò la sua mancanza allo stato attuale. Ma ciò che più deve essere sottolineato è che in realtà l’Adunanza tutto fa tranne che disapplicare: la norma nazionale non viene sostituita immediatamente e direttamente dalla norma comunitaria (che escluderebbe in maniera incondizionata la possibilità di proroga), ma da un’altra norma nazionale pretoriamente creata nell’esercizio della funzione nomofilattica (che riduce la proroga nel termine ritenuto più congruo fino al 2023). Che nella realtà delle cose (e nella realtà dei processi) si sia in presenza della sostituzione di una norma nazionale con altra norma nazionale di creazione giurisprudenziale, e non con la norma comunitaria, è del resto confermato dalla decisione successivamente assunta dal giudice al quale sono stati restituiti gli atti per la decisione. Il CGARS, con la sentenza n. 116 del 24 01 2022, ha accolto in parte il ricorso (proposto avverso il diniego di proroga e per l’accertamento del diritto all’estensione della durata della concessione sino al 31 12 2033, ai sensi della l. 30 12 2018 n. 145) accertando il diritto alla proroga della concessione fino al 31 dicembre 2023, ai sensi di quanto statuito dall’Adunanza del Consiglio di Stato.
La stessa considerazione può ripetersi con riferimento al potere di graduare gli effetti delle proprie sentenze. La fissazione del termine al 31 12 2023 viene giustificata invocando la possibilità del giudice amministrativo di graduare gli effetti delle proprie decisioni. A parte che l’affermazione del principio sarebbe già di per sé più che discutibile, andrebbe in ogni caso considerato che il precedente invocato si riferisce ad ipotesi di pronunce di annullamento e non di disapplicazione. Disapplicazione e annullamento non sono la stessa cosa. L’annullamento rimuove un atto invalido con efficacia ex tunc; la disapplicazione opera sull’efficacia dell’atto lasciandolo in vita, ma impedendo che produca effetti nel caso di specie, in cui viene appunto disapplicato. Già è dubbio che si possa ritenere consolidata la riscrittura dei canoni classici dell’annullamento. Stravolgere anche quelli della disapplicazione senza nessuna argomentazione giuridica pare francamente troppo.
Lo stesso è a dirsi a proposito dell’interesse transfrontaliero e della categoria del demanio. L’interesse transfrontaliero certo viene desunto dalla qualificazione del mercato delle concessioni demaniali balneari con finalità turistico ricreative come complesso valutato unitariamente e complessivamente (“tutte e nel loro insieme”), coincidente con l’intero patrimonio costiero nazionale. Scompare la distinzione tra demanio e patrimonio.
E così per l’autotutela. Si afferma che non v’è necessità di rimuovere gli atti amministrativi di proroga perché questi hanno avuto funzione meramente ricognitiva perché l’effetto autoritativo (di proroga) è stato prodotto direttamente dalla legge. Nondimeno si afferma che “ragioni di certezza depongono nel senso che l’Amministrazione provveda comunque a rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarlo al soggetto cui è stato rilasciato detto atto”. Anche in tal caso una sofisticata argomentazione per escludere in maniera non convincente la necessità del contrarius actus.
E ancora per il giudicato. Secondo l’Adunanza, non vi sarebbero ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione comunitaria, anche se, sul diritto alla proroga, si sia formato un giudicato, perché la sopravvenienza normativa inciderebbe sulle situazioni giuridiche durevoli per quella parte che si svolge successivamente al giudicato. Anche in tal caso l’affermazione parrebbe opinabile, perché, nel caso di specie, lo jus superveniens non statuisce sulla durata del rapporto, ma vieta che possano essere disposte proroghe automatiche. Se la concessione della proroga è ormai coperta da giudicato, in assenza di un’espressa statuizione in ordine al carattere retroattivo dello jus superveniens, si dovrebbe a rigore ritenere che questo abbia disposto unicamente per il futuro.
I profili sopra accennati non sono esaustivi e non possono essere approfonditi in questa sede. Sono però all’origine di quella sensazione già ricordata che la lettura delle pronunce ingenera nel lettore. Le pronunce sembrano cioè lontane dal raggiungere lo scopo dichiarato di voler svolgere una funzione nomofilattica, perché non orientano, ma piuttosto disorientano l’attività di interpretazione. non sembrano preoccuparsi tanto di convincere con la forza dell’argomentazione ragionevole e condivisibile, proponendo l’argomentazione più attendibile all’esito del confronto tra gli argomenti spendibili; quanto di trovare una soluzione che sia in grado di risolvere il problema dato, anche se questa passa per argomentazioni divisive, non consolidate e spesso implausibili. La generosità e l’intelligenza che contraddistinguono il Consiglio di Stato consentono di indicare elegantemente una soluzione applicativa, ma gli istituti a tal fine impiegati non sembrano rispondere ai canoni consolidati secondo la scienza del diritto amministrativo e del diritto processuale amministrativo: l’interesse ad intervenire non è riconosciuto a chi non è parte principale del giudizio; il giudicato cede sempre e comunque allo jus superveniens; l’autotutela non è necessaria per gli atti dichiarativi, che così sfuggono al suo regime; il demanio non si distingue più dai beni patrimoniali; l’annullamento non ha più efficacia ex tunc; la disapplicazione non opera più sull’efficacia dell’atto nel caso concreto; il giudice amministrativo può sostituirsi al legislatore, al giudice penale, alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia nella creazione delle norme e nel rispettivo sindacato. In pratica, c’è quanto basta per riscrivere interamente un manuale di diritto amministrativo, sostanziale e processuale, che resta però affidato alle linee guida fluide e imprevedibili che verranno dettate da qui in avanti dall’Adunanza del Consiglio di Stato. Salvo che cambi rotta. Perché non è giusto che i vuoti della politica stravolgano il ruolo del Consiglio di Stato, che, a norma dell’art 100 Cost., è organo di consulenza giuridico-amministrativa “e di tutela della giustizia nell’amministrazione”, non nella legislazione.
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