ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il concordato in bianco fra genesi della disciplina del “decoctor” e codice dei contratti pubblici (nota a Ad. Plen. n. 9/2021)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche - 2. Il caso in esame - 3. Evoluzione storico – normativa del diritto concorsuale italiano - 3.1 Analisi comparatistica del problema - 4. Le cause di esclusione ex art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 5. L’impatto del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sul diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici - 6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 - 7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021 - 8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito - 9. Osservazioni conclusive.
1. Premessa: il tradizionale rapporto antitetico tra l’istituto del concordato preventivo “in bianco” e la partecipazione alle gare pubbliche
Il convergere degli elementi connaturati alla struttura del concordato preventivo “in bianco” verso la possibilità della prosecuzione dell’attività aziendale comporta la necessità di intercettare le regole, processuali e sostanziali, in grado di disciplinare le modalità di partecipazione alle gare pubbliche, dovendosi ormai abbandonare la tralatizia impostazione che inquadrava i due istituti in chiave eminentemente antitetica attraverso l’interpretazione restrittiva delle norme del Codice del processo amministrativo in tema di cause di esclusione[1].
Tali rilievi costituiscono il nodo centrale del problema affrontato dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria che assume una portata di indubbia rilevanza in quanto interviene sulla nota querelle sorta in relazione al rapporto tra concordato in bianco e procedure di gara[2].
Invero, le difficoltà nel fornire soluzioni univoche alle questioni giuridiche in oggetto è possibile riscontrarle prima facie nell’attività del legislatore, che per decenni è intervenuto in materia riformulando le norme applicabili al rapporto tra i due istituti.
A fronte della complessità e della stratificazione nel tempo di detti interventi, in dottrina ed in giurisprudenza venivano, infatti, adottate soluzioni interpretative che talune volte qualificavano il concordato “in bianco” come causa di automatica esclusione delle imprese dalle procedure di evidenza pubblica; talaltre ne consentivano la partecipazione al ricorrere di specifici requisiti di legge.
Entrando in medias res, la statuizione dell’Adunanza Plenaria dirime il contrasto formatosi in materia ripercorrendo l’iter storico evolutivo della disciplina della crisi d’impresa e del codice dei contratti pubblici, prediligendo un metodo d’analisi sistematico delle relative disposizioni, anche alla luce dell’esperienza sovranazionale. Ciò, in particolare, tenuto conto del dibattito sviluppatosi fra i più autorevoli studiosi a margine della recente riforma del sistema concorsuale italiano, ove è emersa la necessità di predisporre un organico ammodernamento delle regole con l’introduzione di strumenti in grado di assicurare la conservazione dell’impresa.
Di talché, in linea con il percorso argomentativo adottato dal Supremo Collegio, il presente lavoro, prima di analizzare gli approdi cui è giunta la sentenza in commento, non potrà prescindere dalla disamina degli sviluppi storici della disciplina concordataria e dal coordinato raffronto di essa con il codice dei contratti pubblici, con particolare riguardo alle soluzioni adottate dai principali ordinamenti giuridici europei nel settore delle procedure concorsuali.
2. Il caso in esame
La vicenda da cui origina la pronuncia in commento attiene al ricorso presentato dalla società seconda classificata avverso l’aggiudicazione dell’appalto di lavori disposta in favore di un RTI, al cui interno la società mandante era coinvolta in una procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, co. 6, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare).
Al riguardo, il Tribunale Amministrativo Regionale competente disponeva l’accoglimento del ricorso principale[3]. Diversamente, il ricorso incidentale proposto dalla società mandataria del RTI aggiudicatario veniva respinto, in quanto, ai sensi dell’art. 48, co. 19 ter, c.p.a., il primo giudice riteneva infondata la pretesa di procedere alla sostituzione della mandante, giacché, si precisava, la modifica della compagine del RTI non si sarebbe potuta esperire in pendenza della procedura di gara.
A suffragio dell’accoglimento del ricorso principale, il giudice di prime cure rilevava l’illegittimità dell’aggiudicazione per violazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), nonché dell’art. 80, co. 5 bis, Codice dei contratti pubblici.
Quanto alla violazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), si chiariva che la mandante del RTI aggiudicatario, avendo proposto nelle more della procedura di gara una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, legge fallimentare, doveva essere esclusa.
Invece, la violazione dell’art. 80, co. 5 bis, c.p.a. scaturiva dal ritardo in cui era incorsa l’impresa mandataria nel comunicare alla stazione appaltante la presentazione, da parte della mandante del raggruppamento, di un’istanza ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.
Orbene, avverso la suesposta decisione interponevano appello dapprima la società mandante e, successivamente, quella mandataria del RTI aggiudicatario.
A seguito della riunione di detti gravami, la Sezione Quinta del Consiglio di Stato evidenziava la presenza di orientamenti contrastanti in materia e, per l’effetto, deferiva all’Adunanza Plenaria talune questioni giuridiche rilevanti al fine del decidere, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
In particolare, il primo quesito attiene alle conseguenze derivanti dalla presentazione, da parte di un operatore economico, di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, co. 6, l. fall., dovendosi chiarire se tale ipotesi “debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, ovvero se la presentazione di detta istanza non inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di commesse pubbliche, quanto meno nell’ipotesi in cui essa contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale”.
Il secondo quesito riguarda, invece, la qualificazione dell’atto di partecipazione alle gare pubbliche in termini di ordinaria o straordinaria attività di impresa, tenuto conto del differente regime autorizzativo applicabile.
Ulteriormente, la Sezione remittente si chiede entro quale termine debba intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della regolare partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
Infine, è stata deferita la questione se, ai sensi dell’art. 48, commi 17, 18, 19 ter, d.lgs. n. 50/2016, debba ritenersi consentita la sostituzione della mandante coinvolta in una procedura concordataria ex art. 161, co. 6, cit. “con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del RTI dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione”.
3. Evoluzione storico - normativa del diritto concorsuale italiano
Come noto, il concordato preventivo è uno strumento che consente di evitare il fallimento dell’impresa, essendo finalizzato a perseguire una pluralità di interessi, tra i quali si annoverano, come evidenziato da autorevoli autori, la conservazione del valore economico dei complessi aziendali, la salvaguardia dei rapporti commerciali e, di riflesso, la tutela dell’interesse pubblico[4].
Diversamente, l’originaria struttura della legge fallimentare del 1942 aveva quale principale paradigma il fallimento[5] che, secondo una storica impostazione, era accostato alla figura del decoctor, soggetto che fuggiva con i propri beni al fine di sottrarsi al pagamento dei debiti assunti nell’ambito dell’attività di commercio esercitata[6]. Il riferimento appare esemplificativo del disvalore, anche personale, che caratterizzava l’imprenditore fallito che aveva causato il dissesto dell’impresa, analogamente alla struttura eminentemente liquidatoria e punitiva della legislazione previgente nei confronti di tali situazioni[7].
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, invece, essendo stata accertata l’inidoneità dei tradizionali strumenti normativi a fronteggiare la generale crisi dell’economia, emergeva il ruolo delle grandi imprese nel tessuto economico nazionale, considerate quale valore autonomo da tutelare in sé mediante procedure di risanamento o recupero[8]. Sul piano normativo, quindi, seguiva l’adozione di leggi in favore degli operatori economici insolventi[9], nonché la previsione di talune modifiche alla disciplina delle procedure concorsuali[10].
Sulla base delle spinte del processo di integrazione europea e dell’emersione dei valori liberistici del mercato e della concorrenza, a partire dagli anni Novanta si rafforzavano ulteriormente gli obiettivi della valorizzazione della figura dell’impresa, quale naturale centro di produzione di risorse e ricchezza nell’ottica del miglioramento della efficienza del mercato[11].
In tal contesto, una delle principali tappe dell’evoluzione normativa delle procedure concorsuali si rinviene nelle riforme degli anni 2005-2007, con le quali il legislatore ha favorito le tecniche di conservazione delle strutture produttive dell’impresa e del loro reinserimento, ove possibile, nel settore economico[12]. In particolare, occorre richiamare il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con la l. 14 maggio 2005, n. 80[13], che ha modificato alcuni aspetti del concordato preventivo abbandonando la previgente impostazione che imponeva, ai fini dell’ammissione alla procedura, la verifica del possesso di requisiti di natura personale nonché patrimoniale[14].
Con la l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha introdotto l’istituto del concordato con continuità aziendale, di cui all’art. 186-bis l. fall[15], diviene ancora più evidente il favor legislatoris nei confronti delle procedure finalizzate al recupero dei valori aziendali[16].
Tale intervento normativo ha, inoltre, disciplinato l’istituto del c.d. concordato in bianco o con riserva ex art. 161, co. 6, l. fall., permettendo al debitore di procrastinare la presentazione della proposta concordataria di sessanta o centoventi giorni e, al tempo stesso, consentendo il compimento degli atti di ordinaria amministrazione nonché, su autorizzazione del tribunale competente, anche quelli di natura straordinaria.
Più di recente, l’istituto de quo ha subito modifiche per effetto della introduzione di diversi correttivi ad opera della l. 9 agosto 2013, n. 98[17], tra i quali si annovera, per le finalità di contrasto al fenomeno di abuso del concordato in bianco, il decreto motivato del tribunale contenente la nomina di un commissario giudiziale che, ai sensi dell’art. 161, co. 6, ultima parte, l. fall., è provvisto di ampi poteri in tema di accertamento della sussistenza delle condotte di cui all’art. 173, l. fall.
Quanto alle modifiche apportate al concordato con continuità aziendale, l’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., ai fini della partecipazione alle procedure di evidenza pubblica richiede una specifica autorizzazione del tribunale competente, acquisito il parere del commissario giudiziale, ove nominato[18].
3.1. Analisi comparatistica del problema
In ambito europeo, è stato adottato come principale modello di riferimento lo strumento statunitense della corporate reorganitation, introdotto verso la fine degli anni Settanta e disciplinato dal Chapter 11 delFederal Bankruptcy Code. Ai sensi di tale disposizione, tra gli altri, si è prevista la facoltà del debitore di attivare una procedura finalizzata alla riorganizzazione dell’impresa, anche nella fase antecedente all’insolvenza tout court, evidenziandosi quindi il favor verso la conservazione dei valori aziendali, soprattutto alla luce dell’interesse dei creditori[19]. In tal contesto, è stata inoltre introdotta la possibilità di ottenere taluni finanziamenti con il beneficio della prededuzione[20].
Il sistema normativo francese, sulla scorta degli obiettivi sanciti dal modello statunitense, ha subito importanti modifiche[21], superando la previgente concezione punitiva del fallimento (incentrata sul prevalente ricorso alla liquidazione del patrimonio del debitore) per aderire ad un approccio teso a valorizzare l’impresa e la sua conservazione nel tessuto economico. Il tutto, mediante la predisposizione di procedure di allerta e di prevenzione dell’insolvenza; nonché attraverso meccanismi in grado di conferire all’autorità giudiziaria un rilevante potere dirigistico (ad esempio, la procedura concorsuale denominata sauvagarde, paragonabile alla reorganization statunitense)[22].
Anche in Germania, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, si è innovata la disciplina della crisi d’impresa prediligendosi una concezione conservativa degli operatori economici[23] attraverso l’enucleazione di benefici per l’imprenditore in modo da incentivare una celere e tempestiva apertura della procedura concorsuale[24].
Nell’ambito dell’evoluzione del diritto europeo, assume, inoltre, un ruolo centrale la raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2014 contenente l’invito rivolto agli Stati membri ad approntare efficaci procedure preventive idonee in concreto a scongiurare l’insolvenza degli operatori economici virtuosi. Così, è stato adottato il c.d. Piano d’azione UE del 30 settembre 2015, nonché la Direttiva n. 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, quale primo strumento di armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri dell’UE in relazione alla crisi d’impresa[25].
Elementi che, come più volte anticipato, assumono un ruolo decisivo ai fini della individuazione della ratio sottesa all’istituto del concordato preventivo “in bianco”, nonché della perimetrazione dei suoi effetti sulle procedure di gara.
4. Le cause di esclusione di cui all’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei Contratti pubblici
Secondo la disciplina previgente, l’ipotesi della presentazione di una domanda di concordato preventivo era disciplinata dall’art. 38, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 163 del 2006, disposizione che è stata oggetto di dubbi interpretativi sorti sia in dottrina[26] sia in giurisprudenza, tanto da richiedere numerosi interventi del legislatore[27].
Attualmente, invece, la fattispecie in esame è disciplinata dall’art. 80, co. 5, lett. b)[28], D. Lgs. n. 50/2016, che recepisce quanto sancito dall’art. 57 della direttiva 2014/24/UE in tema di riconoscimento, in capo agli Stati membri, della facoltà di qualificare come causa di esclusione dalla gara pubblica le imprese coinvolte nelle procedure concorsuali[29].
Orbene, la norma in commento contiene un elenco di situazioni che comportano l’esclusione dalle procedure di evidenza pubblica dell’operatore economico: il fallimento, la liquidazione coatta ed il concordato preventivo, anche laddove sia in corso un procedimento finalizzato a dichiarare una di tali situazioni. Il tutto, però, fermo restando quanto sancito dagli artt. 110 del Codice dei contratti pubblici, nonché dall’art. 186 - bis del r.d. 16 marzo 1942, n. 267[30].
Viene, inoltre, in rilievo l’art. 110, co. 4[31], Codice contratti pubblici, così come modificato dall’art. 2, co. 1, del d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019, che prevede l’applicazione dell’art. 186-bisl. fall. alle imprese che hanno presentato una domanda di concordato preventivo, anche “in bianco”[32]. Da ciò può, quindi, desumersi che anche in tali ipotesi gli operatori concorrenti possono partecipare alle procedure di evidenza pubblica, sempreché in possesso della prescritta autorizzazione giudiziale. In tema, il legislatore distingue l’ipotesi in cui un’impresa abbia presentato una mera domanda per l’ammissione alla procedura concordataria dalla differente ipotesi in cui essa ne abbia effettivamente ottenuto l’ammissione, ai sensi dell’art. 163 l. fall.: solo nel primo caso, infatti, viene prescritto il requisito necessario dell’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto.
Nel solco dei predetti interventi normativi, si profila interessante notare che l’art. 110 Cod. contratti pubblici non ha riprodotto il contenuto del previgente comma 3 ove si precisava che: (…) l’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato, sentita l’ANAC, possono: a) partecipare a procedure di affidamento per di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto (…)”. Le ragioni di tale scelta legislativa potrebbero rinvenirsi, come evidenziato da autorevoli autori, proprio nella difficoltà degli interpreti di coordinare armonicamente la disciplina di cui all’art. 110, co. 3, cit., rispetto al contenuto dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, nonché dell’art. 186 - bisl. fall. Questi ultimi, infatti, nel caso della intervenuta ammissione al regime della continuità aziendale non prevedono analoghi oneri autorizzativi[33].
5. L’impatto del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sulla disciplina del diritto concorsuale e sul Codice dei contratti pubblici
Preliminarmente, occorre rilevare che il nuovo impianto procedimentale di accertamento della crisi e dell’insolvenza delle imprese ha assunto un vero e proprio carattere unitario, divenendo la sede nella quale far confluire le domande od istanze riferibili all’attivazione di strumenti regolatori (aventi natura conservativa ovvero liquidatoria)[34].
Nel particolare, tra di essi il Codice annovera l’istituto del concordato con continuità aziendale di cui all’art. 84, co. 2, distinguendo l’ipotesi diretta da quella indiretta: nel primo caso, è prevista la continuazione dell’attività da parte del medesimo imprenditore istante; nel secondo caso, invece, essa si verifica mediante la cessione dell’azienda ovvero la continuazione ad opera di un soggetto differente dall’originario imprenditore[35].
Il concordato c.d. “in bianco” (previsto all’art. 161, co. 6, l. fall.), invece, è destinato a confluire nell’art. 44, Codice della crisi d’impresa, assurgendo, come sostenuto da taluni autori, a vera e propria regola del sistema concordatario[36]. La riferita disposizione, in particolare, interviene dimezzando i termini concessi al debitore per la presentazione dei documenti[37], nell’ottica evidentemente di imprimere maggiore celerità alla definizione della procedura.
Nel delineato contesto, assume un ruolo centrale l’art. 372 del nuovo Codice, che modifica alcune norme del Codice dei contratti pubblici, in particolare gli artt. 48, 80, co. 5, lett. b), nonché l’art. 110[38].
A livello testuale, è anzitutto possibile notare che viene abbandonato il previgente riferimento al termine “fallimento” quale ipotesi di esclusione dalle gare sia nell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, sia nell’art. 110, ai sensi di quanto previsto rispettivamente dall’art. 372, co. 1, lett. b) e c) cit. Quindi, le cause di esclusione debbono individuarsi nelle ipotesi di liquidazione giudiziale, di liquidazione coatta, concordato preventivo, salvo quanto sancito dall’art. 95 Codice della crisi d’impresa e dall’art. 110 Codice dei contratti pubblici.
Inoltre, l’art. 372, co. 4,[39] Codice della crisi d’impresa, dispone l’applicazione dell’art. 95 alle imprese che hanno presentato una domanda per l’accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ai sensi dell’art. 40, secondo il procedimento unitario previsto nella Sezione II, Capo IV.
Con particolare riferimento alla sentenza in commento, viene in rilievo l’art. 95, rubricato “disposizioni speciali per i contratti con le pubbliche amministrazioni”, il quale si profila rilevante per quanto precisato al comma 3, nella parte in cui richiede la sussistenza del requisito dell’autorizzazione del tribunale competente ai fini della partecipazione alle procedure di gara pubbliche per le imprese che abbiano presentato domanda ex art. 40. Quale ulteriore rafforzamento del controllo sulla idoneità dell’impresa alla partecipazione alle suddette procedure di gara, il successivo comma 4 prescrive il deposito di una relazione di un professionista che comprovi la conformità al piano, ove predisposto, e la ragionevole capacità di adempimento del contratto.
Infine, l’art. 95 cpv. riconosce, in capo all’operatore economico coinvolto in una procedura concordataria che non assuma la qualità di mandataria, la facoltà di partecipare alla gara anche mediante un RTI, purché nella compagine di riferimento non vi siano ulteriori operatori coinvolti in tali situazioni.
6. Il contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. b., d.lgs. n. 50/2016
Come anticipato nei precedenti paragrafi, le continue modifiche apportate dal legislatore all’art. 80, co. 5, lett., b), d.lgs. n. 50/2016, non hanno agevolato l’attività di interpretazione della relativa disciplina, specie per ciò che attiene alle conseguenze della proposizione di una domanda di concordato “in bianco” nell’ambito di una procedura di gara.
Secondo la tesi restrittiva, l’art. 80, co. 5, lett. b), dovrebbe essere interpretato nel senso di prevedere l’automatica esclusione dalla gara delle imprese che abbiano presentato una domanda di concordato in bianco.
Gli interpreti giungono a tale conclusione evidenziando, in particolare, la natura di atto di straordinaria amministrazione della fattispecie de qua, circostanza che impone di accertare la sussistenza del requisito della “urgenza” ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione da parte del Tribunale competente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall.[40] In tal senso, si suole enfatizzare la contrapposizione tra l’istituto del concordato in bianco e quello del concordato in continuità aziendale. Si sostiene che il primo, oltre a richiedere molto tempo per la relativa definizione, risulterebbe caratterizzato da una procedura “incerta”, potendo sfociare non solo nel concordato con continuità aziendale, ma anche nel concordato liquidatorio[41].
Proprio per tali ragioni, si ritiene che la proposizione di una domanda di cui all’art. 161, co. 6, l. fall., debba comportare la perdita dei requisiti di ordine generale, ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 1, co. 20, lett. o), n. 3) d.l. n. 32 del 2019), stante il riferimento espresso al concordato con continuità aziendale quale unica eccezione alla regola generale dell’esclusione[42].
Anche a seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019 all’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici[43], talune pronunce, al fine di aderire alla tesi restrittiva, valorizzano soprattutto la seconda parte della disposizione in commento, ove si richiede espressamente l’avvalimento dei requisiti di altro soggetto ai fini della partecipazione alle gare nella fase anteriore all’ammissione al concordato ex art. 163 l. fall. (anche se proposto ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall.)[44].
Ciò posto, una differente impostazione ermeneutica[45] propugna una lettura in termini “estensivi” dell’art. 80, co. 5, lett. b), del codice dei contratti pubblici, ritenendo applicabile anche alle ipotesi di concordato in bianco il regime derogatorio previsto per il concordato con continuità aziendale[46]. Alla luce della ratio che contraddistingue i due istituti, si prevede, anche per il concordato in bianco, l’applicazione del principio che consente alle imprese di partecipare alle gare nelle more tra la presentazione della domanda di concordato con continuità aziendale e la successiva ammissione[47]. A detta dell’orientamento in analisi[48], le medesime conclusioni si ricavano anche dalla formulazione dell’art. 110, co. 4, Codice dei contratti pubblici (come modificato dal d.l. n. 32 del 2019), ove è previsto espressamente che la disciplina di cui all’art. 186-bis l. fall. deve applicarsi anche alle fattispecie di concordato, di cui all’art. 161, co. 6, l. fall.
Quanto alla natura giuridica dell’attività di partecipazione delle imprese alle procedure di gara, si chiarisce che essa dovrebbe essere ricondotta nella categoria degli atti di ordinaria amministrazione, essendo parte integrante della normale gestione d’impresa in quanto potenzialmente idonea a migliorarne la situazione patrimoniale tramite l’aggiudicazione delle commesse pubbliche[49]. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 161, co. 7, l. fall., il debitore, a seguito della presentazione della relativa istanza e prima della decisione del tribunale ex art. 163, l. fall., può compiere gli atti di ordinaria amministrazione, occorrendo per quelli aventi natura straordinaria la sussistenza di due requisiti: il carattere urgente degli stessi e l’intervento di una specifica autorizzazione del tribunale competente.
Ulteriore questione problematica affrontata dagli interpreti in subiecta materia attiene alla natura ed agli effetti promananti dalla autorizzazione giudiziale de qua. Sul punto, sono state adottate soluzioni contrastanti: taluni ritengono che essa costituirebbe una condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione, potendo quindi intervenire anche in un momento successivo senza pregiudicarne la regolarità; talaltri evidenziano che, a maggior rigore, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., dovrebbe intervenire prima dell’aggiudicazione stessa[50].
7. L’Ordinanza di rimessione della V Sez. Cons. St., n. 309/2021
La Sezione remittente, a seguito della prioritaria disamina delle correnti interpretative che si sono contrapposte nel panorama giurisprudenziale, ha lasciato intendere di preferire le conclusioni cui giungono i sostenitori della tesi estensiva, ritenendo che la presentazione di una domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non dovrebbe qualificarsi come un’ipotesi di automatica causa di esclusione dalle gare.
Le argomentazioni poste alla base di tale posizione si fondano, in particolare, sulla valorizzazione della ratio sottesa agli istituti del concordato con continuità aziendale e del concordato “in bianco”, essendo preordinata a consentire alle imprese in crisi di partecipare alle gare pubbliche, in deroga al divieto previsto dall’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici. Per tal ragione, l’autorizzazione giudiziale ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., naturalmente prevista per il concordato con continuità aziendale (nella versione applicabile ratione temporis anteriore alle modifiche di cui al d.l. n. 52/2019) si ritiene applicabile anche alle domande di concordato in bianco, essendo parte della più ampia categoria del concordato tout court.
In virtù della natura di atto di accertamento dell’autorizzazione de qua, è stato, inoltre, precisato che i relativi effetti debbano retroagire “al momento in cui la valutazione si riferisce, e non già a quella in cui essa è stata formalizzata nell’atto autorizzativo”.
8. La posizione dell’Adunanza Plenaria sulla quaestio iuris oggetto del dibattito
Il primo quesito affrontato dal Supremo Collegio concerne la qualificazione della domanda di concordato “in bianco” ex art. 161, co. 6, l. fall., in termini di causa di automatica esclusione o meno, dovendosi chiarire, nel dettaglio, la portata applicativa dell’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016[51].
Sul punto, si richiama in chiave critica la storica impostazione assunta dalla normativa sui contratti pubblici, in quanto tesa a valorizzare in modo prevalente l’esigenza della stazione appaltante di operare con imprese che non risultino coinvolte nelle procedure concorsuali, il tutto all’interno di un sistema normativo ispirato ai principi della esclusione obbligatoria ed automatica[52]. La critica muove dal fatto che, sul piano del diritto europeo, le direttive in tema di appalti annoverano le procedure concorsuali tra le possibili cause di esclusione ma non prescrivono l’adozione di un criterio di automatica esclusione, riconoscendo, invece, la facoltà degli Stati membri di disciplinare, in modo più o meno rigoroso, la fattispecie[53].
Quanto all’interpretazione delle norme del Codice dei contratti pubblici rilevanti nella vicenda de qua(nella versione applicabile ratione temporis), la sentenza in commento richiama la tesi restrittiva, a tenore della quale si enfatizza l’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (precedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019), nella parte in cui prevede l’operatività della causa di esclusione non solo nei confronti delle imprese in stato di fallimento, di liquidazione coatta o di concordato preventivo, ma anche rispetto agli operatori “nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”. Da tale ragionamento dovrebbe, quindi, conseguire che l’unica espressa eccezione a tale regime debba individuarsi solo nei confronti degli operatori già ammessi al concordato con continuità aziendale, anche ai sensi di quanto sancito dal previgente art. 110, co. 3.
Tuttavia, i Giudici amministrativi sostengono che tali rilievi ermeneutici mal si conciliano con la disciplina concordataria, in quanto una così ampia preclusione alla partecipazione alle gare[54]comporterebbe un’indebita limitazione dell’ambito di operatività dell’art. l’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Quest’ultima disposizione, infatti, consente espressamente la partecipazione alle gare anche nell’intervallo di tempo che intercorre tra il deposito della domanda ed il decreto di apertura della procedura, in presenza dell’autorizzazione giudiziale, acquisito il parere del commissario, se nominato[55].
Ciò posto, la sentenza in commento valorizza, invece, la portata applicativa della recente normativa del Codice dei contratti, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute in occasione dell’adozione del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
In primo luogo, dall’analisi testuale degli artt. 80, co. 5, lett. b) e 110, co. 4, modificati dal d.l. n. 32/2019, si evince expressis verbis che anche le ipotesi del concordato in bianco debbono essere disciplinate dall’art. 186 bis l. fall.
Inoltre, particolarmente rilevante si profila la posizione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione in subiecta materia, laddove precisa che l’istituto del concordato preventivo in bianco non rappresenta una procedura autonoma rispetto alla fattispecie del concordato ordinario ex art. 161 l. fall., dovendosi invece qualificare alla stregua di una delle fasi interne del medesimo[56].
Poste tali premesse, la sentenza in commento fornisce risposta al primo quesito, precisando che la proposizione di una domanda di concordato in “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., non configura una causa di automatica esclusione dalle procedure di gara e, per l’effetto, essa non appare idonea, in via generale ed astratta, a precluderne la partecipazione.
A suffragio di tale impostazione, si richiama la ratio dell’istituto del concordato “in bianco”, da individuarsi nella esigenza (predicata, come anticipato, anche a livello transnazionale) di fornire all’impresa una maggiore tutela mediante l’anticipazione degli effetti “conservativi”, specie ove il debitore decida poi di accedere al concordato con continuità aziendale. Circostanza rinvenibile anche nella relazione ministeriale all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ove si enfatizza la stretta correlazione esistente tra l’istituto del concordato con riserva e le attività in grado di rafforzare gli obiettivi di prosecuzione della vita aziendale, tra le quali si annovera la partecipazione alle gare per l’aggiudicazione di commesse pubbliche[57].
Inoltre, il Supremo Collegio precisa che la riferita impostazione ermeneutica discende, in particolare, dall’art. 110, co. 4, d.lgs. n. 50/2016 e dall’art. 186 bis, co. 4, l. fall., il quale impone alle imprese che hanno presentato domanda ex art. 161 l. fall. di dotarsi di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare. I Giudici aggiungono, al riguardo, che l’impresa deve richiedere detto provvedimento senza indugio, nel rispetto dei principi della buona fede oggettiva. Del pari, anche la circostanza relativa alla presentazione dell’istanza ex art. 161, co. 6, l. fall., deve essere prontamente comunicata alla Stazione appaltante che, in caso di condotte reticenti, è tenuta ad effettuare una valutazione delle relative conseguenze ai sensi dell’art. 80, co. 5. lett. c - bis, non già della lett. f -bis[58].
Ciò chiarito, la seconda questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria riguarda, invece, la qualificazione della partecipazione di un’impresa alle procedure di gara per l’aggiudicazione degli appalti pubblici in termini di ordinaria ovvero di straordinaria attività.
Si precisa che l’interrogativo non necessiterebbe di ulteriori chiarimenti, tenuto conto del fatto che è in ogni caso richiesto l’intervento dell’autorizzazione giudiziale, di cui all’art. 186-bis, co. 4, l. fall., ciò anche a prescindere dal carattere ordinario o straordinario attribuibile all’attività in questione.
Peraltro, ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie nell’una o nell’altra categoria, i Giudici amministrativi sostengono che occorre valutare gli elementi del caso concreto, non essendo possibile pervenire, in termini astratti, ad una definizione aprioristica.
Il terzo quesito di diritto concerne, invece, l’individuazione del termine entro il quale deve intervenire l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale ai fini della legittima partecipazione alla procedura di evidenza pubblica.
Il Collegio sostiene che non occorre fare riferimento all’autorizzazione ex art. 163, l. fall., per la quale la prassi richiede tempi incompatibili con l’esigenza di celerità nella definizione delle procedure di gara; dovendosi, al contrario, tenere in considerazione l’autorizzazione alla partecipazione alle gare di cui all’art. 186 bis, co. 4, l. fall. Conclusione, quest’ultima, che si ricava direttamente dalla riferita disposizione, tenuto conto che il legislatore qualifica il provvedimento giudiziale de quo come una condizione necessaria e sufficiente per la partecipazione delle imprese alle gare, dovendo intervenire prima dell’adozione da parte della P.A. dell’atto di aggiudicazione, quale momento conclusivo della fase dell’evidenza pubblica[59].
Si evidenzia, inoltre, che la tardiva autorizzazione rappresenta una circostanza valutabile discrezionalmente dalla Stazione appaltante in base alle peculiarità del caso di specie (in termini di efficacia integrativa) sempreché essa intervenga prima della stipula del contratto oggetto dell’affidamento pubblico. Nel caso di specie, quindi, si devolve alla Sezione remittente la valutazione delle conseguenze derivanti dal ritardo nell’acquisizione dell’autorizzazione da parte dell’impresa concorrente.
In via generale, i Giudici amministrativi sanciscono, poi, che nell’ipotesi in cui il tribunale non dovesse ammettere l’impresa istante alla procedura concordataria debbono applicarsi le norme relative ai casi di sopravvenienza del fallimento, ai sensi degli artt. 110 e 48 del Codice dei contratti pubblici.
Infine, viene in rilievo il quesito relativo all’interpretazione dell’art. 48, commi 17, 18 e 19 ter d.lgs. n. 50 del 2016, dovendosi chiarire se debbano essere interpretati nel senso di consentire la sostituzione, nel corso di una gara, di un’impresa mandante coinvolta nella procedura ex art. 161, co. 6, l. fall., con altro operatore estraneo alla procedura competitiva ovvero se, diversamente, occorra procedersi alla estromissione della mandante stessa[60].
Sul punto, il Collegio richiama l’art. 48, co. 19 ter, che estende l’operatività anche alla fase della gara delle modifiche soggettive di cui ai commi 17 e 18, che, invece, consentivano di derogare al principio della immodificabilità della composizione soggettiva di un RTI solo nella fase dell’esecuzione.
Al fine di individuare la portata applicativa di tale deroga, si è richiamata l’interpretazione “funzionale” offerta dalla stessa Adunanza Plenaria (anteriormente all’entrata in vigore del presente codice) in relazione al principio della immodificabilità della composizione soggettiva, consentendosi alle imprese di operare modifiche soggettive solo in riduzione, non anche mediante l’aggiunta di operatori esterni al raggruppamento.
I Giudici procedono poi a rilevare come, nel diritto dell’Unione europea, la stessa attività di “sostituzione” ovvero di aggiunta di nuovi operatori nell’ambito dei raggruppamenti rappresentano delle ipotesi ritenute in grado di ledere i principi di parità di trattamento e di trasparenza, essendo quindi previste solo in fase di esecuzione del contratto e con riferimento a “modifiche strutturali dovute, ad esempio, a riorganizzazioni puramente interne, incorporazioni, fusioni ed acquisizioni oppure insolvenza”[61].
Sulla base di tali rilievi, l’Adunanza Plenaria ha quindi concluso nel senso di ritenere che l’art. 48, specie il comma 19 ter, d.lgs. n. 50 del 2016, debba essere interpretato in modo conforme ai principi dell’Unione europea di parità di trattamento e di concorrenza, dovendosi escludere “la sostituzione esterna per la figura della mandante, come anche logicamente per quella della mandataria”. Di contro, potrebbero ammettersi esclusivamente le modifiche soggettive del RTI “c.d. per sottrazione ovvero per riduzione”.
9. Osservazioni conclusive
Come evidenziato nel corso dei precedenti paragrafi, l’Adunanza Plenaria è intervenuta a dirimere definitivamente il contrasto sorto in relazione agli effetti derivanti dalla presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall., nell’ambito di una procedura di gara[62].
L’opzione ermeneutica propugnata dal Collegio si inserisce in un momento cruciale del diritto fallimentare, collocandosi a ridosso dell’entrata in vigore della riforma del diritto concorsuale italiano, come visto, caratterizzata da una radicale modifica della concezione della figura del “decoctor” nell’impianto codicistico[63].
Già nel corso del dibattito formatosi in occasione dell’adozione della nuova Riforma, sono stati gli stessi studiosi della materia concorsuale a rilevare l’inadeguatezza ed inefficienza della concezione “sanzionatoria” del fallimento, quale strumento finalizzato ad estromettere dal mercato le imprese inefficienti mediante un procedimento liquidatorio inteso in senso darwiniano[64]. All’uopo, si è, infatti, ritenuto preferibile individuare strumenti alternativi, in grado di consentire il superamento della crisi delle imprese nell’ottica della conservazione dei valori aziendali e della prosecuzione dell’attività imprenditoriale, facilitando il cosiddetto fresch start.
Nel solco di tali rilievi e superando le aporie interpretative sorte sull’art. 80, co. 5, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, il Supremo Collegio ha chiarito che la presentazione di una domanda di concordato “in bianco” non debba costituire una causa di automatica esclusione dell’impresa dalle procedure di evidenza pubblica per perdita dei requisiti di partecipazione, in tal modo rievocando quanto propugnato dai sostenitori della tesi cosiddetta “estensiva”. In particolare, ciò si è ricavato dalla circostanza che nemmeno la normativa dell’Unione europea impone un obbligo per gli Stati membri di adottare un criterio di automatica esclusione degli operatori coinvolti nelle procedure concorsuali, al contrario riconoscendo la facoltà di adottare anche soluzioni di minor rigore.
A sostegno delle riferite conclusioni, i Giudici hanno richiamato la formulazione del combinato disposto degli artt. 80, co. 5, lett. b) cit., 110, co. 4, così come modificati dal d.l. n. 32 del 2019, dai quali emerge che le ipotesi di concordato “in bianco” debbono essere disciplinate dall’art. 186 – bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, essendo quindi richiesto l’intervento di una specifica autorizzazione giudiziale ai fini della partecipazione alle gare[65].
Condivisibilmente la pronuncia in esame individua in detto provvedimento lo strumento atto a garantire una equilibrata composizione sia degli interessi alla certezza e celerità nella definizione delle procedure di gara sia della esigenza dell’imprenditore di continuare, ove possibile, l’attività aziendale con l’aggiudicazione di commesse pubbliche. Altresì, viene precisato come detta autorizzazione debba intervenire in un momento anteriore all’emanazione del provvedimento di aggiudicazione, senza che risulti necessaria, in questa fase, l’ammissione alla continuità aziendale. Sembrerebbe, inoltre, potersi desumere che il termine previsto per l’intervento dell’autorizzazione ex art. 186 – bis, co. 4, l. fall., non abbia una portata inderogabile ed assoluta, essendo riconosciuto, nel singolo caso concreto, un margine di discrezionalità in capo alla P.A. quanto all’eventuale efficacia integrativa o sanante da attribuire all’autorizzazione tardivamente intercorsa.
Di talché, gli approdi cui è giunta l’Adunanza Plenaria, con ben tre pronunce rese nella medesima data sul tema delle procedure concorsuali[66], sembra prefigurare l’avvio di un modello di indagine interpretativo orientato verso una concezione dinamica dei criteri di solvibilità delle imprese. Ciò prima facie testimonia come il giudice nazionale, valorizzando il principio del favor partecipationis alla luce degli interventi normativi più recenti, abbia attinto da fonti ispirate a tecniche di controllo e garanzia delle procedure di evidenza pubblica che non si traducano in automatismi preclusivi alla partecipazione degli operatori economici.
[1] Per approfondimenti in tema di cause di esclusione, cfr. R. Greco, L’evoluzione normativa delle “cause di esclusione”, in Trattato sui contratti pubblici, vol. II, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, 2019, 756 ss.
[2] Cfr. anche Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 10; nonché, nella medesima data, Ad. Plen. n. 11.
[3] A fronte dei quattro profili di censure dedotti dalla società ricorrente, il Tar Emilia Romagna, Bologna, con sentenza n. 76/2020, riteneva fondati i primi due motivi ed assorbiva i restanti.
[4] Cfr. A. Petteruti, Presupposti per l’ammissione alla procedura, in Il nuovo concordato preventivo, a cura di A. Caiafa, A. Salvi, Pisa, 2016, 17 ss.
[5] Accanto all’istituto del fallimento, e con l’intento di ridurne laddove possibile l’applicazione, la legge del 1942 inseriva anche ulteriori procedure: la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione controllata ed il concordato preventivo.
[6] Per i profili storici, cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017, 37 ss.; N. Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commercialità”, Milano, 2012, 9 ss,; G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013, 27 ss.; U. Santarelli, per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1965; C. Pecorella, U. Gualazzini, VOCE Fallimento (storia), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 220 ss.; G.B. Portale, Dalla pietra del vituperio alle nuove concezioni del fallimento, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Marzio, P. Macario, Milano, 2010, 3 ss.
[7] Cfr., R. Rossi, Insolvenza, crisi d’impresa e risanamento. Caratteri sistematici e funzionali del presupposto oggettivo dell’amministrazione straordinaria, Milano, 2003, 34 ss.; A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, Vol. 21, fasc. 3, 512 ss.
[8] Cfr., A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2021, 27 ss.
[9] Cfr., F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 38 ss.
[10] In particolare, ci si riferisce alla introduzione di talune modifiche alla disciplina dell’amministrazione controllata, la cui durata veniva estesa; nonché alla previsione di una nuova procedura concorsuale, denominata amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito dalla l. 3 aprile 1979, n. 95 e successive modifiche).
[11] Cfr., G. Ferri, L’impresa, oggi, in Mass. Giur. lav., 1978, 428 ss.; C. Angelici, Diritto commerciale, I, Bari, 2009, 11 ss.; F. Corsi, Crisi, insolvenza, reversibilità, temporanea difficoltà, risanamento: un nodo irrisolto?, in Fallimento, 2000, 948 ss.; S. Pacchi Pesucci, Dalla meritevolezza dell’imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale, Milano, 1989, 40, 202 ss.; V. Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, Napoli, 2006, 52, 257; T. Ascarelli, Il dialogo dell’impresa e della società nella dottrina italiana dopo la nuova codificazione, in Riv. soc., 1959, 409 ss.; F. Galgano, Le teorie dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, II, Padova, 1978, 1 ss.
[12] Cfr., F. D’Alessandro, la crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, 329 ss.; G.B. Portale, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive (con postille sulla disciplina della società di capitali), in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, 368 ss.; A. Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur. comm., 1980, I, 559 ss.; L. Farenga, La riforma del diritto fallimentare in Italia: una nuova visione del mercato, in Riv. dir. comm., 2008, I, 251 SS.; M. Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio, F. Macario, Milano, 2010, 359 ss.
[13] Con tale intervento, quindi, emerge uno spostamento dell’angolo prospettico dalla figura personale dell’imprenditore a quella dell’impresa, come valore meritevole di tutela nell’ottica del miglioramento del comparto economico di riferimento e, quindi, della concorrenza del mercato inteso in senso più ampio.
[14] Per approfondimenti sul tema, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 388 ss.
[15] Tale disposizione, in particolare, prevede che il debitore deve dare atto, nel piano concordatario, della prosecuzione dell’attività di impresa ovvero, in alternativa, deve prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda.
[16] In tema, taluni autori osservano come tale obiettivo risulti valorizzato mediante una disciplina incentivante, ai sensi degli artt. 182 – quinquies e 186 – bis l. fall., nonché dalla previsione di cui all’art. 182 – sexies l. fall., ove si prevede la disapplicazione degli artt. 2446, co. 2 e 3, 2447, 2482 – bis, co. 4, 5, 6, 2482 – ter, 2484, n. 4) e 2545 – duodecies, c.c., sulla riduzione o perdita del capitale. In tema, vedasi, in particolare: F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., 49; C. Cavallini, Dalla crisi alla conservazione dell’impresa nelle ultime riforme fallimentari: uno sguardo d’insieme tra novità della legge e statuizioni della Suprema Corte, in Riv. soc., 2013, 762 ss.; C. Cincotti, F. Nieddu Arrica, La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, I, 1238 ss.; S. Ambrosini, I finanziamenti bancari alle imprese in crisi dopo la riforma del 2012, in Dir. fall., 2012, I, 469 ss.
[17] Significative, al riguardo, le modifiche all’art. 161, co. 6, l. fall., ove è prevista l’indicazione dell’elenco nominativo dei creditori e dei relativi crediti nella proposta presentata dal debitore; nonché all’art. 161, co. 7, l. fall., in tema di parere del commissario sugli atti urgenti di straordinaria amministrazione.
[18] Per approfondimenti, cfr. P. Montalenti, Il diritto concorsuale tra passato e futuro, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2018, 11 ss.; S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Tratt. dir. comm., diretto da G. Cottino, Padova, 2008; V. Calandra Buonaura, Concordato preventivo, in Enc. dir. – Annali, vol. II, tomo II, Milano, 2008; A. Jorio, La parabola del concordato preventivo: dieci anni di riforme e controriforme, in Giur. comm., 2016, I, 15 ss.; D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, II, 331ss.; S. Fortunato, Il commissario giudiziale nel concordato con riserva, in Giur. comm., 2015, I, 995 ss.; P.F. Censoni, Gli effetti sostanziali del concordato preventivo dopo la riforma del diritto fallimentare, in Giur. comm., vol. 33, fasc. 5, 2006, I, 765 ss.; G. Fauceglia, Disciplina concorsuale e art. 110 Codice degli appalti pubblici, in Dir. fall., 2017, I, 463 ss.
[19] Per approfondimenti sugli interessi che vengono in rilievo, cfr. V. Finch, The Measures of Insolvency Law, in 17 Oxford J. Leg. St., 1997, 227 ss.; R. Goode, Principles of Corporate Insolvency Law, IV ed., London, 2011, 75 ss.; E. Warren, J.L. Westbrook, Contracting Out of Bankruptcy: An Empirical Intervention, in 118 Harv. L. Rev., 2005, 1197 ss.
[20] Cfr., ex plurimis, G.G. Triantis, Theory of the Regulation of Debtor-in-Possession Financing, in 46 Vand. L. Rev., 1993. Nella letteratura italiana, cfr. F. Accettella, I finanziamenti alle imprese in regime di (pre)concordato dopo la legge n. 132/2015, in Dir. fall., 2016, I, 50 ss.
[21] Quanto alla evoluzione normativa in Francia, vengono in rilievo, in particolare, la l. n. 85-98 del 25 gennaio 1985, sulle procedure di redressement e liquidation judiciaires des entreprises; la l. n. 84-148 del 1 marzo 1984, sulle procedure di alert e prevenzione dell’insolvenza; la l. n. 2005-845 del 26 luglio 2005; il décret del 28 dicembre 2005; nonché le modifiche apportate dalla ordonnance n. 2008-1345, dalla l. n. 2012-346 del 12 marzo 2012 e dalla l. n. 2015-990 del 6 agosto 2015.
[22] In tema, cfr. C. Sant-Alary-Houin, Droit des entreprises en difficulté, 10 ed., Issy-lesMoulineaux Cedex, 2016, 15 ss.; F. Pérochon, R. Bonhomme, Entreprises en difficulté. Instruments de crédit et de paiement, 8 ed., Paris, 2009, 1 ss., A. Jorio, Legislazione francese, Raccomandazione della Commissione europea, e alcune riflessioni sul diritto interno, in Fallimento, 2015, 1070 ss.; L. Panzani, L’insolvenza in Europa: sguardo d’insieme, in Fallimento, 2015, 1013 ss.; M.-J. Campana, La prevenzione della crisi delle imprese. L’esperienza francese, in La legislazione concorsuale in Europa. Esperienze a confronto, a cura di S. Bonfatti, G. Falcone, Milano, 2004, 233 ss.
[23] Cfr. W. Uhlenbruck, Vom Konkurs zum ESUG – Betriebsfortführung als Sanierungsentscheidung, in Betriebsfortührung in Restrukturierung und Insolvenz, Hrsg. Mönning, 3. Aufl., Köln, 2016, 3 ss., 9 ss. Rn. 9 ss., 24 Rn. 46; S. Eickes, Zum Grundsatz des Unternehmensfortführung in der Insolvenz, Wiesbaden, 2014, 1 ss., 62; H. EidenmÜller, Die Restrukturierungsempfehlung der EU-Kommission und das deutsche Restrukturierungsrecht, in KTS, 2014, 401 ss., 416 ss. Nella letteratura italiana, vedasi, tra gli altri, L. Guglielmucci, La legge tedesca sull’insolvenza (Insolvenzordnung) del 5 ottobre 1994, Milano, 2000.
[24] Per approfondimenti sul punto, cfr. K. Schmidt, in Die GmbH in Krise, Sanierung und Insolvenz, Hrsg. K. Schmidt, W. Uhlenbruck, 4. Aufl., Köln, 2009, 421 Rn. 5.32, 427 s. Rn. 5.41.
[25] Cfr. F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Saggi di diritto commerciale, Milano, 2017, 36 ss.; A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 36 ss.
[26] Per approfondimenti, cfr. R. Greco, Requisiti di ordine generale, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 756 ss.; S.S. Scoca, Contratti pubblici: l’effettività della tutela tra formalismo e sostanzialismo, un Giur. it., 2015, n. 3, 699 ss.; F. Pignatiello, Le novità in tema di cause di esclusione, in Il correttivo al codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d.lgs. 19 aprile 2017 n. 56, a cura di M.A. Sandulli, M. Lipari e F. Cardarelli, Milano, 2017, 2017 ss.; D. Villa, La selezione degli offerenti, in Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, diretto da F. Caringella, P. Mantini e M. Giustiniani, Roma, 2016, 273 ss.; C.E. Gallo, Le prescrizioni a pena di esclusione alla luce dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici, in Foro amm.-Cds, 2011, n. 12, 3733 ss.; S. Foà, Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, inUrb. App., 2014, n. 11, 1147; V. Capuzza, I requisiti di ordine generale (Commento all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006), in Codice commentato degli appalti pubblici, a cura di A. Cancrini, C. Franchini e S. Vinti, Torino, 2014, 236; G. PESCE, Requisiti di partecipazione, accesso alle gare pubbliche e riflessi sulla tutela della concorrenza tra le imprese (artt. 34 – 52), in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di M. Clarich, Torino, 2010, 300 ss.
[27] Tra gli interventi più significativi si possono citare il d.l. n. 70 del 2011, nonché il d.l. 24 giugno del 2014, n. 90, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 114.
[28] Si evidenzia che il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore della nuova formulazione della disposizione dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022. Conseguentemente, il nuovo testo dell’art. 80, co. 5, lett. b), reciterà: “l’operatore economico sia stato sottoposto a liquidazione giudiziale o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto dall’art. 95 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155 e dall’art. 110”.
[29] Cfr. V. Di Iorio, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Milano, 2019, 823 ss.
[30] In dottrina, per approfondimenti, v. F. Aperio Bella, Requisiti di ordine generale, in Manuale di diritto amministrativo, IV, I contratti pubblici, a cura di F. Caringella e M. Giustiniani, Roma, 2014, par. 2 (Fallimento e procedure concorsuali), 507 ss.; G. Bergonzini, I requisiti di partecipazione agli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di R. Villata, M. Bertolissi, V. Domenichelli e G. Sala, Padova, 2014, 310; S. Ambrosini, La sorte dei contratti in corso di esecuzione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, a cura di F. Vassalli, F.P. Luiso e E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, 2014, 123 ss.
[31] Ai sensi del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147), ha previsto, con l’art. 389, co. 1, la proroga dell’entrata in vigore dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 del nuovo testo dell’art. 110, co. 4, Codice dei Contratti pubblici, che avrà il seguente tenore: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 40 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza adottato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, si applica l’art. 95 del medesimo codice. Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[32] In tema, cfr. R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, n. 4.
[33] Cfr., V. DI IORIO, Requisiti generali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, Milano, 2019, 829 ss.
[34] Per alcune osservazioni critiche circa la parziale attuazione della “logica unificatrice” che connotata la riforma, cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 65 ss.
[35] Cfr. V. Calandra Buonaura, Il nuovo concordato preventivo, in La riforma delle procedure concorsuali, in ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2021, 171 ss., ove è evidenziato come l’innovato impianto normativo risulti finalizzato a valorizzare “l’oggettiva conservazione dell’efficienza dell’organismo produttivo a prescindere dal mantenimento della gestione e della titolarità dell’azienda in capo al debitore”.
[36] Cfr. A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2021, 404.
[37] L’art. 44, co. 1, lett. a), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, prevede un termine compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, fino a ulteriori sessanta giorni.
[38] Come anticipato nel precedente paragrafo, le nuove formulazioni di tali norme entreranno in vigore a partire dal 16 maggio 2022, non già dal 1 settembre 2021, per effetto della proroga introdotta dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (con l’art. 389, co. 1), come modificato dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147.
[39] Tale disposizione prevede, al secondo periodo, che: “Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’art. 47 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”.
[40] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984; Tar Piemonte, Torino, Sez. II, 7 marzo 2019, n. 260; Tar Lazio, Roma, sez. II – ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[41] I sostenitori della tesi restrittiva richiamano anche i rilievi effettuati dalla Corte di Giustizia sull’interpretazione dell’art. 45, par. 2, c. 1, lett. b), Direttiva 2004/18/CE.
[42] Tale orientamento richiedeva, in particolare, la intervenuta ammissione giudiziale alla procedura del concordato con continuità aziendale, non ritenendo sufficiente la semplice proposizione della domanda da parte dell’operatore economico.
[43] Ai sensi dell’art. 110, co. 4, primo periodo, è sancito che: “Alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’art. 161, anche ai sensi del sesto comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, si applica l’art. 186 – bis del predetto regio decreto.
[44] Cfr., ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. II ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[45] Per approfondimenti giurisprudenziali sulla tesi estensiva, cfr., ex multis, Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328; Cons. St., Sez. III, 20 marzo 2018, n. 1772; Tar Lazio, Sez. III quater, 19 settembre 2019, n. 11143; Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 30 dicembre 2015, n. 2877; Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 426, in dejure.it.
[46] Ci si riferisce, in particolare, alla formulazione dell’art. 80, co. 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 32 del 2019, che ha espunto il previgente riferimento all’ipotesi del “concordato con continuità aziendale.
[47] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 835 ss.
[48] Per approfondimenti sulla tesi estensiva, cfr. S. Francario, Autorizzazione alla continuità aziendale sopravvenuta in corso di gara, in l’Amministrativista.it, 26 febbraio 2021.
[49] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 2963.
[50] Cfr. Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328.
[51] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 11.
[52] Cfr., tra gli altri, l’art. 15 della l. 57/1962.
[53] Cfr., tra le altre, Direttiva 71/305/CEE del Consiglio del 26 luglio 1971, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici; nonché, più di recente, la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento e del Consiglio del 26 febbraio 2014, che abroga la direttiva 2004/18/CE.
[54] Laddove la preclusione debba riferirsi sia alle imprese coinvolte nella procedura di concordato in bianco sia a quelle in attesa dell’ammissione al concordato preventivo ex art. 161, l. fall.
[55] Cfr. Determinazione Anac n. 5 del 8 aprile 2015, ai sensi della quale l’utilizzo, da parte del legislatore, della forma ipotetica “se nominato” nell’art. 186 – bis, co. 4, l. fall., risulterebbe esemplificativo della riferibilità della norma anche alle ipotesi del concordato c.d. in bianco, giacché il concordato preventivo ordinario richiede necessariamente la nomina del commissario giudiziale.
[56] Cfr. Cass., Sez. I, n. 14713/2019; Cass., Sez. I, n. 7117/2020.
[57] La relazione illustrativa all’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sottolinea l’importanza di adottare un criterio interpretativo del concordato in bianco che si ponga in linea con la ratio dell’istituto, consentendo la partecipazione alle procedure di affidamento alle imprese istanti. In tal senso, si è precisato che:“ Lo scopo è quello di evitare che paradossalmente, tale domanda, da strumento di tutela per l’imprenditore, diventa un ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale”.
[58] Cfr. Ad. Plen., n. 16/2020.
[59] In tal senso, cfr. Cons. St., sez. V, n. 1328 del 2020; Delibera Anac n. 362 del 2020.
[60] Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 27 maggio 2021, n. 10.
[61] Cfr. Art. 72, Considerando n. 110, Direttiva n. 24/2014/UE.
[62] Per approfondimenti, cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, Milano, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), 834 ss.
[63] Per quel che interessa ai fini della presente trattazione, occorre dare atto di quanto sancito dal D.Lgs. n. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 24 agosto, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147, ove all’art. 389, co. 1, ha recentemente previsto la proroga dal 1 settembre 2021 al 16 maggio 2022 dell’entrata in vigore delle norme contenute nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, specie con riferimento a quelle che incidono sulla portata applicativa degli artt. 48; 80, co. 5, lett. b); 110 D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
[64] Cfr. R. Rordordf, Le linee della riforma, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, Atti del convegno, Courmayeur, 23-24 settembre 2016, a cura di P. Montalenti, Quaderni di giurisprudenza commerciale, Giuffrè, Milano, 2018, 177 ss.
[65] Quanto alle modifiche del D.lgs. n. 50/2016, cfr. le modifiche apportate dall’art. 372, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
[66] Cfr. Ad. Plen. nn. 9, 10 e 11 del 27 maggio 2021.
Dilemmi vecchi e nuovi dell’espropriazione presso terzi, in cui sia parte un’amministrazione pubblica
di Pasquale Pucciariello*
Sommario: 1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione - 2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali - 3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo.
1. La novellata competenza per le espropriazioni presso terzi, in cui sia debitore una pubblica amministrazione
Con l’art. 1, comma 29 della legge 26 novembre 2021, n. 206 (recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”), il legislatore ha novellato l’art. 26-bis, comma 1, del codice di procedura civile prevedendo che le parole: «il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede» siano sostituite dalle seguenti: «il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
L’articolo 26-bis del c.p.c. – introdotto dall’art. 19, comma 1, lett. b), D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 – originariamente prevedeva che, «salvo quanto disposto dalle leggi speciali», fosse il luogo della residenza del terzo debitore (o domicilio, o dimora o sede) a determinare la competenza per l’espropriazione forzata di crediti “pubblici”[1]. Non è fuor di luogo ricordare che la dizione originaria dell’articolo 26-bis corrispondeva al criterio di competenza vigente per tutte le espropriazioni presso terzi, a mente dell’articolo 26 c.p.c. nel testo anteriore alla novella del 2014. A mente invece del secondo comma dell’art. 26-bis, la regola ordinaria per crediti non statali individua il criterio di collegamento nel luogo in cui il debitore ha la residenza (o domicilio, dimora o sede).
Un primo tema da indagare è quello della tenuta del coordinamento tra disposizioni.
L’articolo 26-bis c.p.c. si apriva (e si apre ancora) nel seguente modo: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’articolo 413, quinto comma”. Se i numeri ordinali non hanno subito una modifica legislativa (a noi ignota), il quinto comma dell’articolo 413 c.p.c. è quello che recita “Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto”. Dunque un rinvio a una norma che prescrive un altro criterio di competenza per crediti di lavoro[2] e che, lungi dall’individuare specifiche pubbliche amministrazioni, è talmente generico da rendere il rinvio stesso del tutto tautologico: esso letteralmente non può che riferirsi all’art. 1, comma 2 del d.lgs. 165/2001[3]. La Corte di Cassazione, dal suo canto, sembra aver avvalorato tale interpretazione con l’ordinanza 8172 del 4 aprile 2018, che è particolarmente importante in quanto ha altresì affermato che la salvezza delle leggi speciali, richiamata dall’articolo 26-bis c.p.c., deve intendersi riferita anche all’art. 1 bis della l. n. 720 del 1984 “nel senso che con esso si sia voluto far riferimento a detta previsione, sia in quanto individuatrice nel cassiere o tesoriere del soggetto (“debitor debitoris”) che deve pagare per conto delle P.A., cui detta norma si applica, sia in quanto individuatrice del luogo del pagamento in quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra P.A. ed il cassiere o tesoriere; sicché tale luogo si deve considerare in via esclusiva come il foro dell’espropriazione presso terzi di crediti a carico di tali pubbliche amministrazioni, restando esclusa, per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede.”. Dunque, nei fatti, la Corte di Cassazione con detta ordinanza ha individuato per le amministrazioni di cui alla suddetta legge (che non concerne il servizio di tesoreria svolto per conto dello Stato), un criterio di competenza strettamente legato alla competenza territoriale che discenda dal luogo di quello di espletamento del servizio secondo gli accordi fra la P.A. e il cassiere o tesoriere. Dal momento che regole non dissimili sul luogo del pagamento sussistono anche per le amministrazioni dello Stato il cui servizio di tesoreria è svolto istituzionalmente dalla Banca d’Italia, appare gioco forza che il medesimo principio non possa non trovare applicazione ai pagamenti a valere sul bilancio dello Stato[4].
La previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 26-bis nel testo anteriore alla novella del 2021, come interpretato dalla Suprema Corte, infatti, fa chiaramente il paio con le regole disciplinanti la competenza amministrativa per i pagamenti effettuati dalle tesorerie dello Stato, di cui al D.M. 29.5.2007, che disegna il sistema di Tesoreria attraverso l’articolazione di Tesorerie provinciali (art. 4), le quali hanno il compito tra l’altro della “e) effettuazione, sulla base dei titoli di spesa pervenuti dagli uffici competenti, dei pagamenti a carico del bilancio dello Stato” nonché di “o) ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato”.
Le regole relative al luogo dell’adempimento, infatti, laddove debitrice sia l’amministrazione dello Stato sono il frutto di una combinazione di disposizioni: in primis, l’art. 54 del r.d. 2440/1923, il quale dispone che “Il pagamento delle spese dello Stato si effettua, secondo le disposizioni di cui ai successivi articoli: a) con assegni a favore dei creditori, tratti sull’istituto bancario incaricato del servizio di tesoreria;”; poi sulla base dell’art. 278, co. 1 lett. d) del r.d. 827/1924, il quale dispone che il pagamento delle spese iscritte in bilancio viene ordinato “mediante ordinativi sulle tesorerie dello Stato”. Il luogo dell’adempimento è dunque quello della tesoreria della circoscrizione in cui è compresa la residenza del creditore e questo è già sufficiente, giusta la clausola di salvezza delle leggi speciali contenuta nell’articolo 26-bis, a costituire criterio di collegamento che determina la competenza giurisdizionale nel Tribunale del luogo ove ha sede la tesoreria competente (che è poi quella competente in relazione alla residenza del creditore).
Sennonché l’accentramento con funzioni di controllo della spesa pubblica del servizio di tesoreria dello Stato[5] e, contestualmente, l’intento di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione, sotto l’apparente veste di un innocuo recepimento dei risultati interpretativi della Corte di Cassazione, in realtà finisce per scardinare i punti fermi che sembravano essere raggiunti.
Infatti, per un verso il riferimento al Tribunale del distretto di Corte di appello ove ha la sede l’Avvocatura dello Stato fa sorgere il dubbio che il criterio di competenza sia da riferirsi alle sole esecuzioni contro amministrazioni dello Stato: il dubbio si giustifica con il fatto che, diversamente opinando, apparirebbe ben poco razionale che il Tribunale competente per l’esecuzione contro un’amministrazione che non si avvale del patrocinio erariale venga individuato con riferimento alla sede dell’Avvocatura dello Stato[6]; per altro verso, in ogni caso viene meno – almeno per le espropriazioni presso terzi – il disegno originario del legislatore (descritto sin dall’art. 7 del r.d. 1611/1933) in cui si prevedeva che le cause di esecuzione forzata non fossero assoggettate al c.d. foro erariale, cioè quel foro individuato in base al distretto di Corte d’appello, sede di Avvocatura, cui apparteneva il Tribunale competente per la causa secondo le regole ordinarie (art. 25 c.p.c.).
Ma anche a voler ritenere che la disposizione sia rivolta solo alle amministrazioni dello Stato, ci si avvede che lo scopo di concentrazione e semplificazione è più apparente che reale. Infatti, mentre il sistema originario dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. prevedeva quale criterio di competenza per i debiti pubblici la residenza del terzo e quindi sembrava semplificare gli oneri incombenti su quest’ultimo (che non doveva essere gravato, non essendo egli parte del processo), con il nuovo testo dell’art. 26-bis il fatto che l’amministrazione sia debitrice diventa – bensì – criterio di collegamento di una specifica regola attributiva di competenza, ma, senza una ragionevole spiegazione, le esigenze di concentrazione che stanno alla base della regola del foro erariale cessano di avere rilievo allorché l’amministrazione sia soltanto terza. Pare quindi che il debitore esecutato sia trattato con maggior favore del debitor debitoris, pur essendo quest’ultimo estraneo alla lite: quando il terzo è un’amministrazione si applica il secondo comma dell’art. 26-bis c.p.c. che individua il criterio di collegamento nella residenza del debitore.
Inoltre, se si adotta un’interpretazione “ibrida” che faccia salvo il riferimento all’art. 413, comma 5, c.p.c. (inteso come riferito a tutte le amministrazioni pubbliche) allora tale foro erariale esecutivo troverebbe applicazione anche per amministrazioni, difese dall’Avvocatura dello Stato, ma in forza del c.d. regime dell’autorizzazione di cui all’art. 43 del r.d. 1611/1933[7], cui – notoriamente – non si applicano tutta una serie di disposizioni (tra cui il foro erariale per le cause di cognizione) proprie del c.d. patrocinio organico[8]. Con l’ulteriore paradosso per cui tale foro si applica in sede esecutiva, ma non in sede di cognizione.
La disciplina quindi sembra abbastanza confusa e il sistema che ne è venuto fuori è tutt’altro che chiaro: anzi palesa non pochi elementi di stridore con il fondamento costituzionale dei criteri di competenza, i quali dovrebbero essere espressione di un giudice “naturale” ai sensi dell’art. 25 Cost. Il tutto condito dalla costruzione di un doppio regime della individuazione del giudice competente per le esecuzioni nei confronti delle Amministrazioni dello Stato: quello delle esecuzioni mobiliari e immobiliari – che seguono le regole ordinarie di competenza (e dunque l’art. 26 c.p.c.) – e quello dell’espropriazione presso terzi (ma solo se la P.A. è debitrice e non anche se è terza), che segue le regole dell’art. 26-bis, comma 1, ossia la residenza del creditore.
2. Dichiarazione di quantità e competenza delle tesorerie provinciali
Il criterio di competenza individuato sul domicilio del creditore, peraltro, crea non pochi problemi in relazione all’operatività del riparto di competenze interno al servizio di tesoreria svolto dalla Banca d’Italia.
La portata del problema si coglie se si pone attenzione alle modalità di funzionamento del servizio di tesoreria. Per quanto riguarda il servizio di tesoreria dello Stato, affidato alla Banca d’Italia che lo esercita tramite la Tesoreria centrale e le Tesorerie provinciali ai sensi della legge di affidamento n. 104/91 e delle relative convenzioni stipulate con il Ministero dell’economia e delle finanze, il d.m. 29 maggio 2007, emesso dal Ministero dell’economia e delle finanze, nella versione attualmente vigente prevede che: a) spetta alla tesoreria provinciale il “ricevimento degli atti intesi a sospendere o ad impedire il pagamento di somme dovute dallo Stato e trasmissione di tali atti, a seconda dei casi, in originale o in copia, all'Avvocatura dello Stato o alle amministrazioni interessate;” (art. 4, co. 1, lett. p); b) che (art. 167, comma 1) “Ciascuna Tesoreria rende la dichiarazione di quantità con le modalità previste dal Codice di procedura civile esclusivamente con riguardo ai conti accesi presso la stessa, ai titoli di spesa e ai cespiti giacenti presso la medesima; c) (art. 167, co. 2) “La dichiarazione di terzo deve contenere tutte le indicazioni prescritte dall'articolo 547 del Codice di procedura civile, nonché l'esatta descrizione dei titoli di spesa o disponibilità di tesoreria colpite (specie, data, numero, creditore, importo, bilancio di esercizio, capitolo). Deve altresì specificare i pignoramenti ed i sequestri precedentemente eseguiti presso la medesima Tesoreria in danno del medesimo soggetto debitore”.
Allorché l’amministrazione sia debitrice esecutata, l’art. 165, co. 4, delle IST prevede che la Tesoreria vincola le eventuali disponibilità del debitore esecutato nella misura stabilita dalla legge e rende la conseguente dichiarazione di terzo. Ove non esistano ovvero siano insufficienti le disponibilità dell'Amministrazione centrale esecutata, la Tesoreria vincola le disponibilità eventualmente esistenti delle Amministrazioni periferiche da essa dipendenti. La regola di cui al sopra richiamato articolo 167, tuttavia, viene intesa come espressione del principio, costantemente applicato, in base al quale un pignoramento notificato a una Tesoreria non è ritenuto idoneo a far sorgere un obbligo di accantonamento in capo al restante sistema. Questa regola determina un primo rilevantissimo problema di conflitto tra principi: infatti, se lo Stato è persona giuridica unitaria, sia pur a “legittimazioni frazionate”, l’obbligo di pagamento del suo tesoriere (la Banca d’Italia, soggetto non meno unitario), sia che la PA sia debitrice o soltanto terza pignorata, viene frazionato in base alla disponibilità di tesoreria.
Il che – oltre ad apparire una regola decisamente anacronistica se si tiene conto delle potenzialità che la digitalizzazione delle operazioni contabili potrebbe apportare in termini di certezza e velocità – porta a interrogarsi su almeno due aspetti. Anzitutto, sulle conseguenze in tema di effetti sostanziali del pignoramento. Infatti, costituisce regola consolidata quella per cui l’obbligo di custodia da parte del terzo sorge con la notificazione del pignoramento e che gli atti di pagamento o dispositivi effettuati dopo del credito sono inefficaci a far data dalla notificazione dell’atto di pignoramento[9]. Ne consegue uno scollamento tra la realtà delle disponibilità complessive dell’amministrazione pignorata (direttamente dipendenti dalle disponibilità discendenti dal bilancio dello Stato), e le disponibilità di cassa della singola tesoreria che risiede nel luogo dove ha sede il Tribunale competente. Il problema che si manifesta inevitabilmente è dato dalla possibilità di insorgenza di pagamenti successivi, inopponibili al creditore procedente. Se, infatti, l’Amministrazione è debitrice esecutata, è chiaro che il criterio di competenza costituito dalla residenza del creditore (che radica anche la competenza della tesoreria per il pagamento) finisce per far operare il limite alla dichiarazione di quantità di cui al menzionato art. 167 IST, rendendo non peregrina l’eventualità che vi sia anche solo un pignoramento presso un altro tribunale, nei confronti della medesima amministrazione e afferente lo stesso capitolo di bilancio, che si conclude più rapidamente del precedente con un’ordinanza di assegnazione delle somme iscritte. Sotto altro profilo, la disposizione dell’articolo 26-bis impedisce di inseguire tutte le disponibilità sulle tesorerie dislocate sul territorio nazionale, dal momento che il criterio di competenza non è più la sede del terzo, ma il domicilio del creditore.
Dunque, mentre l’art. 167 IST è stato scritto allorché la competenza per il pignoramento presso terzi era data dal luogo di residenza del terzo, l’azione combinata della giurisprudenza e del legislatore che hanno spinto per l’individuazione del criterio del domicilio del creditore legato alla sezione di tesoreria (sfociata nella novella all’art. 26-bis), hanno finito per vincolare le possibilità di soddisfacimento del credito alle disponibilità non del bilancio dello Stato (e dunque del debitore esecutato) ma alle disponibilità della singola tesoreria. Con buona pace della disposizione dell’art. 2740 c.c., il quale prevede che la responsabilità è dell’intero patrimonio del debitore e non della “dotazione” della tesoreria che gestisce il singolo rapporto di credito.
Ulteriore aspetto che contribuisce a tratteggiare più vistosamente lo “gnommero” è costituito dalle vicende circolatorie del credito[10]. La cessione del credito, infatti, determina un mutamento soggettivo del rapporto, facendo sicuramente venir meno l’originario collegamento rispetto al quale si era determinata la tesoreria competente per il pagamento e quindi il luogo dell’adempimento.
Sembra legittimo chiedersi se il carattere esclusivo della competenza territoriale ex art. 26-bis possa determinare l’applicazione del foro legato alla tesoreria provinciale che ha preso in carico il rapporto originario. In linea generale, la giurisprudenza che si è occupata dei riflessi della cessione del credito sulla competenza territoriale ha affermato che la clausola attributiva della competenza territoriale esclusiva è opponibile dal debitore ceduto al cessionario del credito nascente dal contratto in cui detta clausola sia inserita, alla stregua di ogni altra eccezione opponibile all'originario creditore; essa pertanto prevarrebbe sul criterio di radicamento territoriale riferito al domicilio del cessionario quale luogo di adempimento dell'obbligazione pecuniaria[11]. Tuttavia, sul punto dovrebbe tenersi conto altresì di quanto previsto dall’articolo 1182, comma 3 del codice civile a mente del quale le obbligazioni liquide ed esigibili devono adempiersi al domicilio che ha il creditore alla scadenza[12], a meno di non ritenere che ci si trovi di fronte ad una competenza speciale stabilita dalla legge con conseguente applicazione del principio di diritto per cui il credito ceduto si trasferisce con tutte le sue caratteristiche, ivi compresa l'eventuale competenza speciale stabilita dalla legge per le controversie che lo abbiano ad oggetto (fattispecie decisa da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 1118 del 26/01/2012, concernente controversie in materia di lavoro, e seguita di recente da Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15229 del 01/06/2021).
3. Estinzione del vincolo di pignoramento a seguito di mancata iscrizione a ruolo
L’articolo 1, comma 32 della legge 26 novembre 2021, n. 206 ha altresì previsto che “il creditore, entro la data dell'udienza di comparizione indicata nell'atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l'avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l'avviso notificato nel fascicolo dell'esecuzione. La mancata notifica dell'avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell'esecuzione determina l'inefficacia del pignoramento.
Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l'inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l'avviso. In ogni caso, ove la notifica dell'avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell'udienza indicata nell'atto di pignoramento”.
Il tutto al dichiarato fine di completare il disposto dell’art. 164-ter disp. att. c.p.c.[13] introducendo la sanzione del mancato adempimento dell’onere di iscrizione a ruolo e dunque altresì al fine di agevolare il terzo nello svincolarsi dall’obbligo di non disporre delle cose o delle somme di cui è debitore.
Tra i problemi che l’introduzione dell’onere di iscrizione a ruolo aveva suscitato si segnalava[14] il paradosso della necessità che il debitore esecutato il quale voglia proporre opposizione all’esecuzione debba prima curare l’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva (ai sensi dell’art. 159-ter disp. att. c.p.c., rimasto invariato), iscrizione che – comunque – resta soggetta all’ulteriore attività di integrazione documentale di cui è onerato il creditore procedente (art. 159-ter, disp. att. c.p.c., ultimo periodo), a pena di inefficacia. La conseguenza, come è stato da più parti rilevato, è che l’iscrizione a ruolo effettuata dal debitore per poter proporre opposizione ex art. 615, secondo comma, c.p.c., conduca alla pendenza di un’opposizione a un’esecuzione che, a sua volta, potrebbe comunque non esistere in quanto il creditore non completa la fattispecie di cui all’art. 159-ter disp. att. c.p.c.).
La disposizione introdotta dall’art. 1, comma 32 non si è curata di provare a razionalizzare il farraginoso meccanismo. E anzi, non si è nemmeno preoccupata di chiarire come operi la suddetta inefficacia: nulla viene detto sull’automatismo della stessa o sulla necessità di un provvedimento del giudice. Il tutto con buona pace delle intenzioni semplificatorie e di liberazione di debitore e terzo dagli obblighi discendenti dal pignoramento.
*Avvocato dello Stato.
[1] Il nuovo testo dell’articolo 26-bis c.p.c. così dispone: “Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall'articolo 413, quinto comma, per l'espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”.
[2] Facendo così sorgere il dubbio in qualcuno che si trattasse di un rinvio diretto a disciplinare la competenza per le esecuzioni aventi ad oggetto i crediti di lavoro: v. Passannante, in Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2018, sub art. 26-bis. L’opinione più diffusa pare, invece, nel senso che l’art. 26-bis intendesse riferirsi a tutte le ipotesi in cui sia debitrice esecutata una p.a., indipendentemente dalla natura del credito azionato: Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in www.judicium.it, 2015, p. 9; Tedoldi, Le novità in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014, in Corr. Giur., 2015, 3, 390 ss. Tale interpretazione, almeno sul piano letterale, appare condivisibile: infatti la disposizione dell’art. 26bis appare chiara nel richiamare le amministrazioni individuate dall’art. 413 comma 5 cpc e non il criterio di collegamento per individuare la competenza del giudice del lavoro.
[3] Il quale recita: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI.”. Dunque con chiaro riferimento alla nozione di amministrazione in senso formale ricomprendente sia amministrazioni statali che no.
[4] È quanto in sostanza ritenuto di recente da Trib. Roma, 18 marzo 2021, richiamata da Pacilli, La competenza per territorio nel pignoramento presso terzi quando il debitore esecutato sia un’amministrazione dello Stato, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2021, p. 1358 ss. e spec. nota 4.
[5] V. il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 19 agosto 2021, in G.U. Serie Generale n. 225 del 20-09-2021 che ha come presupposto il progetto di riforma organizzativa del servizio di tesoreria statale svolto dalla Banca d'Italia, avente l'obiettivo di creare un unico punto di interlocuzione con l'utenza istituzionale, migliorare l'efficienza dei processi e ridurre i rischi operativi, anche grazie all'accentramento delle competenze specialistiche.
[6] Cioè né in base a un criterio di collegamento con l’Amministrazione debitrice (si immagini un ente pubblico che ha sede in un comune, anche capoluogo di provincia, in cui non vi sia una Corte d’appello e, dunque, nemmeno un’Avvocatura distrettuale) né con il luogo in cui si trova il terzo tesoriere tenuto al pagamento (che non è più menzionato come criterio di collegamento), né con la sede dell’Amministrazione debitrice.
[7] È il caso delle Agenzie fiscali.
[8] Sulla natura e caratteristiche del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, v. Bruni, A. – Palatiello, G., La difesa dello Stato nel processo, Torino, 2011, passim.
[9] Cfr. in termini, Cass. 9.3.2011, n. 5529, a mente della quale “il pignoramento presso terzi costituisce una fattispecie complessa, che si perfeziona non con la sola notificazione dell'atto introduttivo, ma con la dichiarazione del terzo circa l'entità del credito, con la sentenza di accertamento dell'obbligo del terzo di cui all'art. 549 cod. proc. civ..
Ne consegue che il credito pignorato può venire individuato e determinato nel suo preciso ammontare in data molto successiva a quella della notificazione dell'atto (Cass. civ. Sez. 3^, 9 dicembre 1992 n. 13021, Cass. civ. Sez. 3^, 27 gennaio 2009 n. 1949), senza che perciò lo si possa considerare sorto dopo il pignoramento, poichè l'indisponibilità delle somme dovute dal terzo pignorato al debitore e l'inefficacia dei fatti estintivi si producono fin dalla data della notificazione, ai sensi dell'art. 543 cod. proc. civ. (Cass. Civ. Sez. 3^, 18 gennaio 2000 n. 496; Cass. Civ. n. 1949/2009”
[10] Sul tema v. Capponi, Disorientamenti sul controllo preliminare della competenza nell’esecuzione forzata (in difesa dei giudici dell’esecuzione), in www.giustiziainsieme.it.
[11] Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 28490 del 29/11/2017, Rv. 647177 – 01; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 29261 del 28/12/2011, ma contra Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12396 del 24/06/2020 la quale afferma “In caso di cessione del contratto di concessione per effetto di alienazione di ramo d'azienda, la clausola derogatoria della competenza territoriale - che individua il foro esclusivamente competente nel luogo dove ha sede il concedente al momento dell'introduzione del giudizio - deve intendersi riferita alla diversa sede legale del contraente subentrato, trattandosi di rinvio mobile finalizzato alla conservazione dell'originario equilibrio negoziale”
[12] Con conseguente ulteriore distinzione tra cessione intervenuta prima o dopo la scadenza del debito. La disposizione è ritenuta applicabile dalla giurisprudenza anche in tema di cessione del credito: v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 2591 del 07/02/2006.
[13] Sulla cui introduzione v. Pilloni, l'iscrizione a ruolo nel processo esecutivo e l'inefficacia del pignoramento effettuato in violazione della relativa disciplina: le novità introdotte nel c.p.c. e nelle disposizioni di attuazione, in Nuove leggi civili commentate¸ 2015, 3, 481. Detta disposizione prevede che a seguito della mancata iscrizione a ruolo del pignoramento, che determina inefficacia del pignoramento, il creditore dia notizia al debitore del mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo, prevedendo altresì che gli obblighi di terzo e debitore cessano quando la nota non è stata depositata nei termini. Appare evidente, tuttavia, che tale disciplina onera debitore e terzo di verificare il rispetto del termine, se il creditore non provvede a darne notizia: e comunque nulla dice sulle modalità con cui dell’inefficacia si prenda atto.
[14] Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, VI ed., Torino, 2020 p. 227 ss.
Il principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a CdS Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione. – 3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo. – 4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento. – 5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito. – 6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria. – 7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito. – 8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
1. Il caso di specie.
Con l’ordinanza in commento[1] la Sezione Quarta del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza Plenaria la questione relativa al c.d. principio di consumazione del potere di impugnazione, domandandosi se esso trovi applicazione nel processo amministrativo e, nel caso, quale sia il suo perimetro applicativo.
Il caso di specie origina dalla reiterazione della notifica di un atto di appello da parte dell’amministrazione soccombente in primo grado[2]. Più precisamente, la sentenza di primo grado veniva impugnata con un primo atto di appello notificato (in data 23 dicembre 2020) ma mai depositato, a cui poi seguiva un secondo atto di appello notificato (in data 19 gennaio) e questa volta depositato (in data 29 gennaio 2021)[3].
L’appellato nelle sue difese eccepisce preliminarmente l’irricevibilità (o comunque l’improcedibilità) del proposto appello in considerazione dell’asserito tardivo deposito del ricorso. Secondo detta eccezione, ai fini della verifica della ritualità dell’impugnazione, sarebbe necessario mettere in relazione, ai sensi degli artt. 94 e 45 c.p.a., la prima notifica dell’atto di appello con il deposito presso la Segreteria del giudice adito, senza che possa in alcun modo riconoscersi effetto alla successiva e volontaria rinnovazione della notificazione effettuata dalla parte. In caso contrario, la ripetizione della notificazione – pur se avvenuta entro il termine previsto dalla legge per proporre l’appello – avrebbe l’unico scopo di eludere il termine perentorio previsto per il deposito, il quale non potrebbe che decorrere dalla prima notificazione andata a buon fine.
Secondo l’impostazione dell’appellato una siffatta interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di consumazione del potere di impugnazione, applicato sia dalla giurisprudenza civile che da quella amministrativa.
2.- Il principio civilistico di consumazione del potere di impugnazione.
Il principio di consumazione del potere di impugnazione è quel principio secondo il quale, tendenzialmente, la presentazione di un mezzo di gravame preclude la possibilità di proporne un altro (identico o ampliativo) al di fuori di alcune tassative ipotesi[4].
Il disposto del principio di consumazione è desumibile dagli articoli 358 e 387 c.p.c. i quali, rispettivamente per il giudizio di appello e per il giudizio in Cassazione, escludono la possibilità di reiterare il gravame dichiarato inammissibile o improcedibile anche se non sia ancora decorso il termine per la sua proposizione[5]. Quindi, da un’analisi letterale delle citate disposizioni, si evince che solo l’impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non può essere riproposta, non rimanendo preclusa una sua reiterazione negli altri casi, sempreché non sia ancora scaduto il termine decadenziale per l’esercizio del potere di impugnazione.
La Sezione rimettente, nell’ordinanza in commento, ricostruisce quali sono le coordinate interpretative enucleate dalla Corte di cassazione relativamente all’applicazione di detto principio, le quali si possono sintetizzare nei seguenti punti cardine: a) perché si verifichi la consumazione è necessario che la seconda impugnazione sia della stessa specie della prima; b) la seconda impugnazione può basarsi anche su motivi diversi dalla prima; c) la riproponibilità della seconda impugnazione deve essere limitata ai soli casi in cui la medesima verta sugli stessi motivi della prima con l’esclusione della possibilità di integrare o dedurre nuovi motivi; d) l’ammissibilità della seconda impugnazione deve essere subordinata all’esistenza di un vizio formale o sostanziale della prima che sia idoneo a decretarne l’irricevibilità ovvero l’improcedibilità e che, dunque, possa essere conseguentemente emendato; e) anche qualora la sentenza non sia stata oggetto di notificazione, la possibilità di riproporre l’impugnazione è ancorata, in ogni caso, al termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, la quale è idonea a determinare la conoscenza legale del provvedimento medesimo[6].
In alcuni casi, però, la giurisprudenza (insieme a parte della dottrina) è arrivata anche ad estendere ulteriormente i confini di detto principio, escludendo che la parte soccombente, dopo aver proposto l’impugnazione, possa successivamente integrarla con la proposizione di ulteriori motivi entro il termine previsto per l’impugnazione[7].
3. L’applicazione del principio nell’ambito del processo amministrativo.
La Sezione rimettente evidenzia come nel processo amministrativo il principio di consumazione del potere di impugnazione abbia da tempo trovato applicazione e come sia operante anche attualmente[8].
La giurisprudenza amministrativa ha interpretato detto principio sin da subito in senso ampliativo, non consentendo la proposizione da parte del medesimo soggetto di appelli successivi al primo anche indipendentemente dall’inammissibilità o dall’improcedibilità del precedente atto. Secondo la giurisprudenza amministrativa, cioè, il diritto di impugnazione di una sentenza sfavorevole si consuma con il suo valido esercizio, per cui l’avvenuta proposizione del gravame preclude la possibilità di dedurre successivamente ulteriori motivi di impugnazione, anche qualora il termine decadenziale non sia ancora scaduto[9].
Il principio di consumazione del potere di impugnazione, infatti, va coordinato con il principio del divieto di frazionamento dell’impugnazione, secondo il quale la parte non può presentare diverse impugnazioni, pur nella pendenza del termine, dovendo concentrare tutte le sue censure nel primo atto di gravame. Una limitata eccezione a tali principi è prevista nel solo caso in cui il primo atto di impugnazione sia stato proposto in modo irrituale e ad esso segua un secondo atto diretto a sostituire il precedente viziato, nel rispetto dei termini perentori previsti dalla normativa e antecedentemente alla dichiarazione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione[10].
Come ci ricorda la Sezione rimettente, però, nel codice del processo amministrativo è prevista un anche una deroga a questo divieto con riguardo alla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello qualora una parte venga successivamente a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati[11].
Non è questa la sede per effettuare una valutazione critica del citato principio di consumazione così come applicato dalla giurisprudenza civile e amministrativa[12]. In tale breve commento si proverà esclusivamente ad enucleare quali sono i nodi che l’Adunanza Plenaria avrà il compito di sciogliere e che, come si avrà modo di illustrare, vanno anche al di là della mera applicazione del principio di consumazione, riguardando alcuni aspetti inerenti alla corretta instaurazione del rapporto processuale.
4. Il contrasto giurisprudenziale all’origine del deferimento.
Il deferimento all’Adunanza Plenaria viene motivato dal riscontro di un contrasto giurisprudenziale nell’applicazione del suddetto principio di consumazione. Più precisamente, la Sezione Quarta si interroga in merito alla necessità che la duplicazione dell’impugnazione debba essere motivata dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto di appello idonei a condurre ad una sua declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità.
I due poli del rilevato contrasto giurisprudenziale vengono individuati: da un lato nella giurisprudenza della Sezione rimettente che ammetterebbe la possibilità di riproporre la stessa impugnazione solo per emendare un vizio dell’appello presentato (rectius notificato), sostituendo un atto valido ad uno invalido[13]; dall’altro nella diversa impostazione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana secondo la quale sarebbe ammessa la reiterazione dell’impugnazione anche a prescindere dal fatto che la prima presentata sia viziata, purché la seconda sia proposta entro il termine decadenziale e antecedentemente ad una pronuncia giudiziale in rito sulla stessa[14].
Oltre alla fattispecie sulla quale è chiamata a pronunciarsi, la Sezione Quarta richiama anche un proprio precedente nell’ambito del quale l’amministrazione appellante aveva notificato tre atti di appello avverso la medesima sentenza depositando, però, solamente il terzo atto notificato. Il Collegio, in quell’occasione, ha giudicato inammissibili tutti e tre gli atti di appello notificati: i primi due in quanto mai effettivamente depositati ai sensi dell’art. 94 c.p.a., mentre il terzo in applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione, rilevando che la (terza) notifica non fosse stata effettuata per sanare alcun vizio delle precedenti impugnazioni (rectius notifiche dell’atto di appello)[15].
A ben vedere, però, il caso deciso dal C.G.A.R.S. riguarda una fattispecie diversa da quelle considerate dalla Sezione Quarta, nelle quali a più atti di notifica è seguito (in entrambi i casi) un solo deposito.
Nel caso esaminato dal Giudice siciliano, infatti, la sentenza di primo grado è stata appellata per due volte dalla medesima parte con due autonomi ricorsi che, depositati entrambi nei termini di cui all’art. 94 c.p.a., hanno dato vita a due autonome iscrizioni nel registro di Segreteria. Il C.G.A.R.S., dopo aver preso atto che la parte si era determinata a questo comportamento processuale senza evidenziare le ragioni di tale duplicazione, ha riunito le due impugnazioni proposte (perché aventi identico contenuto) e le ha accolte entrambe, riformando la sentenza impugnata[16].
Al Collegio, nell’ordinanza di rimessione in commento, non sfugge la circostanza che nel citato caso deciso dal C.G.A.R.S. entrambe le impugnazioni sono state ritualmente (notificate e) depositate, ma pur in presenza di questa rilevante distinzione fattuale, qualifica tale decisione del Giudice siciliano come idonea ad aprire una riflessione sul contenuto e sui limiti applicativi del principio di consumazione.
5. Le riflessioni della Sezione rimettente sul potere di consumazione e sulla decorrenza del termine per il deposito.
Evidenziato detto contrasto, la Sezione Quarta effettua alcune considerazioni propedeutiche all’enucleazione dei quesiti da deferire all’Adunanza Plenaria.
La riflessione del Collegio parte dal dato testuale delle disposizioni prevedenti il principio di consumazione (i citati artt. 358 e 387 c.p.c) che fanno discendere l’effetto consumativo non dalla mera proposizione del primo gravame, ma dalla decisione di inammissibilità o di improcedibilità della prima impugnazione. Alla luce di tale interpretazione letterale viene evidenziato come, rispetto al diritto di agire in giudizio tutelato dall’art. 24 cost., sarebbe coerente sostenere che non sia la prima impugnazione, ma la decisione su di essa, ad impedire la riproposizione dell’impugnazione medesima[17]. Infatti, le disposizioni che escludono, limitano o introducono condizioni più restrittive per l’esercizio dei diritti (anche in sede processuale) di per sé andrebbero interpretate in senso restrittivo e, comunque, col divieto di applicazione analogica, a maggior ragione nei casi come questo in cui il principio in questione non è sancito in maniera espressa dalla legge ma è perimetrato, quanto al suo contenuto e ai suoi limiti di estensione, dall’esegesi giurisprudenziale.
Da tali riflessioni sembrerebbe che la Sezione rimettente, melius re perpensa, stia rimeditando il proprio orientamento precedente che era, invece, propenso ad un’ampia (e forse eccessiva) applicazione del principio di consumazione.
Un ulteriore elemento di riflessione evidenziato dalla Sezione in questa direzione è costituito dal richiamo all’art. 96 c.p.a. che regola nel processo amministrativo le diverse impugnazioni avverso una medesima sentenza. Infatti, se è vero che tale articolo è fisiologicamente destinato a regolare la riunione delle impugnazioni proposte dalle diverse parti avverso un’unica pronuncia, lo stesso potrebbe essere anche letto come una conferma dell’ammissibilità di più impugnazioni di una stessa parte avverso una medesima sentenza, in assenza di un esplicito divieto in tal senso[18].
Infine, l’ultima questione su cui si sofferma la Sezione rimettente riguarda la corretta interpretazione da dare all’art. 45, comma 1, c.p.a. secondo il quale l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella Segreteria del giudice dell’atto soggetto a preventiva notificazione entro il termine decadenziale di trenta giorni. Secondo il Collegio, a tal proposito va chiarito se la rinnovazione della notificazione, eseguita entro il termine e anteriormente alla declaratoria giudiziale di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, si possa qualificare come elusiva, poiché comporta lo spostamento in avanti del termine perentorio di deposito del ricorso rispetto alla prima notificazione non andata a buon fine; ovvero se, trattandosi di notificazione valida rispetto al termine di impugnazione, non sia ravvisabile il suddetto effetto elusivo e il termine di deposito vada calcolato dall’ultima notificazione. Detta questione interpretativa ha un’importanza dirimente nel caso di specie ove, a differenza del citato precedente del C.G.A.R.S., vi è stato un solo deposito del gravame effettuato entro il termine decadenziale calcolato rispetto alla seconda notifica effettuata dall’appellante.
Ad ogni modo, nonostante queste riflessioni sembrerebbero preludere ad un cambio di rotta nella giurisprudenza della Sezione Quarta in merito alla precedente applicazione piuttosto estensiva del principio di consumazione, il Collegio decide di non provvedere in autonomia ad un proprio revirement, preferendo investire l’Adunanza Plenaria della questione (rectius delle questioni).
6. I quattro quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria.
La Sezione Quarta deferisce all’Adunanza Plenaria quattro distinti quesiti: i primi tre direttamente concernenti l’applicazione del principio di consumazione, mentre il quarto attinente alle tempistiche del deposito dell’atto presso la Segreteria del Giudice in presenza di più notifiche dell’atto medesimo. Quest’ultimo quesito, come si avrà modo di argomentare, costituisce una problematica distinta dall’applicazione del succitato principio (pur se ad esso strettamente collegata), il quale presuppone l’effettiva instaurazione di plurime impugnazioni avverso la medesima pronuncia giudiziale.
Procedendo con ordine, individuiamo quali sono i quattro quesiti che vengono deferiti all’Adunanza Plenaria[19].
Col primo quesito viene richiesto genericamente se il principio di consumazione dei mezzi di impugnazione debba essere applicato nell’ambito del processo amministrativo e, in caso affermativo, entro quali limiti. Tale genericità viene bilanciata dai successivi due quesiti che si appalesano maggiormente specifici, andando a toccare le due questioni più dibattute relativamente a detto principio nell’ambito del processo amministrativo.
Col secondo quesito, infatti, viene posto il problema se ad una parte processuale sia consentito rinnovare la notificazione al solo scopo di emendare i vizi dell’atto oppure se il rinnovo in questione sia consentito anche a prescindere dall’eliminazione di un vizio e senza altra apparente ragione. Questo è il tema della reiterabilità del medesimo atto già presentato quando la riproposizione non sia finalizzata all’emenda di vizi formali, ma sia dovuta ad altre motivazioni.
Col terzo quesito, invece, viene indagato se alla medesima parte processuale sia consentito presentare nuovi motivi di impugnazione al di là dei casi normativamente previsti per la proposizione di motivi aggiunti. Si tratta, sostanzialmente, della questione del divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, divieto in base al quale l’impugnativa avverso un provvedimento giurisdizionale dovrebbe essere esercitata unitariamente (accludendo tutti i motivi di gravame) e non essere frazionata in diversi atti, pur se tutti tempestivi rispetto al termine decadenziale per l’impugnazione[20].
Col quarto quesito, infine, si pone l’interrogativo su quale sia la corretta interpretazione da dare al combinato disposto degli artt. 94 e 45, comma 1 c.p.a.[21]. Più precisamente, il dubbio interpretativo riguarda i limiti in cui un’impugnativa, notificata una prima volta, possa essere oggetto di ulteriori notifiche, ovviamente entro i termini decadenziali per la proposizione dell’azione e prima di una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità della stessa. Ci si domanda, cioè, se una successiva notificazione possa essere effettuata solo per emendare vizi dell’atto, della sua notifica o del suo deposito, ovvero se, al contrario, sia possibile per la medesima parte rinnovare la notificazione per altri motivi, prescindendo dalla suddetta emenda.
I primi tre quesiti, come anticipato, riguardano propriamente il perimetro applicativo del principio di consumazione e del collegato divieto di frazionamento dell’impugnativa. Il quarto motivo, invece, riguarda la rilevante tematica del corretto perfezionamento dell’iter notificatorio nel processo amministrativo e rappresenta una questione preliminare all’applicazione di detto principio al caso di specie.
Quindi, si può affermare che il principio di consumazione del potere di impugnazione costituisce il “perno” su cui ruota l’intera ordinanza di rimessione, ma rappresenta anche l’occasione per il deferimento all’Adunanza Plenaria di questioni processuali ulteriori, strettamente collegate a tale principio, le quali attengono alla corretta instaurazione del processo amministrativo e ai limiti temporali entro i quali essa debba perfezionarsi[22].
7. I limiti temporali della consumazione del potere di impugnazione: il discrimen del deposito.
Analizzati i quesiti formulati dalla Sezione rimettente, pare opportuno tornare a soffermarsi sulla vicenda dalla quale essi originano, al fine di enucleare una distinzione preliminare. La Sezione, nel trattare la consumazione del potere di impugnazione, si riferisce genericamente alle impugnazioni “proposte” quando in verità, nel caso di specie, l’impugnazione “compiutamente proposta” (ossia quella notificata e depositata) è soltanto una (la seconda).
Nel processo amministrativo, infatti, la sola notificazione del ricorso non basta a radicare la pendenza del giudizio amministrativo[23]. Si dubita, pertanto, di poter parlare di vera e propria consumazione di un potere di impugnazione quando detto potere non sia stato compiutamente esercitato, non essendosi ancora instaurato un vero e proprio giudizio.
La Sezione rimettente, pur dimostrando di tenere in considerazione la circostanza che «nel caso all’esame la prima impugnazione difetta del deposito dell’atto» e il fatto che «l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella segreteria del giudice del ricorso e degli atti soggetti a preventiva notificazione», non enuclea compiutamente la differenza tra la consumazione del potere di impugnazione compiutamente esercitato attraverso un atto notificato e depositato (che si potrebbe definire come “consumazione propria”), dalla preclusione del potere di (ri)notificare un atto per il sol fatto di averne già notificato un altro in precedenza (che si potrebbe definire come “consumazione impropria”).
La tematica, che costituisce l’oggetto del quarto quesito, consiste nello stabilire se sia (o meno) legittimo anticipare una sorta di effetto consumativo del potere di impugnazione già al momento della notifica dell’atto, ossia, se sia possibile considerare una prima notifica ostativa ad una seconda (successiva ma) nel rispetto del termine decadenziale.
Nell’ordinanza viene attribuita alla reiterazione della notifica un possibile effetto elusivo nei confronti del termine decadenziale previsto per il deposito dell’atto. Ma a ben vedere pare quantomeno dubbio il configurarsi di tale effetto elusivo: se la legge consente alla parte di esperire un’impugnazione entro dei termini decadenziali, un’eventuale elusione dovrebbe comportare l’aggiramento (rectius il superamento) di detti termini che, nel caso di specie, non sussiste[24].
Quindi, pare opportuno distinguere due diverse situazioni: la concorrenza di due impugnazioni ritualmente presentate (notificate e depositate) e la concorrenza di due atti di notifica di una medesima impugnazione che risulti depositata una sola volta. Sarebbe auspicabile che l’Adunanza Plenaria distinguesse le due ipotesi nell’interrogarsi sui limiti di applicazione del principio di consumazione, verificando se possa parlarsi di consumazione anche solo con riferimento alla notifica di un ricorso (la c.d. consumazione impropria) o se, per esserci consumazione del potere di impugnazione, ci voglia per forza anche il deposito dello stesso (c.d. consumazione propria).
8. Alcuni spunti di riflessione in attesa della pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
È fuori di dubbio che l’applicazione del principio di consumazione del potere di impugnazione nel processo amministrativo sia un argomento denso di problematiche applicative. Accanto alla vexata quaestio relativa ai presupposti in presenza dei quali opera il c.d. effetto consumativo, si aggiunge anche l’ulteriore problematica connessa alla possibile reiterazione della notifica dell’atto, di particolare rilevanza nel processo amministrativo in cui la pendenza del rapporto processuale si radica con la c.d. vocatio judicis e, quindi, con il deposito del ricorso[25].
Sull’interpretazione dei limiti applicativi del principio di consumazione si concorda con le riflessioni della Sezione rimettente, le quali sembrano suggerire un ripensamento della sua precedente interpretazione estensiva del principio di consumazione. Comprimere la libertà di presentare un’impugnazione entro un limite temporale antecedente a quello imposto dalla legge, oltre a porsi in contrasto con la disciplina positiva dei termini decadenziali, costituisce un possibile vulnus all’art. 24 cost., prevedente la garanzia di ciascuno di poter agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
Sarà compito dell’Adunanza Plenaria, nel caso in cui decidesse di accogliere tale impostazione maggiormente garantista del diritto all’azione, specificare se tale possibilità di reiterazione debba spingersi sino ad ammettere anche la proposizione di nuovi motivi di gravame, comportando in tal modo pure un ripensamento in merito al divieto di frazionamento delle impugnazioni. Sul punto un chiarimento dell’Adunanza Plenaria sarà quantomai opportuno, visto che la giurisprudenza amministrativa ha spesso fatto proprio anche questo divieto[26].
Ammettere la possibilità di frazionare le impugnazioni, inoltre, potrebbe destare qualche incertezza sul calcolo del termine per la proposizione dell’appello incidentale. Visto il tenore letterale dell’art. 96, comma 3 c.p.a., pare prudenzialmente opportuno far decorrere il termine per proporre l’appello incidentale dalla “prima notificazione” tra quelle ricevute, anche se dette notifiche provengano dallo stesso soggetto appellante[27].
Con riferimento alla questione della notifica dell’atto di appello non depositato, invece, non si ritiene che si possa parlare di consumazione vera e propria. La consumazione del potere di impugnazione in senso proprio, infatti, si realizza quando il mezzo di gravame viene depositato, perché la litispendenza nel processo amministrativo si realizza solo al momento del deposito (telematico) dell’atto notificato presso la Segreteria del Giudice adito. Ciò non toglie che sarà l’Adunanza Plenaria, investita dello specifico quesito, a fugare i dubbi sollevati sia sul possibile effetto elusivo di una doppia notifica ai fini di ottenere uno spostamento in avanti del termine per il deposito del ricorso, sia sulla possibile configurazione di una sorta di effetto consumativo anticipato antecedentemente alla formale instaurazione di un giudizio di impugnazione.
Quindi, non resta che attendere il pronunciamento dell’Adunanza Plenaria per definire con maggiore precisione il perimetro applicativo del principio di consumazione del potere di impugnazione, anche con riguardo ad una possibile anticipazione di effetti lato sensu consumativi già al momento della notificazione dell’atto; pronunciamento che, auspicabilmente, fornirà pure alcuni opportuni chiarimenti nell’identificare le regole di corretta instaurazione del giudizio di impugnazione e del regolare svolgimento dell’iter notificatorio del suo atto introduttivo.
***
[1] Cons. St., Sez. IV, ordinanza, 25 ottobre 2021, n. 7138, riportata in calce alla nota .
[2] La sentenza impugnata è T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 24 luglio 2020, n. 8693, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Giova precisare che la seconda notifica dell’atto di appello (19 gennaio) è stata effettuata tempestivamente rispetto al termine per l’impugnativa della sentenza di primo grado e che il deposito (29 gennaio) è avvenuto tempestivamente rispetto alla seconda notifica (19 gennaio), ma non rispetto alla prima (23 dicembre). Inoltre, si consideri che la seconda notifica (19 gennaio), proposta mentre ancora pendeva il termine per impugnare, è stata effettuata in data anteriore rispetto al termine per il deposito dell’appello calcolato in base della prima notifica (22 gennaio 2021).
[4] Sul principio di consumazione delle impugnazioni vedasi il lavoro monografico di S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, Napoli, 2011, a cui si rinvia per un approfondimento del tema e per i riferimenti bibliografici in esso contenuti.
[5] Si riporta il testo delle due citate disposizioni: art. 358 c.p.c. (Non riproponibilità di appello dichiarato inammissibile o improcedibile) «L’appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge»; art. 387 c.p.c. (Non riproponibilità del ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile) «Il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge».
[6] Per i riferimenti giurisprudenziali si rinvia al paragrafo n. 13 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene citata copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione a supporto di questa impostazione interpretativa.
[7] S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit. p. 9. In tal senso vedasi pure G. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2010, II, p. 323. Tra le sentenze della Corte di cassazione secondo le quali non sarebbe possibile presentare motivi aggiunti che integrino o modifichino quelli originariamente proposti né, a maggior ragione, proporre una nuova impugnazione che possa sostituirsi alla prima validamente proposta, si segnalano ex multis: Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016, n. 9993, in Guida al diritto, 2016, 36, p. 79 ss.; Cass. civ., Sez. lav., 31 maggio 2010, n. 13257, in Giust. civ. Mass., 2010, 5; Cass. civ., SS. UU., 10 marzo 2005, n. 5207, in Giust. civ. Mass., 2005, 3.
[8] Tra le più coeve sentenze citate vedasi Cons. St., Sez. V, 19 aprile 1991, n. 606, in Foro Amm., 1991, p. 1134. Tra le sentenze del corrente anno, invece, vengono citate Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266 e C.G.A.R.S., 8 luglio 2021, n. 654, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it, tra le quali la Sezione rimettente rileva il contrasto da cui origina l’ordinanza di rimessione in commento.
[9] Cons. St., Sez. IV, 14 settembre 2004, n. 5915, in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] L’art. 10 c.p.a. prevede la regola generale del divieto di nuovi motivi e di nuovi mezzi di prova in appello, temperato dalla facoltà per la parte di proporre motivi aggiunti nel caso in cui vi sia una sopravvenienza documentale da cui si evincano vizi relativi agli atti impugnati. Sulla tematica dei motivi aggiunti in appello si segnalano: G. MIGNONE, Motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; M.P. VIPIANA, Motivi aggiunti e doppio grado nel processo amministrativo in una recente decisione dell’Adunanza Plenaria, in Dir. proc. amm., 1998, p. 91 ss.; S. PERONGINI, Le impugnazioni nel processo amministrativo, Milano, 2011, p. 259 ss.
[12] Sul punto si rinvia a S. CAPORUSSO, La “consumazione” del potere di impugnazione, cit., in particolare a p. 311 e seguenti dove vengono condensate le considerazioni critiche sull’applicazione di detto principio che non pare condivisibile «nella misura in cui ammette soltanto la proposizione di una seconda impugnazione in sostituzione della prima, allo scopo di emendare, ove possibile, i vizi da cui quest’ultima sia affetta. È evidente che questa lettura non solo penalizza l’impugnante che ha validamente esercitato il proprio potere, ma, per di più, non tiene in debito conto il fatto che il vizio che inficia l’impugnazione possa essere successivo alla sua proposizione, come accade nel caso di improcedibilità, e che quindi non riguardi l’esercizio (in sé perfettamente valido) del potere di impugnazione».
[13] Oltre al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione in commento, viene anche citato un altro precedente conforme della stessa Sezione, costituito dalla sentenza Cons. St., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4266, cit.
[14] C.G.A.R.S., Sez. giur., 8 luglio 2021, n. 654, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Per usare le parole del Collegio (paragrafo n. 17 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.) «la ratio – che giustificherebbe (pendente il termine per l’appello e in assenza di una declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità) la possibilità per la medesima parte di riproporre la stessa impugnazione – sarebbe quella di emendare un vizio, sostituendo un atto valido ad uno invalido».
[16] Il Collegio evidenzia che «Il Consiglio di giustizia amministrativa non ha dichiarato sic et simpliciter inammissibile la seconda impugnazione, sebbene identica e ripetitiva rispetto alla prima, e senza la benché minima efficacia sanante o sostitutiva di vizi della prima» (paragrafo 22 dell’ordinanza Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[17] In tal senso pare andare anche Cons. St., Sez. VI, 24 luglio 2017, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Va, di poi, evidenziato che la giurisprudenza della Sezione (Cons. Stato;VI, 6-12-2013, n. 5861) ha chiarito che la consumazione del potere di impugnare, giusta l’art. 358 del codice di procedura civile, applicabile al procedimento amministrativo, presuppone necessariamente l’intervenuta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo gravame, potendo altrimenti essere proposto un secondo atto di appello».
[18] Prescindendo dalla disciplina delle impugnazioni incidentali, per quel che interessa in tal sede, si rammenta che l’art. 96, comma 1 c.p.a. prevede che «Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo», mentre il comma 6 della medesima disposizione stabilisce che «In caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, la decisione di una delle impugnazioni non determina l'improcedibilità delle altre».
[19] I quattro quesiti vengono elencati alle lettere a), b), c), d) del paragrafo 24 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.).
[20] Ovviamente, in entrambe le succitate ipotesi di cui al secondo e al terzo quesito, la conditio sine qua non è costituita dal fatto che sia ancora pendente il termine per impugnare e che, medio tempore, non sia intervenuta una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione.
[21] Secondo l’art. 45, comma 1 c.p.a. «Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell'atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario...».
[22] A tal proposito si richiama il paragrafo n. 12 dell’ordinanza in commento (Cons. St., Sez. IV, 25 ottobre 2021, n. 7138, cit.), ove viene precisato che «La Sezione ritiene di dovere deferire all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla corretta interpretazione delle disposizioni e dei principi che regolano le impugnazioni, tra cui quello della cd. consumazione del relativo potere», a comprova del fatto che la questione relativa al potere di consumazione è solo una delle problematiche su cui l’Adunanza Plenaria dovrà fornire i propri chiarimenti.
[23] Cons. St., Ad. Plen., 28 luglio 1980, n. 35, in Foro it., 1980, III, p. 532 ss. In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «nel processo amministrativo i due momenti della notificazione e del deposito del ricorso hanno caratteristiche e fini diversi: il primo rivela soltanto la volontà di agire in giudizio e costituisce il preliminare atto dell’introduzione del processo; il secondo invece concretamente realizza la presa di contatto tra il ricorrente e l’organo di giurisdizione che deve pronunciare sul processo e postula la partecipazione pure delle controparti al giudizio. Pertanto i suoi effetti, correlati alla consegna dell’originale del ricorso notificato alla segreteria del Giudice adito, non possono retroagire alla fase precedente, che è stata meramente introduttiva e prodromica all’istaurazione del processo. Quindi, nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR».
[24] Infatti, la parte che potendo legittimamente attendere fino all’ultimo giorno per provvedere alla notifica vi provveda anticipatamente e poi, per qualsiasi altro motivo ulteriore all’emenda di eventuali vizi, decida di ripetere la notifica “riprendendosi” la facoltà di effettuarla sino al termine previsto dalla legge (e, conseguentemente, di effettuare il deposito entro il termine collegato alla notifica), non pare francamente commettere alcuna violazione o elusione della disciplina dei termini.
[25] Cons. St., Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, cit., ci ricorda che «nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR. L’individuazione della pendenza del rapporto processuale, in altri termini, mentre nei giudizi che iniziano con citazione va fissata nel momento della notificazione di essa (vocatio in jus), in quelli, come nel caso in esame, introdotti con ricorso si ha nel momento del relativo deposito (vocatio judicis, cfr. Cons. St., VI, 25 maggio 2006 n. 3129; id., IV, 8 gennaio 2013 n. 40)».
[26] Cons. St., Sez. V, 2 aprile 2014, n. 1570, cit., prevede che «il divieto di frazionamento dei mezzi di impugnazione, sotteso al principio di consumazione delle impugnazioni sancito dagli artt. 358 e 387 c.p.c. (che connota qualsiasi processo retto, come anche quello amministrativo, dal principio della domanda e da quello dispositivo), impedisce alla parte che abbia proposto un primo gravame di proporne un secondo, pur quando siano ancora pendenti i relativi termini».
[27] L’art. 96, comma 3 c.p.a. prevede che «L’impugnazione incidentale di cui all’articolo 333 del codice di procedura civile può essere rivolta contro qualsiasi capo di sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notificazione della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione».
L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. Chiarezza definitoria e concettuale - 2. Le situazioni “arate” e... - 3. ...gli orientamenti in via di consolidamento - 4. I profili controversi.
1. Chiarezza definitoria e concettuale
Di fronte alla nuova formula di definizione del processo, appare necessario distinguere anche formalmente, oltre che sostanzialmente, le tre situazioni attorno alle quali spesso ruota il dibattito, evitando di cambiarne la letteralità, con il rischio di inquinarne gli effetti, anche perché nel pronunciarle il giudice deve precisarne i presupposti nel dispositivo (artt. 529 e 531 c.p.p.).
L’estinzione del reato opera solo in primo grado; l’improcedibilità per mancanza di querela, o di altra condizione di procedibilità, opera in ogni stato e grado; l’improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione opera solo nel giudizio di impugnazione dopo la sentenza di primo grado e d’appello. Quindi, netta distinzione, evitando sovrapposizioni tra le ipotesi di improcedibilità, e tra l’improcedibilità (a volte definita prescrizione processuale o cronologica) e l’estinzione del reato per prescrizione.
In questa prospettiva, due punti sembrano anche da considerare ulteriormente significativi: la differenza tra prescrizione sostanziale e improcedibilità, stante almeno la previsione differenziata dell’art. 578, comma 1 bis, c.p.p., altrimenti non giustificabile; la diversità anche con le altre situazioni di improcedibilità in relazione all’esercizio dell’azione penale, nel caso dell’art. 344 bis c.p.p., invece, regolarmente esercitata.
Per queste ragioni trova piena giustificazione la tesi per la quale l’art. 344 bis c.p.p. non opera in relazione alle impugnazioni ex art. 428 c.p.p. della sentenza di non luogo di cui all’art. 425 c.p.p., alle impugnazioni per i soli interessi civili, alle impugnazioni cautelari ed a quelle straordinarie.
2. Le situazioni “arate” e...
Il confronto di opinioni sulla decisione di improcedibilità dell’art. 344 bis c.p.p. introdotta dalla l. n. 134 del 2021 sta registrando alcune convergenze su alcuni profili della relativa disciplina, pur non mancando, naturalmente, i dissensi, anche autorevoli e motivati.
La prima questione – che invero sembrava definita, riguarda gli effetti della declaratoria di improcedibilità sulle decisioni oggetto di impugnazione.
Secondo un convincimento solidamente diffuso si affermava che la sentenza di improcedibilità, conseguente all’impugnazione, supera la decisione emessa nel grado precedente.
In particolare, si ritiene che con la declaratoria di improcedibilità, non c’è né condanna né proscioglimento; sono assorbite le precedenti decisioni sia di condanna, sia di assoluzione; si caducano le misure cautelari personali (anche quelle a tutela della vittima) e quelle reali; l’imputato perde il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione; vengono meno i provvedimenti civili provvisoriamente esecutivi nonché le decisioni di confisca; non c’è nessuna decisione sul querelante; la sentenza non ha autorità di giudicato in sede civile o disciplinare; si prospettano questioni sul valore probatorio del materiale in un altro procedimento; in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena viene meno il giudicato sulla responsabilità; forse l’imputato può avvalersi della legge Pinto.
La conclusione proposta non esclude la presenza di alcune questioni “aperte”.
Fra queste non possono non segnalarsi – mancando a differenza della estinzione del reato ogni indicazione sul punto – le possibili implicazioni sulla responsabilità delle persone giuridiche ex l. n. 231 del 2001; le patologiche implicazioni ex art. 604, comma 6, c.p.p., di una errata decisione di prescrizione in primo grado, stante l’impossibilità di dichiarare l’estinzione del reato, eventualmente maturato, nel giudizio di appello; la fissazione del termine in caso di sviluppo dell’impugnazione della decisione di inammissibilità; l’indicazione del termine massimo in caso di plurimi annullamenti con rinvio e quello in caso di conversione in appello, il valore delle prove assunte nel procedimento di cui al gravame.
Recentemente si è affermato che l’art. 344 bis c.p.p. costituisce una causa di inammissibilità sopravvenuta con effetti soltanto nel grado in cui si è verificato l’esaurimento del tempo per il relativo giudizio, lasciando sopravvivere la sentenza impugnata, sia essa di condanna, sia essa di proscioglimento.
La tesi, che non trova nessun riferimento testuale, è contraddetta in primo luogo dagli effetti che essa determinerebbe.
Il dato non solo è smentito, come riconosciuto pure da chi avanza questa tesi, anche se ipotizza un suo superamento in attuazione della delega (art. 1, comma 13, lett. d, l. n. 134 del 2021), da quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, c.p.p. (di nuovo conio), ma soprattutto dalle ricadute negative della “conservazione” della sentenza impugnata.
Si sostiene, infatti, che in caso di proscioglimento questa opererebbe a favore dell’imputato, senza conferire verosimilmente al p.m. nessun potere negativo o interdittivo, come nel caso in cui la decisione fosse viziata da nullità ovvero fosse basata su prove inutilizzabili (che, conseguentemente, diverrebbe irrevocabile).
Nel caso della condanna, si afferma che all’imputato sarebbe consentito il diritto di rinuncia alla improcedibilità rectius, la richiesta di prosecuzione del processo (art. 344 bis, comma 7, c.p.p.).
I riferiti effetti della declaratoria di improcedibilità hanno prospettato il problema della possibilità di riavviare il percorso processuale per il medesimo fatto.
Dopo aver chiarito quale rapporto possa prospettarsi con la possibilità che il decorso della prescrizione sia o meno cessato con la sentenza in primo grado (ex art. 161 bis c.p.), una volta sopravvenuta la declaratoria di improcedibilità è necessario interrogarsi sull’operatività di quanto previsto dall’art. 649 c.p.p. ove è disciplinato il divieto di un secondo giudizio (ne bis in idem).
Fatta salva la possibilità di una diversa qualificazione del fatto (da ritenersi ipotesi remota), le situazioni derogatorie di cui all’art. 649 c.p.p., riferite a quanto previsto dall’eccezione di cui all’art. 345 c.p.p., non sembrano attagliarsi al caso qui considerato che, pertanto, sembrano suggerire che non sia possibile avviare un nuovo procedimento.
La soluzione interpretativa proposta prospetta anche non poche questioni legate alle sue implicazioni sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Invero, in termini estremamente pregnanti, la previsione prospetta una questione sotto il profilo del possibile contrasto con l’art. 101 Cost. in relazione al pregiudizio per l’esercizio della funzione giurisdizionale che è pregiudicata dal decorso del tempo massimo delle fasi di impugnazione, con conseguente pregiudizio sia delle iniziative dell’accusa sia delle aspettative difensive.
In altri termini, si tratta di riflessi indiretti sugli artt. 112 e 24 Cost.
Il dato ha ricadute anche in relazione all’effettività della giurisdizione di cui all’art. 47 del Trattato dell’Unione europea, nonché dell’art. 6 della Cedu.
Si sono prospettate anche violazioni dirette con il principio di obbligatorietà dell’azione penale; invero, la richiesta del pubblico ministero di una decisione sull’ipotesi accusatoria risulterebbe preclusa dalla decisione di improcedibilità.
Il dato non è convincente, considerato che a differenza delle situazioni di mancanza di una condizione di procedibilità, dove difetta l’elemento dell’esercizio dell’azione penale, nel caso di specie l’azione è stata validamente esercitata.
La disciplina dell’art. 344 bis c.p.p. prospetta, tuttavia, ulteriori possibili questioni di incostituzionalità. Il primo dato è ricollegabile alla irrazionabilità delle cadenze cronologiche dei possibili percorsi processuali (es.: in primo grado otto anni; due anni in appello e uno in cassazione: perfettamente legittimo, ed un anno in primo grado, tre anni di appello con declaratoria di improcedibilità).
Inoltre, non possono non essere segnalate, da un lato, la forte criticità del conferimento al giudice di determinare con la sua iniziativa (seppur impugnabile) la durata o meno del processo (impugnabile in caso di sua determinazione ed esclusa in caso di rigetto di una parte che l’abbia richiesto), dall’altro, la irragionevolezza della diversa durata delle fattispecie criminose non tutte pienamente giustificate, nonché la possibilità (escluse le ipotesi per i reati puniti con l’ergastolo, dichiarate non improcedibili) di proroghe illimitate.
L’incostituzionalità del sistema integrato (art. 161 bis c.p. e art. 344 bis c.p.p.) aprirebbe la strada ad altre soluzioni, fra le quali si segnalano quella del parallelo decorso dall’inizio dei due orologi, cioè, delle due procedure “estintive” ovvero quella di trasformare la durata ragionevole delle fasi di impugnazioni, prima dei tempi assolutamente irragionevoli, in situazioni suscettibili di risarcimenti (per il prosciolto o riduzioni di pena (per i condannati).
3. ...gli orientamenti in via di consolidamento
Sin dalla introduzione dell’art. 344 bis c.p.p. si è prospettata la questione della sua possibile applicazione retroattiva, cioè della sua operatività anche ai procedimenti relativi ai reati commessi prima del 1° gennaio 2021.
Si sono confrontate sul punto le opinioni sulla natura della sentenza, prospettandosi le varie opzioni in relazione al fatto che si possa trattare di norma sostanziale, processuale, ovvero processuale con effetti sostanziali.
L’impostazione – come è emerso anche dai primi orientamenti giurisprudenziali - appare non correttamente impostata.
Invero, con la riforma il legislatore ha predisposto un sistema integrato tra la prescrizione (sostanziale) ex art. 161 bis c.p. operante in primo grado e l’improcedibilità dell’azione ex art. 344 bis c.p.p. operante in grado d’impugnazione. Invero, il suo smembramento con recupero dell’improcedibilità anche nel grado precedente affiancherebbe questa ipotesi di definibilità del processo con quella che vedrebbe contestualmente correre il tempo della prescrizione che risulta regolata dalle leggi antecedenti la riforma della l. n. 3 del 2019.
In altri termini, ci si troverebbe in una situazione di palese incompatibilità, anche in considerazione della ragione posta a fondamento della riforma, cioè, quella di definire tempi adeguati al giudizio di impugnazione, per effetto della sospensione del decorso della prescrizione, con il timore di processi di gravame non governati da definizioni in tempi adeguati.
Va, del resto, sottolineato, come i riferimenti costituzionali spesso evocati (C. cost. n. 32 del 2020 e C. cost. n. 183 del 2021) a supporto della tesi contraria, arrivavano dalla mancanza di una disciplina transitoria che, invece, la riforma esplicitamente indica (1.1.2020) e che appare razionalmente motivata (l’operatività della l. n. 3 del 2019).
Una questione di costituzionalità sull’operatività dell’art. 344 bis c.p.p. in relazione a reati antecedenti al 1° gennaio 2021, potrebbe prospettarsi sotto un diverso profilo.
Il riferimento potrebbe indirizzarsi a quella situazione per la quale siano proposte nello stesso giorno, per la stessa fattispecie di reato un appello per un fatto antecedente il 1° gennaio 2021 ed un appello per la stessa fattispecie di reato commesso successivamente al 1° gennaio 2021, con disparità di trattamento, operando solo per quest’ultimo il tempo massimo di definizione del giudizio (mentre per il primo varrebbe la prescrizione).
Al profilo qui considerato vanno collegate anche le questioni relative al regime transitorio regolato dai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della cit. l. n. 134.
Com’è noto, il comma 3 dell’art. 2 cit., dopo aver previsto che la nuova disciplina operi per i reati commessi successivamente al 1° gennaio 2021, stabilisce al comma 4 dello stesso art. 2 che nel caso in cui gli atti siano già pervenuti al momento dell’entrata in vigore della legge (19 ottobre 2021) decorrono i termini di cui all’art. 2, comma 1 e 2, cioè quelli ordinari, mentre tempi più lunghi sono previsti nel caso in cui gli atti, sempre per i reati successivi al 1° gennaio 2021, pervengano entro il 31 dicembre 2024.
Si è prospettata una lettura sistematica dei commi 4 e 5 cit. che non trova giustificazione stante la sua ragionevolezza, che sembrerebbe escludere anche la possibilità di prorogare i termini che dall’entrata in vigore della legge sono già in corso.
La previsione, oltre la sua chiara letteralità, appare pienamente giustificata dal fatto che nella prima ipotesi non appare necessario l’arrivo degli atti (già presenti) per i quali la decisione può quindi seguire i termini fisiologici.
Nonostante alcune diverse opinioni non pare suscettibile di operare il cpv. dell’art. 129 c.p.p., in mancanza di adeguata copertura normativa.
Va sottolineato che in questo caso il problema non sembra prospettarsi in caso di reati puniti con l’ergastolo, nonché per i reati che consentono numerose proroghe (fatta salva l’ipotesi in cui le proroghe non vengano disposte).
Negli altri casi è evidente la mancanza di una previsione sul punto, non potendo essere applicata analogicamente quella del cpv. dell’art. 129 c.p.p. (comunque ancora operate solo in primo grado) e comunque confliggente con i poteri del giudice del gravame.
Non sarebbe possibile, come si tenta di sostenere, far leva sul mantenimento della sentenza di prima istanza, da porre in comparazione con quella di improcedibilità, né in caso di doppio conforme, ipotizzando la rinuncia all’improcedibilità, invero, definita dal comma 7 dell’art. 344 bis c.p.p. come richiesta di “prosecuzione del procedimento” (quindi precedente la dichiarazione della sentenza che non verrebbe pronunciata).
Nel primo caso di ipotizza che la sentenza di primo grado o d’appello, pur se invalida manterrebbe efficacia; nel secondo andrebbero considerati, dalla difesa, gli esiti del ricorso del pubblico ministero e comunque del giudizio di impugnazione.
Si consideri che si applicherebbe l’intero ventaglio delle ipotesi di cui al cpv. dell’art. 129 c.p.p., non tutte del tutto favorevoli, seppur di proscioglimento.
Va sottolineato che “l’apertura” all’operatività del cpv dell’art. 129 c.p.p. apre la strada a non secondari effetti collaterali, anche a prescindere dalla conseguente chiara prevalenza della inammissibilità sulla improcedibilità.
Invero, appare chiaro che, di fronte a questa possibilità, si aprirebbe la strada per l’impugnabilità della declaratoria di improcedibilità (certamente possibile per la mancanza dei presupposti della sua pronuncia) anche per il difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione del cpv. dell’art. 129 c.p.p., ovvero per una formula migliorativa della precedente.
Inoltre il riconoscimento di un potere decisorio in favor significherebbe al contrario una decisione implicitamente negativa per l’imputato.
4. I profili controversi
Il profilo attualmente più controverso riguarda il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione proposta e la decisione di improcedibilità. Si tratta di un aspetto teorico, dai risvolti significativamente pratici; l’improcedibilità - come detto – travolge le decisioni impugnate; l’inammissibilità, le fa diventare irrevocabili ed esecutive (con i limiti, di cui si dirà, della impugnabilità).
Va sottolineato che non essendo possibile dichiarare la prescrizione in fase di impugnazione anche in Cassazione, non trova più alcun riferimento tutta la giurisprudenza delle Sezioni unite sul rapporto tra inammissibilità e prescrizione.
Conseguentemente, il tema – in relazione alla improcedibilità – va riconsiderato, a parte la considerazione che la questione non si pone nei casi di proroghe illimitate nel tempo (salvo il caso in cui le proroghe non siano disposte) o nel caso di reati puniti con l’ergastolo, stante la mancata applicabilità dell’art. 344 bis c.p.p.
La questione si prospetta nel caso in cui il giudice deve dichiarare l’improcedibilità, essendo scaduti i tempi del giudizio a fronte di una impugnazione inammissibile, ancorché qualche problema – come si dirà – potrebbe porsi anche nel caso in cui l’inammissibilità sia pronunciata prima della scadenza dei termini, la relativa decisione venga impugnata, con effetti decisori diversificati (rigetto/accoglimento).
A tempi brevi – nel regime transitorio – la questione potrebbe essere agevolmente superata nei fatti, sicuramente ai sensi del comma 5 dell’art. 2 l. n. 134 del 2021, stante gli ampi tempi di smaltimento, ma anche nel caso del comma 4, se pur solo in cassazione, in sede di esame preliminare di ammissibilità, ovvero con meccanismi organizzativi tesi ad escludere il superamento dei tempi.
Tuttavia, restando la questione comunque prospettabile, è necessario indicare una possibile soluzione al problema, in ordine al quale tuttavia, un punto fermo, alla luce dell’art. 648 c.p.p. può dirsi raggiunto in relazione all’impugnazione proposta fuori termine: il giudicato non permette una declaratoria di improcedibilità.
Fermo restando, per le riferite diversità strutturali, le differenze con estinzione del reato per prescrizione e della conseguente inapplicabilità della giurisprudenza delle Sezioni Unite che ha progressivamente regolato il relativo rapporto con l’inammissibilità, facendo prevalere quest’ultima, fatta salva l’ipotesi della pena illegale, così definita dalla Corte costituzionale, le tesi contrapposte possano essere così delineate.
La soluzione che fa prevalere l’improcedibilità sull’inammissibilità considera che il decorso del tempo delinei lo spazio decisorio del giudice, esaurito il quale non gli residuerebbe nessun potere deliberativo (anche l’art 578,comma 1 bis, c.p.p. si configurerebbe solo per una mera trasmissione degli atti). Confermerebbe questo dato l’irrilevanza dell’atto di impugnazione al quale non si fa alcun riferimento nell’art. 344 bis c.p.p.
Questo dato è vero e si evidenzia nel caso in cui l’atto di gravame pervenga sia prima, sia dopo il tempo astrattamente previsto dal legislatore per il decorso del tempo massimo per la sua “definizione”.
Se nel primo caso, il giudice dovrebbe poter decidere anche anticipatamente, fermo il limite massimo, ove non ritenesse di attendere, escludendosi la possibilità di scorporare quel periodo, nel caso dell’arrivo tardivo, potrebbero determinarsi le condizioni per la proroga del tempo massimo, se non già scaduto.
In ogni caso, a prescindere da questi elementi, pur significativi, non può negarsi che il tempo per la “definizione”, rileva solo se c’è un atto di gravame da valutare; diversamente, esso opera inutilmente. In altri termini, senza un atto di impugnazione, quel tempo non rileva: scorre inutilmente e non ci sarà nessuna declaratoria di improcedibilità ex art. 344 bis c.p.p. e nessuna decisione intermedia.
Invero, il riferimento alla “definizione” del giudizio, nonché al “giudizio di impugnazione” (complessità, per numero delle parti, delle imputazioni e delle questioni), ed anche agli sviluppi processuali dell’impugnazione, figura in molte previsioni dell’art. 344 bis c.p.p..
Ci sono, invero, molti elementi che, seppur ai fini del tempo a disposizione del giudice dei gravami, fanno riferimento all’atto di impugnazione.
La sentenza non impugnata o tardivamente impugnata diventerà definitiva ed il trascorrere di quel tempo sarà stato irrilevante.
È per effetto della presenza nel processo dell’atto di impugnazione che rilevano quei tempi che il legislatore ha fissato per la definizione del giudizio di gravame entro l’arco temporale che intercorre fra quello di cui al comma 3 dell’art. 344 bis c.p.p. ed il giorno antecedente per la definizione: in questo spazio temporale il giudice ha pienezza di poteri (merito e inammissibilità), eccettuata la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione.
Diversamente si devono considerare gli effetti di una impugnazione che sia stata proposta e che abbia investito il giudice dell’impugnazione e che abbia visto decorrere i tempi assegnati per la sua definizione. Problema che non si pone con riferimento ai reati che non consentono l’improcedibilità. Invero, l’inammissibilità dell’atto costituisce un prima, rispetto alla declaratoria temporale che precluderebbe il suo stesso decorso. Il tempo della decisione fissato dal legislatore nella prospettiva di un atto di gravame sarebbe condizionato dall’atto proposto in relazione al quale ha fissato il tempo della definizione, con la conseguenza di valutarne anche la validità.
Il discorso, anche alla luce della diversa opinione, forse potrebbe essere considerato nella prospettiva dei poteri che il decorso del tempo conserva al giudice. Sembra doversi riconoscere al giudice, anche a termini scaduti, alcuni poteri non esauritisi con il passare del tempo assegnatogli.
Al di là di quanto previsto dall’art. 578, comma 1 bis, (ed inoperatività dell’art. 622 c.p.p.), non può escludersi che il giudice debba valutare la qualificazione del fatto in relazione al tempo massimo a sua disposizione.
Va sottolineato che nel caso in cui si acceda alla tesi della prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella di improcedibilità questa ultima decisione se non condivisa sarà suscettibile di impugnazione, come per l’ipotesi opposta sarà gravata la sentenza di improcedibilità che non abbia dichiarato l’inammissibilità.
Il discorso si salda con le situazioni nelle quali la declaratoria di inammissibilità dichiarata entro i termini ordinari, sia impugnata.
Con riferimento all’appello, in caso di ricorso contro la decisione, in caso di rigetto, la decisione diventerebbe definitiva (art. 648 c.p.p.), in caso di accoglimento da parte del Supremo Collegio, bisognerebbe vedere se il giudice d’appello sia in tempo per decidere, altrimenti si riprospetta, salva la possibilità di ritenere i termini sospesi, proprio il tema del rapporto tra inammissibilità e improcedibilità.
Non può escludersi che sia la Cassazione, nel contesto di un ricorso ammissibile a riconoscere (d’ufficio o su istanza di parte) l’inammissibilità dell’appello, non dichiarata in precedenza (in via ordinaria, cioè, entro i termini) con conseguente definizione del processo.
Il tema prospetta risvolti diversi in caso di inammissibilità dichiarata dal Supremo Collegio, anche in questo caso considerando le ipotesi di un ricorso con possibile declaratoria di accoglimento o di rigetto.
Al riguardo, è necessario considerare quanto previsto dall’art. 610, comma 5 bis, c.p.p.
Invero, se la Cassazione decide entro il termine massimo, si prospettano due ipotesi: la prima vede la questione definita; la seconda riguarda l’operatività dell’art. 610 c.p.p. e l’esito di un eventuale ricorso, di rigetto o di accoglimento, riproponendosi le soluzioni già indicate.
Il tema riguarda, pertanto, le ipotesi delle possibili declaratorie esauriti i tempi massimi che, tuttavia, sono definite nei contenuti decisi dal Supremo Collegio, non essendo le sue decisioni ordinariamente impugnabili.
Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura
di Ernesto Fabiani e Luisa Piccolo
Sommario: 1. Premessa. - 2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi. - 3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni. - 4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi. - 5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva. - 6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c. - 7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata. - 8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.). - 9. La distribuzione del ricavato. -10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore. - 11. La liberazione dell’immobile pignorato. - 12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa. - 13. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali. - 14. Le misure coercitive. - 15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”.
1. Premessa
Siamo all’inizio di una nuova stagione di riforma della giustizia civile: nella seduta del 25 novembre 2021, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, nonché una serie di misure urgenti per la razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie e in materia di esecuzione forzata[1].
Al fine di comprendere il contesto di riferimento della riforma in atto, va ricordato che l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha drammaticamente evidenziato le criticità della disciplina processuale attualmente vigente, imponendo interventi legislativi nell’immediato, onde far fronte alle esigenze postesi nelle differenti fasi dell’emergenza[2]. Non sempre, però, l’opera del legislatore è stata contraddistinta: per un verso, da un adeguato bilanciamento tra diritti contrapposti, con conseguente necessità di intervento da parte della Corte costituzionale[3]; per altro verso, da un reale effetto risolutore dei nodi irrisolti della disciplina vigente (si pensi, su tutti, alle norme in materia di liberazione dell’immobile, oggetto di esecuzione immobiliare, abitato dal debitore).
Al contempo, si è imposta l’esigenza di riforme che trascendano la fase emergenziale per superare la crisi che da ormai troppo tempo affligge la giustizia civile, con le note ricadute negative anche in ordine alla competitività del nostro Paese. Non è un caso che nell’ambito del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (c.d. PNRR), diretto ad acquisire risorse per superare i devastanti effetti economici dell’epidemia, un ruolo cruciale è stato riservato alle questioni relative alla amministrazione della giustizia e, in particolare, all’esecuzione forzata[4].
Da un punto di vista contenutistico, la legge delega presenta una prima peculiarità: per un verso, delega il Governo alla riforma del processo civile, dettando specifici principi e criteri direttivi; per altro verso, modifica direttamente alcune disposizioni sostanziali e processuali (relative ai procedimenti in materia di diritto di famiglia, esecuzione forzata e accertamento dello stato di cittadinanza) destinate a trovare applicazione a decorrere dal 180° giorno successivo all’entrata in vigore della legge stessa.
Una seconda peculiarità attiene al merito degli istituti su cui il legislatore interviene. Alcune modifiche costituiscono il frutto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che da tempo sollecitavano interventi legislativi: ne costituiscono esempio le proposte in tema di rafforzamento dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata, restando impregiudicata, naturalmente, ogni valutazione in ordine alle disposizioni attuative della legge delega. Altre modifiche, invece, mirano ad introdurre nel nostro ordinamento nuovi istituti, alla luce di quanto previsto in ordinamenti stranieri: ne costituisce un esempio la previsione in tema di “vendita diretta da parte del debitore”.
Non sempre, però, come avremo modo di evidenziare meglio più avanti, il contenuto della legge delega sembra fissare i necessari principi e criteri direttivi alla stregua del rapporto, di matrice costituzionale, che deve intercorrere tra legge delega e decreto delegato. Al contempo, in altri casi giunge sino a conformare l’attività del legislatore delegato in ordine agli elementi procedurali nell’assenza di una effettiva cornice di principi direttivi.
In estrema sintesi, ci troviamo di fronte ad una legge delega caratterizzata dall’estrema eterogeneità: per un verso, sul piano dei contenuti e delle tipologie di intervento, talvolta legati alle contingenze del peculiare momento storico in cui si colloca e talaltra a ben più consolidate riflessioni ed elaborazioni dottrinali; per altro verso, sul piano strutturale, posto che, se talvolta è effettivamente strutturata nei termini della legge delega (ancorché con talune criticità sotto il profilo dei rapporti che, al livello costituzionale, dovrebbero intercorrere fra legge delega e decreti delegati), talaltra, invece, è strutturata nei termini di una legge avente contenuto ed efficacia immediatamente precettivi.
Di grande interesse è l’art. 1, comma 12, della legge in commento, relativo all’adozione di misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di esecuzione forzata, il quale, in estrema sintesi, prevede:
- l’abrogazione delle disposizioni che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva, nonché la sostituzione dell’iter di rilascio della formula esecutiva con la mera attestazione di conformità della copia al titolo originale;
- con riguardo al pignoramento, la sospensione dei termini di efficacia dell’atto di precetto che consenta al creditore, munito di titolo esecutivo e di atto di precetto, di predisporre un’istanza, rivolta al presidente del tribunale, per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare nonché la riduzione dei termini previsti per la sostituzione del custode nominato in sede di pignoramento;
- la riduzione del termine per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale;
- l’accelerazione nella procedura di liberazione dell’immobile quando è occupato sine titulo o da soggetti diversi dal debitore;
- la riforma dell’istituto della delega delle operazioni di vendita al professionista delegato, individuando: un termine di durata (annuale) della delega, rinnovabile dal giudice; l’obbligo per il professionista di svolgere – in questo periodo – almeno tre esperimenti di vendita e di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi; il corrispondente obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista, e sul rispetto dei tempi; l’obbligo del giudice di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento;
- la riforma dell’istituto della delega attribuendo al professionista delegato anche il potere di approvazione del progetto di distribuzione del ricavato;
- la riforma della disciplina del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso gli atti del professionista delegato, attraverso l’introduzione di un termine di venti giorni per la proposizione dello stesso e della proponibilità dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo;
- l’introduzione di un nuovo istituto avente ad oggetto la “vendita privata” del bene, nel procedimento di espropriazione immobiliare, “direttamente” ad opera del debitore, previa autorizzazione del giudice in tal senso;
- l’individuazione di criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata, delle misure di coercizione indiretta;
- l’estensione degli obblighi antiriciclaggio anche agli aggiudicatari e l’introduzione dell’obbligo per il giudice di verificare l’avvenuto rispetto di tali obblighi ai fini dell’emissione del decreto di trasferimento;
- l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, dove confluiscono tutti i dati identificativi degli offerenti, del conto corrente usato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, le relazioni di stima. Tali informazioni sono destinate ad essere messe a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria.
Il contenuto del d.d.l. recepisce molte delle buone prassi che sono state riscontrate dal “gruppo di lavoro esecuzioni” del CSM, nominato con delibera del 30/12/2020, specie in tema di: dovere di collaborazione del custode per il controllo della documentazione ipo-catastale; nomina del custode col decreto che dispone l’udienza di cui all’art. 567 c.p.c.; pronuncia dell’ordine di liberazione al più tardi al momento dell’autorizzazione alla vendita; redazione di schemi di atti per la perizia e l’avviso di vendita; durata limitata della delega; delega della fase della distribuzione[5].
Come detto, non mancano, nell’ambito della legge in comento, ipotesi in cui il legislatore non delega al governo, dettando le direttive, ma modifica direttamente la disciplina vigente. Si tratta del:
- comma 29 dell’art. 1, il quale modifica direttamente l’art. 26 bis c.p.c., in tema di competenza per l’espropriazione di crediti della pubblica amministrazione;
- comma 32 dello stesso articolo 1, il quale modifica l’art. 543 c.p.c., in ordine alla notifica da parte del creditore pignorante dell’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi.
Al fine di consentire al lettore di comprendere, al meglio, quale sia l’effettiva portata innovativa dell’intervento legislativo in esame, nonché di effettuare anche una valutazione delle novità introdotte, l’esame di queste ultime sarà sempre preceduto da quello della disciplina vigente e delle relative criticità, nonché del modo in cui le stesse sono state affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Ciò consentirà, peraltro, anche di evidenziare se, ed eventualmente in quale misura, l’intervento legislativo in esame sia in linea con gli auspici della dottrina per superare de iure condendo dette criticità e/o con le prassi instauratesi presso gli uffici giudiziari per farvi fronte.
2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi
La legge di riforma prevede alcune norme di applicazione diretta in materia di espropriazione di crediti al fine di intervenire su due peculiari problemi emersi nella prassi con riguardo: per un verso, al foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni; per altro verso all’inefficacia del pignoramento presso terzi per mancata o tardiva iscrizione a ruolo.
3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni
È noto come il regime dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione sia stato interessato da un’evoluzione storica cui sono sottese le esigenze di tutela, non solo del diritto di credito, ma anche dell’interesse pubblico perseguito dalle pubbliche amministrazioni. Questo spiega le normative speciali, sia in ordine ai profili procedimentali, sia in ordine ai profili dell’oggetto dell’azione esecutiva[6].
In particolare, la legge di riforma in commento non affronta i tanti profili dubbi emersi nel panorama interpretativo[7], ma interviene sul foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in conseguenza della scelta di accentrare a Roma, con funzioni di controllo della spesa pubblica, il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della p.a.
3.1. Evoluzione della disciplina vigente
Fin dall’entrata in vigore del vigente codice di rito, l’art. 26 c.p.c. disciplinava, al suo secondo comma, la competenza territoriale per l’espropriazione di crediti, attribuendola al giudice del luogo di residenza del terzo debitore ovvero del terzo detentore dei beni pignorati.
Questa regola è stata abbandonata dal legislatore del 2014, che ha abrogato la relativa previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 26 c.p.c., introducendo, per disciplinare la materia, il nuovo art. 26 bis c.p.c., rubricato “foro relativo all’espropriazione forzata dei crediti”. In particolare, il legislatore del 2014, completando la più ampia riforma dell’espropriazione presso terzi compiuta con la legge 24 dicembre 2012, n. 228, ha inteso rafforzare la tutela del credito favorendo il cumulo presso un unico foro del pignoramento di più crediti dello stesso debitore nei confronti di terzi residenti presso fori diversi: la competenza, infatti, viene attribuita al giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore principale. Quando, però, il debitore principale sia una pubblica amministrazione indicata dall’art. 413, c. 5, c.p.c., il foro è radicato in base alla residenza (domicilio, dimora o sede) del terzo debitor debitoris[8].
Nondimeno, come rilevato in dottrina[9], la previsione di cui all’art. 26 bis c.p.c. non è di agevole interpretazione.
La ragione giustificatrice, come enunciato nella relazione illustrativa, è di carattere pragmatico e risiede nella esigenza di evitare che i tribunali di alcune grandi città, tipicamente sedi di pubbliche amministrazioni, siano gravati da un eccessivo numero di procedure espropriative presso terzi. Più in particolare, collegando la competenza per territorio dei processi esecutivi promossi ex art. 543 c.p.c. nei confronti di una parte pubblica non alla residenza del debitore, bensì a quella del terzo, si scongiura il rischio che essi debbano essere incardinati prevalentemente a Roma.
Nondimeno, parte della dottrina[10] ha rilevato che nella gran parte dei casi l’espropriazione forzata di crediti, quando eseguita ai danni di soggetti pubblici, non può che essere compiuta presso il tesoriere. Alla luce della ratio deflattiva della norma, ha pertanto proposto che in caso di pignoramento di crediti vantati da enti sottoposti al servizio di tesoreria unica, territorialmente competente sia il giudice del luogo dove si trova la filale dell’istituto presso il quale è localizzato il servizio di tesoreria, poiché detta filiale, ove dotata di autonomia, è l’unica abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e ad assumere la veste di terzo. In questa prospettiva, la corte di legittimità, con riferimento all’ipotesi di contenzioso instaurato per accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., ha affermato che, ove il terzo pignorato sia una persona giuridica che si avvalga di un servizio di tesoreria unica, è territorialmente competente il giudice ove il terzo pignorato abbia una filiale dotata di autonomia organizzativo-gestionale, essendo l’unica ad essere abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e retta da un preposto autorizzato a stare in giudizio[11]. Muovendosi nell’ambito di questo ordine di idee, la competenza alternativa e concorrente del giudice del luogo della sede principale e di quello della struttura decentrata varrebbe solo per la determinazione del foro generale delle persone giuridiche nei giudizi in cui le stesse siano convenute, ma sarebbe inestensibile alle ipotesi di pignoramento di credito, altrimenti uno stesso credito potrebbe essere pignorato presso giudici diversi[12].
Quanto all’ambito applicativo, si è posto il problema di verificare quale significato rivesta il riferimento all’art. 413, comma quinto, c.p.c., il quale potrebbe indurre a ritenere che resti competente a conoscere della espropriazione presso terzi il giudice del luogo di residenza del terzo quando il pignoramento venga eseguito ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione dei crediti vantati dai dipendenti in forza di un rapporto di lavoro.
Nondimeno, come osservato in dottrina[13], questa interpretazione non sembra plausibile se si considera che i processi esecutivi promossi in relazione a crediti per emolumenti retributivi fondati su rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione sono minori rispetto a quelli promossi ai danni delle pubbliche amministrazioni debitrici dei privati in caso di inadempimento di obbligazioni sorti a vario titolo.
Pertanto, parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità ritengono che l’ambito operativo di questa norma debba riguardare tutte le esecuzioni forzate promosse ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione di uno qualunque dei crediti da esse non onorati[14]. In questa prospettiva non occorre considerare dirimente la natura del credito staggito, ma la qualità di pubblica amministrazione, considerando quanto dispone l’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
3.2.La modifica diretta dell’art. 26 – bis, comma primo, c.p.c.
Il comma 29 prevede la riscrittura dell’art. 26-bis, comma 1, cpc sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» come segue: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
3.3.Valutazione della riforma
Come spiegato dalla relazione illustrativa, la modifica è conseguenza della scelta di accentrare, con funzioni di controllo della spesa pubblica, a Roma il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione.
Si tratta di una scelta ragionevole, che considera l’esigenza di distribuire i carichi di lavoro tra gli uffici.
Nondimeno, secondo parte della dottrina[15], frutto di lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio. Per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.). Conseguentemente, ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi
La legge di riforma interviene su un tema che ha suscitato diversi problemi applicativi; uno di questi è rappresentato dal rischio di non ottenere l’immediato svincolo delle somme a causa della mancata comunicazione del creditore al terzo debitor debitoris in seguito alla sopravvenuta inefficacia del vincolo.
4.1. La disciplina vigente in merito alla comunicazione dell’inefficacia del pignoramento al debitore e al terzo debitor debitoris
Il legislatore del 2014, apportando rilevanti modifiche alla fase iniziale dell’espropriazione forzata, ha fatto leva sul “principio dell’impulso di parte” per la prosecuzione dell’iter esecutivo dopo il compimento delle formalità del pignoramento, ponendo in capo al creditore procedente l’onere di provvedere all’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva nei termini e nelle forme stabilite dalla legge, pena l’inefficacia del pignoramento, che ai sensi del 1° comma dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c. opera di diritto.
Alla luce degli innovati artt. 518, 6° comma, 521, 5° e 6° comma, 543, 4° comma, e 557 c.p.c., in ciascuna delle diverse forme dell’espropriazione forzata, dopo il compimento delle operazioni di pignoramento, l’ufficiale giudiziario, infatti, non deve più provvedere al deposito dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione, ma è chiamato a consegnarli senza ritardo al creditore procedente, affinché quest’ultimo proceda all’iscrizione a ruolo, lasciando così ad esso la scelta di coltivare o meno l’intrapresa esecuzione[16].
Il legislatore, con la richiamata riforma del 2014, ha peraltro stabilito che gli effetti del pignoramento inefficace a causa della mancata o intempestiva iscrizione a ruolo vengano meno a prescindere dalla declaratoria giudiziale di estinzione, evidentemente al fine di scongiurare il rischio che il debitore subisca le conseguenze di una espropriazione inutile ed insuscettibile di sanatoria.
Nondimeno, anche se la cessazione degli effetti del pignoramento costituisce una conseguenza ope legis della scadenza del termine perentorio di cui agli artt. 518, 543 e 557 c.p.c., l’art. 164 ter disp. att. c.p.c. impone al creditore di redigere e notificare al terzo e al debitore apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo.
Più in dettaglio, con specifico riferimento al pignoramento presso terzi: per un verso, l’art. 543, comma quarto, c.p.c., prevede un’ipotesi di inefficacia per omessa o intempestiva iscrizione a ruolo del processo a cura del creditore pignorante; per altro verso, l’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., prescrive che il creditore, entro cinque giorni dalla scadenza del termine per l’iscrizione a ruolo, provveda a fare, mediante notifica, apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo al debitore e all’eventuale terzo debitor debitoris affinché siano edotti della chiusura della procedura esecutiva, a causa della sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito.
La ragione sottesa a questa norma è di impedire un’inerte pendenza sine die del pignoramento, consentendo una rapida liberazione dei beni già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo.
Nondimeno, considerata l’assenza di una sanzione relativa a questa disposizione, nella prassi è stato frequentemente constatato che la mancata informazione al terzo impedisca a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. In tal guisa il terzo pignorato, non conoscendo l’esito della procedura, mantiene il vincolo sulle somme pignorate.
Si tratta di un fenomeno diffuso, che comporta, non solo conseguenze dannose per il debitore, ma anche per l’amministrazione della giustizia, costretta a sopportare i costi di contenziosi derivanti da pignoramenti inutilmente pendenti.
4.2. La notifica della avvenuta iscrizione a ruolo da parte del creditore al debitore e al terzo prevista dalla legge di riforma
L’art. 1, comma 32 aggiunge all’articolo 543, comma 4 del c.p.c., i seguenti commi: «Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento. Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
4.3. Valutazione della riforma
Secondo la Relazione illustrativa, la previsione testé riportata mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., primo comma. In effetti, si introduce la sanzione in correlazione all’adempimento relativo all’iscrizione al ruolo, posto che proprio la mancanza della sanzione ha comportato i problemi applicativi sopra considerati. Lo scopo della modifica normativa, che grava il creditore pignorante, a pena di inefficacia del pignoramento, di un ulteriore onere, è, dunque, di consentire al terzo di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere.
È quanto mai opportuno che il legislatore abbia considerato[17], in via prioritaria, la posizione del terzo debitor debitoris e, con essa, la tutela del debitore, sebbene dubbi possano avanzarsi in ordine alla ragionevolezza del rapporto individuato dal legislatore, tra mezzo e scopo, nella previsione normativa in esame. Sembrerebbe, infatti, eccessivamente punitiva, come già rilevato dal parere formulato dal CSM in ordine alla riforma in commento[18], la sanzione dell’inefficacia del pignoramento.
5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva
La legge di riforma in esame prevede l’abrogazione dell’istituto della spedizione in forma esecutiva, che, sia pur spesso oggetto di affermazioni contrastanti in ordine alla sua perdurante utilità nell’ambito del nostro ordinamento, rappresenta, come si è già avuto modo di evidenziare ampiamente in altra sede [19], non solo l’attività necessaria a far sì che il titolo giudiziale o quello notarile esplichino la funzione di titolo esecutivo, ma anche la sede in cui il pubblico ufficiale all’uopo deputato esercita un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale, svolgendo, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante.
È alla luce della consapevolezza delle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento che va analizzato l’intervento previsto dalla legge di riforma in commento, analogamente a quanto avvenuto in merito a recenti interventi legislativi legati all’emergenza sanitaria da Covid -19, con riguardo alle copie telematiche delle copie esecutive.
5.1. La disciplina vigente
Gli artt. 475, 476 c.p.c. e 153 e 154 disp. att. c.p.c., c.p.c. disciplinano la cd. spedizione in forma esecutiva, formalità prevista per i titoli di formazione giudiziale nonché per gli atti pubblici, non invece per i titoli di credito e - stando al dettato normativo - per le scritture private autenticate il cui originale è di regola in possesso delle parti [20]. Per questi titoli, la spedizione in forma esecutiva è, i«nfatti, sostituita dall’obbligo di trascrizione integrale nell’atto di precetto ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c.
Di recente quest’istituto è stato fatto oggetto di attenzione da parte del legislatore alla luce di quanto previsto dal comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico, previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento [21].
5.2. La funzione della spedizione in forma esecutiva secondo la dottrina e la giurisprudenza
È controverso quale sia la funzione della spedizione in forma esecutiva e, soprattutto, l’effettiva rilevanza della stessa nell’ambito del nostro ordinamento.
In dottrina[22], in più occasioni, e talvolta anche in giurisprudenza[23], si è ritenuto che l’apposizione della formula esecutiva rappresenti un relitto storico, anche facendo leva sulle origini di quest’istituto, afferenti ad epoca in cui l’esecuzione non era attribuita al potere giurisdizionale, bensì a quello amministrativo[24].
Nondimeno, non sono mancate voci autorevoli che conferiscono all’istituto in esame un ruolo particolarmente pregnante, ritenendo che «prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio»[25]. Recentemente queste voci hanno trovato eco, ancorché in modo tanto parziale da non rispecchiarne il senso, in una pronuncia della Corte di legittimità[26], la quale, da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo, d’altro canto ha qualificato i vizi come motivi di opposizione agli atti esecutivi.
A fronte di queste due impostazioni contrapposte, si riscontra, infine, un’ulteriore impostazione dottrinale che, pur non riconoscendo alla spedizione in forma esecutiva il ruolo di conferire esecutività al titolo, ritiene comunque che la stessa riveste «tuttora importanti funzioni» [27]. Si è ritenuto, in particolare, che la «funzione della spedizione in forma esecutiva è estremamente importante: tale funzione non risiede nella solenne formula esecutiva richiesta dall’art. 475, comma 3, c.p.c. (alla quale la dottrina concordemente riconosce valenza di “residuo storico”, privo ormai di ogni effettivo significato), ma piuttosto nell’esigenza di “contrassegnare” il documento al quale si attribuisce la funzione di attivare l’esecuzione forzata, e che - secondo un’incisiva metafora – “incorpora” l’azione esecutiva, alla stessa stregua del titolo di credito che incorpora il diritto di credito»[28].
5.3. Le incertezze interpretative registratesi nel corso del tempo in merito alla tipologia e al controllo in sede di spedizione in forma esecutiva
Non sussiste uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza, neanche in ordine alla tipologia e ai confini del controllo esercitabile da parte del pubblico ufficiale in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva.
Più in particolare, non risulta pacifico quale sia esattamente l’ambito del controllo richiesto al pubblico ufficiale in sede di rilascio della copia esecutiva, né tantomeno è chiaro se sussista una piena uniformità fra il controllo che compete al cancelliere con riferimento ai titoli esecutivi giudiziali[29] e quello che compete al notaio con riferimento agli atti dallo stesso ricevuti[30].
Significative incertezze si registrano in giurisprudenza.
Secondo l’orientamento più volte affermato dalla Corte di legittimità, l’apposizione della formula esecutiva attiene ai requisiti di regolarità formale del titolo esecutivo in senso documentale e non costituisce, al contrario, elemento essenziale per il dispiegarsi di un’efficacia esecutiva che è già interna al titolo[31]. Ulteriore funzione della spedizione in forma esecutiva, sottolineata in altra pronuncia, è quella di assicurare che un pubblico ufficiale eserciti il controllo, nel momento della spedizione del titolo, sulla legittimazione all’azione esecutiva da parte di colui a favore del quale è richiesta l’apposizione della formula esecutiva[32].
Più in dettaglio, alla luce della lettura congiunta della norma di cui all’art. 153 disp. att. c.p.c. con le norme sulle opposizioni esecutive, la giurisprudenza, nel corso del tempo, ha ritenuto che il pubblico ufficiale debba verificare se l’atto abbia i requisiti indicati nella formula, senza sindacarne il contenuto o l’efficacia[33]. Si tratterebbe, pertanto, di un controllo dal carattere meramente formale, come confermato dal fatto che la denuncia dell’errata apposizione della formula esecutiva configura un’ipotesi di opposizione ex art. 617 c.p.c. allorquando si faccia riferimento solo alla correttezza della spedizione del titolo in forma esecutiva, richiesta dall’art. 475 c.p.c., poiché in tal caso l’indebita apposizione della formula può concretarsi in una irregolarità del procedimento esecutivo o risolversi in una contestazione della regolarità del precetto ai sensi del primo comma dell’art. 617 c.p.c.[34]
Viceversa, allorché la denuncia sia motivata dalla contestazione dell’inesistenza del titolo esecutivo ovvero dalla mancata soddisfazione delle condizioni perché l’atto acquisti l’efficacia di titolo esecutivo, l’opposizione deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.[35]. Anche i profili relativi all’adempimento dell’obbligo consacrato nel titolo esecutivo trovano la loro sede nell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.
In senso singolare, rispetto a questi orientamenti, si è posta una recente pronunzia della Corte di legittimità, secondo la quale non è condivisibile la tesi dell’irrilevanza della spedizione in forma esecutiva affinché un atto possa valere come titolo esecutivo, ma è preferibile la tesi per cui la spedizione è una delle condizioni dell’azione esecutiva[36]. Questa pronuncia, benché sembri evocare (soltanto) testualmente una nota concezione[37] sulla spedizione in forma esecutiva, in verità ne muta il senso e i confini nella parte in cui articola il controllo da effettuarsi in sede di spedizione esecutiva e qualifica il vizio relativo alla irregolarità della spedizione in forma esecutiva.
5.4. L’acuirsi delle incertezze interpretative, sul versante della spedizione in forma esecutiva, derivanti dall’affermarsi del documento informatico
L’esigenza di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata è stata messa in crisi, negli ultimi anni, dall’affiancarsi al tradizionale documento cartaceo - su cui è incentrata la disciplina del codice di rito civile in tema di titolo esecutivo -, del documento informatico.
Inevitabilmente, una disciplina incentrata sulle tradizionali figure di documento e di copia cartacea solleva problematiche, tanto di ordine sistematico, quanto di ordine pratico-operativo, ove sia trasfusa in un differente contesto contraddistinto dal ricorso anche a documenti e copie non cartacei, che, a differenza del documento cartaceo, non nascono come esemplari unici.
Non a caso, si è ritenuto che, dopo l’entrata in vigore del cd. codice dell’amministrazione digitale e del processo telematico, la distinzione fra originale e copia «perde la tradizionale rilevanza … in quanto la copia di un file è di fatto identica all’originale» e che l’impossibilità di distinguere fisicamente l’originale dalla copia rischia di «rendere ormai residuali anche adempimenti formali tradizionali, quali, ad esempio, quelli relativi alla apposizione della formula esecutiva»[38].
Questa problematica è stata acuita dall’introduzione, nel nostro ordinamento, di una norma di carattere generale avente ad oggetto le copie informatiche di atti processuali (ossia l’art. 16-bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012) nonché dalle relative prassi applicative diffusesi presso i Tribunali specie in seguito all’insorgenza della emergenza epidemiologica.
La delicatezza di questa problematica è stata però accresciuta in modo dirompente dall’intervento del legislatore di cui al comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, sopra richiamato, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento.
Si tratta, come precedentemente evidenziato[39], di una norma circoscritta ai soliti titoli giudiziali, in forza della quale non viene meno la competenza esclusiva del cancelliere in tema di controllo e spedizione del titolo in forma esecutiva, che ha carattere transitorio (essendo stata introdotta dal legislatore per fronteggiare l’emergenza epidemiologica) e non già una portata di ordine sistematico e stabile nel tempo.
Ciò nonostante, non è mancato chi, nel commentare la disposizione in esame, ha ritenuto che «l’opportunità introdotta dall’art. 23 “Decreto Ristori” non è, in ultima analisi, legata alla contingenza, ma scandita dall’evoluzione stessa dell’ordinamento e del processo»[40].
Indubbiamente, come già precisato in altra sede[41], esiste un’esigenza di lungo periodo di contestualizzare la disciplina del codice di rito civile in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva, chiaramente incentrata sulla tradizionale figura di documento cartaceo, nell’ambito di un rinnovato contesto (anche) processuale in cui, accanto al documento cartaceo, ha trovato sempre più spazio il documento informatico.
Nondimeno, non sussiste in via di principio un’incompatibilità di fondo fra l’attuale disciplina del codice di procedura civile nella parte in cui vuole evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice che siano tali da scongiurare il suddetto rischio.
Una cosa è, in altri termini, l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, detta disciplina debba essere necessariamente rivista nel senso di ridimensionare o eliminare radicalmente l’istituto della spedizione in forma esecutiva.
5.5. La rilevanza del controllo esercitato in sede di spedizione in forma esecutiva
In forza di un’ampia indagine di recente condotta [42], prendendo le mosse proprio dalla suddetta evoluzione (dottrinale, giurisprudenziale e normativa) e dalle relative incertezze determinatesi sia sul piano teorico – sistematico, sia sul piano pratico – operativo, è possibile sinteticamente evidenziare quanto segue con riferimento alle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento e al controllo in tal sede esercitato dal pubblico ufficiale.
L’analisi effettuata ha consentito di contestualizzare e ridimensionare il significato delle affermazioni talvolta effettuate dalla dottrina più risalente nel tempo nel senso di considerare la spedizione in forma esecutiva un mero relitto storico. Trattasi, infatti, di affermazioni che trovano spesso la loro ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali.
Al fine di cogliere la funzione della spedizione in forma esecutiva, in questa prospettiva di ricerca, si è rimarcata la necessità di considerare la scelta effettuata dal nostro ordinamento il quale, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, non subordina l’instaurazione del processo esecutivo ad un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo esecutivo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata, essendo, invece, previsto (artt. 475 c.p.c. e 153 disp. att. c.p.c.) solo un controllo rimesso al cancelliere o al notaio (a seconda che a fondamento della pretesa esecutiva sia posto un titolo giudiziale o stragiudiziale), cui si affianca un ulteriore controllo attribuito all’ufficiale giudiziario, che (in forza del combinato disposto degli artt. 60, n. 1, c.p.c. e 108, 2° co., d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229 t.u. sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari) può legittimamente rifiutare l’esecuzione forzata richiestagli.
Queste brevi considerazioni: per un verso, implicano che il nostro ordinamento considera come fisiologica la possibilità che il diritto di procedere ad esecuzione forzata non sussista al momento dell’instaurazione del processo esecutivo e che ciò possa essere accertato in sede giurisdizionale solo a fronte di un’apposita iniziativa in tal senso del soggetto a ciò interessato nelle forme dell’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi); per altro verso, manifestano l’importanza del controllo esercitato (o esercitabile) in sede di spedizione in forma esecutiva, nel senso di deflazionare il contenzioso, sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo.
L’indagine storica, sistematica e teleologica della spedizione in forma esecutiva ha consentito di sottolineare che la spedizione del titolo in forma esecutiva, non svolge nel nostro ordinamento la sola funzione di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata, e dunque di evitare la possibile instaurazione di una pluralità di processi esecutivi in forza del medesimo titolo, rappresentando anche la sede istituzionalmente deputata a consentire l’effettuazione di un controllo da parte del cancelliere o del notaio a seconda della differente tipologia di titolo esecutivo che venga in rilievo. Un controllo che si inserisce oggi in uno scenario mutato rispetto a quello vigente al tempo della codificazione, contraddistinto dall’accresciuta importanza dei titoli esecutivi stragiudiziali, e nella specie notarili, oltre che dalla complessità delle relazioni economiche, che acuisce la complessità dell’indagine richiesta ai fini della spedizione del titolo in forma esecutiva: dal punto di vista oggettivo, sotto il profilo sussistenza di un’obbligazione suscettibile di essere eseguita nelle forme dell’esecuzione forzata; dal punto di vista soggettivo, sotto il profilo della legittimazione ad ottenere la copia esecutiva ex art. 475 c.p.c. Conseguentemente, ogni valutazione in ordine all’attuale rilevanza nel nostro ordinamento dell’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva è inscindibilmente legata al ruolo effettivamente svolto da questo controllo nel nostro ordinamento.
All’esito di tale indagine è, dunque, parso evidente come ci troviamo dinanzi, non ad un mero relitto storico, bensì ad un istituto che, così come attualmente disciplinato ovvero adeguatamente riformato, costituisce o può costituire una preziosa risorsa per circoscrivere il rischio di instaurazione di processi esecutivi illegittimi o infondati, a tutto beneficio del soggetto altrimenti destinato a subire un’esecuzione illegittima o “ingiusta” e della deflazione del carico giudiziario (che si coglie, nel caso di specie, non solo sotto il profilo della instaurazione del processo esecutivo, ma anche delle invitabili parentesi cognitive destinate ad ospitare l’accertamento della fondatezza delle doglianze del debitore esecutato).
Più in particolare, quanto meno con riferimento al controllo rimesso al notaio, non ci troviamo di fronte ad un controllo meramente formale, sia dal punto di vista soggettivo, sia dal punto di vista oggettivo del diritto cristallizzato nel titolo.
Dal punto di vista soggettivo del diritto consacrato nel titolo appare difficilmente contestabile che il controllo di cui si discute:
- per un verso, non sia un mero controllo formale, essendosi da più parti evidenziato come ci troviamo di fronte ad un controllo penetrante, o che non si può comunque esaurire in un mero controllo cartolare nell’ipotesi in cui la spedizione del titolo venga effettuata in favore (non della parte ma) del successore, specie laddove si ritenga necessario fornire la prova della successione;
- per altro verso, elevi la certezza del diritto consacrato nel titolo in quanto, in tal caso, con l’apposizione della formula si integrano i riferimenti del titolo, attraverso l’individuazione di un diverso soggetto avente diritto di procedere all’esecuzione a seguito di un evento che determina una successione nel diritto e nel titolo.
Dal punto di vista oggettivo del diritto consacrato nel titolo, ci troviamo di fronte ad un controllo che non si è mai esaurito in un mero controllo formale, circoscritto cioè alla sola forma dell’atto. Si è, invece, sempre trattato di un controllo esteso anche al contenuto dell’atto. Più in dettaglio, pur escludendosi dai più che detto controllo debba spingersi sino a verificare la sussistenza di un diritto certo, liquido ed esigibile (cd. esecutività in concreto), è stato comunque sempre effettuato un penetrante controllo sulla conformazione dell’obbligazione. Inoltre, in relazione a fattispecie particolarmente controverse si è elevata la certezza del diritto consacrato nel titolo ricorrendo al cd. titolo esecutivo complesso.
È alla luce di queste riflessioni che si è considerato come l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva, proprio in quanto strettamente connesso al controllo preventivo esercitabile rispetto all’instaurazione del processo esecutivo, non può essere semplicisticamente archiviato come un relitto storico, così come non si può ritenere che si tratti di un istituto superato in quanto inscindibilmente legato alla natura cartacea del titolo o della copia, essendo piuttosto ben compatibile anche con un documento non avente consistenza cartacea.
In definitiva, ci troviamo di fronte ad un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale e che svolge, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante nel nostro ordinamento in quanto, pur muovendosi sul piano del contenuto dell’atto, contribuisce ad elevare il livello di certezza di esistenza del diritto consacrato nel titolo e, dunque, anche a ridurre il rischio che questo sia contestato attraverso l’instaurazione di un giudizio oppositivo. In altri termini, svolge un ruolo di “filtro di accesso” alla tutela esecutiva e di deflazione del contenzioso nell’ambito di un ordinamento come il nostro che, a differenza di altri ordinamenti, è privo di un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata.
5.6. L’intervento previsto dalla legge di riforma
L’art. 12, lett. a) prevede che per valere come titolo per l’esecuzione forzata le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti dal notaio o da altro pubblico ufficiale, devono essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e le altre disposizioni legislative che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva.
Nelle “proposte normative e note illustrative” della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” si invocano, a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva:
- la dottrina secondo la quale “la formula esecutiva è un requisito la cui utilità è scarsamente comprensibile”;
- la giurisprudenza di legittimità che interpreta l’art. 475 c.p.c. nel senso di “escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo” e che ha di recente ulteriormente indebolito la rilevanza della formula esecutiva ritenendo da un lato, che “l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina un’irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.”; dall’altro lato, che il debitore non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato”;
- la disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – che renderebbe “vieppiù superflua la normativa codicistica”.
5.7. Valutazione della riforma
La legge di riforma suscita molte perplessità, sia per l’epilogo cui giunge, sia per le motivazioni ad esso sottese.
Le motivazioni di cui alla Relazione illustrativa appaiono del tutto censurabili.
In primo luogo, non può assolutamente dirsi pacifica l’affermazione che tende a svalutare l’importanza della spedizione in forma esecutiva.
Come già evidenziato, è assai controversa, in dottrina e giurisprudenza, la funzione della spedizione in forma esecutiva e l’affermazione secondo cui ci troveremmo di fronte ad un “relitto storico”: è spesso ripetuta in modo tralaticio nel corso del tempo; trova, in realtà, la sua ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali, con particolare riguardo all’evento rivoluzionario relativo all’introduzione della cambiale e al fenomeno della cd. alla interiorizzazione della forza esecutiva[43].
Invero, spesso le obiezioni della dottrina a quest’istituto sono state talvolta incentrate, non sull’istituto in sé e sul controllo che può essere deputato a salvaguardare, bensì sulle modalità di attuazione dello stesso e, in particolare, sulla formula di cui all’art. 475 c.p.c.
In secondo luogo, la pronuncia della corte di legittimità invocata a fondamento dell’abrogazione dell’istituto, non solo si inserisce in un panorama giurisprudenziale che non può dirsi pacifico, ma soprattutto è apparsa intrinsecamente contraddittoria nella parte in cui: da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo - riprendendo quasi testualmente la nota impostazione dottrinale che attribuisce alla spedizione del titolo in forma esecutiva la rilevanza di condicio iuris per l’esercizio dell’azione esecutiva -; d’altro canto ha sminuito la rilevanza della spedizione del titolo in forma esecutiva sotto il profilo della sua eventuale omissione e della tipologia del vizio deducibile in sede di opposizione (oltre che delle condizioni cui sarebbe subordinata detta deducibilità).
In terzo luogo, non sussiste alcuna incompatibilità di fondo fra la disciplina del codice di rito civile nella parte in cui mira ad evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie, rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice, tali da scongiurare il suddetto rischio (così come si è tentato di fare in sede di riforma della legge notarile, con l’art. 68 bis, in relazione al possibile rilascio in via telematica della copia esecutiva da parte del notaio); una cosa è l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, l’istituto della spedizione in forma esecutiva sia stato sostanzialmente abrogato o debba essere comunque necessariamente abrogato
Da quanto osservato emerge il rischio evidente della scelta di abrogare l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva al fine di semplificare l’iter che precede l’instaurazione del processo esecutivo: pagare un prezzo molto alto in termini di aumento dei giudizi oppositivi, posto che detto controllo, quanto meno con riferimento ai titoli di formazione stragiudiziale - e, segnatamente, con riferimento a quelli di formazione notarile -, non è stato mai inteso come un mero controllo formale circoscritto alla sola forma dell’atto, bensì come un controllo ben più penetrante che, seppur incentrato sul contenuto dell’atto, ha sempre contribuito ad accrescere la certezza del diritto consacrato nel titolo.
Né si può immaginare che il controllo attualmente effettuato dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva possa essere effettuato dall’ufficiale giudiziario in sede di legittimo rifiuto a procedere all’esecuzione forzata richiestagli, ossia l’unico controllo antecedente rispetto all’instaurazione del processo esecutivo che sopravvivrebbe all’esito della suddetta riforma[44].
In definitiva, per i motivi già ampiamente evidenziati in altra sede [45], non appare azzardato ritenere che, de iure condendo, la direzione corretta da imboccare non sarebbe stata quella di eliminare la spedizione del titolo in forma esecutiva, ma quella di valorizzare detto istituto facendolo divenire la sede per un controllo più penetrante sul titolo esecutivo, così eliminando, per un verso, i dubbi attualmente esistenti in ordine alla delimitazione dei confini del controllo esercitabile in detta sede e così accrescendo, per altro verso, la certezza del diritto consacrato nel titolo, con evidenti effetti in termini di deflazione del contenzioso (sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo).
6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c.
La legge di riforma prevede una generale riduzione dei termini per il deposito della certificazione ipocatastale, nonché del certificato notarile sostitutivo[46], con l’intento di rendere più celere la fase introduttiva della procedura esecutiva immobiliare.
6.1. La disciplina vigente
La disciplina in materia di termini per il deposito della documentazione suddetta, necessaria ai fini di ottenere l’autorizzazione alla vendita, ha subito diverse modifiche nel corso del tempo.
La legge 3 agosto 1998, n. 302 aveva previsto il termine di sessanta giorni per il deposito della documentazione ipocatastale o del certificato notarile sostitutivo, ritenuto allora troppo breve ad opera di parte della dottrina[47].
In forza delle innovazioni apportate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, il termine in questione era stato fissato in centoventi giorni decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita, prorogabili per un sola volta fino a ulteriori centoventi in presenza di “giusti motivi”, su richiesta dei creditori o dell’esecutato[48].
La disciplina attualmente vigente costituisce il frutto dell’intervento novellatore attuato con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (convertito in L. n. 132/2015), che ha dimezzato i termini relativi sia al deposito del ricorso e alla documentazione sopra indicata, sia alla proroga richiesta che diviene, in entrambi i casi, di sessanta giorni.
In caso di mancato deposito o mancata integrazione, il giudice, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza, dopo aver sentito le parti, l’inefficacia del pignoramento limitatamente a tali beni, ordinando, altresì, la cancellazione della trascrizione; è, invece, dichiarata l’estinzione dell’intera procedura nei soli casi in cui non vi siano altri beni pignorati.
6.2. L’intervento previsto in ordine all’art. 567 c.p.c. dalla legge di riforma
La lett. c) del comma 12 richiede al legislatore delegato di attuare una riduzione del termine per depositare la documentazione ipotecataria e catastale di cui al comma secondo dell’art. 567 c.p.c., riduzione che viene quantificata in quindici giorni, decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita.
Per l’effetto si allineerebbe detto termine a quelli previsti dagli artt. 497 c.p.c., in tema di cessazione di efficacia del pignoramento, e 501 c.p.c., in tema di termine dilatorio del pignoramento.
A questo profilo è correlata la previsione di cui alla lett. d) dell’art. 12, che prevede la collaborazione del custode con l’esperto nominato ex art. 569 c.p.c. per meglio effettuare le verifiche sulla completezza della documentazione ipotecaria e catastale.
Questa previsione trova un significativo riscontro nelle linee guida elaborate dal CSM[49], ove viene rimarcata la rilevanza, nell’interesse della procedura esecutiva, di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode. Come si osserverà analizzando le previsioni della legge di riforma in tema di custodia, infatti, alla luce delle distinte professionalità tanto del custode quanto dell’esperto, secondo le richiamate linee guida, «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea»[50].
6.3. Valutazione dell’intervento previsto nella legge di riforma
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come, nonostante l’emergere negli ultimi anni di talune problematiche, anche significative, in tema di contenuti e funzione della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., la scelta del legislatore di cui alla l. n. 206/2021 è quella di effettuare solo un intervento minimale, ossia la suddetta riduzione del relativo termine di deposito. Peraltro, secondo il richiamato parere del CSM[51], la norma rischia di imporre al creditore un termine difficile da rispettare per gli adempimenti previsti dall’art. 567, co. 2, c.p.c., ed è prevedibile che i creditori ricorreranno spesso all’istanza di proroga del termine per giusti motivi ai sensi dell’art. 567 c.p.c. Occorrerebbe, secondo detto parere, valutare la possibilità di introdurre un termine più lungo o, quantomeno, di far decorrere lo stesso dalla ricezione, dal creditore, dell’atto di pignoramento notificato.
7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata
La legge di riforma in esame presenta diverse modifiche in relazione all’istituto della delega delle operazioni di vendita, che ha già subito, nel corso degli ultimi anni, già svariati interventi modificativi, talvolta anche di grosso impatto, per lo più accomunati dall’intento di potenziare un istituto (estendendone l’ambito di applicazione, sia da punto di vista dei soggetti delegabili, che delle attività delegabili) che ha indubbiamente contribuito, sin dai primi riscontri applicativi, a rendere più efficiente il processo di espropriazione forzata.
Ciò nonostante, come segnalato in dottrina[52] con riguardo alle prospettive de iure condendo, ancora residuano diversi margini di intervento per potenziare ancor di più l’istituto in esame, solo alcuni dei quali, come si vedrà, sembrano essere stati considerati dalla legge di riforma in commento.
Per una migliore lettura ed analisi delle modifiche contenute nella legge di riforma si esamineranno, in successione, le previsioni attinenti:
- all’istituto della delega;
- al controllo sugli atti del professionista delegato;
- al progetto di distribuzione.
7.1. Evoluzione dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata
L’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata ha subito una straordinaria evoluzione normativa.
Le sue origini si devono all’elaborazione scientifica di autorevole dottrina[53], fatta oggetto di un significativo dibattito dottrinale soprattutto in occasione di un importante convegno promosso ed organizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato[54], i cui lavori costituirono il punto di riferimento del progetto di legge da cui scaturì la legge 3 agosto 1998 n. 302. Ancor prima di quest’espresso riconoscimento legislativo, peraltro, l’istituto della delega delle operazioni di vendita aveva già trovato riscontro nella prassi di taluni Tribunali [55], seppur con una portata più circoscritta di quella che sarebbe stata poi fatta propria dal legislatore di cui alla legge n. 302/98.
Nel sistema della legge 3 agosto 1998, n. 302 si inquadrava l’istituto nella nozione di delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna nel diritto pubblico[56]. Sotto la vigenza della predetta legge, la tesi prevalente, peraltro, inquadrava il notaio delegato quale sostituto, non solo del giudice dell’esecuzione ma dell’ufficio giudiziario nel suo complesso, che continuava a svolgere la propria funzione notarile, nella quale è insita una funzione latamente processuale, con conseguente necessità di fare applicazione delle norme sulla legge notarile e non di quelle sugli ausiliari del giudice ai fini di una serie di problematiche[57].
I benefici che questo istituto ha arrecato al processo espropriativo, sia in ordine ai tempi dello stesso sia in ordine ai risultati conseguiti, hanno indotto il legislatore, con le riforme del 2005, ad ampliare tanto le attività quanto le categorie di soggetti delegabili. In tal guisa, tuttavia, è stato configurato un istituto diverso da quello ab origine disciplinato dalla legge 3 agosto 1998, n. 302: questo istituto, infatti, ha attualmente ad oggetto un’intera fase del processo di espropriazione forzata e comporta l’attribuzione al professionista delegato anche di attività riconducibili nell’attività di ius dicere. Inoltre, per effetto di questa riforma[58], il legislatore ha compiuto un decisivo passo verso un progressivo e sempre più esteso trasferimento all’esterno degli uffici giudiziari di funzioni lato o stricto sensu giurisdizionali.
Più in particolare, le riforme del 2005 hanno profondamente mutato la natura dell’istituto in esame, determinando, da un canto, un ampliamento delle categorie di soggetti delegabili (non più solo notaio, ma anche avvocati e commercialisti) e, conseguentemente l’impossibilità di invocare l’impianto normativo riferito solo al notaio; d’altro canto, un ampliamento delle attività delegabili, ritenute non più solo di giurisdizione in senso lato, ma anche di giurisdizione in senso stretto (si pensi, in particolare, alla valutazione delle offerte di cui all’art. 572 c.p.c.)
Si è in particolare osservato che l’operare della figura della cd. «delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna» di diritto pubblico sia stato messo in crisi dalla riforma dell’istituto della delega del 2005, la quale avalla, invece, la riconduzione nell’ambito della differente figura della cd. delegazione di giurisdizione[59]. In quest’ottica si qualifica detto istituto, non più in termini di attribuzione di un’attività (sostitutiva e non di mero ausilio di quella del giudice) di mera giurisdizione in senso ampio, ma come attribuzione di un’attività (pur sempre sostitutiva e non di mero ausilio rispetto a quella del giudice) di giurisdizione in senso stretto.
Nel corso del tempo il legislatore ha ancor di più rafforzato l’istituto in esame.
Nel 2015, con il d.l. n. 83, ha disposto l’obbligatorietà della delega ai professionisti delegati delle operazioni di vendita, salvo che il giudice, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti[60].
Nel 2016, con il d.l. n. 59, ha voluto assicurare la qualità del servizio reso dai professionisti delegati mediante un percorso di qualificazione professionale specifico, novellando in modo significativo la disciplina della selezione e formazione dei professionisti delegabili[61].
7.2. Le prospettive de iure condendo
In dottrina[62] sono stati in più occasioni evidenziati ulteriori margini di intervento, de iure condendo, per rendere l’istituto in esame ancor più funzionale rispetto alle esigenze del processo esecutivo. Ciò, fondamentalmente, in una duplice direzione: da un lato, quella volta a sgravare la magistratura da ulteriori incombenze che potrebbero essere attribuite al professionista delegato nel pieno rispetto del dettato costituzionale; dall’altro lato, quella volta ad assicurare un maggiore controllo sui tempi della procedura, soprattutto facendo leva sulla revoca del professionista che non rispetti (ovviamente per causa a lui imputabile) i termini «intermedi» assegnatigli dal giudice e non solo quello «finale» per il compimento delle operazioni delegate nel suo complesso.
Al fine di conseguire detti obiettivi, si è ritenuto che si dovrebbe intervenire, tanto sui tempi, quanto sui contenuti della delega.
Dal primo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere anticipato il momento processuale della delega, prevedendo l’obbligo del giudice, a fronte del deposito della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., di nominare immediatamente con decreto non solo l’esperto, ma anche il professionista delegato, il quale dovrebbe interfacciarsi con l’esperto, anche ai fini della determinazione del valore dell’immobile, predisporre l’ordinanza di vendita e l’avviso di vendita ovvero una relazione (al giudice) in ordine ai motivi che ostano alla possibilità di procedere alla vendita.
Dal secondo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere ampliato il perimetro delle operazioni delegate, riservando al giudice solo taluni snodi essenziali della procedura, assicurando sempre alle parti di avvalersi del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. In particolare, si è ritenuto che al professionista delegato dovrebbe essere attribuito in modo espresso il potere di: pronunciare la perdita (in tutto o in parte) della cauzione a causa della mancata partecipazione alla vendita senza documentato e giustificato motivo e di approvare il progetto di distribuzione; disporre l’amministrazione giudiziaria o una nuova vendita (per un prezzo inferiore) ex art. 591 c.p.c.; dichiarare la decadenza dell’aggiudicatario e pronunciare la relativa perdita della cauzione di cui all’art. 587 c.p.c., riservando al giudice la sola pronuncia della condanna al pagamento della differenza tra il prezzo da lui offerto e quello minore per il quale è avvenuta la vendita di cui all’art. 177 disp. att. c.p.c.
Nondimeno, la medesima dottrina[63] ha puntualizzato come, detto ampliamento dei contenuti della delega, comunque conforme al dettato costituzionale, dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione di una più compiuta disciplina, rispetto a quella attuale (sul punto in parte lacunosa ed in parte totalmente assente), in ordine: ai presupposti per la revoca della delega; al relativo iter procedimentale; all’iter procedimentale relativo alla conseguente irrogazione della «sanzione» (della cancellazione dall’albo per il triennio in corso e per quello successivo) e ai possibili rimedi latamente impugnatori esperibili dal professionista «sanzionato», le cui sorti dovrebbero comunque essere mantenute distinte da quelle della procedura esecutiva da cui sono scaturiti, in modo tale che questa non subisca per l’effetto significativi rallentamenti.
7.3. L’intervento riformatore
La lett. i) del comma 12 dell’art. 1 della legge di riforma in commento stabilisce che il legislatore delegato debba rispettare i seguenti principi direttivi:
- «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare ha durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione»;
- «in tale periodo il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi»;
- «il giudice dell’esecuzione esercita una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per esse stabiliti, con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
7.4. Valutazione della legge di riforma
I principi e i criteri previsti dalla legge n. 206/2021 solo in minima parte soddisfano le esigenze di riforma dell’istituto in esame appena più sopra sinteticamente richiamate.
È senz’altro da condividersi la prospettiva di fondo perseguita dal legislatore di potenziare l’istituto della delega, nel solco già tracciato dalle previgenti riforme e novelle.
In particolare, va accolto con favore l’intervento in ordine ai tempi della delega e delle relative operazioni, nonché alla vigilanza da parte del giudice dell’esecuzione con riguardo alle attività delegate.
La revoca della delega e, specularmente, i possibili rimedi esperibili dal professionista delegato, rappresentano profili delicatissimi. Sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, non può che attendersi l’intervento dei decreti attuativi. Pare però criticabile che la legge di riforma non contempli in modo espresso modifiche in tema di revoca della delega, limitandosi a prevedere la sostituzione del professionista delegato inadempiente.
In ogni caso, giova ribadire la necessità che le sorti della procedura esecutiva, per la migliore funzionalità della stessa, debbano rimanere distinte da quelle relative al procedimento finalizzato alla revoca del professionista delegato, in guisa da evitare significativi rallentamenti della procedura medesima.
Infine, non manca un’obiezione in quanto il legislatore (di là da quanto previsto con riguardo al progetto di distribuzione, su cui vd. infra) potrebbe ancora incidere sull’arricchimento delle funzioni delegate al professionista, nei termini appena più sopra evidenziati. Ciò in quanto, evidentemente, si tratta di prospettiva ancor più significativa e d’impatto, rispetto a quella già fatta oggetto di intervento da parte del legislatore, non solo al fine di rendere le procedure esecutive ancor più celeri ed efficienti, ma anche per sgravare ulteriormente la magistratura dallo svolgimento di determinate attività giurisdizionali che costituiscono parte integrante del processo di espropriazione forzata.
8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.)
Uno dei profili nevralgici dell’istituto della delega attiene ai rapporti tra giudice e professionista delegato e alla stabilizzazione degli atti di quest’ultimo, fondamentale per la stessa stabilità (e dunque appetibilità) della vendita forzata [64].
La disciplina attualmente vigente, malgrado tutti gli sforzi dottrinali e giurisprudenziali, non agevola, però, all’indomani delle riforme del 2015, una rapida definizione delle controversie relative allo svolgimento dell’attività delegata. Con forza, conseguentemente, la dottrina ha auspicato, in più occasioni, un intervento riformatore.
La legge n. 206/2021 prevede una modifica tendente a favorire la stabilizzazione degli effetti degli atti del professionista delegato, anche se non mancano le note critiche.
8.1. La disciplina vigente
Il professionista delegato ha un’ampia autonomia nell’esecuzione della delega e, nel rispetto dei limiti e delle direttive impartite dal giudice dell’esecuzione, risolve tutte le questioni inerenti sia alle difficoltà materiali, sia a quelle di diritto, insorte nel corso dell’esecuzione.
Può tuttavia chiedere l’emanazione di specifiche istruzioni al giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 591 ter c.p.c. ove insorgano difficoltà nel corso delle operazioni di vendita. Ai sensi della stessa norma, inoltre, sia le parti che gli interessati possono proporre reclamo avverso gli atti del professionista delegato. In entrambe le ipotesi, sul reclamo proposto dalle parti, il giudice provvede con ordinanza, a sua volta impugnabile con il reclamo ex art. 669 terdecies. Il ricorso non sospende le operazioni di vendita, a meno che il giudice, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione.
Più in dettaglio, quanto all’ipotesi in cui il delegato chiede istruzioni al giudice dell’esecuzione, il delegato risolve tutte le questioni attinenti alle modalità di svolgimento dell’esecuzione, salvo che non ritenga opportuno chiedere istruzioni al giudice dell’esecuzione[65]. In tal caso il giudice adotta decreto impugnabile con reclamo, dalle parti e dagli interessati, prima che abbiano avuto attuazione le istruzioni impartite, dopodiché esse divengono non più impugnabili [66].
Quanto all’ipotesi in cui le parti e gli interessati propongano reclamo avverso gli atti del delegato, possono farsi valere profili sia di legittimità sia di merito.
8.2. In particolare, il dibattito relativo alla stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato e la novella del 2015
Nell’assenza di una previsione legislativa specifica, sono stati profusi sforzi ermeneutici al fine di individuare il termine ultimo per la proposizione del reclamo avverso gli atti del professionista, nell’ottica di una stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato[67]. Quest’ultima esigenza, però, risulta trascurata dalla novella del 2015, intervenuta solo sul regime impugnatorio del provvedimento del giudice che decide il reclamo[68].
Prima di questa riforma, sulla scorta del tenore letterale dell’art. l’art. 591 ter c.p.c., si riteneva che detto provvedimento potesse essere impugnato con l’opposizione agli atti esecutivi e che, in caso di mancata proposizione del reclamo, gli interessati potessero impugnare con l’opposizione agli atti esecutivi il decreto di trasferimento, quale atto con cui il giudice dell’esecuzione, recepiti i risultati del procedimento liquidatorio, portava a compimento la vendita forzata; gli atti esecutivi potevano così ritenersi stabilizzati nel momento in cui i potenziali interessati fossero decaduti dal potere di impugnare il decreto di trasferimento[69].
La riforma del 2015[70] ha però stabilito, all’art. 591 ter c.p.c., che avverso il provvedimento del giudice è ammesso il reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies, suscitando notevoli perplessità tra gli interpreti.
La dottrina si è tanto interrogata in merito alla natura di quest’istituto, aspetto di rilievo dirimente per ricostruire la disciplina applicabile[71]. Malgrado gli sforzi profusi, il rimedio prescelto dal legislatore, presumibilmente in ragione della volontà di apprestare un mezzo di gravame più celere[72] che comunque garantisse l’imparzialità[73], si è rivelato inadeguato (anche) a garantire una più sollecita definizione delle controversie afferenti alle attività delegate, oltre a suscitare non poche problematiche di ordine sistematico a fronte del ricorso in ambito esecutivo ad un rimedio introdotto e disciplinato dal legislatore nel differente contesto del cd. procedimento cautelare uniforme.
Le incertezze e le problematiche sollevate dall’intervento del legislatore sono state tali da suscitare anche l’intervento della Corte di cassazione [74].
La Suprema Corte ha ritenuto che l’ordinanza pronunciata dal collegio, ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c., ultimo periodo, non ha contenuto decisorio e che questa conclusione è «imposta dall’interpretazione finalistica, da quella letterale e da quella sistematica».
Secondo la S.C., il subprocedimento incidentale di cui si discute, «per il modo in cui è disciplinato, non può che essere ordinatorio e non decisorio. Esso ha la funzione di evitare incagli pratici o vincere le perplessità del professionista delegato, ma non quello di risolvere con efficacia di giudicato questioni di diritto[75]. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rendono evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita». In conformità con questa ratio del meccanismo previsto dall’art. 591 ter c.p.c., è coerente ritenere che «i decreti e le ordinanze pronunciati dal giudice dell’esecuzione ai sensi di tale norma, su istanza del professionista delegato o su ricorso delle parti, costituiscono esercizio di un’attività ordinatoria di impulso, coordinamento e controllo (e non un’attività decisoria finalizzata a risolvere con efficacia di giudicato una questione controversa), giustificata dalla particolare natura del rapporto tra giudice delegante e professionista delegato». Di conseguenza, «anche il controllo del collegio sulle ordinanze emesse del giudice dell’esecuzione in esito al ricorso ex art. 591 ter c.p.c. costituisce un controllo su un’attività ordinatoria, e ne mutua tale natura», così che «anche l’ordinanza collegiale … sarà insuscettibile di statuire su diritti con efficacia di giudicato».
8.3. Problematiche che si acuiscono all’indomani della novella del 2015: stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento
Le maggiori difficoltà interpretative acuitesi all’indomani della novella del 2015, tuttavia, riguardano la stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e la possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento.
Secondo parte della dottrina, anche quando la decisione del giudice dell’esecuzione, resa all’esito del reclamo proposto avverso gli atti del delegato, sia stata impugnata con il reclamo di cui all’art. 669 terdecies c.p.c., la successiva decisione del collegio non si stabilizza: il decreto di trasferimento resta impugnabile ai sensi dell’art. 617 c.p.c., non solo per far valere vizi in precedenza non denunziati, ma anche per riproporre doglianze già svolte in sede di reclamo. Questa soluzione interpretativa è motivata, sia in base al regime di impugnabilità del decreto di trasferimento, sia in base alla natura del provvedimento reso dal collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.[76]
Secondo altra dottrina, considerando che la disposizione sul reclamo cautelare è richiamata solo quoad formam, il regime impugnatorio va ricostruito alla stregua della sostanza che la decisione assume in concreto e della sua incidenza o meno su diritti soggettivi: ove incida su diritti soggettivi, acquisterebbe autorità di giudicato, costituendo una sentenza in senso sostanziale, con l’ulteriore risultato di preludere le questioni già sollevate e decise ex art. 669 terdecies[77].
La Corte di legittimità[78], nell’arresto sopra richiamato, alla stregua di un’interpretazione finalistica, letterale e sistematica del rimedio previsto dall’art. 591 ter, ha ritenuto che l’ordinanza collegiale pronunciata all’esito del reclamo avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sia priva di natura decisoria, nonché del carattere della definitività e, dunque, della idoneità a passare in giudicato; pertanto, eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista, e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c., potranno essere fatte valere impugnando ai sensi dell’art. 617 c.p.c. il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Alla luce di questa evoluzione, si è osservato[79] che, vigente l’art. 591 ter c.p.c.:
- la definizione del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. che sia stato proposto per contestare la irregolarità formale degli atti del professionista delegato non preclude la successiva impugnabilità dei medesimi atti per le stesse ragioni;
- quantunque il giudice dell’esecuzione o il Tribunale in composizione collegiale abbiano accolto o rigettato il predetto reclamo, gli interessati (parti o altri terzi) possono impugnare il decreto di trasferimento, che sia stato nel frattempo emanato, per far valere i medesimi vizi in precedenza rilevati, quantunque la questione sia stata già esaminata;
- solo la mancata proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi avverso il decreto di trasferimento a cura dei soggetti legittimati realizza la definitiva stabilizzazione degli atti in cui si è articolato il subprocedimento di vendita delegato.
8.4. L’intervento previsto in ordine all’art. 591 ter c.p.c. dalla legge di riforma
La legge di riforma relativa all’art. 591-ter c.p.c. tende a rimediare ai problemi aperti dalla illustrata novella del 2015, che, sebbene animata dallo scopo di velocizzare la procedura, in realtà, come già evidenziato, non solo non ha conseguito detto obiettivo, ma ha al contempo aperto le delicate problematiche interpretative appena più sopra evidenziate.
L’intervento di cui alla legge n. 206/2021 si traduce, più in dettaglio, nella previsione:
- di un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista ai sensi dell’art. 591-ter c.p.c.;
- dell’impugnazione dell’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c.
8.5. Valutazione della legge di riforma
Per quanto possa essere destabilizzante per l’operatore del diritto trovarsi di fronte ad un nuovo cambiamento di rotta da parte del legislatore (che continua a legiferare “per tentativi”), la scelta effettuata in tal caso dallo stesso è indubbiamente da salutare con favore, posto che, nell’eliminare in radice tutte le incertezze dottrinali e giurisprudenziali appena più sopra segnalate alimentate dalla novella del 2015 (con la previsione della impugnabilità del provvedimento di decisione del reclamo di cui all’art. 591- ter con il reclamo di cui all’art. 669-terdecies), mira a risolvere al contempo due problemi di fondo che aveva aperto già l’originaria formulazione dell’art. 591-ter con un intervento più chiaro e lineare di quello della novella del 2015; infatti, si prevede: per un verso, un termine per la proponibilità del reclamo di cui all’art. 591-ter; per altro verso, l’impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice decide questo reclamo con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., ossia con un rimedio tradizionalmente proprio del processo esecutivo, rispetto al quale è dunque anche più agevole avvalersi di ormai consolidate impostazioni dottrinali e giurisprudenziali.
La scelta effettuata dalla legge delega in esame ha già trovato positivo riscontro nei primi commenti dottrinali intervenuti sul tema.
In particolare, v’è chi ha posto in rilievo come, per effetto del suddetto intervento di cui alla legge n. 206/2021: per un verso, viene salvaguardato il controllo della procedura in capo al giudice dell’esecuzione che – indipendentemente dall’esperimento dell’art. 591 ter c.p.c. – potrà, fino alla pronuncia del decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., revocare l’aggiudicazione per tutti quei vizi capaci di trascendere il singolo segmento del processo esecutivo (e dunque lo sbarramento di fase)[80]; per altro verso, la stabilizzazione degli atti del professionista delegato si realizza in misura analoga a quanto avviene con riferimento agli atti posti in essere dal giudice dell’esecuzione: entrambi, rimarrebbero sanati dal decorso del termine preclusivo di cui all’art. 617 c.p.c. e non potrebbero nel nuovo regime riflettersi più sul decreto di trasferimento, invalidandolo, al di fuori dello schema e dei termini individuati dal legislatore.
Si è finanche ritenuta opportuna, in dottrina[81], l’adozione di una qualifica espressa di perentorietà del termine di venti giorni per la proposizione del ricorso, per allineare – a tutti gli effetti - il regime del futuro art. 591 ter c.p.c. a quello proprio dell’art. 617 c.p.c., evitando così le incertezze segnalate.
Non manca, tuttavia, anche una critica di segno negativo: nulla di nuovo è stato previsto in relazione all’omologo rimedio regolato dall’art. 534-bis c.p.c. per la vendita forzata mobiliare; sarebbe, pertanto, auspicabile che il legislatore, sia per soddisfare analoghe esigenze di stabilità che interessano queste procedure, sia per ragioni di coerenza e di sistema, provvedesse a novellare anche la formulazione dell’ultima disposizione ora richiamata[82].
9. La distribuzione del ricavato
La legge di riforma in esame si propone anche di potenziare lo strumento della delega con una pluralità di interventi fondamentalmente volti:
- ad ampliare i poteri del delegato in sede di distribuzione del ricavato;
- a rendere, in via più generale, più celere ed efficace l’attività del delegato, facendo leva: per un verso, sull’introduzione di un termine per lo svolgimento delle attività delegate (oltre che di un numero minimo di esperimenti di vendita che devono compiersi entro detto termine); per altro verso, sull’introduzione di un obbligo del delegato di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascun esperimento di vendita; e di un obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista e sul rispetto dei tempi, nonché di provvedere immediatamente alla sostituzione dello stesso in caso di mancato o tardivo adempimento.
9.1. Disciplina vigente
In sede di riforma del processo esecutivo il legislatore era intervenuto, nel 2005, in modo significativo sull’istituto della delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata e, per quanto interessa in questa sede, anche sulla formazione ed approvazione del progetto di distribuzione.
La tecnica normativa utilizzata è stata, però, così poco felice da sollevare non pochi dubbi interpretativi sulla reale portata delle innovazioni introdotte.
Da un lato, infatti, si sono modificati gli artt. 596 e 598 c.p.c. aggiungendo, nel corpo del testo di entrambi, l’inciso «o il professionista delegato a norma dell’articolo 591-bis» subito dopo il riferimento al giudice dell’esecuzione, così lasciando intendere che si sono voluti attribuire anche al primo quei poteri che in precedenza costituivano prerogativa esclusiva di quest’ultimo.
Dall’altro lato, però, si è lasciato inalterato il disposto dell’originario art. 591-bis n. 7, in forza del quale il professionista provvede «alla formazione del progetto di distribuzione ed alla sua trasmissione al giudice dell’esecuzione che, dopo avervi apportato le eventuali variazioni, provvede ai sensi dell’art. 596»; disposto che sembrerebbe presupporre, all’opposto, che sia ancor oggi riservato in capo al solo giudice dell’esecuzione il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Chiaro il difetto di coordinamento, ed il conseguente contrasto, fra l’art. 591-bis c.p.c. e gli artt. 596 e 598 c.p.c. [83], con il conseguente ricadere sull’interprete il compito di ricondurre a razionalità la materia a fronte di un quadro normativo che, quanto meno astrattamente, apre la via a due possibili opzioni interpretative, e cioè:
a)attribuzione al professionista del (nuovo) compito di (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione, in forza dei nuovi artt. 596 e 598 c.p.c.;
b)mantenimento, all’opposto, in capo al professionista del solo potere di predisporre il progetto riservando al giudice quello di approvazione, in forza dell’art. 591-bis (originariamente n. 7 ed ora) n. 12 c.p.c.
Entrambe le suddette opzioni interpretative sono state sostenute in dottrina, la quale dunque, com’era prevedibile, a fronte del contraddittorio quadro normativo in precedenza descritto, si è divisa [84]. Altrettanto dicasi per la giurisprudenza, avendo i giudici adottato ordinanze di delega tendenti a valorizzare l’una o l’altra delle due prospettive di cui sopra.
9.2. Intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Nell’ambito del contesto appena più sopra sinteticamente evidenziato si inserisce l’intervento del legislatore in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. m) della legge n. 206/2021 reca testualmente: «prevedere che il professionista delegato procede alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista delegato lo dichiara esecutivo e provvede entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimette le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Chiaro è l’intento del legislatore: sciogliere i dubbi interpretativi aperti dalla riforma del 2005 nel senso di attribuire al professionista delegato, non solo il potere di predisporre il progetto di distribuzione, ma anche di approvarlo, previa audizione delle parti dinanzi allo stesso (e non dinanzi al giudice) così come già attualmente previsto dall’art. 596 c.p.c.
Viene, invece, chiaramente riservata al giudice la risoluzione delle eventuali contestazioni insorte fra le parti.
9.3. Valutazione della legge di riforma
Ci troviamo dinanzi ad un intervento del legislatore quanto mai opportuno, non solo perché tende a superare definitivamente il riferito contrasto dottrinale e giurisprudenziale – come già auspicato in più occasioni [85] -, ma anche perché lo fa nella direzione indicata come preferibile sin dalla riforma del 2005 [86].
Ferma restando la necessità di verificare quanto disporrà il legislatore in sede di attuazione della suddetta disposizione di carattere generale, sulla base di quest’ultima, e di quanto già attualmente previsto dagli artt. 596 e 598 del codice di rito civile, sembrerebbe poter trovare pienamente attuazione quanto già a suo tempo sostenuto [87], seppur sulla base di un impianto normativo non univoco - per i motivi in precedenza evidenziati -.
Il nuovo testo degli artt. 596 e 598 c.p.c. già attribuisce, infatti, al professionista delegato il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Altrettanto dicasi con riferimento al potere attribuito al professionista dal nuovo testo dell’art. 596 c.p.c. di fissare l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, previa formazione e deposito in cancelleria del progetto di distribuzione contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano affinché possa essere consultato dai creditori stessi e dal debitore.
Il professionista delegato ben potrà, dunque, procedere a (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione ai sensi di quanto previsto dai nuovi artt. 596 e 598 c.p.c., e dunque, più analiticamente:
a) se non può provvedere ai sensi dell’art. 510, primo comma (ossia, nell’ipotesi in cui vi è un solo creditore pignorante, disporre, sentito il debitore, il pagamento in favore del creditore di quanto gli spetta), fissa l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, che si terrà dinanzi al medesimo professionista (e non al giudice), ove, ai sensi di quanto previsto dall’art. 598 c.p.c., dovrà:
a1) se il progetto è approvato, anche per effetto della mancata comparizione [88] di cui all’art. 597 c.p.c. [89], o si raggiunge l’accordo tra le parti, darne atto nel processo verbale ed ordinare il pagamento delle singole quote;
a2) se insorgono controversie, ai sensi dell’art. 512 c.p.c., tra creditori concorrenti o tra creditore e debitore circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione rimettere la procedura al giudice cui è riservata, secondo le modalità di cui al citato art. 512 c.p.c., la risoluzione di queste controversie.
b) potrà avvalersi eventualmente, in sede di approvazione del progetto, della possibilità di distinguere la graduazione dei creditori dalla liquidazione delle quote ai sensi di quanto disposto dall’art. 179 disp. att. c.p.c., in forza del quale il giudice dell’esecuzione (ed ora anche il professionista delegato) «quando lo ritiene opportuno … può limitare il progetto di distribuzione della somma ricavata di cui all’art. 596 alla sola graduazione dei creditori partecipanti all’esecuzione, salva la liquidazione delle quote spettanti a ciascuno di essi dopo che sia approvata la graduazione».
Al contempo, se si valorizza quella impostazione dottrinale tendente fondamentalmente ad evidenziare una possibile funzione conciliativa svolta dal giudice dell’esecuzione all’udienza di cui all’art. 598 c.p.c., nel senso che l’espressione «si raggiunge l’accordo tra tutte le parti» si riferisce «all’ipotesi nella quale le contestazioni all’inizio sorte siano poi composte» [90], l’intervenuta attribuzione di questa nuova attività al professionista delegato ben può acquisire un significato ancora più pregnante, nel senso che quest’ultimo, non dovrebbe limitarsi a constatare l’eventuale presenza di contestazioni, ma dovrebbe tentare una composizione conciliativa delle stesse, solo all’esito negativo della quale dovrebbe rimettere la procedura al giudice dell’esecuzione affinché questi possa fissare l’udienza di cui all’art. 512 c.p.c. e risolvere le relative controversie secondo le modalità previste da questa norma [91].
10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore.
La legge di riforma prevede interventi anche in merito al delicato e nevralgico istituto della custodia, il quale, come noto, è stato profondamente modificato nel corso del tempo. In particolare, rispetto all’impostazione originaria del codice di rito, a tale istituto sono state conferite nuove funzioni, al fine di garantire più proficui e solleciti risultati delle procedure esecutive, a vantaggio non solo del ceto creditorio ma anche dello stesso debitore.
10.1. La custodia del bene immobile pignorato: l’evoluzione della disciplina vigente
La custodia del bene immobile pignorato costituisce elemento indefettibile del pignoramento, in ragione della perdita dell’amministrazione del bene da parte del debitore[92].
Secondo il tradizionale insegnamento, alla luce della originaria disciplina codicistica, mentre il pignoramento determina l’insensibilità del bene sub executione agli atti di disposizione compiuti sulla res pignorata, la custodia determina il regime di godimento materiale di questa[93].
Nel corso del tempo, specialmente all’indomani delle riforme attuate con le leggi n. 80 e n. 263 del 2005[94], l’istituto in esame è stato profondamente innovato, con l’obiettivo di rendere la vendita forzata più trasparente, competitiva e aperta al mercato[95]. In particolare, la richiamata riforma, alla luce delle cd. prassi virtuose diffuse presso taluni tribunali[96], ha inteso valorizzare questo istituto attribuendogli anche finalità ulteriori rispetto a quelle tradizionali di mera “conservazione” del bene[97], fondamentalmente riconducibili ad una migliore e più agevole collocazione del bene oggetto di custodia sul mercato [98].
Secondo l’originaria impostazione codicistica, nella gran parte dei casi, il debitore, custode ex lege dei beni pignorati, non veniva sostituito nell’espletamento di tale attività in difetto di una norma che imponesse di procedere in tal senso. Ai sensi dei primi due commi dell’art. 559, rimasti peraltro immutati nel corso del tempo, «col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le pertinenze e i frutti, senza diritto a compenso»; nondimeno, in base al secondo comma, primo periodo della medesima norma, «su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, può nominare custode una persona diversa dallo stesso debitore».
Come a suo tempo rilevato in dottrina, però, anche laddove la lettera delle disposizioni in questione è stata conservata identica, ne è mutato profondamente il senso e la portata[99].
In particolare, il legislatore della riforma del 2005-06, da un canto, ha definito le ipotesi in cui occorre disporre la sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile e, d’altro canto, ha regolamentato le attività che il custode è tenuto a svolere nell’adempimento della sua funzione.
Più in dettaglio, ai sensi del secondo periodo del secondo comma, aggiunto con le riforme del 2006, «il giudice provvede a nominare una persona diversa quando l’immobile non sia occupato dal debitore»[100].
Ancor più incisivamente dette riforme hanno introdotto due ipotesi espresse di nomina d’ufficio del terzo custode.
Un’ipotesi di nomina d’ufficio riguarda la sostituzione del debitore nella custodia prima dell’autorizzazione della vendita e ricorre allorquando il custode si renda inadempiente agli obblighi che gravaano su di lui[101].
Altra ipotesi di nomina d’ufficio del terzo custode ricorre quando si giunga alla fase di vendita[102]. In tal caso, infatti, il debitore/custode deve essere obbligatoriamente sostituito con l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita e dispone la delega. Come rimarcato in dottrina, con l’apertura della liquidazione, la custodia di un soggetto terzo in sostituzione del debitore va sempre disposta d’ufficio (e salvo casi particolari e residuali in cui non sia ritenuta utile), in quanto è in questa fase che si esplica il cuore dell’attività tipica della custodia in espropriazione immobiliare, volta ad agevolare la migliore vendita possibile in funzione della maggiore soddisfazione del credito[103].
L’articolo 559 c.p.c. si chiude prevedendo che i provvedimenti relativi alla nomina (o revoca o sostituzione) della custodia non sono impugnabili.
Può concludersi questo excursus rilevando che, come a suo tempo rilevato in dottrina, all’esito delle riforme del 2006, «la disciplina della custodia dei beni immobili pignorati appare profondamente diversa da quella tradizionale; ma, in realtà, essa rispecchia una diversa concezione della vendita forzata, intesa non più come strumento sanzionatorio del debitore, ma come valida via per realizzare la garanzia patrimoniale»[104].
10.2. Le buone prassi come caldeggiate dalle linee guida del Consiglio Superiore della Magistratura
Nel corso del tempo, in tema di custodia, si sono diffuse delle prassi presso i Tribunali, recentemente caldeggiate dal Consiglio Superiore della Magistratura[105], finalizzate a valorizzare al massimo grado le risorse umane e materiali concretamente adoperabili.
Si è sperimentata la possibilità di ricorrere in via sistematica alla delega al perito e al custode, nominati entrambi già al momento della fissazione dell’udienza, ex art. 569 c.p.c., affinché si occupino, in sinergia, dell’esame della documentazione, che riveste assoluto rilievo.
In particolare, in dette linee guida è stata ritenuta condividibile la prassi, invalsa in diversi uffici giudiziari, tesa ad anticipare la nomina del custode giudiziario al momento della designazione dell’esperto, salvaguardando la contestualità delle investiture nei due incarichi e la susseguente sinergia nell’espletamento delle relative attività. Detta opzione operativa si mostra, in rapporto alle alternative praticabili, idonea a produrre il miglior rapporto tra risultati ottenuti e mezzi impiegati, posto che ad un incremento limitato di costi (per i compensi del custode ausiliario per il quale si accelera la assegnazione dell’incarico) fa da contraltare la maggior fluidità impressa alla procedura, nella quale si isolano, a monte, le possibili criticità e si predispone la strada per le successive fasi.
Le linee guida elaborate dal CSM hanno altresì rimarcato, come si è già avuto modo di anticipare, l’importanza di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode in quanto «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea». La ragione di quest’assunto si coglie nelle distinte professionalità che connotano le figure in questione: mentre - si legge in detta circolare - l’esperto è il soggetto maggiormente avvezzo ai risvolti dell’inventariazione, della classificazione e della descrizione estimativa, censuaria, planimetrica dei beni, il custode ha la professionalità adeguata onde cogliere le implicazioni legali salienti della connotazione catastale e urbanistica dei beni e dei diritti che prima facie vi insistano[106].
10.3. La previsione della legge di riforma
La legge di riforma, alla lett. e) stabilisce che, nell’esercizio della delega, si debba prevedere che: «il giudice dell’esecuzione provvede alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
La lettera d) prevede che: «il custode di cui all’articolo 559 del codice di procedura civile collabori con l’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569 del codice di procedura civile al controllo della completezza della documentazione di cui all’articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile».
10.4. Valutazione della riforma
Emerge con evidenza, alla luce di quanto appena più sopra anticipato, che la riforma prevista recepisce le cd. “buone prassi” di cui alla delibera del CSM del 2017, tanto in ordine alla nomina anticipata del custode, quanto in ordine alla stretta collaborazione tra custode ed esperto stimatore.
Salve naturalmente le valutazioni relative alle disposizioni attuative della legge delega, può osservarsi che la legge di riforma continua il percorso, iniziato con le riforme del 2005-06, volto a far leva sull’istituto della custodia onde conseguire risultati migliori nell’ambito delle procedure esecutive immobiliari. L’anticipazione della nomina del custode, infatti, consente una più efficacia conservazione ed amministrazione dei beni pignorati al fine della migliore fase liquidativa possibile.
A tal fine, e nell’ottica dell’arricchimento delle funzioni del custode, va letta anche la sinergia tar esperto e custode in ordine all’esame della documentazione richiesta dall’art. 567 c.p.c.
11. La liberazione dell’immobile pignorato
La liberazione dell’immobile costituisce uno snodo fondamentale per perseguire obiettivi di efficienza ed efficacia del processo esecutivo poiché incide sull’appetibilità del bene oggetto di vendita forzata e, pertanto, sull’esito della stessa.
La legge n. 206/2021 (all’art. 1, comma 12, lett. f) e h) prevede un nuovo intervento sull’art. 560 del codice di rito[107], ossia la norma destinata a contemperare due esigenze in contrasto: i bisogni meritevoli di protezione propri del debitore che abita l’immobile oggetto di esecuzione forzata e quelli propri della procedura esecutiva, tendenti ad ottenere l’anticipazione della liberazione dell’immobile al fine di renderlo più appetibile in sede di vendita.
11.1. Le modifiche nel corso del tempo all’art. 560 c.p.c.: il delicatissimo punto di equilibrio tra esigenze in perenne conflitto
Siamo di fronte ad una delle norme del processo esecutivo più tormentate, essendo stata fatta oggetto di plurimi interventi modificativi negli ultimi anni, a testimonianza della difficoltà di individuare un corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra [108], oltre che dell’ormai purtroppo consueto modo di procedere del legislatore contraddistinto dall’intervenire più volte sul medesimo istituto anche a distanza di tempo molto ridotta (quello che abbiamo già qualificato, in altre occasioni, come il legiferare “per tentativi”).
Giova in questa sede richiamare, seppur in estrema sintesi, taluni passaggi di un excursus normativo che, intervenendo tanto sui tempi quanto sui modi della liberazione (specie negli ultimi anni), si caratterizza, oltre che per la disorganicità, anche per l’eccessivo sbilanciamento, a seconda dei casi, in favore del debitore o del creditore. In altri termini, non si può dire che sia stato sinora pacificamente individuato quello che dovrebbe essere il corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra.
L’intervento del legislatore in esame mira a contemperare tali opposti interessi, anche se resta tutto da verificare se detto obiettivo verrà effettivamente conseguito, sulla base di quanto già previsto dalla legge delega e sulla base di quanto verrà previsto nei prossimi mesi in attuazione della stessa.
L’ordine di liberazione del compendio pignorato ha trovato espresso riconoscimento legislativo con le riforme del 2005[109].
All’indomani di queste riforme, che avevano recepito alcune indicazioni provenienti dalle prassi, il giudice dell’esecuzione disponeva la liberazione dell’immobile pignorato qualora non ritenesse di autorizzare il debitore a continuare ad abitare l’immobile pignorato o qualora revocasse l’autorizzazione precedentemente concessa; oppure, in ogni caso, allorquando provvedesse all’aggiudicazione o all’assegnazione del bene.
Mentre con la riforma del 2005 l’ordine di liberazione era qualificato come titolo esecutivo ed era suscettibile di esecuzione nelle forme di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., nel 2016, il legislatore interviene sull’art. 560 c.p.c. (con il d.l. 3.5.2016, n. 59, convertito con l. 30.6.2016, n. 119) prevedendo che l’attuazione dell’ordine di liberazione debba avvenire, invece, nell’ambito di un sistema de-formalizzato, ossia senza la necessità di seguire la procedura delineata dal codice per l’esecuzione per consegna e rilascio. La non felice formulazione della norma da parte del legislatore ha sollevato, però, non pochi dubbi interpretativi, risolvibili, secondo una parte della dottrina, solo ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata[110].
Il d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 è nuovamente intervenuto sull’art. 560 c.p.c. stabilendo che il debitore, qualora all’udienza ex art. 569 sia in grado di documentare la titolarità di crediti, aventi i requisiti previsti[111], nei confronti della pubblica amministrazione, il giudice dell’esecuzione, con il decreto di cui all’articolo 586, dispone il rilascio dell’immobile pignorato per una data compresa tra il sessantesimo e novantesimo giorno successivo a quello della pronuncia del medesimo decreto.
Come osservato in dottrina[112], la portata applicativa di questa norma era circoscritta, in quanto ancorata ad un presupposto soggettivo definito in dottrina “singolare”, in quanto legato alla titolarità di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
Questa previsione relativa al cd. periodo di tolleranza è stata però soppressa dalla l. n. 12 del 11-2-2019, di conversione del d.l. 135/2018[113].
L’art. 560 c.p.c., nella versione conseguente alle modifiche introdotte dal decreto legge 14 dicembre 2018, n. 135, convertito dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12[114] (mantenuta ferma anche a seguito della successiva novella del 2020[115]), prevede che, per tutta la durata della liquidazione giudiziale, l’ordine di liberazione non possa essere emesso ai danni del debitore che, a far data dal pignoramento, abbia utilizzato l’immobile pignorato come abitazione principale senza violare gli obblighi di custodia previsti dalla legge a suo carico.
Più in dettaglio, secondo l’attuale formulazione dell’art. 560 c.p.c., qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento ai sensi dell’art. 586 c.p.c., salvo condotte abusive dell’esecutato. Il giudice ordina, sentito il custode ed il debitore, la liberazione dell’immobile pignorato solo qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, ovvero l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Come rilevato[116], la novella del 2020, da un lato, ha superato taluni dubbi emersi dalla precedente formulazione della norma, d’altro lato, è apparsa di difficile inquadramento sistematico, agevolando, conseguentemente, il formarsi di contrapposti indirizzi in ordine ai modi e ai tempi della liberazione.
Prima della novella, era dibattuto, in particolare, se l’ordine di liberazione potesse essere emanato, contestualmente al decreto di trasferimento, nei confronti del debitore che avesse destinato il bene sottoposto ad esecuzione ad abitazione principale.
Si è ritenuto che il legislatore, con la novella del 2020, abbia superato queste incertezze, prevedendo che il custode possa procedere alla liberazione dell’immobile pignorato mediante l’attuazione forzosa del provvedimento di cui all’art. di cui all’art. 586 c.p.c., da espletarsi in un tempo definito. Tanto si è dedotto dal tenore dell’art. 560, comma sesto, c.p.c., secondo il quale, dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell’aggiudicatario (o dell’assegnatario), provvede all’attuazione forzosa del provvedimento ex art. 586, secondo comma, c.p.c. Nondimeno, si è rilevato[117] come questa disposizione non sia, però, di agevole inquadramento sistematico, non essendo chiaro come il custode possa essere legittimato ad uno “sgombero informale” al fine di realizzare l’attuazione coattiva di un ordine di rilascio contenuto in un provvedimento giudiziale che, avendo la natura di titolo esecutivo (posto che il decreto di trasferimento è titolo esecutivo in favore dell’acquirente), dovrebbe, di regola, essere eseguito nelle forme di cui agli artt. 605 c.p.c. In via di interpretazione del suddetto quadro normativo, si è ritenuto che l’emanazione di un decreto di trasferimento recante il contestuale ordine di liberazione del bene pignorato consenta la liberazione a cura del custode giudiziario, ma non possa fondare contestualmente un’esecuzione forzata per rilascio forzoso (ex artt. 605 e seguenti c.p.c.) [118].
11.2. Intervento riformatore di cui alla legge n. 206/2021
L’art. 1, comma 12, lett. f stabilisce che il giudice debba ordinare, sin dal momento in cui viene disposta la vendita, la liberazione dell’immobile ove questo non sia abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero sia occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura; invece, ove l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, la liberazione dovrà essere disposta con l’emissione del decreto di trasferimento. Nondimeno, resta ferma la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di «impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
D’altro canto, l’art. 1, comma 12, lett. h prevede che «sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano».
11.3. Valutazione della legge di riforma
È indubbio che l’ordine di liberazione sia funzionale agli scopi della procedura esecutiva. Più si anticipa rispetto all’ordinanza di vendita o di delega il momento della liberazione, più si salvaguardano gli scopi della procedura esecutiva, favorendo, in realtà, non solo il ceto creditorio ma, per taluni versi, anche lo stesso debitore, il quale ha interesse a che il bene venga venduto al prezzo più alto. Al contrario, più si individua il termine della liberazione nell’aggiudicazione o finanche nel decreto di trasferimento, più si lascia che prevalgano altre esigenze del debitore.
L’excursus normativo delineato testimonia quanto sia difficile bilanciare le opposte esigenze in conflitto. Come rilevato in dottrina[119], un punto di equilibrio può trarsi dai principi enunciati dalla Corte costituzionale[120], la quale ha posto l’accento sulla necessità di contemperare, alla luce del principio di proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze e finalità perseguite, il diritto di abitazione – quale “diritto sociale ed inviolabile” – con il diritto dei creditori ad agire in executivis.
Secondo il parere del CSM, si tratta di una legittima opzione legislativa che dà rilevanza alle esigenze abitative del debitore. La novella, in ogni caso, trasferisce l’onere delle esigenze abitative di persone “bisognose” dallo Stato al ceto creditorio a beneficio dello Stato[121].
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come la legge di riforma non stravolge gli equilibri raggiunti con l’ultima novella, pur ampliando l’ambito applicativo della liberazione anticipata; infatti, l’omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione dà luogo alla liberazione anticipata, senza che occorra la colpa o il dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Per ogni altra valutazione sembrerebbe opportuno attendere le specifiche disposizioni dei decreti delegati, soprattutto in ordine:
- al quomodo della liberazione, stante la scelta di prevedere l’eseguibilità senza l’osservanza delle forme di cui agli art. 605 ss. c.p.c.;
- al possibile superamento o meno delle incertezze scaturite all’indomani della novella del 2020, specie in ordine alla eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso.
Anche se, giova evidenziarlo, in dottrina [122] non è mancato chi ha già avanzato una valutazione di segno negativo sulla base di quanto previso dalla legge delega, stante l’ingiustificato trattamento differenziato di situazioni analoghe; infatti, secondo il tenore letterale della norma, è presa in considerazione la sola esigenza abitativa «dell’esecutato convivente col nucleo familiare», così pregiudicando situazioni altrettanto meritevoli di tutela, quali quelle del debitore che occupi da solo l’immobile, del nucleo familiare del debitore che lo occupi senza il debitore, etc.
12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa
La legge n. 206/2021 prevede anche l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale assolutamente nuovo, ossia l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Come si legge nella Relazione illustrativa alle proposte di emendamento, «l’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione “virtuosa” e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori».
La formulazione della modifica come contenuta nella legge delega (all’esito della correzione dell’originario articolo 8 d.d.l. AS 1662 con l’emendamento approvato in Senato) si è resa necessaria al fine di: evitare che «lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive; impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione; assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti; rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 c.p.c.)».
Per perseguire questi scopi - si legge ancora nella Relazione illustrativa - «si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore il 1° marzo 2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte»[123].
12.1. Il contesto di riferimento: modelli di vendita ed evoluzione della vendita forzata
In linea astratta, onde favorire una liquidazione virtuosa potrebbero essere considerati, dal legislatore della riforma, differenti modelli di vendita forzata, alla luce del trend evolutivo che ha caratterizzato la vendita forzata negli ultimi lustri, tanto in ambito di esecuzione individuale, quanto in ambito di esecuzione concorsuale.
Infatti, a fronte della crisi in cui versa la giustizia civile, e in particolare la tutela esecutiva, nel corso del tempo il legislatore, grazie agli impulsi provenienti dalla dottrina, dalla giurisprudenza e, in particolare dalle cd. prassi virtuose, ha modificato la disciplina della procedura esecutiva in controtendenza rispetto alla riforma della vendita forzata di cui alle leggi 80 e 263 del 2005 e 52 del 2006[124], di cui si è denunciato, ad opera di parte della dottrina, il «dirigismo» che «si manifesta nella stessa redazione delle norme, in un tessuto normativo caratterizzato dall’estremo descrittivismo di ogni azione e/o attività realizzata dagli attori del processo»[125].
Con specifico riguardo ai modelli di vendita, può cogliersi nell’introduzione delle cd. vendite competitive un’apertura significativa del legislatore verso modelli i cui tratti caratterizzanti prescindano dal dato procedimentale rigidamente inteso al fine di trovare il proprio referente in alcuni principi essenziali.
I connotati essenziali di detta vendita – riproposta anche nel CCI - sono stati individuati: nel sistema incrementale di offerte, nell’adeguata forma di pubblicità, nella trasparenza endoprocessuale, nelle regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente e, infine, nella completa ed assoluta apertura al pubblico[126].
Si è ritenuto, peraltro, che la forma notarile dell’atto di vendita – ove sussistano i presupposti testé richiamati – sia idoneo a surrogare nel prezzo versato il diritto reale sul bene in guisa che il bene oggetto della vendita venga trasferito all’acquirente libero da vincoli pregiudizievoli[127]. In altri termini, la forma negoziale nell’atto non esclude il carattere coattivo della vendita alla luce dei profili strutturali, procedurali e funzionali delle vendite competitive[128].
Non sono neanche mancati progetti di riforma tendenti ad introdurre il modello di vendita competitiva anche in sede di esecuzione forzata[129].
Non a caso, in dottrina, si è già da tempo rilevato[130] che il trend evolutivo della vendita forzata, anche in sede di espropriazione forzata, sia quello di ricorrere a modalità di vendita forzata meno rigide sul piano procedimentale rispetto a quelle attualmente disciplinate dal codice di procedura civile, con conseguente attribuzione al giudice di maggiori poteri discrezionali, tali da consentirgli di modellare la vendita nel modo più possibile aderente alle esigenze del singolo caso di specie. Questa discrezionalità troverebbe, però, il suo limite nei principi fondamentali predeterminati dal legislatore. Se si vuole, dunque, recuperare una maggiore duttilità della vendita forzata, al fine di renderla il più possibile efficace, non si può che abbandonare la prospettiva della rigida procedimentalizzazione delle modalità attraverso cui la stessa deve trovare attuazione, facendo leva inevitabilmente su una maggiore discrezionalità giudiziale, seppure temperata, a garanzia di tutti i soggetti interessati e del buon esito della procedura stessa, da alcuni “principi” fondamentali cui il giudice dovrà uniformare il suo operato nel singolo caso di specie.
Su un versante assolutamente diverso si pone un’ulteriore tendenza legislativa, sempre legata alla necessità di rafforzare la tutela del credito, relativa all’introduzione da parte del legislatore, accanto a forme di tutela esecutiva, di numerosi strumenti di autotutela esecutiva, che fanno leva sulla vendita della cosa concessa in garanzia, direttamente a cura del creditore, sul libero mercato o sul trasferimento della proprietà della stessa al creditore medesimo, ma secondo lo schema del patto marciano, ossia previa stima del bene, effettuata da un esperto terzo e imparziale al tempo dell’inadempimento e salva restituzione dell’eventuale eccedenza al debitore[131]. In ipotesi siffatte, si pone il problema della qualificazione della natura giuridica della vendita e, conseguentemente, della ricostruzione della disciplina giuridica applicabile per quanto non espressamente disposto.
L’analisi del nuovo istituto della “vendita privata” va condotta proprio considerando questo quadro evolutivo, al fine di verificare se sussistano, in detta ipotesi, gli elementi che la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto nel tempo alla nozione di vendita coattiva.
12.2. Autorizzazione del debitore a procedere direttamente alla vendita
La legge n. 206/2021 prevede, come detto, l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale completamente nuovo: l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Più precisamente, l’art. 1 comma 12 lett. n) reca testualmente: «prevedere:
1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve: verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni è data pubblicità, ai sensi dell’articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità».
12.3. Considerazioni critiche delle previsioni contenute nella legge di riforma
Dalla lettura della norma appena più sopra richiamata emerge con chiarezza come ci troviamo di fronte ad un istituto i cui tratti essenziali e caratterizzanti sono già delineati, ancorché nell’ambito di una legge delega, che, nel caso di specie, va bel al di là della mera enunciazione di un “principio di carattere generale” o di una “direttiva” la cui attuazione sia rimessa a successivi interventi legislativi.
Ciò consente di effettuare già in questa sede una serie di osservazioni su questo nuovo istituto, così come già delineato dalla legge n. 206/2021 nei suoi tratti fondamentali.
Conformemente a quanto sembrerebbe emergere anche dalla Relazione illustrativa in precedenza richiamata, il legislatore si è ispirato alla vendita privata presente in altri ordinamenti, così come accade, ad esempio, in Francia, con la “vente privée”.
Il risultato conseguito, però, è in realtà ben distante da quanto previsto in altri Paesi.
Così come la dottrina ha già avuto modo di evidenziare, con la legge delega in esame il legislatore «non introduce un meccanismo di vendita privata sul modello di quello previsto dalla legislazione di altri Paesi quanto un ulteriore modello di vendita interno alla procedura, che si pone in alternativa con quelli già previsti, come ulteriore esito dell’udienza ex art. 569 c.p.c.» [132].
Secondo la medesima dottrina, «l’innovazione finisce per introdurre solo un procedimento che viene introdotto su istanza del debitore e garantisce, all’esito di una vendita pubblica, che l’immobile sia alienato a un prezzo non inferiore al valore di stima, superando quindi l’ipotesi di vendita a prezzo ridotto attualmente prevista dall’art. 572 c.p.c. Non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente»[133].
Come appena più sopra evidenziato, non appare dubitabile che il legislatore, pur ispirandosi alla vendita privata presente in altri Paesi, ha in realtà introdotto nel nostro ordinamento qualcosa di diverso.
Appare, però, eccessivamente riduttivo ritenere che, nel caso di specie, «non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente».
A ben vedere, infatti, se vuol darsi un senso all’autorizzazione del debitore, da parte del giudice dell’esecuzione, «a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato», sembrerebbe corretto ritenere che la vendita, nel caso di specie, sia altresì caratterizzata dal fatto che, a differenza di quanto avviene tradizionalmente, non si estrinseca nell’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice, ma nel ricevimento di un atto di vendita da parte di un notaio.
Questo è quanto sembrerebbe emergere, a ben vedere, anche dalla lettera della previsione di cui al n. 4 dell’art. 1 comma 12 lett. n) – appena più sopra riportato – nella parte in cui dispone che «il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368» esclusivamente al compimento delle seguenti attività: «deliberazione sulle offerte … svolgimento della gara … riscossione del prezzo … operazioni di distribuzione del ricavato».
La disposizione non reca, infatti, alcun riferimento alla vendita e, segnatamente, alla predisposizione del decreto di trasferimento da parte del professionista. Ciò si spiega proprio in quanto, nel caso di specie, trattandosi di “vendita diretta” del debitore “autorizzata” dal giudice, non vi sarà un decreto di trasferimento e non vi potrà conseguentemente essere, in parte qua, neanche una delega ad un professionista; vi sarà un atto di vendita che potrà essere ricevuto solo da un notaio, in quanto notaio e non in quando professionista delegato dal giudice.
Altrimenti ritenendo, dovrebbe concludersi che nulla abbia di privato (neanche la forma, per intendersi) la vendita nel caso di specie, quanto meno sotto il profilo della conclusione dell’iter procedimentale.
In definitiva, muovendoci nell’ordine di idee appena più sopra evidenziato, il nuovo istituto introdotto dal legislatore con riferimento al processo di espropriazione forzata sembrerebbe presentare talune affinità con la vendita competitiva di cui alle procedure concorsuali e, segnatamente, con l’ipotesi in cui detta vendita si estrinseca, per l’appunto, nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio[134].
Senza voler entrare in questa sede sulla controversa natura (forzata o privata) della nuova ipotesi di vendita disciplinata dal legislatore, in relazione alla quale è auspicabile che ulteriori indicazioni vengano fornite dal legislatore in sede di attuazione della delega, basti nei circoscritti confini del presente contributo evidenziare come, quanto appena più sopra evidenziato con riferimento alla forma del trasferimento, non è incompatibile con la natura forzata (e non privata) della vendita di cui si discute, così come sembrerebbe emergere da quanto previsto da talune delle disposizioni appena più sopra richiamate, quali, su tutte, quelle che prevedono, sostanzialmente, il prodursi, nel caso di specie, del cd. effetto purgativo (proprio, per l’appunto, della vendita forzata e non di quella privata).
Non a caso, infatti, con riferimento alla vendita competitiva che si conclude con atto di vendita ricevuto da notaio, parte della dottrina ha ritenuto pienamente compatibile la forma “privata” della vendita con la natura sostanziale di vendita forzata della stessa [135].
Anche se, giova evidenziarlo, si tratta di questione complessa, meritevole di essere esaminata alla luce delle indicazioni che perverranno dal legislatore in sede di attuazione della delega, posto che sarebbe semplicistico ritenere che la stessa sia già risolta dalla suddetta disposizione avente ad oggetto il cd. effetto purgativo della vendita.
Basti a tal proposito evidenziare come, nel tentativo di individuare quelli che sono i tratti essenziali ed imprescindibili della coattività della vendita, si è ritenuto che gli stessi siano rappresentati, essenzialmente, dall’assenza della (o contrarietà rispetto alla) volontà del debitore e dallo scopo teso a realizzare la responsabilità patrimoniale [136]. È peraltro noto come qualificare una vendita come coattiva o meno incide, non solo sul riconoscimento del potere purgativo (che in tal caso è previsto), ma anche su una serie di discipline speciali applicabili alla vendita negoziale e non (quanto meno dal punto di vista sanzionatorio) alla vendita forzata[137].
Ciò posto, e indipendentemente dalla natura che voglia riconoscersi alla vendita di cui si discute, resta comunque da chiedersi se il legislatore abbia effettivamente introdotto un istituto che, in linea con il trend evolutivo della vendita forzata appena più sopra illustrato, soddisfi le esigenze di emancipazione della vendita forzata da rigidi schemi procedimentali [138], così come auspicato da una parte della dottrina [139].
Sotto il profilo da ultimo segnalato l’analitica disciplina già contenuta nella legge delega suscita qualche perplessità, ma, anche sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, pare corretto attendere l’intervento dei decreti attuativi, che dovrebbero consentire di comprendere fino in fondo quale sia l’esatta fisionomia del nuovo istituto introdotto nel nostro ordinamento.
Nondimeno, dal punto di vista procedimentale, ulteriori rilievi critici sono stati evidenziati dal parere del CSM, più volte richiamato[140], secondo il quale l’istituto: si presta ad essere utilizzato dal debitore a fini dilatori, prevede un accertamento dai confini indefiniti e, infine, non distingue tra categorie di creditori ai fini del consenso relativo all’istanza di vendita.
Dal primo angolo prospettico, si rimarca che l’istanza può essere depositata fino a dieci giorni prima dell’udienza di cui all’art. 569 c.p.c., nella quale normalmente viene disposta la vendita del compendio. Invece, secondo detto parere, «al fine di garantire che l’offerta sia reale, sarebbe opportuno prevederne la redazione in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata con elezione di domicilio ai fini delle comunicazioni di cancelleria e del contraddittorio previsto dall’articolo in esame, nonché chiarire che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice»[141]. Inoltre, con lo scopo di scongiurare le finalità dilatorie, sarebbe probabilmente opportuno valorizzare la serietà dell’offerta prevedendo una cauzione più elevata rispetto a quella di 1/10 prevista nel caso di vendita competitiva dall’art 571 c.p.c., stabilendo contestualmente che, in caso di inadempimento, trovino applicazione le sanzioni previste dall’art 587 c.p.c.
Dal secondo angolo prospettico, si evidenzia la previsione in base alla quale il giudice, nel contraddittorio tra le parti, può assumere sommarie informazioni sulla “effettiva capacità di adempimento dell’offerente”. Tale previsione, secondo detto parere, «appare eccessivamente generica introducendo nel procedimento esecutivo un accertamento dai confini non definiti».
Dal terzo angolo prospettico, si puntualizza che il D.d.l. prevede che l’istanza di vendita del debitore è condizionata al consenso dei creditori. La norma sembra far riferimento a tutte le categorie di creditori, mentre, sempre secondo detto parere, andrebbero effettuate talune distinzioni tra le diverse categorie di creditori.
Anche sotto questi profili non resta che attendere l’intervento dei decreti attuativi, auspicando che il legislatore tenga conto, nei limiti del possibile, dei rilievi critici evidenziati, tanto sul piano sostanziale, quanto sul piano procedimentale.
12. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali
La legge di riforma contiene una modifica in relazione ai rapporti tra vendita forzata e normativa antiriciclaggio, tematica sino ad ora caratterizzata dalla totale assenza di disposizioni normative.
Come si vedrà, l’esigenza di fondo, emersa nella prassi e recentemente indagata in dottrina, attiene al contrasto del riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, considerando però le peculiarità della natura e della disciplina delle procedure esecutive e concorsuali.
13.1. La disciplina vigente
La totale assenza di disposizioni normative specifiche con riferimento alla vendita forzata nell’ambito della cd. normativa antiriciclaggio ha sollevato un delicato problema interpretativo, di grosso impatto sul piano pratico-operativo e del contrasto al riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita [142].
Ci si è chiesti, infatti, se, pur in assenza di disposizione espressa, detta normativa possa trovare comunque applicazione nelle ipotesi in cui l’acquisto di un determinato bene venga effettuato nell’ambito di una procedura espropriativa (o concorsuale), nonostante le indubbie peculiarità di una fattispecie fondamentalmente contraddistinta dalla natura coattiva (e non volontaria) della vendita [143].
Per quanto, infatti, in tal caso ci troviamo di fronte ad una vendita indipendente dalla volontà del titolare di beni pignorati nell’interesse dei creditori, e dunque ad una fattispecie che – complessivamente considerata – non integra quella di riciclaggio, non può, d’altro canto, disconoscersi la concreta possibilità che l’intento perseguito dall’acquirente del bene [144], ancorché oggetto di una vendita coattiva, sia proprio quello che la normativa antiriciclaggio intende contrastare [145].
La rilevanza della problematica è tale da aver catalizzato anche l’attenzione della stampa[146].
Nella prassi l’attenzione si è concentrata soprattutto sui conti correnti della procedura esecutiva.
Ci si è chiesti, in particolare, se siano applicabili o meno ai conti correnti della procedura esecutiva ed al professionista delegato, da parte degli intermediari bancari, gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 (e successive modificazioni).
Più precisamente, presso gli operatori del settore, ciò che ha catalizzato l’attenzione, nell’ipotesi in cui la procedura espropriativa sia delegata ad un professionista (notaio, avvocato o commercialista), è l’intestazione/titolarità dei suddetti conti correnti. Infatti, si è fatta strada l’idea, soprattutto in ambito bancario, che la titolarità effettiva dei suddetti conti correnti sia del professionista delegato, anziché del presidente del tribunale (in ragione della pretesa necessità - ancorché controvertibile - di individuare in ogni caso una persona fisica come titolare effettivo ai sensi dell’art. 1, lett. pp del d.lgs. 21-11-2007 n. 231) o, in via più generale, della procedura, con conseguente assoggettamento degli stessi alla normativa antiriciclaggio.
Come già ampiamente evidenziato in altra sede, si tratta di prospettiva assolutamente erronea e fuorviante [147].
In giurisprudenza sussiste, a quanto consta, solo una pronuncia di merito, secondo la quale «gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 e successive modificazioni non si applicano ai professionisti delegati e, più in generale, agli ausiliari del giudice, non potendo definirsi né clienti né esecutori degli stessi, nel senso indicato dall’art. 1, 2° co., lett. p), d.lgs. 231/2007, né infine effettivi titolari del rapporto bancario acceso quale conto della procedura esecutiva» [148].
Nel pervenire alla suddetta conclusione, detta pronuncia opera un riferimento, in motivazione, alla risposta a quesito n. 15 del 21-6-2006 dell’Ufficio Italiano Cambi, secondo la quale: «l’attività svolta dal professionista a seguito di incarico da parte dell’Autorità giudiziaria, quale ad esempio quella di curatore fallimentare o di consulente tecnico d’ufficio, è esclusa dall’ambito di applicazione delle disposizioni antiriciclaggio. In questi casi il professionista agisce in qualità di ausiliario del giudice e non si ravvisa nella fattispecie né la nozione di cliente né quella di prestazione professionale».
La suddetta risposta ha ad oggetto, in via più generale, gli ausiliari del giudice, ma il principio dalla stessa affermato è stato ritenuto applicabile, dal suddetto Tribunale, anche ai professionisti delegati al compimento delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata in quanto considerati anch’essi, evidentemente, ausiliari del giudice o comunque parificabili a questi ultimi ai fini della individuazione della soluzione più corretta da dare alla problematica in esame.
In dottrina si è esclusa l’applicabilità alla vendita forzata della vigente normativa antiriciclaggio per lo più argomentando in tal senso dall’assenza di una disposizione espressa, dalla natura giurisdizionale dell’attività di cui si discute – anche ove posta in essere dal professionista delegato e non dal giudice -, nonché dalle peculiarità proprie di questa attività [149].
Argomentando, per un verso, dal modo in cui sono formulate le disposizioni vigenti in materia e, per altro verso, dalle peculiarità proprie dell’acquisto che si realizza nell’ambito di un processo di espropriazione forzata, la dottrina ha sottolineato altresì l’estrema difficoltà - se non anche l’impossibilità – di colmare detta lacuna in via di interpretazione analogica o estensiva e la conseguente esigenza di intervenire, da parte del legislatore, con l’introduzione di una disciplina espressa che tenga conto proprio delle suddette peculiarità [150].
Giova, infine, evidenziare come la medesima dottrina non ha mancato neanche di evidenziare il peculiare atteggiarsi della problematica di cui si discute con riferimento alle procedure concorsuali, rimarcando la necessità di un intervento del legislatore anche in questa sede, che tenga conto, anche in tal caso, delle peculiarità proprie di questo contesto, oltre che delle differenti tipologie di vendita che possono venire in rilievo in questa sede [151].
13.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore della riforma interviene nel contesto appena più sopra sinteticamente delineato con una disposizione del seguente tenore.
L’art. 1 comma 12 lett. p) reca testualmente: «prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
La scelta è, dunque, evidentemente nel senso di colmare il suddetto vuoto normativo estendendo l’ambito di applicazione della normativa antiriciclaggio di cui al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 anche all’acquisto effettuato nell’ambito di procedure esecutive individuali o concorsuali.
Più precisamente, a detto risultato si intende pervenire prevedendo che «gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
13.3. Valutazione della legge di riforma
In ragione di quanto appena più sopra evidenziato in ordine al vuoto normativo esistente e della indubbia esigenza di contrastare il riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, ci troviamo di fronte ad un intervento riformatore che effettua una scelta di fondo pienamente condivisibile.
La formulazione della suddetta disposizione desta, però, talune perplessità.
La generica equiparazione del cliente all’aggiudicatario, sotto il profilo degli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, nonché la conseguente generica subordinazione della possibilità per il giudice di emettere il decreto di trasferimento al rispetto di tali obblighi, infatti, ben potrebbero indurre a ritenere che la normativa vigente non necessiti di alcun adattamento di sorta per poter trovare applicazione anche nell’ambito di un differente contesto – contraddistinto da non indifferenti peculiarità – qual è quello della vendita (non volontaria ma) forzata.
Come si è già avuto modo di evidenziare più ampiamente in altra sede, invece, l’attuale impianto normativo necessita inevitabilmente di taluni adattamenti per poter trovare applicazione sia nell’ambito del processo di espropriazione forzata che in quello concorsuale [152].
Nonostante la suddetta formulazione della norma, è, dunque, auspicabile che il legislatore, in sede di attuazione della delega, non si limiti a procedere ad una meccanica estensione della vigente normativa antiriciclaggio al processo di espropriazione forzata e alle procedure concorsuali, ma preveda, piuttosto, specifiche disposizioni parametrate alle peculiarità proprie del contesto in cui queste saranno chiamate ad operare.
14. Le misure coercitive
La legge di riforma contiene interventi anche in ordine a uno degli istituti cruciali per l’effettività della tutela giurisdizionale: le misure coercitive. Come si vedrà, per un verso, i principi direttivi fissati nella legge delega recepiscono quanto segnalato in dottrina ma, per altro verso, non intervengono su taluni profili critici del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c., censurati, da autorevole dottrina, finanche sotto il profilo della legittimità costituzionale.
14.1. La disciplina vigente
Le cd. misure coercitive costituiscono indubbiamente uno degli istituti processuali che ha conosciuto un’evoluzione più significativa nel corso degli ultimi anni nel nostro ordinamento.
Un primo significativo risultato, nella direzione della effettività della tutela di condanna, si è avuto grazie a quella dottrina che, nel propugnare il superamento della correlazione necessaria fra condanna ed esecuzione forzata, ha sottolineato l’esigenza di porre la tutela di condanna in correlazione anche con le misure coercitive [153].
Ciò posto, però, per lungo tempo il nostro ordinamento è stato comunque contraddistinto dalla presenza solo di specifiche disposizioni contenenti misure coercitive tipiche, tanto è vero che, la medesima dottrina di cui sopra, al fine di ampliare il perimetro applicativo delle misure coercitive, ha tentato di valorizzare talune disposizioni del codice penale (artt. 388 e 650), nonostante i limiti che le stesse presentavano o sotto il profilo dell’ambito di applicazione o sotto quello dei presupposti richiesti per la loro applicabilità.
Solo nel 2009[154] il legislatore ha introdotto, sulla scia di quanto già fatto da tempo da altri ordinamenti, un sistema atipico di misure coercitive.
Più precisamente è stato introdotto, nel codice di procedura civile, l’art. 614-bis c.p.c.
Si tratta di una norma che, pur con taluni difetti di formulazione che hanno indotto il legislatore ad intervenire nuovamente sulla stessa nel 2015[155], ha indubbiamente rappresentato un significativo passo avanti nella direzione della effettività della tutela di condanna.
In forza di quanto attualmente disposto dall’art. 614-bis c.p.c. (recente “misure di coercizione indiretta”), infatti: «con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni latra circostanza utile».
14.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore interviene nuovamente in materia con la legge delega in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. o) reca testualmente: «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Due sono, dunque, le tipologie di intervento previste dalla l. n. 206/2021.
Il primo ha ad oggetto uno dei profili applicativi più delicati della vigente disciplina, essendosi da più parti evidenziato [156] come la stessa attribuisca al giudice un’eccessiva discrezionalità o, quanto meno, una discrezionalità estremamente ampia sotto diversi profili.
L’intento del legislatore è, evidentemente, quello di circoscrivere detta discrezionalità sotto il profilo della durata e della determinazione dell’ammontare della misura di coercizione indiretta.
Il secondo mira, invece, ad intervenire su una scelta di fondo effettuata dal legislatore in sede di introduzione, nel nostro ordinamento, di un sistema atipico di misure coercitive, ossia l’attribuzione al giudice della cognizione (e non al giudice dell’esecuzione [157]) del potere di pronunciare la misura coercitiva.
In forza di quanto disposto dall’art. 614-bis c.p.c., spetta, infatti, al giudice della cognizione, in sede di emissione della pronuncia di condanna, il potere di condannare il soggetto soccombente (anche) al pagamento di una somma di danaro «per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
Detta scelta non viene sovvertita, in quanto resta ferma, ma si attribuisce analogo potere al giudice dell’esecuzione con riferimento alle ipotesi in cui «il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
14.3. Valutazione della legge di riforma
Sotto entrambi i profili appena più sopra indicati l’intento del legislatore appare condivisibile.
Nel primo caso, infatti, si vogliono arginare possibili sconfinamenti del potere discrezionale attribuito dalla norma al giudice in potere arbitrario o comunque evitare un distorto utilizzo dell’istituto. Resta, però, da valutare come verrà assolto il compito più difficile, ossia l’individuazione dei criteri per la determinazione dell’ammontare della misura coercitiva.
Nel secondo caso, siamo di fronte ad una previsione che mira a rendere ancor più effettiva la tutela giurisdizionale di condanna, posto che, con la stessa, si estende l’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta anche a titoli esecutivi differenti da un provvedimento giurisdizionale di condanna. Anche in questo caso, però, ogni altra valutazione non può che rimanere sospesa in attesa di vedere come il legislatore darà attuazione a questo principio di carattere generale, soprattutto sotto il profilo procedimentale, posto che, pur seguendo gli auspici di una parte della dottrina [158] nel senso di attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di liquidare l’astreinte con un procedimento sommario in cui sia salvaguardata la garanzia del contraddittorio, si tratta pur sempre di disciplinare un’ipotesi assai peculiare rispetto all’attività tipicamente rimessa al giudice dell’esecuzione.
Criticabile appare, invece, la scelta del legislatore di non intervenire su altro profilo critico del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c. [159], tacciato anche di incostituzionalità da parte di autorevole dottrina [160].
Il riferimento è alla esclusione dall’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c.
15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”
La legge di riforma prevede anche l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, contenente «i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima».
Al contempo si prevede altresì che «i dati identificativi degli offerenti, del conto e dell’intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
Le aste giudiziarie, e, in via più generale le procedure di espropriazione forzata e concorsuali, costituiscono indubbiamente un contenitore ricco di informazioni utili per una pluralità di fini.
Non è questa la prima volta che il legislatore interviene sul punto, anche se, come avremo modo di evidenziare di qui a breve, i pregressi interventi legislativi in materia sembrerebbero avere un differente perimetro applicativo e differenti finalità rispetto a quelle di cui al presente intervento del legislatore.
15.1. I pregressi interventi legislativi: il registro delle procedure espropriative, di insolvenza nonché degli strumenti di gestione delle crisi
Con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, nella L. 30 giugno 2016, n.119, recante “Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché di investitori in banche in liquidazione”, è stato istituito (art. 3) il “Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione delle crisi” [161].
Questa disposizione è stata introdotta nel nostro ordinamento in attuazione di quanto disposto in materia di pubblicità delle procedure d’insolvenza transfrontaliere dal Reg. UE 2015/848 approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE in data 20 maggio 2015, anche se si tratta di disposizione che non è ancora divenuta operativa in quanto necessitante, a tal fine, di un Decreto del Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, che, nonostante il decorso del relativo termine, non è stato ancora adottato.
Più precisamente, si tratta di un registro elettronico istituito presso il Ministero della Giustizia nel quale saranno pubblicate tutte le informazioni e i documenti relativi:
a) alle procedute di espropriazione forzata immobiliare;
b) alle procedure di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa;
c) ai procedimenti di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti, nonché ai piani di risanamento quando vengono fatti oggetto di pubblicazione nel registro delle imprese;
d) alle procedure di amministrazione straordinaria;
e) alle procedure di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano del consumatore e di liquidazione dei beni ex legge n. 3/2012.
Il registro si compone di due sezioni:
1) una ad accesso pubblico e gratuito;
2) l’altra ad accesso limitato [162].
Per le informazioni relative alla sezione del registro ad accesso pubblico vi è un rinvio all’art. 24, par. 2, del Reg. UE 2015/848 ove si fa riferimento alle seguenti informazioni:
- data di apertura della procedura;
- tipo di procedura aperta;
- giudice e numero della stessa;
- fondamento giuridico che ne giustifica l’apertura;
- nome e natura giuridica del debitore;
- nominativo del soggetto incaricato di gestire la procedura;
- termine per l’insinuazione dei crediti;
- data di chiusura della procedura;
- giudice competente per l’impugnazione.
Fermo restando, comunque, per quanto in questa sede maggiormente interessa – ossia le procedure di espropriazione forzata immobiliare -, il rinvio, sia per la sezione ad accesso pubblico che per quella ad accesso limitato, al decreto dirigenziale del Ministro della giustizia di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.
Per lo più si è ritenuto [163] che detto registro miri fondamentalmente a conseguire una duplice finalità:
1) la prima, meramente informativa e di portata generale, consistente nel consentire ai soggetti interessati, che sino ad oggi non ne hanno beneficiato, di disporre di una serie di informazioni utili tali da rendere al contempo più trasparenti sia le procedure esecutive individuali e collettive, sia le procedure e gli strumenti di risanamento;
2) la seconda, più circoscritta, consistente nel favorire la creazione di un mercato di non performance loans, consentendo ai soggetti interessati al loro acquisto di disporre di un adeguato set informativo, senza dover sopportare costi eccessivi e difficoltà spesso insuperabili, così da metterli in condizione di stimare il valore di tali crediti ed identificare i titolari da cui eventualmente acquistare.
Il registro in esame costituisce anche uno strumento per un’efficace vigilanza sugli intermediari bancari e finanziari e sulla stabilità dello specifico mercato in cui operano. Da ciò, la previsione dell’accesso al registro da parte della Banca d’Italia.
15.2. La valutazione dell’intervento della legge di riforma
Ferma restando, per effettuare valutazioni più approfondite, la necessità di verificare i contenuti dei decreti di attuazione della disposizione in esame, alla stregua del tenore della stessa è possibile comunque sin d’ora evidenziare come ci troviamo di fronte ad un intervento legislativo avente un oggetto più circoscritto di quello di cui sopra (posto che reca un riferimento ai soli dati relativi alle aste giudiziarie e, più specificamente, ai soli dati identificativi degli offerenti, del conto corrente bancario o postale usato per versare la cauzione, al prezzo di aggiudicazione e alle relazioni di stima) e con finalità indubbiamente differenti.
Basti a tal proposito rimarcare come, al di là dell’oggetto più circoscritto, si tratta di dati che, così come testualmente previsto dalla suddetta previsione normativa, potranno essere messi a disposizione, su richiesta, della sola autorità giudiziaria, civile e penale. Non è dato comprendere, sulla base dell’attuale testo della norma, per quali finalità. In astratto potrebbe trattarsi di una disposizione funzionale anche al conseguimento degli obiettivi che il legislatore intende conseguire con l’altra disposizione, in precedenza commentata, volta ad estendere l’applicabilità della normativa antiriciclaggio alle procedure esecutive e concorsuali. Ma, per comprendere se sia effettivamente così e, soprattutto, quali siano effettivamente le finalità perseguite dal legislatore con l’istituzione della banca dati in esame, occorrerà attendere la fase di attuazione della legge delega, con l’auspicio, evidentemente, che in questa sede vengano fugati tutti i possibili dubbi.
La sensazione, comunque, è che, alla luce di quanto sinora evidenziato con riferimento agli interventi normativi in tema di dati e informazioni di vario genere in tema di procedure esecutive e concorsuali, il legislatore si stia muovendo in modo estemporaneo e senza alcuna visione d’insieme. Sarebbe quanto meno auspicabile un maggior coordinamento, non solo sul piano normativo, ma anche operativo.
[1] Al Senato il disegno di legge A.S. 1662 (recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata») è stato presentato dal “Governo Conte” II il 9 gennaio 2020; successivamente, con la formazione del Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia, nel mese di marzo 2021, ha insediato una Commissione di studio per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, attraverso la formulazione di puntuali proposte emendative al d.d.l. 1662 (c.d. Commissione Luiso). Sulla base dei lavori di questa Commissione, il 16 giugno 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario. La Commissione giustizia ha concluso l’esame del provvedimento il 14 settembre 2021. In Assemblea il Governo ha presentato un maxiemendamento, che ha recepito le modifiche approvate in sede referente, sulla cui approvazione ha posto la questione di fiducia. Per questa ragione il disegno di legge giunto all’esame della Camera si compone di un unico articolo suddiviso in 44 commi.
[2] Cfr., per un esame delle previsioni normative introdotte dal legislatore per fronteggiare le distinte fasi dell’emergenza epidemiologica Covid-19, anche per ulteriori riferimenti: con riferimento alla giustizia civile, E. Fabiani –L. Piccolo, La giustizia civile nell’era dell’emergenza epidemiologica, in Giusto proc. civile, 4/2020, 1027 s.; con riferimento all’esecuzione forzata, E. Fabiani – L.Piccolo, Le misure per fronteggiare l’emergenza epidemiologica Covid-19 in tema di processo esecutivo, in Rass. esec. forz., 2020, 359 s.
[3] Su tutte cfr. Corte costituzionale, sentenza del 22 giugno n. 2021, n. 128, che ha dichiarato l’illegittimità della seconda proroga della sospensione di ogni attività nelle esecuzioni aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore, che era stata stabilita dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 (art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 2021, n. 21).
[4] Cfr. CSM Pratica num. 533/VV/2020. Buone prassi nel settore delle esecuzioni – Aggiornamento Linee guida
(delibera 6 -7 dicembre 2021), ove si evidenzia che la materia delle esecuzioni è oggetto di specifica riforma (in particolare richiamando il d.d.l. di riforma del processo civile n. 1662), con obiettivo espressamente inerente all’attuazione del PNRR, tanto più che appare di palese evidenza come l’esecuzione delle pronunce giurisdizionali e, in generale, la realizzazione dei crediti costituisca uno degli aspetti fondamentali su cui verrà valutata l’efficienza del sistema giustizia.
[5] Il Consiglio Superiore della magistratura, con delibera del 7 dicembre 2021, proseguendo nella sua attività di rilevazione delle best practices, ha proceduto all’aggiornamento e alla semplificazione delle prassi operative più significative nel settore delle esecuzioni immobiliari, in continuità rispetto all’attività svolta dal precedente Osservatorio permanente sulle buone prassi nelle esecuzioni immobiliari (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni –Aggiornamento Linee guida. Delibera 6/7 dicembre 2021, cit.).
[6] Cfr. A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, in www.inexecutivis.it
[7] Su cui cfr., anche per i richiami, A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, cit.; Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in judicium.it; Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2019, 1072 s.
[8] Sulla disciplina in commento, così incisa dalle modifiche nel corso del tempo, cfr., anche per i riferimenti, Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, cit.; Bove, La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito, in Nuove leggi civ., 2015, 2 s.; Longo, Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti, in Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile a cura di Dalfino, Torino, 2015, 149 ss.
[9] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073 s.
[10] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073.
[11] Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[12] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075.
[13] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075, in senso adesivo alla tesi affermata da Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[14] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Manuale, cit., 1075. Adde, in quest’ottica Leuzzi, Espropriazione forzata dei crediti nei confronti degli enti pubblici e competenza per territorio, in www.inexecutivis.it.
[15] Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustizia insieme.it
[16] Cfr. sulla riforma in commento, anche per gli ulteriori riferimenti, Moretti, Novità in materia di esecuzione forzata (II parte) - il nuovo art. 631 bis c.p.c. e le altre ipotesi di definizione dell’esecuzione, in Giur. it., 2016, 8-9, 2045 s.
[17] In dottrina, in senso non sfavorevole alla previsione normativa in commento, cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it., secondo il quale «se è vero che la soluzione adottata comporta un ulteriore adempimento per il creditore pignorante, onerandolo della notifica al debitore e al terzo dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e del deposito dell’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione, è, però, ragionevole che il terzo sia posto in condizione di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere».
[18] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[19] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, in www.notariato.it e in corso di pubblicazione in Rass. dell’esecuzione forzata.
[20] cfr. E. Astuni, Novità in materia di titolo esecutivo, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 1/2006, 188 s.
[21] Cfr. E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, in Notariato.it; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, in Rassegna dell’esecuzione forzata, 2/2021, 355 s.
[22] Cfr., tra gli altri, Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli 1960 (ristampa), vol. I, 284. Diversamente cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio. In argomento, adde, anche per i riferimenti Majorano, sub. art. 475 c.p.c., in L.P. Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, vol. VI, Torino, 2013, p. 86 ss.
[23] Cass., 5 giugno 2007, n. 13069, la quale, dando atto delle origini della spedizione in forma esecutiva e del dibattito dottrinale in merito, afferma che la spedizione in forma esecutiva non accerta l’inefficacia del titolo esecutivo, né l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi dell’azione esecutiva, ma rappresenta un elemento di consapevolezza per il debitore dell’esistenza del titolo esecutivo. In questa prospettiva può ascriversi, tra le altre, Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[24] Cfr. Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[25] Cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695-696; Andolina, Profili dogmatici dell’esecuzione forzata, Milano, 1962, 120 ss; Arieta, in Codice commentato delle esecuzioni civili, 2016, 67-68.
[26] Cfr. Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, secondo la quale è preferibile l’opinione di chi osserva che, per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva, occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva. Quest’indirizzo interpretativo è stato recentemente ribadito da Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967. Nondimeno, in dottrina si obietta che la ricostruzione circa la natura e la funzione della spedizione in forma esecutiva operata dalla sentenza in discorso si ponga in manifesto contrasto con la tesi dalla medesima sentenza riaffermata per cui la mancanza della formula esecutiva configura una mera irregolarità formale deducibile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi: cfr. M. Farina, Contraddittorio negato e dottrina giudiziaria in una recente pronuncia “nomofilattica” della Suprema Corte in materia di spedizione in forma esecutiva, cit.; M.Di Marzio, Omessa spedizione in forma esecutiva di copia del titolo esecutivo e opposizione agli atti esecutivi, in Riv. esec. forzata, 2019, 4, 899 s.; le note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina E B. Capponi, in Rass. es. forz., 2019, 385 s.
[27] Così B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2017, 174; ma vedi anche, tra gli altri Satta - Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 585; nonché, anche per ulteriori riferimenti: Majorano, sub art. 475 c.p.c., cit., 86 ss.
[28]Così Petrelli, Atto pubblico, scrittura privata autenticata e titolo esecutivo, in Notariato, 2005, 5, 542, secondo cui la spedizione del titolo in forma esecutiva ha quindi l’ufficio di contrassegnare la copia rappresentativa della azione esecutiva, ed è proprio tale funzione che giustifica una serie di conseguenze di disciplina.
[29] Con riguardo al controllo estrinseco e formale del cancelliere cfr.: Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 3 settembre 1999, n. 9297; Cass. 5 luglio 1990 n. 7074; Trib. Napoli 4 dicembre 2003; contra, Pret. Legnano 19 ottobre 1982 (Foro it., 1984, I, 3041, con nota di richiami) che ha sottolineato come il cancelliere non debba limitarsi ad una indagine meramente formale sulla completezza del titolo dovendo altresì «verificare se una sentenza è esecutiva (o perché passata in giudicato, o perché resa in grado d’appello, o perché resa in unico grado, o perché dichiarata provvisoriamente esecutiva, o perché intrinsecamente esecutiva».
[30] In giurisprudenza appare consolidato l’orientamento secondo il quale il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all’atto ricevuto da notaio, relativamente all’obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l’indicazione degli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva: cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 27 agosto 2015, n. 17194, Foro it., 2016, I, 196; Cass. 26 marzo 2015, n. 6083, Foro it., 2015, I, 2809; Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 31 agosto 2011, n. 17886; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219; Cass. 18 gennaio 1983, n. 47; Cass. 19 luglio 1979, n. 4293. Nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Latina-Terracina 18 maggio 2010, Foro it., 2010, I, 2550; Trib. Rossano 15 maggio 2007; Trib. Salerno 15 marzo 2007; Trib. Brindisi 10 ottobre 2005; Trib. Mantova 22 settembre 2004; Trib. Napoli 2 febbraio 2002; Trib. Cassino 14 marzo 2000. in Giur. merito, 2001, 662, con nota di Russillo). La giurisprudenza ha peraltro puntualizzato che il riconoscimento del valore di titolo esecutivo all’atto pubblico deriva dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce e non dall’efficacia probatoria dell’atto medesimo: cfr. Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219.
[31] Pertanto, ove si contesti la mancanza della formula esecutiva sul titolo notificato ai sensi dell’art. 479 c.p.c., il rimedio esperibile è l’opposizione agli atti esecutivi. Invece, ove si contesti l’esistenza stessa del titolo esecutivo in senso sostanziale, il rimedio esperibile è l’opposizione all’esecuzione (cfr. tra le altre, Cass. 14 novembre 2013, n.25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069; Cass. 26 ottobre 1992, n. 11618).
[32] Cass. 18 novembre 2014, n. 24548. In argomento, per i richiami di giurisprudenza cfr. F. De Stefano, agg. da Belle’, in Processo di esecuzione, a cura di Cardino – Romeo, Padova, 2018, 85 s.
[33] Cfr. in particolare Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[34] Cass. 18 novembre 2014 n. 24548, che ha aggiunto che, non trattandosi di nullità, si deve escludere la sanatoria ai sensi dell’art. 156 c.p.c., anche a seguito della proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi; adde Cass.3 settembre 1999, n. 9297. Con l’opposizione agli atti esecutivi va contestata la regolarità sulla competenza al rilascio della copia (Cass. 6 aprile 1990, n. 2899), oppure la regolarità delle sottoscrizioni (Cass. 3 giugno 1993, n. 6221).
[35] Cass. 14 novembre 2013, n. 25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069.
[36] Si tratta di Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, la quale puntualizza che secondo la dottrina più risalente - formatasi già sotto il codice del 1865 - l’apposizione della formula esecutiva (che costituisce un unicum inscindibile con la spedizione in forma esecutiva) è non altro che un’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia che già è inerente al titolo esecutivo in sé considerato. Si tratterebbe, quindi, di un residuo storico, di un requisito più formalistico che formale. È, tuttavia, preferibile l’opinione di chi osserva che per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva (a tal proposito è stato affermato che il diritto a procedere ad esecuzione forzata sarebbe soggetto ad una condicio iuris impropria - l’apposizione della formula - il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio).
[37] Si tratta della tesi di Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio.
[38] Cfr. P.Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim., 2015, 956.
[39] Cfr., anche per ulteriori riferimenti, E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[40] Leuzzi, Considerazioni sulla spedizione del titolo in forma esecutiva alla luce dell’art. 23 del c.d. “decreto ristori”, in www.inexecutivis.it
[41] E.Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[42] E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[43] Cfr. sul fenomeno dell’interiorizzazione della forza esecutiva, Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[44] Vd. amplius, anche per i richiami, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[45] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[46] Sulla funzione della documentazione ex 567 c.p.c., che dovrebbe rivestire cruciale importanza anche per l’individuazione del regime applicabile, prima delle riforme del 2005-06, cfr.: Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano, 1961, 344 s.; Tarzia, Il bene immobile nel processo esecutivo, Riv.dir.proc., 1989, 343 s.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1965, 359 s.; Ricci, L’omesso deposito dei documenti nel procedimento di vendita immobiliare, Riv.dir.proc., 1966, 543 s.; Vittoria, Ancora sugli effetti della mancata produzione dei documenti di cui all’art. 567 cpv. c.p.c. nel termine di efficacia del pignoramento immobiliare, Giust.civ., 1966, I, 1207 s.. Dopo le riforme suddette cfr., anche per i riferimenti, Montanaro, C’era una volta la funzione della documentazione ipo-catastale (e del certificato notarile sostitutivo) di cui all’art. 567, 2° co., c.p.c., in Riv. esec. forz. 2006, 1 s. Da ultimo cfr. Brunelli, La documentazione ipocatastale, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F. Di Marzio – M. Palazzo, Milano, 2021, 117 s.
[47] Cfr. Capponi, Storto, Prime considerazioni sul d.d.l. Castelli recante «Modifiche urgenti al codice di procedura civile», in relazione al processo di esecuzione forzata, in Riv.esec.forz., 2002, 182 s.; Vaccarella, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie «virtuose», in Riv.esec.forz, 2001, 291 s.
[48] Cfr. Corsini, Commento all’art. 567 c.p.c., in Chiarloni (diretto da), Le recenti riforme del processo civile, I, Bologna, 2007, 900 s.
[49] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[50] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[51] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[52] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53 s.; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[53] Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nella espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 1992, V, 444 s.; Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, in Atti del Convegno di Roma del 22/23 maggio 1993, a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 1994, 13 s.
[54] Cfr. Aa.Vv., Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, Atti del convegno di Roma del 22-23 maggio 1993, Milano, 1994, 349 ss.
[55] Cfr. per tutte Trib. Prato, 4 giugno 1997, in Foro it., 1997, I, 3406, e in Riv. not., 1998, II, 191, che motivava la legittimità della delega al notaio delle operazioni di incanto sia in base alla natura non strettamene giurisdizionale delle attività delegate, sia in base alla norma di cui all’art. 1, comma 2°, b, 4, lett. c dell l. 89/2013, che consente ai notai di procedere agli incanti su delegazione dell’autorità giudiziaria. Cfr. sulla prassi di alcuni tribunali - oltre, quello Prato, quelli di Lucca e Livorno - di ricorrere allo strumento della delega prima ancora della legge 302/1998, F.Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, Milano, 1999, 14 s.; Mondini - Terrusi, La soluzione giurisprudenziale in materia di delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare alla luce della l. 3 agosto 1998, n. 302, in Giust. civile, 1998, II, 509 s. Per una critica alla possibilità di delega al notaio sostenuta, in quel tempo, de iure condito cfr. Cardarelli, Legge 3 agosto 1998 n. 302, Funzioni e limiti dell’attività notarile delegata nei procedimenti esecutivi, Rivista del notariato, 2000, 566 s.
[56] Cfr. F. Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, cit., 48; Luiso –Miccoli, Espropriazione forzata immobiliare e delega al notaio, Milano, 1999, 49.
[57] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 2007, 1, 534 s.
[58] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010, 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[59] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[60] Cfr. in merito all’esame di questa disposizione E.Astuni, in AA.VV., La nuova espropriazione forzata, diretto da C. Delle Donne, Torino, 2017, 550; Soldi, Manuale, cit., 1566.
[61]Sull’evoluzione qui tracciata cfr., da ultimo, anche per ulteriori richiami, L.Piccolo, Il notaio delegato, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F.Di Marzio-Palazzo, Milano, 2021, 411 s.
[62] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[63] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[64] Cfr. i fondamentali contributi di R. Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1998, V, 397 ss.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1999, V, 97.
[65]Autorevole dottrina ha rappresentato diversi problemi interpretativi che il professionista delegato può porre al giudice dell’esecuzione: R.Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 397 s.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 97; da ultimo sul concetto di difficoltà cfr., anche per i richiami, Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, in Demarchi Albengo, La nuova esecuzione forzata, Bologna, 2018, 1421 s.
[66] Soldi, Manuale, cit., 1593. In giurisprudenza cfr. Cass. 18 aprile 2011, n. 8864, in Foro it., 2013, I, 1664, secondo cui il reclamo ex art. 591 ter c.p.c. avverso il decreto con cui il giudice dell’esecuzione impartisce istruzioni al professionista delegato è proponibile finché tali istruzioni non siano eseguite, ferma restando la facoltà di proporlo avverso gli atti successivi del delegato, che siano affetti da illegittimità derivata, o di impugnare ex art. 617 c.p.c. il primo atto del giudice conclusivo della relativa fase.
[67] Cfr., anche per i richiami, E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 562 s.; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1425.
[68] Da ultimo, su questa tematica, anche per ulteriori riferimenti, cfr. L.Piccolo, Il notaio delegato, cit., 422 s.
[69] Soldi, Manuale, cit., 1595.
[70] Cfr., anche per i riferimenti, M. Marchese, Aggiudicatario: una tutela imperfetta. Parte processuale, in Riv.esec.forzata, 4/2020, 946 s.
[71] Cfr., tra gli altri, A.Saletti, commento all’art. 591 ter, in A. Saletti, M.C. Vanz, S. Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312 s.; P.Farina, L’ennesima espropriazione immobiliare “efficiente” (ovvero accelerata, conveniente, rateizzata e cameralizzata, in Riv.dir.proc., 2016, 1, 127; Soldi, Manuale, cit., 1596 s.
[72] Cfr. A. Saletti, commento all’art. 179-ter disp. att. codice di procedura civile, in Saletti, Vanz, Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1427.
[73] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597.
[74] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[75] La Corte nella sentenza in esame (Cass. 9 maggio 2019, n. 12238) puntualizza che questa funzione del subprocedimento incidentale previsto dall’art. 591 ter c.p.c. si desume da due indici normativi. In primo luogo, la collocazione della norma: essa è inserita nel paragrafo dedicato alla delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare. Ciò dimostra che la procedura ivi prevista ha un perimetro applicativo limitato ai dubbi sollevati, alle incertezze incontrate od agli errori commessi dal professionista delegato. Essa serve, dunque, a dirigere le operazioni delegate, e qualsiasi attività endoprocessuale di impulso, coordinamento o controllo sugli atti delle parti o dell’ausiliario da parte del giudice è, per definizione, insuscettibile di passare in giudicato. In secondo luogo, il primum movens del procedimento di cui all’art. 591 ter c.p.c. può essere costituito solo da un atto del professionista delegato: o perché questi si sia rivolto al giudice avendo incontrato “difficoltà”, o perché abbia compiuto un atto ritenuto viziato dalle parti, che l’abbiano perciò reclamato dinanzi al giudice dell’esecuzione. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rende evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita.
[76] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597 s. Adde, sulla persistente impugnabilità del decreto di trasferimento ex art. 617 c.p.c., in relazione a profili già oggetto di decisione dinanzi al collegio del reclamo, Leuzzi, Il controllo dell’attività del delegato e il nuovo meccanismo della reclamabilità “diffusa”, www.inexecutivis.it
[77] Cfr. Saletti, commento all’art. 591 ter, cit., 314 ss..
[78] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[79] Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[80] Sui presupposti di “stabilità” del decreto di trasferimento: la decorrenza del termine perentorio per la sua impugnazione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit.
[81] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, in Il processo civile.it; F.Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit.
[82] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, cit.
[83] Alla cui eliminazione non ha provveduto la legge n. 263/2005, che ha lasciato immutato tanto il nuovo testo (di cui alla legge n. 80/2005) degli artt. 596 e 598 c.p.c., quanto la previsione di cui al n. 7 dell’art. 591-bis c.p.c., solo “spostata” al n. 12 della medesima norma. Conseguentemente il segnalato contrasto permane, sia pur fra gli artt. 596 e 598 c.p.c., da un lato, e l’art. 591-bis (ora) n. 12, dall’altro.
[84] Cfr. anche per ulteriori rifermenti dottrinali E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, Padova, 2007, 87 ss.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit. 490 s.
[85] Cfr. per tutte E. Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53 s.; E. Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[86] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[87] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., spec. 490 s.
[88] A differenza di quanto accade per l’ipotesi di delega al notaio delle operazioni di divisione (e del relativo progetto), quanto meno stando all’impostazione (dottrinale e giurisprudenziale) prevalente in materia, secondo la quale il silenzio o la mancata comparizione della parte non equivalgono ad approvazione del progetto di divisione ex art. 791 c.p.c. ed il notaio deve rimettere gli atti all’istruttore: cfr. per tutti in tal senso: E. Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 426; G. Pavanini, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir., Milano, 1964, 479; G. Tomei, voce Divisione. III) Divisione giudiziale, in Enc. giur., XI, Roma, 1989, 9-10; C. Ripepi, voce Procedimento divisorio, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1996, 648; nonché E. Astuni, La delega al professionista delle operazioni di vendita, in AA.VV., Il nuovo rito civile. III: Le esecuzioni civili, a cura di P.G. Demarchi, Bologna, 2006, 536. Ipotesi rispetto alla quale potrebbe, dunque, apprezzarsi, anche sotto questo profilo, l’attribuzione di maggiori poteri al delegato in sede di espropriazione forzata immobiliare.
[89] Norma che rinvia peraltro, ai fini della fissazione di una nuova udienza, all’art. 485, ult. comma, c.p.c. e che attribuisce, dunque, al delegato anche la relativa valutazione in ordine al «se risulta o appare probabile che alcuna delle parti non sia comparsa per cause indipendenti dalla sua volontà».
[90] Così Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, 289.
[91] Cfr. più ampiamente E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; Id., voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[92]Satta, Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 676.
[93]Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, III, 225.
[94] Cfr. per tutti sul punto, anche per gli ulteriori richiami, Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, Riv. esec. forz., 2006, 66 s.; Bove in Balena- Bove, Le riforme più recenti del processo civile, cit., 163 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in Riv.esec.forzz., 2006, 1 ss; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione. Le novità della riforma, Milano, 2006, 108 s.; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione, 2° ed., Milano, 2006, 162 s.; Astuni, in Demarchi (a cura di), Il nuovo rito civile. III. Le esecuzioni, cit., 308 s.
[95] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in notariato.it
[96] Cfr. per tutti sul punto P. Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo: l’esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 ed ipotesi di intervento, cit., 560 s.; Miele-Roda-Fontana, La prassi delle vendite immobiliari nel Tribunale di Monza, in Riv. esecuzione forzata, 2001, 510 s.; Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. dell’esecuz. forz., 2001, 487 s.; Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna, in Riv. dell’esecuz. forz., 2003, 59 s. Adde, anche alla luce della legge 80/2005, Miele, La prassi del Tribunale di Monza in tema di espropriazione immobiliare e la l. n. 80 del 2005, in Foro it.., 2005, V, 145 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in CNN Notizie del 11 agosto 2006, 7 s.
[98] Cfr., anche per i richiami, sulle funzioni svolte dall’istituto della custodia dei beni immobili pignorati nell’ambito delle cd. best practices proprie di taluni tribunali cui si è ispirato il legislatore della riforma del 2005, D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, cit., 7 s.; Fontana, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. dell’esecuz. forz., 2005, 571 s.
[99] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, in Riv. dell’esecuz. forz., 2006, 66 s.
[100] Si ritiene all’uopo necessaria la istanza del creditore vista la collocazione della norma: cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in www.notariato.it
[101] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 2006, 66 s. secondo cui la previsione in questione non fa riferimento al solo caso del debitore, ma ha valenza generale, per tutti coloro che, essendo incaricati della custodia, non osservino i conseguenti obblighi: quindi, anche agli altri soggetti, diversi dal debitore, cui la custodia sia stata successivamente affidata. Cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit., la quale segnala, in senso critico, le prassi instauratesi in ordine a questa norma, utilizzata per sostituire nella custodia il debitore anche prima del provvedimento di autorizzazione alla vendita, in funzione di una anticipata liberazione dei beni e immissione nella loro detenzione da parte del custode.
[102] Testualmente, ai sensi del quarto comma, se custode dei beni pignorati è il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi ritenga che la sostituzione non abbia utilità, dispone, al momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o disposta la delega delle relative operazioni, che custode dei beni medesimi sia la persona incaricata delle dette operazioni o l’istituto di cui al primo comma dell’articolo 534 c.p.c.
[103] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c.. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit.
[104] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit.
[105] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, (delibera 11 ottobre 2017).
[106] Testualmente secondo le linee guida richiamate del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, delibera 11 ottobre 2017), «i compiti del custode e dell’esperto stimatore potrebbero auspicabilmente essere descritti in un provvedimento generale del giudice dell’esecuzione (o dei giudici dell’esecuzione del singolo ufficio di concerto tra loro), pubblicato sul sito internet del tribunale, in guisa che l’attività che gli ausiliari espleteranno si palesi in linea di principio uniforme, conoscibile e standardizzata. Tali indicazioni potranno essere recepite, con pari livello di dettaglio, nei provvedimenti di interesse, ovvero ad essi allegate come parte integrante. Si regoleranno, tra gli altri aspetti, anche i tempi e i modi per l’immediato avvio della collaborazione tra esperto stimatore e custode, ove contestualmente designati».
[107] Sulla evoluzione nonché sulla ratio e sulla disciplina dell’ordine di liberazione cfr. Fanticini, La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69, a cura di Demarchi, Bologna, 2009, 630 ss.; Id., La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata, a cura di Demarchi, Bologna, 2018, 921 s.
[108] Cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it, il quale rileva che gli interventi succedutisi in questi anni sul tema della liberazione dell’immobile hanno finito per esasperare una disputa, da qualcuno ritenuta ideologica ma piuttosto caratterizzata da un contrapposto «furore» normativo, tra chi ritiene illusoriamente di realizzare la sacrosanta e generale esigenza di tutela del diritto alla casa, con la posticipazione di qualche mese del rilascio di un immobile magari già alienato a terzi, che vantano una analoga esigenza abitativa, e chi ritiene che la liberazione anticipata dell’immobile abbia effetti taumaturgici sulla efficienza delle procedure esecutive.
[109] Parte della dottrina (Cavuoto, Sull’impugnazione dell’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in Foro it., 2011, 3391, 12, 1) rileva però come, sebbene solo con la modifica dell’art. 560 c.p.c., ad opera delle l. 14 maggio 2005 n. 80 e 28 dicembre 2005 n. 263, l’ordine di liberazione sia stato oggetto di un’espressa previsione normativa, anche prima della novella, sussistevano ben pochi dubbi sul fatto che il giudice dell’esecuzione potesse emanare il provvedimento di rilascio come conseguenza diretta dell’avvenuta sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile ai sensi dell’art. 559 c.p.c. Sull’ordine di liberazione all’indomani delle riforme del 2005-06 cfr. Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 66 s.; Bove, in Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 163 ss.; De Santis, in Didone, Il processo civile competitivo, Torino, 2010, 890 s.
[110] La ricostruzione e l’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina operata ha consentito di rilevare nello studio a cura di Calderoni, Esecuzione forzata, d.l. n. 59/2016 e ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in www.notariato.it, come l’intento del legislatore di semplificare non porti ad una diminuzione delle garanzie giurisdizionali. In particolare, nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, in detto studio si è ritenuto che la apparente riduzione di garanzie per l’esecutato - derivante dalla eliminazione di un apposito processo esecutivo - trovi nel nuovo sistema adeguato bilanciamento, da un lato, nella previsione espressa del rimedio della opposizione agli esecutivi e, dall’altro, nella circostanza che la legge, sia pur in un regime di notevole semplificazione, riserva al giudice – e non al custode – il potere di disporre l’intervento della forza pubblica, che prima era invece rimesso, senza controllo giurisdizionale diretto, all’ufficiale giudiziario.
[111] Ossia doveva trattarsi di crediti certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
[112] A. Auletta, Commento a prima lettura alla novella di cui all’art. 4, d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, in InExecutivis.
[113] Vd. Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la l. 12/2019, in Riv. esecuzione forzata, 2019, 3, 506.
[114] In argomento v., Crivelli, L’ordine di liberazione dopo la L. 11 febbraio 2019, n. 12, in Riv. esec. forz., 2019, 4, 760; Giorgetti -Fedele, La liberazione dell’immobile pignorato: il nuovo art. 560 c.p.c. come modificato dalla L. n. 12/2019, in Imm. e Prop., 2019, 8-9, 506; Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la L. 12/2019, cit., 3, 506; Vittoria, Modi della custodia e tutele del debitore che abita l’immobile pignorato, dopo le recenti modifiche dell’art. 560 c.p.c., in Riv. esec. forz., 2019, 2, 243; Perago, La conclusione del subprocedimento di vendita: la pronuncia del decreto di trasferimento, in Riv. esec. forz., 2019, 2, 303; Farina, Le modifiche apportate dalla L. 11-2-2019, n. 12 alla conversione del pignoramento ed all’ordine di liberazione, in Riv. esec. forz., 2019, 1, 149.
[115] E. Gasbarrini, Modalità attuative dell’ordine di liberazione e nuova disciplina transitoria del nuovo articolo 560 c.p.c. (osservazioni all’art. 18 quater del D.L. 162/2019, convertito in L. 8/20201), in Notariato.it
[116] Cfr., anche per i richiami, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[117] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., la quale ricostruisce il dibattito scaturito a seguito della novella del 2020, che ha previsto che il custode debba attuare il decreto di trasferimento nelle forme previste per l’attuazione dell’ordinanza di liberazione ponendo in rilievo: la tesi secondo cui il legislatore avrebbe esteso al decreto di trasferimento il regime previsto per l’ordine di liberazione ex art. 560 c.p.c., affidando, in entrambe le ipotesi, al custode la fase attuativa, ferma restando, comunque, la possibilità per l’aggiudicatario di agire esecutivamente nelle forme ordinarie in forza del decreto di trasferimento; e la tesi secondo cui il custode potrebbe dare attuazione all’ingiunzione ex art. 586, 2° comma, c.p.c. non già in forza del decreto di trasferimento stesso, ma in forza di un autonomo ordine di liberazione da pronunciarsi, al più tardi, contestualmente al decreto di trasferimento stesso.
[118] Cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., ove si dà conto del dibattito e si ritiene che la tesi preferibile appare quella che propende per la eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso. Tuttavia – precisa l’A. - che non pare neppure astrattamente ipotizzabile che l’acquirente possa promuovere la esecuzione per rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. e, nel contempo, instare affinché il custode giudiziario proceda coattivamente allo sgombero in forma libera. In questa prospettiva, è ragionevole sostenere che l’art. 560 c.p.c. preveda due modalità alternative per ottenere il rilascio. Il decreto di trasferimento in quanto titolo esecutivo può legittimare l’instaurazione di un procedimento di rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. Tuttavia, se l’aggiudicatario ne fa richiesta, il contenuto ordinario del decreto di trasferimento va integrato con l’inserimento anche di un ordine di liberazione in virtù del quale il custode giudiziario può procedere allo sgombero informale del bene. La richiesta di integrare il decreto di trasferimento con l’ordine di liberazione autorizza il custode giudiziario al compimento delle attività funzionali alla sua attuazione coattiva ma impedisce all’acquirente di promuovere contestualmente la esecuzione forzata per rilascio.
[119] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[120]Cfr. Corte cost. sentenza n. 128/2021: il «diritto all’abitazione, che costituisce «diritto sociale» (sentenze n. 106 del 2018 e n. 559 del 1989) e «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 44 del 2020). Esso, benché non espressamente menzionato, deve ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili (sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988) e il suo oggetto – l’abitazione – deve considerarsi «bene di primaria importanza» (sentenze n. 79 del 2020 e n. 166 del 2018)». D’altro canto, rileva il Giudice delle leggi che: «l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore», deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite. In particolare, «il dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni a beneficio di altri maggiormente esposti» sempreché sia rispettato, però, il principio di proporzionalità. Nella giurisprudenza di legittimità, sulla rilevanza dell’ordine di liberazione per l’effettività della tutela esecutiva, cfr. Cass., 3 novembre 2011, n. 22747, secondo cui la liberazione del bene pignorato è corollario «del principio … generale della necessaria effettività dell’azione giurisdizionale esecutiva, indispensabile per lo stesso corretto funzionamento delle istituzioni, sul quale si basa l’innovazione legislativa dell’ordine di liberazione obbligatorio».
[121] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[122] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[123] Cfr. A.Didone, Il processo esecutivo nel prisma degli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza (PPNRR), in Riv. esec.forzata, 2021, 2, 454 s., sembra far propria tale qualificazione dell’istituto così come operata dalla relazione illustrativa.
[124] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in il giusto processo civile, 3/2015, 720.
[125]P.Liccardo, I modelli decisionali della vendita coattiva nelle leggi 14-5-2005, n. 80, 28-12-2005, n. 263 e 24-2-2006, n. 52: ovvero della qualità delle leggi o delle leggi senza qualità, in Riv. esec. forz., 2006, 1 s. Peraltro, l’eccessiva rigidità procedimentale del modello di vendita coattiva di cui al codice di rito era stato denunciato anche da remoti progetti di riforma del codice di procedura civile quali il “Testo del disegno di legge delega elaborato dalla Commissione Tarzia”: cfr. sul punto, anche per ulteriori riferimenti, E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 722.
[126] Sui dati strutturali e funzionali delle vendite competitive cfr. E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, in Studi e Materiali, 2008, 3, 1226 s.; Id, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, in Studi e Materiali, 2011, 4, 1399 s.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, in Studi e Materiali, 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, in Studi e Materiali, 2012, 4, 1265 s.; E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, in Rass. esec.forz., 1/2020, 27 s.
[127]L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[128] Cfr. Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., il quale ha osservato, sotto il profilo strutturale e procedurale, che la vendita fallimentare è un atto ricompreso in uno specifico iter procedimentale, dipendente perciò dal corretto espletamento di una procedura cronologicamente e logicamente presupposta, e sul quale si basano ulteriori atti consequenziali; il trasferimento del bene, sia che avvenga all’esito di atto negoziale, sia che consegua ad un atto giudiziario, si colloca necessariamente ad un determinato punto di un iter procedimentale. Sotto il profilo funzionale, nello stesso studio, si è posto in evidenza che i trasferimenti nell’ambito della liquidazione fallimentare, sia che avvengano per effetto di un decreto di trasferimento, sia che avvengano per effetto di un atto negoziale, sono necessitati dalla funzione liquidatoria, sottoposti ad un peculiare regime di legittimazione dell’alienante e ad un regime di scelta dell’acquirente, sulla base di una procedura competitiva; al contempo, sono assoggettati a controlli e poteri autoritativi tanto forti che ne possono legittimare la caducazione in base a valutazioni di maggior convenienza di altra offerta. In senso adesivo cfr. E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it, ove si è in particolare sottolineato che la forma dell’atto di trasferimento, con il quale si conclude il subprocedimento di vendita, non determina il venir meno della natura coattiva della vendita competitiva. Trattasi, in altri termini, di differenza di ordine “formale” o comunque non tale da incidere sulla natura coattiva della vendita.
[129] Cfr. il progetto di riforma della Commissione ministeriale costituita con d.m. 28 giugno – 4 luglio 2013, per elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione presieduta da R. Vaccarella.
[130] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in Il giusto processo civile, 3/2015, 723.
[131] A questo schema rispondono, a titolo esemplificativo, i contratti di garanzia finanziaria di cui al d.lgs. n. 170 del 2004 (in attuazione della direttiva 2002/47/CE); il pegno non possessorio (art. 1 d.l. n. 59 del 2016); il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato (art. 48 bis T.U.B., Testo Unico Bancario, d. lgs. n. 385 del 1993, introdotto sempre nel 2016); il credito immobiliare ai consumatori (v., in particolare, l’art. 112 quinquiesdecies T.U.B., d.lgs. n. 385 del 1993, introdotto con d.lgs. n. 72 del 2016).
[132] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13.
[133] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13 secondo il quale, «peraltro, a rendere più improbabile l’utilizzazione del procedimento, vi è, anche in questo caso, la previsione dell’immediata liberazione dell’immobile, soluzione difforme da quelle previste nelle altre disposizioni del ddl delega, e particolarmente controindicata in un procedimento che sembrerebbe finalizzato anche a consentire l’aggiudicazione a favore di un soggetto che abbia intenzione (per legami familiari o di amicizia) di consentire al debitore di continuare a utilizzare l’immobile».
[134] Cfr. per tutti su questa ipotesi, anche per gli ulteriori riferimenti, D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.
[135] All’indomani dell’introduzione dell’istituto della “vendita competitiva”, secondo la tesi prevalente, ci troveremmo di fronte ad una vendita avente natura coattiva, in ragione di una pluralità di indici che depongono in tal senso, quali, segnatamente: l’identità della funzione liquidatoria, il particolare regime di legittimazione dell’alienante (id est la mancanza del consenso del fallito alla vendita), l’attuazione dell’interesse (di natura pubblicistica) di soddisfacimento dei creditori, il particolare regime di scelta e selezione dell’acquirente. Cfr. in tale prospettiva, ex multis: M. Fabiani, Natura della vendita forzata. Traslazione del rischio da “bene a norma”, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di Capponi, Sassani, Storto, Tiscini, Torino, 2014, 1461 ss.; C.Ferri, La liquidazione dell’attivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 2006, 3, 963; Liccardo- Federico, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, diretto da Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2007, 1805; Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, Giur. comm., 2008, I, 372 ss.; E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; ID, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, cit., 1399 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.; E.Fabiani-Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[136] Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s. (spe. 724-725), scritto in cui l’A. pone in luce, al di là delle obiezioni solevate nel corso del tempo, l’attualità del pensiero di S.Pugliatti, nella parte in cui Questi aveva colto la profonda essenza pubblicistica della vendita forzata. In particolare, nel richiamato contributo, l’A. pone dunque l’accento sull’importanza di considerare il nucleo imprescindibile della vendita forzata, soprattutto in un momento storico come quello attuale in cui questo istituto sta subendo una evoluzione caratterizzata dalla progressiva perdita di taluni dei suoi tratti caratterizzanti, sia di ordine soggettivo (stante il ricorso alla figura del professionista delegato) che oggettivo (stante il ricorso alle vendite competitive e la tendenza a denunciare l’eccessiva rigidità del modello procedimentale di vendita di cui al codice di rito, rispetto alla tradizionale impostazione podistica. Adde, sugli elementi di coattività in relazione ad ipotesi in cui non può dirsi che la vendita sia effettuata contro la volontà del debitore L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[137] E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.
[138] Critico appare Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustiziainsieme.it, secondo il quale il «‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi del d.d.l. delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici». Inoltre, secondo l’A., può peraltro dubitarsi dubitare «che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale. Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutil precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
[139]Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s.
[140] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[141] Così vd. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021), il quale, nell’auspicare che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di «mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice», sembrerebbe ritenere, in conformità con quanto si è già avuto modo in precedenza di evidenziare nel testo, che una peculiarità del nuovo istituto della “vendita diretta” introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento risieda nel fatto che detta vendita non si estrinseca nell’emissione di un decreto di trasferimento da parte di un giudice, ma nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio.
[142] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, in Rass. esecuz. forz., n. 1/2021, 5 s.; Id., Vendita forzata e normativa antiriciclaggio in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, n. 1/2020, 261 s.
[143] Cfr. più ampiamente sui tratti caratterizzati della coattività della vendita E. Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 703 s.
[144] Il quale, a differenza del venditore/debitore non “subisce” la vendita ma sceglie liberamente di procedere all’acquisto di un bene oggetto di una alienazione coattiva.
[145] E possa, se del caso, anche integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 648 bis c.p.c. (recante “riciclaggio”) in forza del quale è punibile (con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 e euro 15.493), «fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
[146] Il Sole 24ore del 29 febbraio 2020 pag. 17 “Tribunali, aste a rischio riciclaggio”.
[147] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[148] Così Trib. S.M. Capua Vetere, 7 novembre 2019 (pubblicata in Riv. dell’esecuz. forz., n. 1/2020, 260 ss. nell’ambito dell’osservatorio sulla giurisprudenza di merito a cura di D. Capezzera - A. Farolfi) nel ritenere, conseguentemente, «illegittimo il rifiuto della banca di dare esecuzione al piano di riparto predisposto dal professionista delegato ed approvato dal G.E.».
[149] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[150] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 10 s.
[151] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 20 s.
[152] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 ss.
[153] Cfr. A. Proto Pisani, Condanna (e misure coercitive), in Foro it., 2007, V; Id., voce Sentenza di condanna, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino 1998, 300 s.
[154]Cfr. all’indomani dell’introduzione dell’art. 614 bis, per tutti, L. Barreca, l’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (art. 614-bis c.p.c.), in Riv. esec.forzata, 2009, 4 s.; Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it; F. De Stefano, l’esecuzione indiretta: la coercitoria, via italiana alle “astreintes”, in Corr. merito, 2009, 12, 1181 s.; F. De Stefano, note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614-bis c.p.c., in Riv. esec.forz., 2009, 4 s.; Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella l. 69/09, in Riv. dir. processuale, 2009, 1546 s.; Saletti, sub art. 614 bis c.p.c., in Saletti, Sassani (a cura di), Commentario alla riforma del codice di procedura civile (L. 18.6.2009, n. 69), Torino, 2009, 194 s.
[155] Sulle novità della novella del 2015 cfr. per tutti: Gambioli, Novità in materia di esecuzione forzata(I parte) -Le misure di coercizione indiretta ex art. 614 bis c.p.c., Giur. it., 2016, 5, 1264 s.; Mazzamuto, L’astreinte all’italiana si rinnova: la riforma della comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Europa e Diritto Privato, 1, 2016, 11 s.;; Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s. Sull’iter della riforma cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, Misure coercitive fra condanna e tutela esecutiva, Riv. trim. dir. e proc. civ., 1, 2014, 389 s.
[156] Cfr. per tutti Recchioni, L’attuazione forzata indiretta dei comandi cautelari ex art. 614-bis c.p.c., in Riv.trim.dir.proc.civ., 4, 2014, 1477; Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614-bis cod. proc. civ.: confini e problemi, Giur. it., 2014, 7; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino 2013, III, 101; Consolo – Godio, sub art. 614 bis in Comm. del codice di procedura civile VII, t. 1, diretto da L.P. Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2013, 175 – 176; Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare, Foro it., 2009, V, 323; Tiscini, Prime osservazioni sulla l. 18.6.2009, n. 69, in www.judicium.it. Ma vd. anche Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s., il quale osserva che nonostante le obiezioni mosse da parte della dottrina processualista al criterio della manifesta iniquità, il medesimo «oggi sembra godere per fortuna di ottima salute se il legislatore l’ha posta a presidio della nuova comminatoria amministrativistica di cui all’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a. e non mancano neppure in dottrina e giurisprudenza rilevanti guadagni interpretativi sulla base di essa».
[157] Cfr. Luiso, Diritto processuale civile, III, 2019, Milano, 247, secondo cui un corretto inquadramento sistematico avrebbe consentito di affidare il compito di determinare la sanzione pecuniaria al giudice dell’esecuzione, come accade per l’esecuzione degli obblighi di fare: dopo aver notificato il titolo esecutivo e precetto, in analogia a quanto prevede l’art. 612 c.p.c., il creditore avrebbe potuto proporre ricorso al giudice dell’esecuzione. Questi, convocate le parti, avrebbe determinato la misura della sanzione pecuniaria dovuta. Invece, avendo il legislatore ritenuto che è compito del giudice della cognizione concedere la misura coercitiva, l’avente diritto – beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria. Invece, avendo il legislatore stabilito che è compito del giudice della cognizione concedere la misura esecutiva, l’avente diritto - beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria.
[158] Cfr. Capponi, Perché in Italia l’astreinte non si ama, in Giustizia insieme, 20 aprile 2021; Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c. in Judicium 29 aprile 2010.
[159] Cfr. in tal senso Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 14.
[160] Cfr. Proto Pisani, Note personali e no a margine dell’art. 614 bis c.p.c., in Rass. esecuz. forz., n. 1/2019, 3 s.
[161] Su cui cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, in Riv. dell’esecuzione forzata 2018, 2, 340 ss.; P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, in Dir. fall., 2017, 2, 355 s.
[162] Sui vari profili distintivi di queste due sezioni cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, cit., 340 s.
[163] Cfr. P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, cit., 355 s.
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