ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa: l’efficacia invalidante dell’omesso invio del preavviso di rigetto. – 2. Il caso di specie. – 3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020. – 4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Una breve premessa: l'efficacia invalidante dell'omesso invio del preavviso di rigetto.
La sentenza si inserisce nell’ambito della problematica relativa all’annullabilità del provvedimento adottato in assenza del dovuto preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/1990. Antecedentemente alla riforma dell’art. 10-bis ad opera del d.l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), si discuteva se, in caso di omissione dell’invio di tale comunicazione, il provvedimento così adottato dovesse considerarsi ex se illegittimo o se residuasse uno spazio di applicazione del disposto dell’art. 21-octies, comma 2, prevedente la disciplina dei c.d. vizi non invalidanti. Più precisamente la giurisprudenza si interrogava sulla possibilità di assimilare il preavviso di rigetto alla comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’applicazione della seconda parte della succitata disposizione, secondo la quale il provvedimento amministrativo non è (comunque) annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. A risolvere tale contrasto è intervenuto il citato d.l. n. 76/2020, il quale ha precisato che «La disposizione di cui al secondo periodo [dell’art. 21-octies, comma 2] non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». La pronuncia in commento, recettiva di tale nuovo regime differenziato del preavviso di rigetto in termini di efficacia invalidante, contiene anche delle interessanti precisazioni sulla natura della modificata normativa, che viene ritenuta applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento.
2. Il caso di specie.
La sentenza in commento origina dal complesso svolgimento di un provvedimento disciplinare a carico di un carabiniere condannato in sede penale per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente. La sanzione della perdita del grado veniva annullata per ben due volte prima di essere ritenuta legittima dal competente Tribunale Amministrativo Regionale. Una volta intervenuta la riabilitazione, il carabiniere chiedeva di essere reintegrato in servizio e, in mancanza di una risposta da parte dell’amministrazione, presentava un nuovo ricorso al T.A.R. per l’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla sua istanza. Nelle more della definizione del giudizio avverso il silenzio, l’amministrazione resistente respingeva l’istanza di reintegrazione in servizio per la gravità dei fatti commessi e il pregiudizio arrecato all’Arma dei Carabinieri. Avverso tale provvedimento (e avverso i pareri presupposti) veniva proposto ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del quale, tra i motivi dedotti, veniva eccepita la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990 per la mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Il giudice di prime cure, però, non accoglieva le censure proposte dal ricorrente che, a questo punto, le reiterava in appello per contestare l’illegittimità della sentenza di primo grado. Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha capovolto la sentenza del giudice di prime cure ritenendo l’appello fondato limitatamente al motivo relativo alla violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza è un istituto di partecipazione procedimentale introdotto nella legge sul procedimento amministrativo dall’art. 6, l. n. 15/2005, che ha introdotto l’art. 10-bis nella l. n. 241/1990, poi modificato dalla l. n. 180/2011 e da ultimo riformato in maniera significativa dal d.l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020[1].
L’istituto è stato ribattezzato da dottrina e giurisprudenza “preavviso di diniego” o “preavviso di rigetto”[2] e prevede l’obbligo per la pubblica amministrazione, prima di respingere l’istanza presentata da un privato, di indicare allo stesso i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata, ai fini di concedere all’interessato un termine di dieci giorni per presentare le proprie osservazioni (eventualmente corredate da documenti) che andranno valutate dalla pubblica amministrazione, la quale dovrà indicare le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle stesse nel provvedimento finale (ragioni tra le quali non possono rientrare inadempienze o ritardi attribuibili alla pubblica amministrazione). Il preavviso di rigetto non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali[3].
Con il d.l. n. 76/2020 (così come convertito dalla l. n. 120/2020)[4], l’istituto ha subito un’incisiva rivisitazione che si può riassumere in quattro modifiche[5].
La prima modifica consiste nel mutamento degli effetti della comunicazione sulla possibile durata del procedimento, poiché la stessa diviene definita come causa di “sospensione” e non di “interruzione” del termine di conclusione del procedimento, che riprende a decorrere una volta presentate le osservazioni (o decorso il termine di dieci giorni per proporle) nella misura pari a quella residua[6].
La seconda modifica riguarda l’intensità dell’obbligo motivazionale sulle osservazioni presentate dai privati in riscontro al preavviso di rigetto. Nella nuova formulazione della disposizione è stato specificato in modo più puntuale che la pubblica amministrazione “è tenuta” a spiegare quali sono le motivazioni che hanno portato a non accogliere le osservazioni presentate (confermando il diniego) indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza di tali osservazioni[7].
Il terzo aspetto inciso dalla riforma riguarda i limiti che il preavviso di rigetto può imporre nei confronti della riedizione del potere a seguito di annullamento in giudizio del provvedimento adottato in assenza della comunicazione di cui all’art. 10-bis. Il legislatore, infatti, inserendo ex novo un periodo nel corpo della disposizione, prevede che, nel caso in cui un provvedimento preceduto dal preavviso di rigetto sia annullato in giudizio, la pubblica amministrazione a cui spetti il riesercizio del potere, non possa addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del procedimento annullato. La pubblica amministrazione, pertanto, nell’adottare il nuovo provvedimento sarà limitata sia dalla sentenza giurisdizionale di annullamento, che dagli elementi di fatto e di diritto relativi alla prima istruttoria ed emergenti nel preavviso di rigetto[8].
La quarta modifica concerne l’efficacia invalidante dell’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, per effetto della quale, alla fine della disposizione dell’art. 10-bis, è stata aggiunta la specificazione che il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2 non si applica al provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di rigetto. Per un’adeguata comprensione di detta modifica, che riguarda specificamente la sentenza in commento e sulla quale si ritornerà appresso, pare opportuno fornire preliminarmente qualche breve cenno sulla disciplina dell’art. 21-octies, comma 2 e sulla categoria dei c.d. vizi non invalidanti.
4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Con l’espressione “vizi non invalidanti” si intendono quei vizi formali che, a determinate condizioni, non comportano l’annullamento del provvedimento illegittimo[9]. Essi costituiscono l’espressione del c.d. principio della dequotazione dei vizi procedimentali, secondo il quale un provvedimento affetto da un vizio di forma o del procedimento non deve essere annullato quando il vizio non influisca sul contenuto dispositivo del provvedimento.
La categoria dei vizi formali del procedimento ha trovato una sua prima codificazione con l’emanazione del correttivo del 2005 alla legge sul procedimento amministrativo e precisamente con l’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2 dell’art. 241/1990, che ha introdotto due diverse tipologie di provvedimenti sottratti alla sanzione dell’annullamento: a) il provvedimento vincolato affetto da vizi procedimentali o formali (primo periodo); b) il provvedimento viziato da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo)[10].
L’ipotesi di cui al primo periodo si applica solo ai provvedimenti vincolati, concerne tutti i vizi formali e procedimentali e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere palese; l’ipotesi di cui al secondo periodo si applica sia ai provvedimenti vincolati che discrezionali, concerne il solo vizio dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere dimostrato in giudizio dalla pubblica amministrazione[11].
Il legislatore, con l’art. 21-octies, sembra aver recepito il criterio del mancato interesse a ricorrere: il privato non ha interesse a far valere un vizio che non ha influito sul contenuto dispositivo del provvedimento in quanto la vittoria che otterrebbe attraverso la caducazione di quell’atto sarebbe una “vittoria di Pirro”, ossia apparente e meramente provvisoria poiché l’amministrazione potrebbe riadottare un atto emendato dal vizio procedimentale e dello stesso contenuto di quello annullato[12].
Più di recente la norma è stata completata con l’aggiunta di cui all’art. 12, lett. i) del d.l. n. 76/2020 (convertito in legge n. 120/2020) che ha aggiunto, in coda al secondo periodo, la specificazione che «La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». Viene così risolto, per via legislativa, il dibattito giurisprudenziale, precedentemente insorto, in merito all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) al caso dell’omesso invio della comunicazione del preavviso di rigetto[13].
5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
La sentenza in commento costituisce un’applicazione della modifica legislativa apportata con il d.l. n. 76/2020 e si pone in contraddizione col prevalente orientamento giurisprudenziale che, prima di tale modifica, ammetteva l’estensione dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omessa comunicazione del preavviso di rigetto[14].
Secondo il Collegio, infatti, con la succitata riforma è stata esplicitata una netta distinzione tra il regime giuridico da applicare al caso di omissione della comunicazione di avvio del procedimento e quello di omissione del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte. Mentre nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 7 si potrà applicare l’ipotesi di cui al secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 10-bis, potrà trovare applicazione solo la prima parte dell’art. 21-octies, comma 2, che concerne i vizi formali e procedimentali relativi ai soli provvedimenti vincolati.
Per verificare l’efficacia invalidante (o meno) dell’omissione del preavviso di rigetto, pertanto, dopo la riforma risulta centrale la verifica della sussistenza di un potere discrezionale, in presenza del quale non sono applicabili i meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti per la violazione delle norme sul procedimento dall’art. 21-octies, comma 2, in caso di mancato invio del preavviso di rigetto[15].
Nel caso di specie viene affermata la pacifica natura discrezionale del potere esercitato, attraverso il richiamo di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare che emana provvedimenti sanzionatori nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare[16].
Il Collegio, infine, richiama anche quella giurisprudenza secondo la quale la disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, andrebbe qualificata come norma di carattere processuale[17]. La stessa, pertanto, deve essere applicata anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (in base al principio del tempus regit actum) e, dunque, anche ai procedimenti antecedenti alla sua entrata in vigore, come quello che interessa il caso di specie, ove, nel caso di omissione del preavviso di rigetto, resta preclusa all’amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[18].
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
A prescindere dalla condivisibilità o meno dell’intervento normativo di riforma dell’art. 21-octies, comma 2, si deve rilevare come la pronuncia in commento sia coerente con la vigente formulazione della norma che non sembra lasciare spazio a interpretazioni estensive, per effetto delle quali il secondo periodo del succitato comma 2 sarebbe applicabile anche al caso di omesso invio della comunicazione di cui all’art. 10-bis. A tale omissione – che va pacificamente qualificata come una violazione di “norme sul procedimento” – rimane, invece, applicabile il primo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, la cui applicazione è limitata ai provvedimenti vincolati[19].
Per verificare se l’omesso invio del preavviso di rigetto sia da considerarsi un vizio invalidante o meno, pertanto, in primo luogo occorrerà indagare se il potere esercitato possa considerarsi discrezionale e, in secondo luogo, sarà necessario verificare se sussistono gli altri requisiti per l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, che è l’unica norma in grado di “sanare” detto vizio.
In caso contrario, ossia in caso di annullamento del provvedimento per la mancanza del preavviso di rigetto, la pubblica amministrazione sarà “libera” di riesercitare il suo potere nei limiti del principio del c.d. one shot temperato e nel rispetto dell’eventuale effetto conformativo desumibile dalla sentenza di annullamento del primo provvedimento.
La sentenza in commento è di sicuro interesse anche nella parte in cui afferma la natura processuale dell’art. 21-octies, comma 2, poiché, inserendosi senza soluzione di continuità nel solco della prevalente giurisprudenza sul punto, consente di definire in senso ampliativo il perimetro applicativo della disposizione nella sua attuale formulazione[20].
Sul punto, però, non appare destituita di fondamento l’impostazione di chi valorizza la natura sostanziale dell’istituto, richiamando il disposto dell’art. 21-nonies, comma 1, il quale vieta alla pubblica amministrazione di annullare il provvedimento amministrativo nei casi previsti dall’art. 21-octies, comma 2, dando un’evidente rilevanza extra-processuale alla norma[21].
Nella consapevolezza che il dibattito sulla natura giuridica dell’art. 21-octies, comma 2 riguarda entrambe le ipotesi in esso contenute, a parere di chi scrive, si potrebbe provare a ipotizzare una distinzione tra i due diversi periodi del comma 2[22]. Se, infatti, il secondo periodo ha un carattere marcatamente processuale, dato che la non annullabilità del provvedimento è condizionata dalla dimostrazione “in giudizio” del fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, altrettanto non può dirsi per il primo periodo dove la non annullabilità per vizi formali è correlata alla circostanza che “sia palese” che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso[23].
[1] Tra i tanti contributi relativi all’art. 10-bis, l. n. 241/1990 si vedano: L. FERRARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, vol. II, 83 ss.; A. RALLO, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in AA.VV., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, vol. II, 1080 ss.; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.; S. TARULLO, L’art.10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it., 2005; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, p. 1005 ss.; C. VIDETTA, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. TAR, 2006, p. 837 ss.; S. FANTINI, Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, p. 1388 ss.; F. SAITTA, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, p. 353 ss.; P. LAZZARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 386 ss.; G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive ed approdi, in Dir. proc. amm., 2017, p. 1235 ss.; D. VAIANO, Il preavviso di rigetto, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 641 ss.; P. CHIRULLI, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, p. 291 ss.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in Dir. econ., n. 2/2021, p. 25 ss.; M. BROCCA, Il preavviso di rigetto e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustizia insieme, 25 febbraio 2021; M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 12/2022, p. 126 ss.
[2] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, in www.ambientediritto.it, n. 4/2020, è preferibile «utilizzare l’appellativo “preavviso di diniego” perché si tratta per l’amministrazione di valutare un’istanza in un procedimento amministrativo in cui vi è cura diretta dei diversi interessi pubblici, mentre normalmente il termine “rigetto” si utilizza quando si tratta di accogliere o rigettare un ricorso in un procedimento amministrativo di secondo grado». Viene, però, rilevato come la giurisprudenza utilizzi alternativamente entrambe le nozioni. Infatti, l’istituto è qualificato sia come preavviso di diniego (ex multis Cons. St., Sez. II, 09.12.2020, n. 7841, in www.giustizia-amministrativa.it) sia come preavviso di rigetto (ex multis Cons. St., Sez. III, 5.12.2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it).
[3] L’inciso della disposizione prevedente tali esclusioni era stato eliminato dal d.l. n. 76/2020, ma è stato reinserito in sede di conversione con la legge n. 120/2020.
[4] Per una sintesi delle principali misure contenute nel d.l. n. 76/2020 si rinvia a: M. MACCHIA, Le misure generali, in Giorn. dir. amm., n. 6/2020, p. 727 ss.
[5] Per un approfondimento sull’ultima riforma dell’istituto si rinvia ai contributi di: G. SERRA, Brevi note in merito alla riforma dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 ad opera del c.d. Decreto Semplificazioni (D.L. n. 76/2020), in www.lexitalia.it, n. 6/2020; F. FRACCHIA - P. PANTALEONE, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in www.federalismi.it, n. 36/2020, p. 33 ss.; G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit.; L. FERRARA, La preclusione procedimentale dopo la novella del preavviso di diniego: alla ricerca di un modello di rapporto e di giustizia, in Dir. amm., 2021, 573 ss.
[6] Sul dovere di concludere il procedimento si segnala per tutti: A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 273 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulle più recenti novità in materia di conclusione del procedimento si segnala pure: A. BARTOLINI, Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione, in Giustizia insieme, 27 luglio 2021. Sebbene la disposizione del 10-bis, l. n. 241/1990 anteriormente 2020, parlasse esplicitamente di “interruzione”, una parte della dottrina aveva rilevato qualche perplessità sul punto, evidenziando come, nonostante il dato testuale, non fosse chiaro se il legislatore volesse introdurre un termine interruttivo o sospensivo (in tal senso vedasi: S. TARULLO, L’art. 10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit. e G. CREPALDI, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. C.d.S., 2007, p. 108 ss.). La giurisprudenza, invece, anteriormente alla modifica normativa del 2020, si è pronunciata in maniera pressoché uniforme a favore della natura interruttiva del termine (in tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8017 e Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859, in www.giustizia-amministrativa.it).
[7] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit., pp. 7-8, «la disposizione precisa, … in contrasto con quanto fino ad ora affermato dalla giurisprudenza, che i motivi ostativi indicati nel preavviso di diniego devono coincidere con quelli posti a fondamento del successivo provvedimento negativo che potrà essere integrato soltanto da considerazioni che sono la conseguenza delle osservazioni. … Il preavviso di diniego pertanto delimita, in modo vincolante, le ragioni ostative che possono condurre ad un provvedimento finale negativo per il privato». In senso conforme, M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 147-148, precisa che «Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l’atto conclusivo del procedimento, né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell’art. 10- bis».
[8] Le dimensioni del presente contributo non consentono di affrontare il tema nel quale si inserisce la presente disposizione che riguarda il bilanciamento tra il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo e quello dell’effettività della tutela del privato (sull’inesauribilità del privato si rinvia a M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018). Questa disposizione, infatti, va contestualizzata nell’ambito di quella giurisprudenza secondo la quale l’amministrazione, dopo aver subito l’annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo per una sola volta riesaminando la controversia nella sua interezza nel rispetto del giudicato formatosi (c.d. principio dell’one shot temperato). Sul tema si rinvia a: E. TRAVERSA, Il principio del one shot temperato tra effettività della tutela e inesauribilità del potere amministrativo, in Giur. it., 2017, 1672 ss. Sui rapporti tra il nuovo art. 10-bis e il principio del c.d. one shot temperato si rinvia alle considerazioni svolte da M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 152-156, secondo il quale (p. 155) «la novella dell’art. 10-bis sembra, più che introdurre un principio di one shot assoluto, conformarsi all’orientamento giurisprudenziale maggioritario dell’one shot temperato. Non si è, difatti, dinnanzi ad un caso ove l’Amministrazione può pronunziarsi una sola volta in modo negativo sull’istanza del privato, prescrivendo, invece, il nuovo periodo dell’art. 10-bis, che, una volta intervenuto l’annullamento giurisdizionale del provvedimento di diniego, illegittimo perché magari insufficientemente motivato quanto al non accoglimento delle osservazioni presentate dal privato a seguito del c.d. preavviso di rigetto, l’Amministrazione debba decidere la fattispecie nella sua interezza, esercitando una volta per tutte il suo potere in modo conforme al giudicato e non basando un eventuale ulteriore provvedimento di diniego su circostanze e ragioni già emerse nella fase istruttoria e che sono state o avrebbero dovuto essere comunicate all’interessato». Sulla tematica del riesercizio del potere (pur declinata con riferimento all’introduzione dell’art. 21-decies, l. n. 241/1990) si vedano le considerazioni di: C.E. GALLO, La riemissione del provvedimento amministrativo, in Giustizia insieme, 22 ottobre 2021.
[9] Per un inquadramento generale della categoria si vedano: F. LUCIANI, Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003; D.U. GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003; A. POLICE, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm. 2003, p. 780 ss.; F.G. SCOCA, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in V. PARISIO (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, p. 55 ss.
[10] In questi termini: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, in Riv. Corte conti, n. 6/2020, pp. 62-63.
[11] Per un’analisi più approfondita dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, sulla sua portata applicativa e sul rapporto tra i due diversi periodi della disposizione si rinvia a P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, Milano, 2015.
[12] In tal senso R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, pp. 1150-1151, il quale precisa che «Mostrando, quindi, di concepire il giudizio amministrativo come un giudizio non (tanto) sull’atto, ma (soprattutto) sul rapporto, il legislatore pone ora la regola secondo cui, se dalla sentenza di annullamento può derivare solo un effetto caducatorio, ma nessun effetto conformativo, il provvedimento deve rimanere in vita, perché il privato non ha alcun interesse per caducarlo».
[13] Anteriormente a tale modifica normativa, in giurisprudenza si erano formati due diversi orientamenti contrapposti in merito alla possibilità di estendere la particolare sanatoria processuale dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omesso invio del preavviso di rigetto (oltre alla mancata comunicazione di avvio del provvedimento). Secondo un primo orientamento (maggioritario e richiamato nella sentenza in commento), che professava la sussistenza di un’identità di funzione tra la comunicazione dell’art. 7 e quella dell’art. 10-bis, sarebbe poco logico che la violazione del preavviso di rigetto sia sanzionata più gravemente della omissione del contraddittorio procedimentale (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4127, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo un opposto orientamento (minoritario), invece, non sarebbe possibile applicare estensivamente l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche al caso di omesso preavviso di rigetto in assenza di un esplicito riferimento normativo in tal senso (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 17 gennaio 2011, n. 256, in www.giustizia-amministrativa.it). Per un approfondimento su questo contrasto si segnala P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, cit., p. 193 ss., a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali sulle due opposte posizioni.
[14] Il Collegio ricorda come l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo), in base alla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (antecedente alla riforma), veniva ritenuto applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto, citando a tal proposito: Cons. St., Sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948 e Cons. St., Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[15] In caso di omesso preavviso di rigetto nell’ambito di un procedimento avente carattere discrezionale, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica per l’espressa esclusione legislativa, mentre il primo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica perché lo stesso riguarda esplicitamente soltanto i provvedimenti vincolati. Il collegio, sul punto, richiama un precedente analogo della Sezione III: Cons. Stato Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Per il Collegio il carattere discrezionale del potere esercitato è desumibile dalla previsione testuale dell’art. 872, comma 3, c.o.m., che fa riferimento alla reiezione “nel merito” della istanza di reintegrazione. Infatti, «la riabilitazione in sede penale costituisce solo uno dei presupposti del provvedimento di reintegrazione in servizio, il quale resta attribuito ad una scelta di carattere discrezionale dell’Amministrazione». Sul punto viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 44, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare anche nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare, poiché spetta all’amministrazione valutare, anche in tali casi, se la concessione della reintegrazione risponda effettivamente non soltanto alle aspirazioni del militare riabilitato in sede penale, ma anche all’interesse pubblico di settore, in particolare con un apprezzamento in ordine alla riacquisizione da parte dell’interessato di quelle spiccate qualità morali che sono richieste per ogni appartenente al corpo.
[17] Si discute, in dottrina e in giurisprudenza, sulla natura dell’art. 21-octies, comma 2. Secondo una prima tesi (rimasta minoritaria in giurisprudenza), alla norma dovrebbe essere data una valenza sostanziale poiché la situazione di “non annullabilità” sarebbe già presente in un momento precedente rispetto a quello compiuto dal giudice non essendo condizionata dalla vicenda processuale successiva (Cons. St., Sez. V, 19 marzo 2007, n. 1307, in www.giustizia-amministrativa.it). In tal senso in dottrina si vedano i contributi di D. SORACE, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, p. 385 e N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64. Secondo un’opposta tesi (prevalente almeno in giurisprudenza), la norma avrebbe natura processuale perché non inciderebbe sulla struttura del vizio, ma individuerebbe una speciale fattispecie della carenza di interesse a ricorrere. Con riferimento alla consolidata giurisprudenza che qualifica come processuale la norma dell’art. 21-octies, comma 2, nella sentenza in commento vengono richiamate le recenti pronunce del Consiglio di Stato: Cons. St., Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2020, n. 165; Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359; tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] A tal proposito viene citata: Cons. St., Sez. III, 22 ottobre, 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Non si può che concordare coi rilievi critici formulati dalla dottrina sull’indeterminatezza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo. Secondo M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit., p. 50, «In termini generali l’art. 21-octies è norma sostanzialmente sgradevole sotto molteplici profili: basti solo considerare quanto sia terminologia vana, oggi più che nel passato, trattare di “attività vincolata”. Esiste davvero un’attività vincolata in assoluto? E i tanti provvedimenti a natura vincolata che vengono poi corroborati da condizioni, imposizioni, divieti, ampliamenti assolutamente non previsti dalla norma non dovrebbero forse indurre a ritenere non più rinvenibile la categoria degli atti assolutamente vincolati? Non sarebbe più corretto ai fini dell’applicazione del 21-octies, comma 2, prima parte, non fare riferimento all’individuazione di attività vincolata, quanto al contenuto dispositivo del provvedimento e alla impossibilità di addivenire ad una determinazione anche solo in minima parte diversa da quella assunta?».
[20] R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., p. 1161-1162, ci ricorda come la questione sul carattere processuale o sostanziale dell’art. 21-octies «non è di carattere meramente teorico, in quanto dalla sua soluzione dipendono la delimitazione dell’ambito di applicazione della norma sia nel tempo che nello spazio. In particolare, sotto il profilo temporale, il riconoscimento della natura processuale comporta l’applicabilità della norma anche ai giudizi in corso … Per quel che concerne, invece, l’efficacia nello spazio, dal riconoscimento della natura processuale deriva l’applicabilità della norma anche ai procedimenti che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni locali».
[21] In tal senso vedasi: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64, secondo il quale «L’art. 21-octies, c. 2, va letto in combinato disposto con l’art. 21-nonies, c. 1, che vieta alla p.a. di annullare d’ufficio il provvedimento illegittimo per ragioni di forma. Entrambe le disposizioni fanno parte di uno stesso precetto, che non può avere natura esclusivamente processuale, perché ha come destinatario non solo il giudice, ma anche la p.a.».
[22] La distinzione che viene proposta in questa sede non emerge nell’orientamento giurisprudenziale dominante, a cui aderisce la sentenza in commento, che attribuisce valenza processuale ad entrambe le ipotesi previste dall’art. 21-octies, comma 2: sia ai provvedimenti vincolati affetti da vizi formali (primo periodo), sia ai provvedimenti viziati da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo).
[23] La proposta differenziazione della natura giuridica tra i due periodi dell’art. 21-octies, comma 2, potrebbe spiegare la scelta lessicale del legislatore che ha deciso di distinguere i presupposti di operatività dei due diversi periodi anche con riferimento alla sede di accertamento dell’identità del contenuto dispositivo del provvedimento.
La libertà e il suo limite. Una riflessione sul diritto alla privacy a partire dalla sentenza Roe v. Wade
di Antonello Soro*
La sentenza Roe v. Wade ha avuto, tra gli altri, il merito di introdurre una nuova idea della privacy, come diritto al libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza”. Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati, sino a divenire quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali. Il contributo ripercorre alcune delle più rilevanti declinazioni di questo diritto, nell’evoluzione che l’ha caratterizzato, nella costante dialettica tra libertà e limite.
La sentenza Dobbs della Corte suprema americana del 24 giugno, contraddicendo dopo 49 anni il precedente sinora indiscusso Roe v Wade, ha ritenuto l’aborto non un diritto della donna, ma una “grave questione morale” la cui regolazione vada demandata ai singoli Stati e non alla legislazione federale.
E nonostante la gravità e complessità, forse unica, della questione (politica e giuridica, oltre che etica) dell’aborto, la sentenza Dobbs segna, per molteplici ragioni, una netta regressione rispetto al precedente del 1973, importante anche per le implicazioni ulteriori e più generali che ha avuto sulla concezione del rapporto tra la libertà e i suoi limiti.
In questo senso, uno dei principali elementi innovatori della sentenza Roe v. Wadese è la nuova idea della privacy ad essa sottesa, come diritto di autodeterminazione sulle scelte caratterizzanti l’esistenza, rispetto alle quali lo Stato deve astenersi da ingerenze non giustificabili in nome di superiori interessi.
Si trattava dello sviluppo di una concezione almeno in parte anticipata dalla sentenza Griswold v. Connecticut di otto anni prima, sul diritto alla contraccezione. Già lì, infatti, si era compiuto il passaggio da un’idea di privacy ancora dal retaggio dominicale (un’ulteriore proiezione dello jus excludendi alios) a una più moderna, incentrata sul diritto di autodeterminazione nelle scelte qualificanti per la propria sfera personale. Con Roe v.Wade si accentua, ancor più, l’idea della privacy come libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza” (Roe v. Wade, 410 U.S. 113, 1973), sancendo dunque un limite di non ingerenza del pubblico potere rispetto a tale sfera di determinazione individuale, autonoma e libera.
Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy – nel sistema americano ma soprattutto in quello europeo, grazie alla sinergia con la dignità personale – di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati. L’originario “right to be let alone” di Warren e Brandeis del lontano 1890 è così divenuto quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali.
Tra quel diritto a sottrarsi allo sguardo indesiderato del 1890 e il diritto al governo dei propri dati di oggi, questo diritto “inquieto” - perché mai uguale a sé stesso, dinamico nel suo tentativo di governare il presente e il futuro- ha subito un’evoluzione straordinaria, che ne ha accentuato la funzione egalitaria e democratica, quale strumento di redistribuzione del potere, oggi soprattutto informativo.
Il passaggio più significativo, nel percorso verso la democratizzazione della privacy, si ha in Italia con lo Statuto dei lavoratori del 1970, di poco precedente Roe v. Wade.
Vietando il controllo a distanza e le indagini sulle opinioni politiche e sindacali, lo Statuto ha fondato infatti, proprio su questo diritto, un essenziale presidio di libertà dei lavoratori dalle ingerenze datoriali. Era così tracciata la strada che avrebbe reso la privacy uno straordinario strumento di tutela della libertà e della dignità di tutti: in particolare dei soggetti più vulnerabili, perché inermi di fronte a un potere, privato o pubblico, rafforzato dalla potenza geometrica della tecnica, ieri con le schedature datoriali, oggi con l’algoritmo dei riders, domani chissà.
Ciò che tuttavia, pur in questa “rivoluzione” della privacy è rimasto costante è la sua “cifra”, che si esprime nel senso del limite (dell’ingerenza, del potere, del dire e del non dire) e che si riflette in ogni sua declinazione e implicazione: dalla sanità (dove il medico, cui tutto si dice di noi, nulla deve dire al di fuori) alla trasparenza (dove la doverosa visibilità del potere e dell’agire pubblico presuppone, però, l’altrettanto necessaria opacità della vita intima, privata, che per nulla incide sul profilo pubblico); dalla navigazione on line (dove va selezionato adeguatamente ciò che, di noi e degli altri, esponiamo e ciò che invece dobbiamo custodire, per non divenire vittime del pedinamento digitale), all’intelligenza artificiale (dovendo selezionarsi opportunamente i dati con cui alimentare o, viceversa, non alimentare l’apprendimento automatico della macchina, per non determinare esiti discriminatori della decisione algoritmica).
Se, dunque, l’anima della privacy è proprio la tensione tra libertà e limite, ci sono due aspetti particolarmente emblematici di questa dialettica, sui quali vorrei soffermarmi: l’oblio e il rapporto con l’informazione.
Perché è su questo terreno che si misura, in modo più evidente e più significativo, il peso dell’omissione (delle parole, delle immagini, di tutto ciò che in qualche modo ci rappresenta)
Anzitutto l’oblio. Il diritto all’oblio, come particolare espressione del diritto alla privacy, è la sintesi del rapporto tra scorrere del tempo e memoria collettiva.
Se il primo, infatti, affievolisce la seconda, suggerendo il silenzio su eventi passati non così rilevanti da meritare rievocazione, la seconda cancella il primo, imponendo un eterno presente per quei fatti talmente costitutivi della storia di un popolo, di un Paese, da essere parte indelebile della sua identità e coscienza sociale.
L’oblio interseca la privacy al punto da divenirne, addirittura, una componente essenziale con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e ne riflette l’evoluzione.
Esso nasce, oltre vent’anni fa, come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, di una notizia pur legittimamente diffusa in origine, ma non giustificata oggi da nuove ragioni di attualità.
Si afferma, dunque, nel contesto mediatico tradizionale, scandito da notizie diffuse in momenti determinati dagli organi d’informazione e destinate, appunto, a una vita tendenzialmente breve in assenza di ulteriori ragioni che ne rinnovino l’interesse.
E proprio in tale contesto si è affermato, ad esempio, il diritto dell’ex terrorista a non vedersi nuovamente citato come tale in un articolo su fatti non legati al suo passato, a distanza di decenni dalla condanna e dopo aver scontato integralmente la sua pena cambiando radicalmente vita.
Egli, infatti, rivendicava il diritto a non vedere la sua intera esistenza ridotta a un passato da cui si era con fatica emancipato.
Lo sguardo solo retrospettivo dei media, annientandone il percorso di vita intrapreso e la sua scelta di essere “altro” da ciò che era stato, si risolveva in uno stigma perenne e deformante, ostativo anche al suo reinserimento sociale.
Rovesciando l’idea della damnatio memoriae, il marchio di “reo” imposto senza limiti temporali finisce così con il rappresentare una pena accessoria incompatibile con il valore che il sistema penale attribuisce al tempo in funzione dell’oblio: con gli istituti della prescrizione, della riabilitazione, della non menzione della condanna.
A fronte di un sistema penale tutto fondato su una scommessa razionale sull’uomo e sulla sua possibilità di cambiamento (la Costituzione legittima la pena solo in quanto tenda alla rieducazione del condannato), l’informazione non può schiacciare la persona al suo reato, risolverla tutta e soltanto in esso, anche quando se ne siano prese visibilmente le distanze.
I media non dovrebbero impedire ciò che neppure un giudice può fare, ovvero di essere anche altro da ciò che si è stati.
Ancor più profonda è poi la lesione dell’identità determinata dall’eterna memoria della rete, quando riduce un’intera esistenza, in tutta la sua insondabile complessità, a un momento, a un errore sia pur gravissimo, ma che comunque non la rappresenta più o, peggio, non l’ha mai rappresentata del tutto.
Ecco, quindi, il bisogno di oblio quale contrappeso a una memoria tanto eterna e inflessibile quanto parziale, una condanna senza appello, che non contempla riabilitazione.
Questo bisogno di emancipazione da una memoria capace di ipotecare presente e futuro ha conosciuto vari strumenti di tutela: dal divieto di ripubblicazione -che attinge alla sua dimensione difensiva e statica, quale pretesa a non essere più ricordati (o a non esserlo per come si era e non si è più)- all’aggiornamento della notizia che ne valorizza la componente dinamica e attiva, sino alla deindicizzazione, che incide non sulla notizia in sé- intatta nella fonte originaria- ma sulla sua reperibilità mediante i motori di ricerca.
Una notizia vera all’epoca ma oggi superata dai fatti merita certamente, se lesiva della dignità di qualcuno, di essere sottratta all’indiscriminata reperibilità dei motori di ricerca, per evitare che essa divenga l’unica o la prevalente rappresentazione del soggetto: la categoria (indagato, imputato, condannato, malfattore, ecc.) cui ricondurlo semplicemente digitandone il nome su Google.
Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità mediatica, a tutela di un’identità ormai affrancata dalla dimensione statica e tendenzialmente immutabile cui è stata tradizionalmente ascritta, si è del resto riconosciuto, quale strumento di libertà, non soltanto a fronte di notizie risalenti e superate dai fatti (si pensi a un indagato poi assolto), ma anche a notizie false e quindi anche diffamatorie.
Ogniqualvolta, dunque, l’interesse alla indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto al rischio della biografia ferita.
Il diritto all’oblio non è, dunque, pretesa di auto rappresentazione, ma strumento di una memoria sociale selettiva, che coniugando diritto all’informazione e dignità, racconti ciò che va ricordato, mettendo in secondo piano ciò che non appartiene all’identità individuale né contribuisce a costruire la coscienza collettiva.
Ma il gioco tra parole dette e parole omesse è, in fondo, la grande sfida dell’informazione, che è corretta in quanto racconti la notizia senza violare la dignità, narri ciò che è di pubblico interesse e non ciò che semplicemente interessa il pubblico, lontano dal voyeurismo e senza mai confondere la cronaca con lo sguardo dal buco della serratura.
Non è facile, soprattutto al tempo del populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale se non l’unica forma di giustizia sociale.
E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo.
Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza.
E chi a vario titolo (indagato magari poi prosciolto, vittima, teste) compaia nelle indagini è messo a nudo anche negli aspetti più intimi e ininfluenti per il processo, con stralci d’intercettazioni spesso fuorvianti perché mal estrapolate dal contesto, che restano in rete per sempre, come un “fine pena mai”, anche in caso di assoluzione.
Ecco perché, con il web, la scelta delle parole dev’essere ancora più rispettosa di quel criterio di essenzialità su cui si fonda la deontologia giornalistica, nella consapevolezza di come i dettagli eccedenti le reali esigenze informative possano anche distruggere vite.
Quest’esigenza di selezione nulla ha a che vedere, naturalmente, con la censura o il depotenziamento dell’informazione, che dev’essere anche se necessario cruda e diretta, come nel caso della guerra, le cui immagini non possono non scuoterci o del corpo martoriato di Stefano Cucchi: chi avrebbe compreso il dramma di quegli abusi senza la forza di quelle foto?
Vi è forse un simbolo del costo umano di politiche migratorie miopi, più eloquente della foto del piccolo Alan Curdy sulle coste dell’isola di Budrum?
Perché a volte raccontare storie, dare un volto e un nome a drammi altrimenti percepiti come distanti, è necessario.
Ma ciò non implica, mai, indulgere sulle vulnerabilità.
Si tratta, allora, di promuovere un giornalismo di qualità, non di semplice e acritico “riporto”, che scavi a fondo della notizia ma non violi la dignità (come per le foto in manette) e non ricerchi il sensazionalismo anticipando giudizi di colpevolezza con la gogna del web (l’audio della preside del Liceo Montale in homepage…).
Ecco, dunque, che anche qui, la pietra angolare delle nostre democrazie, ovvero l’informazione, è tutta nell’equilibrio tra la libertà (di stampa, di espressione..) e il suo limite, per tenere assieme dignità personale ed esigenze collettive.
La privacy, questo diritto di libertà (come viene qualificato dalla Carta di Nizza), mai tiranno, perché nato sulla frontiera mobile degli altri diritti fino a divenirne un presupposto ineludibile, ci racconta tutto questo.
Ci narra di come, a volte, le parole vadano omesse per dirne, invece, altre, più importanti e meno “nemiche”, capaci di costruire anziché distruggere, di schiudere orizzonti anziché di tracciare sempre, soltanto, confini.
*Già deputato e Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.
La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Giorgio Fidelbo
1. Da sempre in Corte di cassazione si discute sulla motivazione dei provvedimenti.
Nel maggio del 1989 - non era ancora in vigore il nuovo processo penale - il Primo Presidente Brancaccio sollecitò una discussione tra i consiglieri diffondendo un “Appunto sulla motivazione in Cassazione”, in cui si indicavano alcuni criteri orientativi per la redazione delle sentenze, diretti a realizzare quella concisione cui allora si riferiva l'art. 132 cod. proc. civ. e a cui si sarebbe riferito l’art. 546, lett. e) del nuovo codice di procedura penale.
Può dirsi che ogni Primo Presidente della Corte di cassazione si è posto il problema della concisione e della chiarezza delle motivazioni, redigendo circolari o predisponendo protocolli su come dovesse essere strutturata la motivazione, sia dal punto vista formale, che da quello logico (ricordo i lavori dei presidenti Lupo, Santacroce, Canzio, Mammone).
Questo interesse, costante, per la redazione delle sentenze deriva dall’esigenza di ridurre l’eccesso di motivazione che, da sempre, caratterizza le argomentazioni delle nostre decisioni, tanto che la loro “sovrabbondanza” argomentativa ha suscitato l’interesse di un comparatista nord americano, Jhon Merrymann, che, alla fine degli anni settanta, in un lavoro intitolato “The Italian Style”, presentato da Stefano Rodotà nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma, nel valorizzare già allora il diritto giurisprudenziale, non mancava però di evidenziare nelle sentenze italiane l’autoreferenzialità e, appunto, l’eccesso di motivazione.
2. Si possono individuare almeno tre esigenze alla base dell’interesse per una motivazione “proporzionata”: a) migliorare l’organizzazione del lavoro del magistrato; b) aumentare la produttività (nel senso che motivazioni più stringate servono a definire un numero più alto di procedimenti); c) ridurre i tempi del processo.
Ebbene, se queste possono essere le ragioni per cui è necessario “lavorare” sulla motivazione va sottolineato – lo ha già detto il Primo Presidente nel suo intervento di apertura – che oggi il tema non può essere messo in relazione né con l’obiettivo di incrementare la produttività del consigliere di cassazione né con la finalità di ridurre i tempi del processo di legittimità, almeno per quanto concerne il settore penale della nostra Corte. Si tratta di due obiettivi che non appaiono giustificati neppure in relazione alle previsioni collegate al PNRR e al recupero di efficienza che si vuole realizzare nell’ambito del settore giustizia, perché occorre riconoscere che la Corte di cassazione penale è, oggi, il giudice forse più efficiente nel nostro sistema: dai dati statistici pubblicati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021 risulta che la durata media dei procedimenti non supera i sette mesi, che la Corte di cassazione penale ha definito un numero di procedimenti (47.040) maggiore di quelli pervenuti (46.298), con un indice di ricambio del 101,6% e che vi è stata una consistente diminuzione delle pendenze, tanto che il Primo Presidente nella Relazione citata ha parlato di risultati “molto soddisfacenti che indicano la stabile costante affidabilità del sistema penale di legittimità, nonostante la grave crisi epidemiologica che ha colpito il Paese”.
In presenza di questi dati, uniti alla considerazione che ogni consigliere redige in media oltre 350 sentenze all’anno, alla Cassazione penale non può richiedersi un ulteriore aumento del carico di lavoro in termini di efficienza e nemmeno in funzione di realizzare una contrazione dei tempi di definizione dei procedimenti, anche nella prospettiva del nuovo istituto dell’improcedibilità.
Piuttosto il discorso sulla motivazione va visto in funzione del miglioramento delle condizioni di lavoro del consigliere, un miglioramento che punti ad innalzare la qualità delle sentenze, che devono essere espressione di un giudice che vuole essere “corte suprema”, non solo giudice di “terza istanza”.
L’obiettivo è quello di valorizzare le sezioni semplici, che devono contribuire in misura maggiore a “fare nomofilachia”, assieme alle sezioni unite, nella prospettiva di dare certezza ai cittadini e di assicurare la prevedibilità dei comportamenti.
Attualmente, le sezioni semplici si occupano, prevalentemente, dello ius litigatoris e, con estrema fatica, a causa del carico di ricorsi, riescono, talvolta, a gestire anche lo ius constitutionis, a cui invece è dedicata l’attività delle sezioni unite. Questa doppia natura della Corte di cassazione, sintetizzata nella felice definizione di “vertice ambiguo”, è nel DNA di questo giudice, in quanto, da un lato, l’art. 65 del R.D. n. 12 del 1941 attribuisce alla Corte di cassazione la funzione di “assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, dall’altro, l’art. 111, settimo comma, Cost. prevede che contro tutte le sentenze è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge: la disposizione dell’ordinamento giudiziario disegna una Cassazione la cui unica attività sembrerebbe quella nomofilattica; la Costituzione, invece, la configura come giudice dei diritti, un giudice che deve garantire la piena attuazione della tutela dei diritti in ultima istanza. Funzione fondamentale quest’ultima per un giudice moderno, che dialoga continuamente con le Corti europee dei diritti, ma che non può esaurire le attribuzioni riconosciute alle sezioni semplici, alle quali deve essere assicurata anche la possibilità di contribuire all’uniforme interpretazione del diritto, in un rapporto collaborativo e dialettico con le sezioni unite, a cui resta affidato il compito principale di indicare le linee nomofilattiche, risolvendo i contrasti interpretativi tra sezioni semplici.
In assenza di una riforma che riguardi il procedimento in cassazione, in grado di realizzare una deflazione del carico ingestibile dei ricorsi, questi obiettivi possono essere raggiunti attraverso una diversa organizzazione del lavoro che punti ad un innalzamento della qualità della nostra giurisprudenza anche attraverso un miglioramento delle motivazioni delle sentenze.
3. Il gruppo di lavoro sulla motivazione, voluto fortemente dal Primo Presidente Pietro Curzio e dalla Presidente Aggiunta Margherita Cassano, si è occupato inizialmente della motivazione delle ordinanze di inammissibilità della settima sezione.
Come è noto, la settima sezione è una sezione strategica, in quanto, occupandosi di oltre il 40% dei circa 50.000 ricorsi che pervengono annualmente in Corte di cassazione e di cui rileva l’inammissibilità, consente alle sezioni semplici di potersi concentrare sui ricorsi e sui procedimenti più rilevanti, in questo modo assicurando una organizzazione virtuosa del lavoro dei giudici, sollevati dal controllo seriale delle inammissibilità. In altri termini, si realizza una ripartizione organizzativa di competenze, che ha prodotto efficienza al lavoro della Corte di cassazione.
Invero, questa sezione, istituita con la legge n. 128 del 2001, nasce con un obiettivo più ambizioso, che è quello di deflazionare il carico in entrata dei ricorsi. In mancanza di strumenti dedicati alla selezione in ingresso, come avviene in molte Corti Supreme europee, spetta alla settima sezione il ruolo di operare un controllo selettivo di ciò che può arrivare in decisione, controllo che avviene attraverso la verifica di ammissibilità dei ricorsi.
Nel gruppo di lavoro si è convenuto che la motivazione delle ordinanze di inammissibilità debba conformarsi a questa funzione della sezione, che non è quella di dare risposte alle questioni sollevate, ma di verificare la sola idoneità del ricorso a costituire il rapporto processuale e, quindi, ad introdurre al giudizio di cassazione. L’ordinanza della settima sezione deve adeguarsi a questa tipologia di controllo, distanziandosi dal concetto e dal contenuto della motivazione dei provvedimenti giudiziali così come generalmente intesa, per strutturarsi come una cesura selettiva che operi da sbarramento all’ingresso in Cassazione dei ricorsi inammissibili.
Per questo tipo di verifica è sufficiente un provvedimento che dia atto del controllo effettuato, con una motivazione assai contratta, che giustifichi il perché il ricorso non appare idoneo a stabilire un valido rapporto processuale. Su queste basi il gruppo di lavoro ha proposto un tipo di motivazione a “frase unica”, ma pur sempre individualizzata rispetto ai motivi dedotti nel ricorso.
Una motivazione così strutturata non appare in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stigmatizzato alcune decisioni della Cassazione, ma con riferimento a tutt'altro aspetto, e cioè riguardo al tema dell'autosufficienza del ricorso, che ha già evocato il Primo Presidente.
Va detto che il ricorso ad una motivazione siffatta per le ordinanze di inammissibilità non è certo sufficiente ad implementare la capacità deflattiva, capacità che la “settima” in realtà non ha mai avuto dal momento che dalla sua istituzione si è registrato un tendenziale e progressivo aumento dei ricorsi, con l’unica flessione nel 2020, a causa del rallentamento del lavoro giudiziario per la crisi pandemica: occorrono altri sforzi organizzativi volti a rendere capace la settima sezione di dare risposte di inammissibilità veloci, tempestive, perché solo la tempestività nella dichiarazione di inammissibilità potrà sortire l’effetto di deflazionare il numero complessivo di ricorsi, evitando che vengano presentati solo - o anche - per allontanare il momento di irrevocabilità della decisione.
È noto che negli anni passati i tempi di definizione in settima sezione siano stati più lunghi rispetto ai tempi osservati dalle sezioni semplici ed è questa situazione patologica che ha impedito che il controllo sulla ammissibilità avesse una capacità deflattiva. Va detto che i tempi ultimamente si sono ridotti e quindi è opportuno puntare sull’obiettivo di un loro forte contenimento proprio per realizzare finalmente una contrazione del numero dei ricorsi.
4. Ma il discorso sulla motivazione riguarda soprattutto le sentenze che vengono elaborate dalle sezioni semplici: e qui il tema è più interessante, anche se più complesso.
Fino ad ora le indicazioni fornite dai vari protocolli e circolari interni hanno puntato sulla c.d. motivazione semplificata: secondo una prassi abbastanza diffusa si distingue, già in fase di deliberazione del ricorso, tra sentenze a cui si riconosce una valenza nomofilattica e sentenze che tale vocazione non hanno, per cui è in base a tale differenziazione che il collegio decide il tipo di motivazione, tra cui quella c.d. semplificata. Va detto, però, che dalle statistiche risulta che questa tipologia di redazione delle sentenze viene poco utilizzata - soprattutto in quelle sezioni che riescono a selezionare una percentuale alta di ricorsi da assegnare alla settima sezione -, perché le decisioni che vengono prese nelle sezioni semplici hanno ormai quasi sempre un tasso di complessità che non giustifica una motivazione semplificata.
Occorre muoversi in altre direzioni e ricorrere – come in più occasioni è stato detto dalla Presidente Margherita Cassano – a veri e propri protocolli logici della motivazione, che vanno costruiti e condivisi, secondo un’idea espressa anni fa da Francesco Iacoviello.
Cosa sono questi protocolli?
Dovrebbero discendere dall'analisi delle norme, individuando una tecnica operativa che comporta l'uso logico delle categorie giuridiche della motivazione, seguendo passaggi argomentativi coerenti per una serie di settori ed istituti giuridici, sostanziali e processuali. Si tratta di protocolli funzionali ad accorciare i tempi della decisione e anche quelli della stesura della motivazione, assicurando infine decisioni uniformi e, in linea di massima, anche prevedibili.
I protocolli non devono essere considerati limitazioni al libero convincimento del giudice o alla libertà di motivazione, in quanto devono rappresentare un metodo condiviso, in grado di mettere ordine logico ad una certa anarchia motivazionale che molto spesso si riscontra nelle nostre sentenze.
Invero, la nostra giurisprudenza ha conosciuto esempi di questi protocolli logici. Così, in tema di chiamata in correità, le Sezioni unite Marino hanno indicato un metodo, proponendo tipologie logiche della motivazione; lo stesso hanno fatto le Sezioni unite Franzese in materia di nesso di causalità o le Sezioni unite Fisia Italimpianti con riferimento alla confisca del profitto nei confronti dell’ente. Decisioni che, assieme a molte altre, hanno indicato dei percorsi logici di motivazione in settori particolari, percorsi che vengono oggi normalmente utilizzati, magari con scarsa consapevolezza.
Ricordava Margherita Cassano che il gruppo sulla motivazione si dovrà occupare delle sentenze in materia di cautela personale: anche in questo settore si dovrà cercare di individuare le “forme” logiche per la motivazioni, ad esempio, come sindacare il vizio di motivazione sui gravi indizi; quale sia il rapporto tra valutazione dei gravi indizi ed esigenze cautelari (se difettando le esigenze cautelari vada comunque affrontato preliminarmente l'esame dei gravi indizi, come avviene di solito oppure si possano trovare altre soluzioni).
Lo stesso tentativo di costruzione di protocolli logici potrà essere fatto per i provvedimenti di cautela reale, in cui non è deducibile il vizio di motivazione, oppure con riguardo alle misure di prevenzione, rispetto alle quali non vi sono elementi probatori da valutare, ma semplici elementi indiziari, il che rende molto diversa la stessa struttura della motivazione.
Ovviamente si tratta di protocolli sui quali occorre un confronto e che comunque sono destinati a indicare linee e percorsi motivazionali di tendenza, che - per quanto non vincolanti - possono tuttavia contribuire a rendere le decisioni e le connesse motivazioni più omogenee, arrivando a individuare lo “stile” delle sentenze della Corte di cassazione, uno stile non certo solo formale ma di contenuto.
5. Da ultimo, un cenno al tema dell'organizzazione del lavoro, cui pure la presente sessione di lavoro è dedicata.
Se l’obiettivo è quello di migliorare la nostra giurisprudenza puntando ad un maggiore impegno delle sezioni semplici nel ruolo nomofilattico, allora accanto ad una rinnovata attenzione sul fronte “motivazione” occorre prendere atto della necessità di mutare anche la logica e l’organizzazione del lavoro in Corte.
Il presupposto per operare un riassetto nell’organizzazione del lavoro in sezione è la piena condivisione della “cultura del precedente”, che non deve certo essere intesa come passiva omogeneizzazione rispetto alle decisioni delle sezioni unite, il cui effetto vincolante va inquadrato nell’ambito di un dialogo e confronto continui da parte delle sezioni semplici, che porti la giurisprudenza di legittimità ad essere coerente e nello stesso tempo capace di adeguarsi ai cambiamenti sociali ed economici in atto, superando, ove necessario, le stesse decisioni delle sezioni unite, secondo il procedimento previsto dall’art. 618, comma 1-bis cod. proc. pen.
Occorre, inoltre, ricercare una coerenza e una responsabilità soprattutto nell’interpretazione giudiziale, che porti, tra l’altro, al superamento dei contrasti giurisprudenziali interni alle sezioni, prima ancora di rimettere le questioni controverse alle sezioni unite.
Nella società complessa in cui viviamo, la mancanza di certezza nei rapporti giuridici, come pure la indefinibilità degli ambiti applicativi delle fattispecie penali produce formidabili conseguenze negative sui rapporti economici e sulle stesse condotte dei consociati. Non è più sopportabile che all’interno delle sezioni della Corte di cassazione permangano contrasti su materie anche di carattere sostanziale, cioè sull’applicazione di fattispecie penali, sui confini tra lecito e illecito penale. Il superamento dei contrasti non può avvenire solo rimettendo le relative questioni alla decisione delle sezioni unite, in quanto si rischierebbe di ingolfarle, rendendo meno efficace il ruolo nomofilattico che ad esse è attribuito.
Vanno invece valorizzate le riunioni sezionali e, soprattutto, modificato il modo di concepire il lavoro all’interno della sezione. È necessario imparare a lavorare assieme, a confrontarci in un continuo lavoro di gruppo, all’interno e all’esterno delle sezioni. Le tabelle organizzative attribuiscono ad ogni sezione la “competenza” su settori del diritto penale sostanziale e deve essere in primo luogo la sezione ad esprimere il diritto giurisprudenziale sulle sue materie, superando le interpretazioni contrapposte, spesso derivanti da impostazioni individualistiche. In altri termini, occorre avere la consapevolezza di far parte di una “istituzione” e sentire la responsabilità e il peso dell’interpretazione giurisprudenziale e dei suoi effetti.
Attraverso le riunioni di sezione è possibile stabilire un confronto funzionale ad evitare e a superare i contrasti, puntando ad una organizzazione virtuosa che riduca per lo meno il rischio di pronunce contraddittorie, nel tentativo di assicurare una giurisprudenza coerente e prevedibile. Si tratta di riunioni che vanno preparate e gestite ascoltando i diversi punti di vista, nel tentativo di individuare soluzioni condivise che poi trovino espressione nelle decisioni dei singoli collegi. Tutto ciò comporta un grosso impegno dei presidenti di sezione e di tutti i consiglieri, in una permanente dialettica che spesso si presenta difficoltosa, in quanto ci si misura con colleghi che hanno sensibilità e ideologie diverse dal punto di vista giuridico, talvolta concezioni lontane della stessa funzione del diritto penale.
Tuttavia, l’esigenza di puntare su una metodica di lavoro giudiziario diverso, in cui cioè lo scambio di idee e il confronto non avvengano solo al momento della decisione, ma vi sia una preparazione e uno studio preliminare attraverso riunioni periodiche di sezione che siano funzionali a trovare soluzioni condivise sulle scelte interpretative generali, trova conferma oggi nella stessa riorganizzazione giudiziaria, in cui si è introdotto l’ufficio del processo, in ausilio dell’attività del giudice, anche di quello di cassazione. E’ questa la dimostrazione che non è più concepibile un assetto organizzativo giudiziario solipsistico. Il modello organizzativo che deve assicurare coerenza al diritto giurisprudenziale della Corte di cassazione è costituito oggi dalla sezione, composta da magistrati, personale amministrativo e funzionari dell’ufficio del processo.
Se si condivide questo modello, il primo obiettivo da conseguire è, lo si ribadisce, quello di limitare i contrasti giurisprudenziali facendo ricorso, appunto, alle riunioni di sezione le cui conclusioni andranno rispettate, non perché siano vincolanti, ma in quanto si condivida il metodo.
Ciò significa che il collegio dovrà seguire l’orientamento emerso da tali riunioni, magari evidenziando in motivazione che si tratta di un orientamento da ritenere consolidato in sezione. Fermo restando che, nei casi difficili ovvero quando non si raggiunge una base allargata di condivisione, nulla impedisce il ricorso ragionevole alle sezioni unite.
6. Ci troviamo in una fase della nostra storia in cui la forte crisi di legittimazione e di autorevolezza della magistratura avviene in un momento in cui si è riconosciuto, finalmente, al diritto giurisprudenziale una natura “latamente creativa” – con tutti i limiti di una tale definizione –, un riconoscimento a cui avrebbe dovuto seguire un’assunzione ferma di responsabilità nella stessa attività interpretativa, assunzione che non sempre vi è stata. Per riconquistare credibilità nell’opinione pubblica e nei cittadini abbiamo il dovere di governare la nostra giurisprudenza: rendendola chiara nelle motivazioni, nutrendoci della cultura del precedente, sforzandoci di rendere le decisioni prevedibili e, da ultimo, iniziando a confrontarci seriamente sugli effetti del mutamento del diritto giurisprudenziale, soprattutto quando è in malam partem.
*Il testo riproduce l’intervento svolto alla prima sessione del convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.
Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio
di Antonello Cosentino
Sommario: 1. La crisi della soggezione del giudice alla legge. - 2. Legge e principio di legalità. - 3. La crisi del giudice. - 4. Le prospettive.
1. La crisi della soggezione del giudice alla legge.
In un recente articolo su questa Rivista Tomaso Epidendio[1] ha tracciato il profilo della progressiva decostruzione del modello di magistratura tratteggiato nella nostra Costituzione.
In tale articolo si analizzano, con indubbia acutezza, i fattori, interni ed esterni alla magistratura, che hanno concorso al dissolvimento del sogno dei Padri costituenti di una magistratura interclassista, costituita come un “ordine” non gerarchico, autonomo e indipendente da ogni altro “potere”, legittimato dalla soggezione “soltanto” alla legge.
Nella scia del vivace dibattito suscitato dalle dense riflessioni sviluppate in quell’articolo, vorrei soffermarmi sul primo dei fattori ivi indicati tra le cause della fine di quel sogno: la crisi della soggezione del giudice alla legge.
Secondo l’Autore, «il giudice è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di “sussunzione” del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di “bilanciamenti” di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili per garantire la soluzione che, in base alla sua “precomprensione” (convinzioni personali di varia natura), risulta più “giusta” nel caso concreto».
Il tema della relazione tra la posizione della norma da parte del legislatore e la sua interpretazione da parte del giudice è tra i più antichi, controversi ed arati.
Vorrei iniziare le mie riflessioni partendo dalla metafora - utilizzata da Maria Rosaria Ferrarese a chiusura del suo bel libro Diritto sconfinato - del diritto-ragno e diritto-ape[2]; in tale metafora[3] il diritto-ragno - tipico delle tradizioni dei moderni stati nazionali europei, caratterizzati dal monopolio statale del diritto - era quello che, al pari, appunto, di un ragno, «stava ben radicato sul suo territorio, era statico ed autopoietico, e la sua tela non ammetteva intrusioni da parte di elementi estranei»; il diritto-ape - tipico del mondo pre-moderno e riemergente, secondo molti studiosi, della presente fase storica – è invece - al pari, appunto, di un’ ape - «instancabile, sempre in movimento, che cerca di nutrirsi proprio di elementi diversi e che vive di contatti numerosi e variabili con altri mondi … un diritto che sembra non volersi privare dell'ironico pendolarismo tra il grande e il piccolo, il nobile e il vile, che consente di vedere la verità umana contemporanea nelle sue contraddizioni e nelle sue illusioni».
Ecco, a me pare che questa immagine sintetizzi bene la dialettica culturale di questi anni, anni nei quali il diritto perde sempre più vistosamente il suo collegamento con la legge e diventa sempre più simile all’ape che al ragno; anni nei quali la funzione legislativa, come il potere che in essa si esprime, sembra indebolirsi progressivamente, a fronte dell’ampliamento dello spazio riservato alla creatività, da un lato, della giurisprudenza, e d’altro lato, delle prassi mercantili, delle esperienze di soft law, dei protocolli organizzativi (e talvolta normativi) tra ceti professionali e, addirittura, tra ceti professionali e poteri pubblici. Basta pensare, per percepire quasi tangibilmente cosa significa creazione del diritto “dal basso”, alla stupefacente esperienza delle prassi interpretative condivise - prassi interpretative, si badi, non soltanto prassi organizzative - elaborate negli osservatori sulla giustizia civile sorti in tutta Italia dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso[4]. Su questo sfondo si parla di “diritto giurisprudenziale”, di “dottrina delle corti”, di “crisi della fattispecie normativa”, di “comunità interpretante”, di “tramonto del mito del legislatore onnipotente”, e così via[5].
Su tali problematiche, però, mi sembra necessario svolgere qualche considerazione più specifica.
Lo stato moderno, come chiarì Giovanni Tarello[6], nasce con il superamento del particolarismo giuridico, vale a dire con il duplice superamento, da un lato, della coesistenza di diverse autorità regolatrici nello stesso contesto e, d’altro lato, della coesistenza di regimi giuridici differenziati in ragione dell’autorità regolatrice, delle qualità personali del destinatario della regola, dello spazio e del tempo in cui la regola deve trovare applicazione[7] .
È l’esigenza di superare il particolarismo giuridico, conseguente all’evoluzione della società e dell’economia europea sviluppatasi tra il XVIII e il XIX secolo, che ha imposto la codificazione del diritto privato, vale a dire la sistematizzazione, razionalizzazione e omogeneizzazione delle regole che lo compongono. La codificazione era foriera di eguale trattamento dei consociati davanti alla legge: era il presupposto del principio di eguaglianza formale: “dallo status al contratto”, per dirla con Summer Maine.
Emmanuel de Las Cases, nel suo Memoriale di Sant’Elena, riporta una frase pronunciata da Napoleone nell’ esilio atlantico: “Appena il codice comparve fu tosto seguito come supplemento da commentarii, spiegazioni sviluppi e che so io ? Io era solito esclamare: Eh! Signori, noi abbiamo spazzato le stalle di Augia, per Dio, non lordiamole un'altra volta”.[8] La frase viene commentata da Renato Rordorf[9] con la considerazione che «Napoleone, dopo tutto, era pur sempre figlio di una stagione nella quale al pensiero dell’illuminismo era toccato il compito di sgomberare il campo da una selva di consuetudini e di ordinamenti di ceto la cui opacità aveva generato, sul piano applicativo, gli abusi più gravi, sicché facilmente si comprende la ragione per cui in quel torno di tempo l’esigenza di riaffermare il primato di una legge scritta, chiara e da tutti ben conoscibile, era assolutamente prioritaria (come non menzionare qui Cesare Beccaria; e si può allora anche comprendere la crudezza del paragone napoleonico tra lo sterco delle stalle e l’attività interpretativa dei primi commentatori del suo codice)».
Oggi difficilmente qualcuno potrebbe seriamente pensare di paragonare l’attività interpretativa allo sterco delle stalle di Augia. Perché l’epoca nostra - l’epoca della pos-modernità, per dirla con Paolo Grossi[10] - «ha sperimentato la caduta di molte tra le illusioni suscitate dalla stagione dell’illuminismo, o che vi hanno fatto seguito, e tra esse anche quella di un diritto positivo in grado di esprimere comandi sempre così chiari ed univoci da consentirne l’applicazione quasi meccanica ad opera di un giudice destinato a fungere da mera “bocca della legge”»[11].
Oggi è chiarissimo che il “calculemus” di Leibenitz[12] non può funzionare.
Stanno entrando in crisi, d’altra parte, entrambi i presupposti fondativi del diritto moderno, l’accentramento della produzione del diritto nello Stato nazionale e il principio di eguaglianza formale.
Sotto il primo profilo, è evidente che la produzione normativa non è più monopolio degli Stati nazionali, i quali devono ormai dividere (o contendere) la funzione di produzione del diritto con soggetti pubblici interni ai confini (si pensi, per esempio, agli enti territoriali o alle autorità amministrative indipendenti nazionali) o esterni ai confini (si pensi al diritto dell’Unione europea o al diritto convenzionale derivante da trattati internazionali, in alcuni casi presidiato da specifici organi giurisdizionali, come la CEDU); o addirittura con soggetti privati investiti di compiti di regolazione settoriale (si pensi, per esempio, al sistema delle norme Uni-Iso o ai principi contabili emanati dall’ Organismo italiano di contabilità).
Sotto il secondo profilo, il principio di eguaglianza formale patisce la crisi del “soggetto unico di diritto”; come è stato efficacemente rilevato[13] «si hanno regole per i “cittadini” e per i “non cittadini” (a loro volta distinti in cittadini Ue e cittadini non Ue); si hanno regole per i cittadini di una certa regione e altre regole per i cittadini di un’altra regione; si hanno regole per i “consumatori” e regole per i “professionisti”; regole per gli “uomini” e regole per le “donne”; e così via».
Stiamo tornando, insomma, dal contratto allo status.
La contemporaneità pone allora in questione direttamente il ruolo della legge e la sua capacità ordinante; e, specularmente, pone in questione il ruolo del giudice, che è chiamato a tradurre la lettera della legge in un comando rivolto ad un individuo e, dunque, a far camminare la legge con le gambe degli uomini.
È innegabile, infatti, che l’aumento quantitativo della produzione normativa, l’opacità derivante dallo scadimento qualitativo della fattura delle disposizioni (a volte conseguente alla consapevole scelta del legislatore di rimettere all’interprete l’individuazione del punto di caduta finale di processi di mediazione di interessi sociali non interamente risolti in sede politica), la pluralità di fonti nazionali e sovranazionali di livello diverso, la crescente diffusione di disposizioni che esprimono regole elastiche (clausole generali) e di disposizioni che non esprimono regole ma principi[14], finisce con il potenziare il ruolo dell’interprete e con il conferirgli una funzione che può addirittura apparire creativa (inventiva, secondo la formula di Paolo Grossi[15]). Siamo molto lontani, oggi, dalle condizioni di stabilità e chiarezza delle leggi sul cui presupposto Montesquieu invitava ad accostarsi alle stesse “con mano tremante”.[16]
Fin qui, la mia consonanza con la riflessione di Tomaso Epidendio è completa.
2. Legge e principio di legalità.
Tale riflessione, tuttavia, cessa di persuadermi là dove descrive «la lunga parabola, che parte dalla celebre Assemblea della ANM di Gardone, attraversa la stagione dei cd. “Pretori d’assalto”, per approdare poi alle metodiche ermeneutiche delle cd. interpretazioni “costituzionalmente orientate” e, successivamente, “convenzionalmente o comunitariamente orientate”» come un percorso al cui esito «il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere inconsapevolmente la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante e non sa prevedere che, prima o poi, la tendenza all’omeostasi del sistema gli avrebbe chiesto il conto, avrebbe individuato nuove forme di responsabilizzazione, così da mettere a rischio quell’autonomia e indipendenza che il costituente voleva garantita da una soggezione, che, ormai non solo più scientificamente, ma sempre di più anche nella pratica, si riconosce impossibile, quella alla legge».
Non mi sembra, infatti, che la crisi della legge possa farsi coincidere tout court con la crisi del principio di legalità.
Soccorre, mi pare, l’antichissima distinzione tra jura e leges[17], su cui ancora pochi giorni fa è tornato, con l’usuale acutezza, Aurelio Gentili nel suo intervento al convegno “Nell’Ottantesimo del Codice civile. Giurisprudenza e Dottrina a confronto”, svoltosi in Cassazione nei giorni 20 e 21 giugno 2022.
La crisi della legge non si identifica con la crisi del diritto.
Come ha chiarito lucidamente Luigi Ferrajoli[18], il principio di legalità è un principio formale, in duplice senso. In primo luogo, nel senso che la legge può avere qualunque contenuto (Piero Calamandrei scriveva che «nello stampo della legalità si può calare oro o piombo»[19]). In secondo luogo, nel senso che esso non allude necessariamente alla legge quale legge dello Stato; esso allude, piuttosto alla logica del diritto. «Fa riferimento alla legge nel senso di norma generale ed astratta che predispone effetti in presenza dei presupposti, quali che siano, da essa prestabiliti; garantisce la prevedibilità, sia pure relativa, di tali effetti e dei loro presupposti e, insieme, del giudizio su di essi»[20].
In sostanza, sottolinea Ferrajoli, non ha nessuna importanza che le norme generali ed astratte richieste dal principio di legalità siano leggi dello Stato, o leggi regionali, o regolamenti dell’Unione europea o trattati internazionali o anche norme consuetudinarie. Ciò che importa, ai fini del ruolo garantistico svolto dal principio di legalità, è la predeterminazione normativa in astratto e formalmente vincolante dei presupposti delle decisioni giudiziarie.
Se infatti è innegabile che l’interpretazione di un testo, di qualunque testo - giuridico, religioso, letterario - può spesso offrire risultati non univoci e che, in particolare, accade sovente che un testo normativo mostri la pluralità di significati che esso racchiude solo quando viene chiamato ad essere applicato ad una concreta situazione di vita, è però altrettanto innegabile che esiste un limite nelle possibilità espansive dell’interpretazione e tale limite è fissato dal testo della disposizione, che l’interprete non può infrangere. Tale limite è stato tenuto ben presente e ben fermo nella giurisprudenza elaborata dalla magistratura italiana, anche dopo Gardone. Le interpretazioni costituzionalmente orientate, convenzionalmente orientate, eurounitariamente orientate che rispettano tale limite non sono contra jus e nemmeno contra legem; quelle che non lo rispettano sono, semplicemente, interpretazioni sbagliate.
Su questo punto la giurisprudenza della Suprema Corte è nettissima. Il chiaro rifiuto di un dictum giudiziale che fuoriesca dalla proposizione prescrittiva espressa dall’enunciato è stato affermato molte volte: cito solo due pronunce, entrambe provenienti dalla Sezioni Unite civili: la sentenza n. 15144/11, dove si afferma che «Nel quadro degli equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) i giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono appunto (per disposto dell'art. 101, comma 2, Cost.), "soggetti alla legge". Il che realizza l'unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l'espressione prima»; e la sentenza n. 24413/21 dove si afferma che «l'interpretazione giurisprudenziale non può che limitarsi a portare alla luce un significato precettivo (un comando, un divieto, un permesso) che è già interamente contenuto nel significante (l'insieme delle parole che compongono una disposizione, il carapace linguistico della norma) e che il giudice deve solo scoprire. L'attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell'enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell'inveramento della norma nella concretezza dell'ordinamento ad opera della giurisprudenza».
Ed allora, se la giurisprudenza di legittimità non teorizza in alcun modo una funzione creativa della giurisprudenza, il tema che oggi si pone a me pare essere, più che quello della crisi della soggezione del giudice alla legge, quello della caduta di fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura[21]; in altri termini, il tema della crisi del giudice.
3. La crisi del giudice.
Il tema della crisi del giudice si declina sotto diversi profili; essi investono, tra l’altro:
- il modello ordinamentale, specialmente con riferimento all’appannamento del principio, fissato dall’articolo 107 Cost., per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni; principio inverato nella storia della magistratura italiana grazie alla spinta culturale dell’Associazione Nazionale Magistrati, che nel congresso di Gardone del 1965 seppe cogliere il messaggio della Costituzione repubblicana con straordinaria lucidità e consapevolezza;
- il sistema dell’autogoverno, specialmente con riferimento ai meccanismi di valutazione dei magistrati, all’esercizio della discrezionalità nel conferimento di uffici direttivi e semidirettivi, alle prospettive della giustizia disciplinare;
- il ruolo costituzionale del giudice ordinario come giudice naturale dei diritti soggettivi, in un contesto normativo che rende sempre più complessa la ripartizione della giurisdizione tra i giudici ordinario, amministrativo e contabile e in un contesto politico e culturale che vede rilevanti settori delle classi dirigenti nazionali mettere in discussione il disegno costituzionale della «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé» [22].
- da ultimo, ma non per ultimo, il senso e le prospettive dell’associazionismo giudiziario, per come esso si è evoluto nell’ultimo decennio, gradatamente appannando la propria capacità di elaborazione culturale ed appiattendosi su un ruolo di mera gestione del potere nel sistema dell’autogoverno, secondo un percorso per molti aspetti analogo a quello compiuto dai partiti politici italiani; pur consapevole del «gigantesco processo antropologico e sociale che vi è stato fra noi e la Carta scritta nel 1948»[23], io credo che a Gardone si debba ancora continuare a guardare (anzi, si debba tornare a guardare), perché, se è vero che (quasi) tutto è cambiato, dagli anni ’60, nella società italiana, mi pare altrettanto vero che le ragioni che impongono di presidiare il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione con una magistratura disegnata come potere orizzontale non sono oggi meno forti di quanto lo fossero negli anni ’60.
Si tratta, evidentemente, di temi molto vasti, ognuno dei quali richiederebbe un approfondimento specifico. A me interessa sottolineare, in questa sede, la saldatura, ben messa in luce da Enrico Scoditti, tra indipendenza e responsabilità[24]: responsabilità, voglio aggiungere, multilivello: responsabilità del singolo magistrato, nel suo lavoro quotidiano (si tratti della conduzione di una udienza o dell’esame di un testimone o della redazione di una sentenza), così come nella sua attività associativa; responsabilità dell’ufficio nel suo complesso, nei rapporti con gli altri uffici, con l’avvocatura, con il territorio di riferimento; responsabilità del sistema dell’ autogoverno (che, sottolineo, non si risolve esclusivamente nel circuito CSM - Consigli giudiziari - Dirigenti degli uffici, ma coinvolge tutti i magistrati, perché ogni magistrato è titolare del dovere, prima che del diritto, di critica e di proposta) nell’esercizio della propria discrezionalità.
Un tema, tuttavia, mi pare che si imponga, prima di tutto e sopra tutto.
Io credo che la ricostruzione di un rapporto di fiducia, vorrei dire di una “connessione sentimentale”[25], tra la magistratura e la società italiana passi ineluttabilmente dal miglioramento del servizio reso ai cittadini, in termini di celerità di risposta, di capacità di ascolto, di accuratezza del lavoro giudiziario.
È nella quotidianità della vita giudiziaria che i magistrati si mostrano ai cittadini ed è lì, assai più che sui giornali e davanti ai dibattiti televisivi, che i cittadini si formano la loro opinione della magistratura. È lì che i cittadini possono sperimentare concretamente la fattiva presenza di un giudice che risponda tempestivamente alle loro domande. È decisivo, allora, affrontare il problema della durata dei processi, penali e civili.
Tale problema - che poi si risolve in quello del rapporto tra definizioni e sopravvenienze - è al centro del dibattito pubblico sulla giustizia da almeno trent’anni.
Esso è in parte legato a dati strutturali della società italiana; se si riflette su quanto pesano sull’amministrazione della giustizia le controversie in cui una delle parti è una pubblica amministrazione (basta pensare al contenzioso tributario e previdenziale) si coglie immediatamente come sul processo finiscano per scaricarsi anche molte inefficienze degli apparati amministrativi e come la magistratura italiana sia investita della gestione di tensioni nel rapporto tra mano pubblica e cittadini di cui le magistrature di altri Paesi a noi vicini non sono chiamate a farsi carico.
Al netto di tali profili strutturali, comunque - e per quanto più direttamente concerne l’amministrazione della giustizia, e, in particolare, l’amministrazione della giustizia civile - molto è stato fatto, non sempre utilmente, e molto c’è da fare.
Negli ultimi venti anni il legislatore è più volte intervenuto, nella materia civile, con iniziative volte sia a ridurre le sopravvenienze che ad aumentare la capacità del sistema di produrre decisioni.
Sotto il primo profilo, sono stati introdotti articolati meccanismi di mediazione, preventiva e successiva all’introduzione della lite, volti a favorire soluzioni stragiudiziali e, per altro verso, sono stati aumentati gli oneri fiscali del processo, rendendolo più costoso, in una prospettiva esplicitamente deflattiva (l’esempio più evidente è il raddoppio del contributo unificato in caso di rigetto dell’impugnazione[26]).
Sotto il secondo profilo, si è reiteratamente operato sul rito, irrigidendo preclusioni e termini e disciplinando le modalità redazionali degli atti, sia delle parti [27] che del giudice (si pensi ai rifermenti normativi alla concisione dei provvedimenti).
Questo insieme di interventi - che pure qualche risultato, in termini quantitativi, ha portato - non ha colto, a mio avviso, il cuore del problema ed ha recato non irrilevanti svantaggi di sistema.
Le limitazioni dell’accesso alla giustizia civile, sia sotto il profilo dell’incremento dell’onere economico imposto all’attore, sia sotto il profilo dell’introduzione di meccanismi di conciliazione limitativi della procedibilità, ha evidentemente un costo in termini di riduzione di tutele; un costo che mi sembra più allarmante in relazione al primo profilo, perché inequivocabilmente censitario.[28]
Gli interventi effettuati sul processo, per contro, sembrano perdere di vista che la disciplina processuale non è funzionale al tempo del processo ma alla qualità del medesimo. Essa deve, cioè, modellare un processo idoneo a pervenire a risultati di giustizia, ossia a produrre una decisione fondata sull’esatta interpretazione della legge applicata a fatti ricostruiti nel rispetto del contraddittorio delle parti secondo modalità che favoriscano la massima possibile approssimazione della verità processuale alla verità storica. Il tempo del processo è una variabile indipendente rispetto al rito.
Anche le esortazioni del legislatore alla brevità degli atti, sia delle parti che del giudice, non mi paiono congruenti al fine di ridurre la lunghezza dei processi. Non è in dubbio che la sinteticità sia un pregio: gli atti devono essere sintetici perché la sinteticità favorisce la chiarezza. Ma la sinteticità - o, per meglio dire, la diffusione generalizzata tra gli avvocati e i magistrati di uno stile di redazione dei rispettivi atti caratterizzato da sinteticità ed asciuttezza - non si impone per legge: è una conquista che richiede un lavoro culturale di lunga lena, che deve iniziare nelle università, proseguire nelle scuole di formazione, consolidarsi con l’esempio dei colleghi più anziani e nella pratica quotidiana. La regola di chi scrive di diritto, atti defensionali o sentenze, è quella di esporre, secondo l’aurea formula cartesiana, idee “chiare e distinte”, dicendo tutto quello che serve e solo quello che serve[29]; ma l’applicazione di tale regola è funzionale a farsi capire, non a ridurre i tempi dei processi.
4. Le prospettive.
Il problema di oggi, dunque, è quello di ricostruire il rapporto di fiducia tra la magistratura e la società italiana e, come ho sopra accennato, tale opera di ricostruzione passa imprescindibilmente dal potenziamento della capacità del sistema giudiziario di tutelare tempestivamente i diritti dei cittadini. Non è solo, va sottolineato, un problema di quantità: è anche, forse soprattutto, un problema di qualità. Le decisioni frettolose, le decisioni che comprimono ingiustificatamente l’istruttoria, quelle che non si confrontano con le argomentazioni delle parti, quelle che trascurano i precedenti giurisprudenziali, non definiscono un procedimento; si limitano a trasferirlo davanti al giudice dell’impugnazione. Da qui la necessità che i programmi che gli uffici sono chiamati a predisporre per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non si risolvano in una rincorsa a spazzare in qualunque modo le scrivanie, ma valorizzino l’esigenza che le controversie, civili e penali, siano definite con pronunce che - sia che provengano da magistrati togati, sia che provengano da magistrati onorari – abbiano una tenuta che le renda sufficientemente accettate dalla comunità e, quindi, non vengano impugnate oltre le percentuali fisiologiche.
Per migliorare la risposta del sistema alle domande di giustizia provenienti dalla società mi pare che si debba puntare sulla realizzazione di tre convergenti obiettivi:
-aumentare il numero dei magistrati in operatività, coprendo interamente gli organici ampliati dal Ministero in attuazione delle disposizioni contenute nella legge 30.12.2018 n. 145 e, ovviamente, facendo corrispondere all’aumento dei magistrati in servizio un corrispondete aumento del personale amministrativo;
- aumentare la capacità di lavoro dei giudici, sollevandoli dall’ onere di attività che sottraggono tempo e possono essere svolte da persone dotate di profili professionali meno sofisticati (e meno retribuiti);
- aumentare la prevedibilità degli esiti delle controversie, mettendo la Corte di cassazione in condizione di svolgere con celerità la sua funzione di nomofilachia e, quindi, di offrire agli operatori un quadro interpretativo stabile.
Mi soffermo brevemente su ciascuno di tali punti.
Quanto al primo, le difficoltà mostrate dal tradizionale meccanismo del concorso in magistratura nel selezionare un numero di nuovi magistrati corrispondente ai posti messi a bando dimostra, a mio avviso, la necessità di ripensare a fondo il meccanismo di accesso alla magistratura. È certamente positiva l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia che consente la partecipazione al concorso con la semplice laurea. Ma, probabilmente, è il momento di cominciare a riflettere sulla possibilità di coinvolgere maggiormente la Scuola Superiore della Magistratura sia nella formazione dei laureati nella fase precedente al concorso, sia nello stesso meccanismo di selezione degli aspiranti magistrati, ragionando su modelli di “corso-concorso” utilizzati per altre pubbliche amministrazioni[30].
Quanto al secondo punto, ritengo realmente felice, e potenzialmente decisiva, l’innovazione dell’Ufficio per il processo. Pur con i limiti legati alla temporaneità del rapporto di lavoro degli addetti, alla carenza di spazi negli uffici, alle difficoltà della formazione dei nuovi assunti, l’Ufficio del processo rappresenta, tuttavia, una grandissima opportunità, che la magistratura non deve farsi sfuggire. Esso è la concretizzazione di un progetto al quale alcuni magistrati, con la fattiva collaborazione di una parte dell’avvocatura (penso, nuovamente, agli osservatori sulla giustizia civile) hanno cominciato a lavorare una ventina di anni fa, con i primi tirocinanti negli uffici giudiziari; un progetto (all’inizio si chiamava ufficio del giudice) che prendeva le mosse dalla considerazione dell’inadeguatezza di una organizzazione del lavoro che non prevedeva alcuno staff di supporto per il giudice. Il profilo più interessante di quei primi esprimenti fu che ai tirocinanti venivano affidate funzioni miste, in parte riconducibili a quelle di un “assistente di studio” (ricerche giurisprudenziali, redazione bozze), in parte tipiche del personale amministrativo (verbalizzazione delle attività di udienza, scarico dei ruoli); da qui la ridenominazione (che esprimeva un programma preciso) da “ufficio del giudice” ad “ufficio del processo”. Oggi l’ufficio del processo è una realtà che non solo può alleggerire il magistrato di taluni incombenti - liberando spazi da destinare allo studio, all’aggiornamento giurisprudenziale e, in ultima analisi, alla qualità del prodotto giurisprudenziale - ma che, in sinergia con l’informatizzazione del processo, può essere valorizzata per incidere in profondità sull’organizzazione del lavoro giudiziario, trasformando la pronuncia giudiziaria nel frutto del lavoro, non più di un singolo, ma di una équipe di cui il magistrato è il direttore.[31]
Quanto al terzo punto, va ribadito con la massima energia che l’efficienza della Cassazione è decisiva ai fini del funzionamento di tutti gli uffici giudiziari. Perché, se la nomofilachia funziona bene, cioè se la Cassazione è in grado di offrire interpretazioni delle leggi chiare e stabili e riesce ad intervenire rapidamente nella risoluzione delle questioni nuove che via via si presentano, i giudici di merito possono risolvere i casi al loro esame in maniera sicura ed uniforme. Ciò, per un verso, invera il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto assicura che lo stesso caso sia deciso secondo la stessa regola di diritto davanti a tutti gli uffici giudiziari d’Italia, e, per altro verso, favorisce la graduale riduzione del contenzioso, conseguentemente abbreviando i tempi di definizione dei processi; se la questione di diritto è chiara, infatti, è più facile per le parti misurare la concreta convenienza di una controversia.
Sulla funzione di nomofilachia, tuttavia, è necessaria una puntualizzazione.
Tale funzione è attribuita dalla legge - e, precisamente, dall’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario - alla Corte di cassazione, dinanzi alla quale il Pubblico Ministero conclude nell’interesse della legge. Ma nessuno oggi potrebbe ragionevolmente immaginare la nomofilachia come “ordine” di conformità che discende dal vertice e, certamente, ha ragione Giovanni Canzio, quando scrive che «dobbiamo guardarci da una nomofilachia verticale, riservata alla Corte di cassazione e declinata in senso gerarchico» e sottolinea che «la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”»[32]. Proprio l’esperienza, già sopra evocata, degli osservatori sulla giustizia civile, del resto, dimostra che la ricerca di prassi - non solo organizzative, ma anche interpretative - condivise tra giudici e avvocati costituisce una fortissima leva di miglioramento dell’amministrazione della giustizia, con particolare riguardo al profilo della prevedibilità delle decisioni. Anche alla luce di quella esperienza è evidente che oggi la nomofilachia non può essere intesa che come sintesi ed espressione di cultura e valori condivisi, come processo che coinvolge circolarmente la dottrina, l’avvocatura, i giudici di merito, i giudici speciali, le Corti sovranazionali[33]. Le Sezioni Unite – come esse stesse ci hanno spiegato nella sentenza n. 24414/21, «non sono sole» e la loro opera di nomofilachia «è un farsi, un divenire che si avvale dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero. Le Sezioni Unite sono dunque inserite in un contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza "mite" che rappresenta un connotato del mestiere del giudice».
Si tratta, all’evidenza, di un’attività che richiede studio, riflessione, dialogo e, quindi, postula condizioni operative difficilmente conciliabili con i numeri dei procedimenti che annualmente vengono iscritti davanti alla Corte di legittimità italiana.
Il tema del sovraccarico della Corte di cassazione è troppo noto per aver bisogno di essere illustrato. Tra le varie ipotesi affacciatesi nel dibattito pubblico per affrontare tale tema (rimodulazione del principio costituzionale della impugnabilità per cassazione di tutte le sentenze, eliminazione o riduzione del controllo della Cassazione sull’accertamento di fatto svolto dal giudice di merito, contingentamento e specializzazione degli avvocati abilitati al patrocinio in sede di legittimità) il legislatore ha scelto, per quanto concerne il civile, la strada della distinzione tra i procedimenti con valenza nomofilattica e quelli privi di tale valenza, con la cameralizzazione del giudizio relativo a questi ultimi; ciò, evidentemente, sull’implicito presupposto che la cameralizzazione riduca il tempo di lavoro necessario per la trattazione del procedimento e, quindi, consenta di destinare quel tempo all’incremento del numero dei procedimenti trattati.
In questa sede non è evidentemente possibile nemmeno accennare ai termini del problema. Quello che è certo, tuttavia, è che, proprio nel quadro della vasta e complessa azione riformatrice portata avanti dall’attuale Governo in materia di giustizia, appare non più differibile un serio esame della “questione Cassazione”, con un’assunzione di responsabilità collettiva che coinvolga l’intera magistratura – a partire dal suo organo di autogoverno - l’avvocatura, il modo accademico ed il mondo politico.
[1] Tomaso Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in questa Rivista, 24 maggio 2022.
[2] Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, 2006, si veda cap. V, § 10.
[3] L’immagine che identifica le api con gli antichi e i ragni con i moderni - riferita non specificamente al diritto, bensì alla cultura in generale - risale a Jonathan Swift, che la usa nel suo La battaglia dei libri, ed è stata vigorosamente rilanciata da Marc Fumaroli in Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Adelphi, 2005.
[4] Sulle implicazioni di sistema dell’esperienza degli osservatori sulla giustizia civile, resta sempre centrale R. Caponi, L’attività degli osservatori sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, in Foro It. 2007, V, col. 7.
[5] In questi termini, R. Rordorf, Editoriale del numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 3.
[6] G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto. Il Mulino, Bologna, 1976.
[7] Così A. Natale, Introduzione al numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pag. 6.
[8] E. de Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, Milano, Tipografia Editrice Verri, s.d., vol. II, pag. 217.
[9] Op. cit. pag. 4
[10] P. Grossi, Percorsi nel giuridico pos-moderno, Editoriale Scientifica, 2017.
[11] Così, ancora, R. Rordorf, op. loc. cit.
[12]Il riferimento è, ovviamente, alla Dissertatio de arte combinatoria, 1666. «Secondo ciò, quando sorga una controversia, non ci sarà più necessità di discussione tra due filosofi di quella che c’è tra due calcolatori. Sarà sufficiente prendere una penna, sedersi al tavolo e dirsi l’un l’altro: calcoliamo!» (la citazione è tratta da L. Catalani, “Calculemus!”: il sogno di Leibniz, https://medium.com/@luigicatalani/calculemus-il-sogno-di-leibniz-196b11a55766)
[13] A. Natale, op. cit., pag. 7
[14] Sull’aumento di incertezza indotto dall’operare dei principi al livello dell’interpretazione, sono preziose le brevi ma dense considerazioni di A. Proto Pisani, Brevi note in tema di regole e principi, Foro It., 2015, V, col. 455 e segg.
[15] Cfr. P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, 2017
[16] Per Montesquieu «È vero che talvolta occorre cambiare qualche legge. Ma il caso è raro; e quando avviene, bisogna ritoccarle con mano tremante: con tanta solennità e con tante precauzioni che il popolo debba concluderne che le leggi sono veramente sante; e soprattutto con tanta chiarezza che nessuno possa dire di non averle capite» (Lettere Persiane, lettera LXXVI).
[17] Sul tema, M. Donini, Iura et Leges. Perché la legge non esiste senza il diritto, in Sistema Penale, 20.12.2019, http://www.antoniocasella.eu/archica/Donini_iura.et.leges_20dic19.pdf
[18] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, nel numero monografico Il giudice e la legge di Questione Giustizia (trimestrale) , 4/2016 , pagg. 13 e segg., da cui traggo le considerazioni svolte nel testo.
[19] P. Calamandrei, Prefazione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Le Monnier, 1945; la citazione è tratta da L. Ferrajoli, op. cit. pag. 23
[20] L. Ferrajoli, loc. ult. cit.
[21]In G. De Amicis, Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze, in questa Rivista, 25.6.22., si dà conto degli esiti di una indagine dell’Eurispes da cui emerge che solo l’8% dei cittadini ritiene che il settore giustizia funzioni bene, mentre più del 65% non serba fiducia nel sistema giudiziario.
[22] Così C. Mortati, nei lavori dell’Assemblea costituente (seduta pomeridiana del 27 novembre 1947), citato nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, par. 2.2. Quanto al menzionato contesto politico e culturale, mi riferisco ai progetti germogliati negli ultimi anni per modificare la composizione dei collegi e le funzioni delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione; penso al “Memorandum sulle tre giurisdizioni” presentato il 15 maggio 2017 al Presidente della Repubblica, su cui A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it. 2018, V, 109, nonché, volendo, A. Cosentino, Brevi considerazioni a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, ivi, col. 117; penso al “Tribunale superiore dei conflitti”, oggetto di una proposta di legge presentata alla Camera il 22 maggio 2018, su cui F. De Stefano, I discutibili presupposti del Tribunale dei conflitti, in Questione Giustizia on line, 30.5.2019, nonché, volendo, A. Cosentino, Note critiche sull'ipotizzato tribunale superiore dei conflitti, in questa Rivista 27.2.2019; penso all’”Alta Corte”, oggetto di un disegno di legge costituzionale presentato al Senato il 28 ottobre 2021, su cui l’intervista di P. Filippi e R. Conti a A. Rossomando, in questa Rivista 5.2.2022, nonché, volendo, A. Cosentino, L'Alta Corte. È davvero una buona idea? in Questione Giustizia on line, 25.3.2022.
[23] Così E. Scoditti, L’ora della responsabilità per la magistratura, in Questione Giustizia on line, 17.6.2022.
[24] E. Scoditti, op. cit., dove si legge: «Non c’è indipendenza senza responsabilità, e non c’è responsabilità senza indipendenza: l’una è l’altra faccia dell’altra. La responsabilità non è un principio concorrente con quello di indipendenza, ma ne è il rovescio. Non è un limite dell’indipendenza, ma il suo contenuto. Il giudice per davvero responsabile, che è consapevole del dovere di rendere conto del proprio operato, è quello in grado di assumere il dovere di indipendenza da se stesso»
[25] La formula è di Gramsci: «non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio». A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Tomo II (Q. XVIII), p. 1505.
[26] Introdotto dall’articolo 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (Legge di stabilità 2013).
[27] Paradigmatico è l’art. 13 ter del codice del processo amministrativo, alla cui stregua «le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato» e, conseguentemente, «L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione.»
[28] Quanto all’enfasi posta dal legislatore sui meccanismi di definizione conciliativa della lite, una valutazione molto critica si legge in G. Scarselli, Osservazioni sul disegno di legge delega di riforma del processo civile, in questa Rivista 27.10.2021
[29] Nel recente convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro” organizzato da Area DG presso la Corte di cassazione lo scorso 8 giugno 2022, il Primo Presidente della Corte di cassazione, Piero Curzio, discorrendo delle sentenze, specialmente di legittimità, inutilmente prolisse, ha icasticamente indicato i tre vizi capitali da cui deve rifuggire l’estensore di una sentenza in quelli della incompetenza, del narcisismo e del carrierismo.
[30] In Francia, all'esito del tirocinio presso l’École Nationale de la Magistrature, è prevista una valutazione finale che «può avere quattro decisioni: 1) attitudine a tutte le funzioni giudiziarie; 2) Non idoneità; 3) Previsione di un ulteriore anno di stage in uffici giudiziari;4) raccomandazioni in ordine a specifiche funzioni. Rarissima la dichiarazione di inidoneità (negli ultimi corsi l’1%), più frequente il rinnovo dello stage in giurisdizione» (così M.G. Civinini ed E. Bruti Liberati, La formazione iniziale dei magistrati. Analisi di una esperienza e una proposta, in
in Questione Giustizia on line, 28.4.2021.
[31] in M.G. Civinini, Il "nuovo ufficio per il processo" tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Questione Giustizia on line, 28.4.2021, si legge la seguente, persuasiva, considerazione: «Si passa da una modalità fieramente individuale e artigianale a una modalità organizzata e collettiva che esalta la funzione del giudicare mentre rende più efficiente il sistema».
[32] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Diritto Pubblico, 2017, 25.
[33] Sul tema, si veda l’ampia analisi di R.Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista 4.3.2021. Si veda anche F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in questa Rivista 3.3.2021, nonché A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, in questa Rivista 23.2.2021.
Giurisdizione esclusiva nella materia del bilancio: il giudice amministrativo ne riconosce l’esistenza e la riserva costituzionale in favore della Corte dei conti (nota a TAR Lombardia, sez. I, n. 1088 dell’11.5.2022)
di Marco Calaresu
Sommario: 1. Premessa – 2. La riforma della disciplina sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali e i correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014. – 3. La disciplina transitoria per l’anno 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 130/2014 - 4. Altre significative pronunce della Corte Costituzionale in tema di rendiconti dei gruppi consiliari regionali – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La sentenza in commento trae origine dall’impugnazione, da parte di un gruppo consiliare della Regione Lombardia, del provvedimento dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale, e di tutti gli altri atti ad esso presupposti, che ha imposto al ricorrente la restituzione delle spese irregolarmente sostenute, e non ancora restituite, nell’anno 2012.
Il Collegio dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, confermando le proprie precedenti pronunce adottate sui ricorsi proposti da altri gruppi consiliari della Lombardia anch’essi destinatari di atti di accertamento di irregolarità nell’attività di rendicontazione riferita al 2012[1].
L’elemento di novità della pronuncia in esame, come si avrà modo di meglio illustrare nel prosieguo, risiede nelle argomentazioni che il TAR esprime al fine di ricondurre il procedimento del controllo esterno sul bilancio regionale nel perimetro della giurisdizione esclusiva costituzionalmente devoluta alla cognizione del giudice contabile.
Ai fini dell’inquadramento della vicenda in esame, occorre premettere che nel 2012 il legislatore nazionale ha introdotto, nell’ambito delle misure di rafforzamento della partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria delle Regioni, una serie di norme che hanno profondamente modificato la disciplina del rendiconto di esercizio annuale dei gruppi consiliari e attribuito alla Corte dei conti il controllo sulla regolarità degli stessi[2].
Tuttavia, l’omessa previsione di una disciplina transitoria ha generato dubbi e criticità in ordine all’applicabilità, o meno, delle nuove regole anche ai rendiconti relativi all’esercizio finanziario del 2012.
In tale contesto, la Regione Lombardia ha introdotto un regime transitorio, disciplinato all’art. 10, comma 1, lettera j), della l.r. 24 dicembre 2013, n. 19[3], in forza del quale l'Ufficio di Presidenza regionale assegnava ai presidenti dei gruppi consiliari il termine di sessanta giorni per la presentazione, al collegio dei revisori, di una relazione, contenente le valutazioni sul rendiconto delle risorse assegnate al gruppo per l’anno 2012. Su tale relazione il collegio dei revisori esprimeva le proprie valutazioni che venivano formalizzate in una nota trasmessa all'Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale. È opportuno precisare sin d’ora che il descritto regime transitorio recepiva gli indirizzi espressi nella deliberazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti n. 15 del 5 luglio 2013[4], poi annullata, per difetto di attribuzione, dalla Corte Costituzionale[5].
Il Consiglio Regionale della Lombardia nel costituirsi in giudizio ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che la controversia attiene alla materia del controllo di regolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari, devoluta, ai sensi dell’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012[6] [successivamente recepito nell’articolo 11, co. 6, lett. d) del Codice di giustizia contabile[7]], alla giurisdizione esclusiva delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti.
Il TAR Lombardia, allineandosi a propri precedenti pronunciamenti[8], ha accolto l’eccezione di cui sopra e, per l’effetto, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Collegio nel fondare la propria decisione richiama alcuni passaggi della sentenza della Corte Costituzionale n. 39 del 2014[9] che, come noto, ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale (sollevate dalle Regioni Autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e dalla Provincia Automa di Trento) relative, tra l’altro, alle disposizioni normative contenute all’art. 1, co. 9, 10, 11 e 12, del d.l. 174/2012 recanti la disciplina del procedimento di controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
In primo luogo, il TAR afferma che: “con sentenza del 6 marzo 2014, n. 39, la Corte costituzionale ha affermato che l’intervento normativo del codice di giustizia contabile deve ritenersi meramente ricognitivo di un riparto di giurisdizione già desumibile dall’assetto ordinamentale e, in particolare, dall’articolo 1, comma 12, del decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, così come modificato dall’articolo 33, comma 2, lettera a), del decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014, n. 116, e dagli ordinari criteri di riparto della giurisdizione contenuti negli articoli 24 e 103 della Costituzione”.
La suddetta affermazione del TAR deve essere però contestualizzata, in considerazione dell’assenza, nel testo della sentenza n. 39/2014, di un richiamo, e/o di un riferimento espresso, all’intervento normativo del Codice di giustizia contabile che, come noto, è intervenuto con il D.lgs. 174/2016 e, dunque, in epoca successiva all’emanazione della citata pronuncia della Consulta. Inoltre, appare preferibile, la ricostruzione proposta in un precedente pronunciamento della medesima sezione del TAR Lombardia, secondo cui l’intervento legislativo di cui all’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012 [come novellato dall’art. 33, co. 2, lett. a) del d.l. 91/2014] - che attribuisce alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti la giurisdizione sulle deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo – non assume “portata innovativa” in quanto la già citata sentenza n. 39/2014 aveva riconosciuto la possibilità di ricorrere, avverso le suddette deliberazioni, attraverso gli “ordinari strumenti di tutela giurisdizionale previsti dall’ordinamento in base alle fondamentali garanzie costituzionali previste dagli artt. 24 e 113 Cost.”[10].
In un successivo passaggio, il TAR Lombardia afferma che: “Come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 15 maggio 2014 e dal costante orientamento di questo Tribunale (…) deve ritenersi che, anche anteriormente all’entrata in vigore della novella dell’articolo 1, comma 12, del decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014, n. 116, e successive modificazioni, il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali fosse direttamente riconducibile alla materia della contabilità pubblica, ai sensi dell’articolo 103, comma 2, della Costituzione”. Il Collegio precisa ulteriormente che “il controllo sui rendiconti delle spese effettuate dai gruppi consiliari regionali si inscrive infatti all’interno del procedimento del controllo esterno del bilancio regionale e si concretizza nella verificazione della conformità tra la destinazione dei fondi ed il loro effettivo utilizzo”.
Anche le indicate affermazioni richiedono qualche ulteriore precisazione al fine di rispettare il dettato della più volte citata sentenza n. 39/2014. Invero, come correttamente rilevato nei richiamati precedenti pronunciamenti della sezione[11], è sulla base dell’affermazione contenuta nella sentenza n. 39/2014 - secondo cui “Il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale” – che è possibile desumere che già prima dell’entrata in vigore della previsione di cui all’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012, il controllo esercitato dalla Corte dei Conti fosse “direttamente riconducibile alla materia «contabilità pubblica» e, dunque, ascrivibile alla giurisdizione della Corte dei Conti, a norma dell’art. 103, secondo comma, Cost.”.
In questa fase dell’iter logico-argomentativo sviluppato dal TAR Lombardia si innesta l’affermazione secondo cui “a prescindere dall’interpositio legislatoris, il procedimento del controllo esterno sul bilancio regionale deve essere attribuito alla giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti, in quanto rientra nel perimetro della materia della contabilità pubblica, la quale è irrelata alla qualificazione della situazione soggettiva come interesse legittimo. Come già affermato da questo Tribunale, l’interesse legittimo non è da solo sufficiente a fondare la giurisdizione del giudice amministrativo”.
L’affermazione in esame introduce un elemento di novità rispetto alle argomentazioni prospettate nei richiamati precedenti della sezione, ed è certamente rappresentativa della maggiore sensibilità del giudice amministrativo rispetto al tema della giurisdizione esclusiva della Corte dei conti nella materia della contabilità pubblica.
Il TAR Lombardia, evidentemente aderendo ai più recenti approdi della giurisprudenza contabile[12], riconosce che l’attività di controllo sui bilanci pubblici è parte integrante del nucleo concettuale in cui si sostanzia la materia della contabilità pubblica devoluta, per espressa previsione costituzionale, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a prescindere dalla interpositio legislatoris.
Le indicate conclusioni assumono un valore particolarmente significativo e sono dense di conseguenze sul piano pratico anche alla luce del fatto che si innestano in un momento storico in cui il tema dei confini del riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e quello contabile è al centro di un dibattito che ha visto contrapporsi due visioni diametralmente opposte rispettivamente rivendicate dal giudice amministrativo e da quello contabile.
Alla base di tali opposte ricostruzioni si collocano le complesse e articolate vicende che hanno interessato il bilancio di un Comune abruzzese[13]. In questa sede, non potendo analizzare compiutamente i molteplici risvolti della vicenda de qua, è sufficiente evidenziare che in seguito all’adozione della delibera comunale di dichiarazione del dissesto, un gruppo di consiglieri comunali proponeva ricorso al TAR avverso la suddetta deliberazione. Contestualmente, i ricorrenti agivano innanzi alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti avverso le pronunce con le quali la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti aveva, da un lato, disposto l’adozione di misure correttive ai sensi dell’art. 148-bis TUEL e, dall’altro lato, accertato la violazione del termine perentorio fissato dalla legge per l’approvazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale.
In entrambi i gradi di giudizio il giudice amministrativo ha rigettato l’eccezione sul difetto di giurisdizione, prospettata dal Comune. In particolare, ad avviso del Consiglio di Stato, gli assunti alla base dell’opinione secondo cui il riconoscimento della giurisdizione piena ed esclusiva della Corte dei conti sarebbe confermata dall’evoluzione normativa (a partire dal d.l. 174/2012) che manifesta non già una mera interpositio legislatoris bensì “un vero e proprio rinvio diretto della norma ordinaria all’art. 103, secondo comma, della Costituzione”, dovrebbero essere ridimensionati alla luce delle posizioni espresse dalle SS.UU. della Corte di Cassazione che avrebbero ricondotto la giurisdizione contabile “pur sempre nel quadro dello stretto collegamento fra le funzioni di controllo e quelle giurisdizionali della Corte dei conti, e dunque in relazione all’impugnazione delle delibere adottate dalle Sezioni regionali di controllo nei diversi ambiti di loro competenza, ivi inclusa la parificazione dei rendiconti regionali”[14].
Le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti sono invece pervenute a conclusioni diametralmente opposte alla luce di un’analitica e sistematica ricostruzione della giurisprudenza costituzionale[15].
In tale occasione il giudice contabile ha innanzitutto evidenziato che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che “la Corte dei conti è, in senso più ampio, il giudice naturale delle controversie nelle “materie” di contabilità pubblica, per le quali l’afferenza al suo ambito di cognizione si determina sulla base di due elementi: quello della natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere, oggi individuabili in modo economico-funzionale, tramite i criteri forniti dal SEC 2010) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione (Corte Costituzionale sentt. n. 17/85; n. 189/84; n. 241/84; n. 102/77)”.
Inoltre, precisano ancora le Sezioni Riunite, con la sentenza n. 60/2013 la Corte Costituzionale ha chiarito che “la funzione di controllo, intesa nello stretto senso del sindacato neutrale di legittimità sul bilancio, non può essere attribuita ad autorità diverse della Corte dei conti, in quanto organo dello Stato-ordinamento (punto 4 cons. in diritto). Poiché la Corte dei conti è anche il giudice naturale precostituito per legge in materia di contabilità pubblica (art. 25 Cost.), questa riserva di cognizione vale tanto nei confronti delle pubbliche amministrazioni, che non possono surrogare l’attività di controllo della Corte, quanto verso le altre giurisdizioni, che non possono alterare il riparto di giurisdizione previsto dalla Costituzione (art. 102 Cost.; art. VI disp. trans.; nonché artt. 113 e 103 Cost.), surrogando il controllo che spetta alla Corte dei conti e sindacandone in sede giurisdizionale l’esito”.
Alla luce di quanto sopra esposto, le Sezioni Riunite definiscono la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di bilancio nei termini di una “giurisdizione integrata, esclusiva e per “blocco” di materia”, cui consegue che “il riparto di giurisdizione con le altre magistrature non si svolge sul crinale della natura della situazione giuridica sottostante, in base alla “dicotomia diritti soggettivi interessi legittimi”, (C. cost. sentenza n. 204/2004), collegata ad una manifestazione illegittima del potere amministrativo (C. cost. sentenza. n. 191/2006), né in base all’autorità o potere che ha emesso l’atto impugnato (autorità amministrativa o sezione regionale di controllo), ma opera sulla decisiva individuazione dell’ambito normativo perimetrato, identificabile come “materia” di contabilità pubblica”.
2. La riforma della disciplina sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali e i correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014.
Come sopra accennato, le norme contenute all’art. 1, co. 9, 10, 11 e 12, del d.l. 174/2012 hanno ridisegnato il sistema di rendicontazione e verifica delle spese sostenute dai gruppi consiliari regionali, prevedendo, altresì, le conseguenze nei casi di omessa presentazione e di accertamento di irregolarità.
A seguito della proposizione dei ricorsi da parte delle Regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia e dalla Provincia Autonoma di Trento, la Corte Costituzionale ha scrutinato, tra le altre, le sopra richiamate norme ed è giunta all’adozione della sopra richiamata sentenza n. 39/2014 con la quale ha fatto salvo l’impianto complessivo delineato dal legislatore del 2012, fatta eccezione per alcuni frammenti normativi colpiti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale[16].
Nel dettaglio, il co. 9 prevede che ciascun gruppo consiliare è chiamato ad approvare un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo le “linee-guida” (deliberate in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio) al fine di “assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità, nonché per definire la documentazione necessaria a corredo del rendiconto”. Il co. 9 in precisa, altresì, che “in ogni caso il rendiconto evidenzia, in apposite voci, le risorse trasferite al gruppo dal consiglio regionale, con indicazione del titolo del trasferimento, nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati”.
In attuazione di quanto sopra, con decreto del Presidente del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2012 sono state recepite le menzionate “linee guida” sul rendiconto di esercizio annuale dei gruppi consiliari. Il modello di rendiconto, ivi previsto, contempla: (i) le spese per il personale assunto presso i gruppi consiliari (stipendi, oneri previdenziali, missioni, buoni pasto, consulenze; (ii) le spese a carattere strumentale (postali, telefoniche, noleggio dotazioni informatiche, affitto sale); (iii) gli esborsi per materiale informativo (cancelleria, libri, riviste, duplicazione e stampa, logistiche); (iv) spese per “attività promozionali, di rappresentanza, convegni ed attività di aggiornamento”.
Relativamente al comma in esame, la Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza n. 39/2014, ha escluso la lesione delle prerogative regionali in quanto gli invocati parametri costituzionali e statutari, posti a presidio dell’autonomia regionale, “preservano un ambito competenziale rimesso a fonti di autonomia che non risulta in alcun modo leso dall’introdotta tipologia di controlli che sono meramente "esterni” e di natura documentale”.
La Corte giunge a tale conclusione sul fondamentale presupposto, richiamato e ribadito nella giurisprudenza successiva, secondo cui “il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale. A tal fine, il legislatore ha predisposto questa analisi obbligatoria di tipo documentale che, pur non scendendo nel merito dell’utilizzazione delle somme stesse, ne verifica la prova dell’effettivo impiego, senza ledere l’autonomia politica dei gruppi interessati al controllo. Il sindacato della Corte dei conti assume infatti, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.
I successivi co. 10, 11 e 12 recano il procedimento di controllo dei rendiconti da parte della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti e le conseguenze in caso di omessa regolarizzazione. In base al vigente dettato normativo, condizionato dai correttivi apportati dalla più volte richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014[17], il procedimento di controllo dei rendiconti consiliari è avviato dal Presidente del Consiglio regionale, il quale entro sessanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, trasmette il rendiconto di ciascun gruppo alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti perché si pronunci, nel termine di trenta giorni dal ricevimento, sulla regolarità dello stesso con apposita delibera.
A questo punto possono ipotizzarsi tre diversi esiti: i) il rendiconto è dichiarato regolare e la relativa delibera della Corte dei conti è trasmessa al Presidente del Consiglio Regionale che ne cura la pubblicazione; ii) il rendiconto si considera comunque approvato nel caso in cui la Corte dei conti non si pronunci entro l’indicato termine di trenta giorni; iii) il rendiconto o la documentazione trasmessa a corredo dello stesso sono qualificati come non “conformi” alla prescrizioni normative e, pertanto, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti provvede, entro trenta giorni, a trasmettere al Presidente del Consiglio regionale una comunicazione “affinché si provveda alla regolarizzazione”, fissando un termine non superiore a trenta giorni “per i successivi adempimenti da parte del gruppo consiliare interessato” e disponendo, contestualmente, la sospensione del decorso del termine per la pronuncia della Corte dei conti stessa.
Anche in questo caso, in base al vigente dettato normativo, condizionato dai correttivi apportati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014[18], nell’eventualità in cui il gruppo non provveda alla regolarizzazione, sorge in capo allo stesso “l’obbligo di restituzione” delle somme ricevute e non correttamente rendicontate in forza del “principio generale delle norme di contabilità pubblica”. La Corte Costituzionale precisa infatti che il suddetto obbligo “risulta strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari”.
Da ultimo, si evidenzia che in base al co. 12 dell’art. 1 del d.l. 174/2012, come novellato dall’art. 33, co. 2, lett. a) del d.l. 91/2014, le deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti in materia di rendiconti dei gruppi consiliari sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all'art. 243-quater, co. 5, del D.lgs. 267/2000. Successivamente è intervenuto l’art. 11, co. 6, lett. d) del Codice di giustizia contabile che ha confermato l’indicata facoltà di impugnazione innanzi alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione.
3. La disciplina transitoria per l’anno 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 130/2014.
Come sopra illustrato, il legislatore ha subordinato l’operatività del nuovo sistema di verifica delle spese dei gruppi consiliari regionali all’adozione di apposite “linee-guida”, recanti le modalità di strutturazione del rendiconto di esercizio, poi adottate con il richiamato d.P.C.m. 21 dicembre 2012.
La circostanza che l’adozione delle menzionate “linee guida” sia intervenuta solo alla fine del 2012 ha provocato dubbi e criticità in ordine all’applicabilità, o meno, delle nuove regole anche ai rendiconti relativi all’esercizio finanziario del 2012.
Con la deliberazione 5 aprile 2013 n. 12 la Sezione Autonomie della Corte dei conti ha ritenuto applicabili le nuove regole anche ai rendiconti riferiti al 2012, giustificando la scelta in ragione, da un lato, della preesistenza di un obbligo di rendicontazione basato su leggi regionali e, dall’altro lato, dell’assenza di una norma espressa di rinvio dell’operatività delle nuove regole al successivo esercizio.
Tuttavia, a fronte dell’impossibilità di applicare retroattivamente i criteri recati dal menzionato d.P.C.m., la Corte dei conti, con la menzionata deliberazione, ha individuato dei parametri “desunti dalle norme regionali e dai provvedimenti attuativi vigenti nel 2012, integrati però con i contenuti essenziali, cui fa riferimento la nuova disciplina, ossia con l’indicazione delle risorse trasferite al Gruppo dal Consiglio regionale, della corretta rilevazione dei fatti di gestione e della regolare tenuta della contabilità”.
La Sezione Autonomie della Corte dei conti è ulteriormente intervenuta sul tema con la deliberazione 5 luglio 2013, n. 15 con la quale ha sostenuto l’applicabilità di un controllo di tipo “misto” per i rendiconti riferiti al 2012, ipotizzando una “applicazione parziale e frazionata” che prevedeva, da un lato, l’esclusione dell’impianto sanzionatorio e, dall’altro lato, l’applicazione della regola secondo cui le delibere già emesse dalle Sezioni regionali di controllo dovevano essere interpretate secondo gli indirizzi sopra descritti.
Le Regioni Emilia Romagna, Veneto e Piemonte hanno adito la Corte Costituzionale attraverso la proposizione di ricorsi per conflitto di attribuzione avverso le sopra richiamate deliberazioni della Sezione Autonomie e quelle adottate dalle rispettive Sezioni regionali di controllo.
Con la sentenza 130/2014 la Corte Costituzionale si è pronunciata sui ricorsi de quibus rilevando, innanzitutto, che l’impianto normativo, di cui ai co. 9,10, 11 e 12 dell’art. 1 del d.l. 174/2012, condiziona l’esercizio del potere di controllo alla “previa individuazione dei criteri per il suo esercizio e ciò sull’evidente presupposto della loro indispensabilità”. Invero, prosegue ancora la Consulta, “il sindacato della Corte dei conti assume (…) come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza, e deve pertanto ritenersi documentale, non potendo addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”.
Per tali ragioni la Corte Costituzionale ha ritenuto fondati i ricorsi proposti dalle suddette Regioni e, sul presupposto che “non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012”, ha annullato, tra le altre, le suddette deliberazioni adottate dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti.
4. Altre significative pronunce della Corte Costituzionale in tema di rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
Il tema dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali è stato spesso al centro di importanti pronunce della Corte Costituzionale[19]. Non potendo essere questa la sede per una compiuta analisi, di seguito saranno illustrate le questioni e i profili più significativi sui quali si è espressa la Corte Costituzionale.
Un primo e significativo aspetto attiene alla natura e all’inquadramento istituzionale dei gruppi consiliari. Al riguardo, la Consulta ha affermato che “i gruppi consiliari sono organi del consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell’ambito del consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendo suffragi necessari alle elezioni dei consiglieri. Essi pertanto contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, assicurando l’elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica”[20]. La Corte Costituzionale ha poi ulteriormente ricordato che “I gruppi consiliari sono stati qualificati […] come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale (sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio (sentenza n. 1130 del 1988)» (sentenza n. 39 del 2014)”[21].
Su tali presupposto la Corte Costituzionale ha riconosciuto che la “lamentata lesione delle prerogative dei gruppi si risolve dunque in una compressione delle competenze proprie dei consigli regionali e quindi delle Regioni ricorrenti, pertanto legittimate alla proposizione del conflitto”[22].
Un ulteriore e significativo aspetto che è stato ripetutamente messo in rilievo dalla giurisprudenza costituzionale attiene alla rilevanza e all’incidenza dei rendiconti dei gruppi consiliari sul bilancio regionale. Anche di recente la Corte Costituzionale ha avuto modo di ribadire che il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari “costituisce parte necessaria del rendiconto regionale, nella misura in cui le somme da tali gruppi acquisite e quelle restituite devono essere conciliate con le risultanze del bilancio regionale (sentenza n. 39/2014), poiché anche esso costituisce un mero documento di sintesi ex post delle risultanze contabili della gestione finanziaria e patrimoniale dell’ente (sentenza n. 235 del 2015)”[23]. Ne consegue, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, che il suddetto documento “non ha una consistenza finanziario-contabile esterna al bilancio della Regione, ma ne rappresenta una parte integrante e necessariamente coordinata, sia in sede previsionale, sia in sede consuntiva”[24].
Nella maggior parte dei casi la Corte Costituzionale è stata adita attraverso la proposizione di ricorsi per conflitto di attribuzione da parte delle Regioni, aventi ad oggetto le deliberazioni adottate dalla Corte dei conti. In questi casi la Consulta si è soffermata sull’illustrazione degli elementi che devono connotare tale tipologia di ricorsi, precisando che “il tono costituzionale del conflitto sussiste quando le Regioni non lamentino una lesione qualsiasi, ma una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali”[25] e, pertanto, “vanno distinti i casi in cui la lesione derivi da un atto meramente illegittimo (la tutela dal quale è apprestata dalla giurisdizione amministrativa), da quelli in cui l’atto è viziato per contrasto con le norme attributive di competenza costituzionale (mentre non rileva che l’atto possa essere anche oggetto di impugnazione in sede giurisdizionale)”[26]. Su tali presupposti, la Corte Costituzionale ha costantemente dichiarato inammissibili tutte quelle censure con le quali le Regioni “non lamentavano l’invasione della sfera costituzionale delle stesse ma si limitavano a far valere “la mera illegittimità della funzione esercitata, illegittimità da far valere innanzi alla giurisdizione comune”[27].
Quanto alla natura e alla tipologia dei controlli affidati alla Corte dei conti sui rendiconti regionali, la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che “il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari, se, da un lato, non comporta un sindacato di merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, dall’altro, non può non ricomprendere la verifica dell’attinenza delle spese alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi medesimi, secondo il generale principio contabile, costantemente seguito dalla Corte dei conti in sede di verifica della regolarità dei rendiconti, della loro coerenza con le finalità previste dalla legge”[28].
Tra le sentenze più significative in tema di rendiconti dei gruppi consiliari, merita di essere richiamata la pronuncia con la quale la Corte Costituzionale si è espressa sul ricorso, per conflitto di attribuzione, proposto nel 2015 dalla Regione Emilia Romagna. In tale sede, infatti, sono stati forniti importanti chiarimenti riguardo alla portata e ai limiti del raccordo tra la funzione di controllo e quella giurisdizionale intestate alla Corte dei conti.
Il giudizio traeva origine dall’impugnazione: (i) della nota del Presidente della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti di trasmissione alla Procura contabile della deliberazione di irregolarità dei rendiconti dei gruppi consiliari per l’anno 2012; (ii) degli inviti a dedurre e dei susseguenti atti di citazione adottati nei confronti dei capigruppo e di alcuni consiglieri regionali, e (iii) della nota del Procuratore regionale, indirizzata al Presidente del Consiglio regionale e recante l’invito al recupero di somme relative a spese ritenute irregolari[29].
Innanzitutto la Corte Costituzionale rammenta che quanto al raccordo tra la funzione di controllo e quella giurisdizionale vige la regola posta a tutela del rispetto del principio del contraddittorio, enucleata con la fondamentale pronuncia n. 29/1995, secondo cui “è incontestabile che il titolare dell’azione di responsabilità possa promuovere quest’ultima sulla base di una notizia o di un dato acquisito attraverso l’esercizio dei ricordati poteri istruttori inerenti al controllo sulla gestione, poiché, una volta cha abbia avuto comunque conoscenza di un’ipotesi di danno, non può esimersi, ove ne ricorrano tutti i presupposti, dall’attivare l’azione di responsabilità. Ma i rapporti tra attività giurisdizionale e controllo sulla gestione debbono arrestarsi a questo punto, poiché si vanificherebbero illegittimamente gli inviolabili “diritti della difesa”, garantiti a tutti i cittadini in ogni giudizio dall’art. 24 della Costituzione, ove le notizie o i dati acquisiti ai sensi delle disposizioni contestate potessero essere utilizzati anche in sede processuale (acquisizioni che, allo stato, devono avvenire nell’ambito della procedura prevista dall’art. 5 della legge n. 19 del 1994)”.
Ne consegue, pertanto, che il raccordo tra la funzione di controllo – di qualunque natura ̶ e quella giurisdizionale della Corte dei conti, nella forma della segnalazione della notitia damni da parte degli organi deputati all’espletamento della prima, è legittimo a condizione che vengano rispettate le regole del contraddittorio.
Tuttavia, la segnalazione alla Procura e la successiva attività da quest’ultima espletata traevano origine dalle deliberazioni della Sezione regionale di controllo relative all’esercizio finanziario 2012, poi annullate in forza della richiamata sentenza n. 39/2014, con la conseguenza che, ad avviso della Corte Costituzionale, la nota di trasmissione era “funzionalmente collegata” in maniera indissolubile alla deliberazione di controllo e, pertanto, l’annullamento della seconda non poteva che comportare l’automatica caducazione della prima.
La Consulta ha poi respinto le censure regionali riferite agli atti di citazione emessi dalla Procura regionale, in ragione del fatto che l’attività d’indagine della Procura regionale e le sue determinazioni finali si fondavano non già sulla deliberazione annullata dalla sentenza n. 39/2014, ma sulla documentazione contabile autonomamente acquisita presso la Sezione regionale di controllo.
La Corte Costituzionale ha invece accolto la censura regionale riferita alla nota con la quale il Procuratore regionale aveva invitato il Presidente del Consiglio regionale al recupero amministrativo delle somme irregolarmente spese dai gruppi consiliari, sul presupposto che la richiesta di compimento di un’attività di recupero amministrativo esula dalle facoltà della magistratura inquirente; richiesta peraltro formulata in assenza di una pronuncia giurisdizionale di accertamento delle contestate irregolarità.
Da ultimo, si richiama la sentenza della Corte Costituzionale pronunciata sul ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalle Regioni Toscana e Piemonte avverso i decreti, emessi dalle rispettive Sezioni regionali di controllo, recanti l’ordine rivolto ai Presidenti dei gruppi consiliari di provvedere al deposito dei conti giudiziali relativi alla gestione dei contributi pubblici ricevuti[30].
La pronuncia si segnala per aver escluso l’attribuzione della qualifica soggettiva di agente contabile in capo ai presidenti dei gruppi consiliari, giungendo alla medesime conclusioni alle quali erano pervenute, sia pure con argomenti diversi, le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti con la sentenza n. 30/2014.
Sul punto, la Corte Costituzionale ha evidenziato che la figura dei Presidenti dei gruppi consiliari “delineata dagli statuti regionali e dai regolamenti consiliari interni, si caratterizza, (…), per il forte rilievo politico e per l’importanza delle funzioni di rappresentanza, direttive e organizzative ad essi attribuite. Ne consegue che l’attività di gestione amministrativa e contabile dei contributi pubblici assegnati ai gruppi è meramente funzionale all’esercizio della sfera di autonomia istituzionale che ai gruppi consiliari medesimi e ai consiglieri deve essere garantita, affinché siano messi in grado di concorrere all’espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale”.
La Corte conclude affermando che “l’eventuale attività materiale di maneggio del denaro costituisce, quindi, in relazione al complesso ruolo istituzionale del presidente di gruppo consiliare, un aspetto del tutto marginale e non necessario (perché i gruppi consiliari ben potrebbero avvalersi per tale incombenza dello stesso tesoriere regionale), e non ne muta la natura eminentemente politica e rappresentativa della figura, non riducibile a quella dell’agente contabile”.
Ad ogni buon conto, sottolinea ancora la Corte, i capigruppo dei Consigli regionali, anche se sottratti alla giurisdizione di conto, “restano assoggettati alla responsabilità amministrativa e contabile (oltre che penale, ricorrendone i presupposti)”.
5. Considerazioni conclusive.
La conclusione cui perviene la pronuncia in commento - laddove afferma che il controllo esterno sul bilancio regionale (rispetto al quale i rendiconti dei gruppi consiliari ne rappresentano una “parte necessaria”) deve essere attribuito alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in ragione della sua riconducibilità all’interno del perimetro della materia della “contabilità pubblica”, a prescindere dall’interpositio legislatoris - appare pienamente condivisibile alla luce delle riflessioni e degli approfondimenti che hanno interessato, sotto vari profili, la Corte dei conti.
Nel corso del tempo si è sviluppato un intenso dibattito in ordine alla portata dell’art. 103, co. 2, della Costituzione, sulla riserva costituzionale di giurisdizione in favore della Corte dei conti nelle “materie di contabilità pubblica”, che vede contrapposti, da un lato, coloro che affermano la natura immediatamente precettiva del dettato costituzionale, e, dall’altro lato, coloro che sostengono, invece, la natura meramente programmatica della norma con la conseguente necessità di esplicitazione dei contenuti della riserva attraverso la cd. interpositio del legislatore.
Autorevole dottrina ha evidenziato che la disposizione costituzionale è stata considerata, per lungo tempo, come espressione di un principio “tendenzialmente generale” in modo da poter operare immediatamente, con capacità espansiva, solo laddove ricorresse una identità oggettiva di materia, e che le successive riflessioni hanno condotto alla presa d’atto che la materia è sufficientemente individuabile una volta accertata la sussistenza dell’elemento soggettivo, che attiene alla natura pubblica dell’ente, e dell’elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione[31].
Ebbene, a parere di chi scrive, la pronuncia in esame esprime compiutamente il ruolo della Corte dei conti e la sua rilevanza all’interno dell’ordinamento italiano, e rispetta i criteri, che la dottrina qualifica come essenziali ai fini della ricostruzione del concetto di “contabilità pubblica”, rappresentati dalla “ratio storica e oggettiva” della magistratura contabile e dal suo attuale posizionamento “nel sistema dei poteri”[32].
[1] TAR Lombardia, sez. III, n. 598 del 21.3.2019, Id. n. 1509 dell’1.7. 2019.
[2] In dottrina, si v. A. Baldanza, “Le funzioni di controllo della Corte dei conti”, in V. Tenore (a cura di), “La nuova Corte dei conti: Responsabilità, Pensioni, Controlli”, Giuffré, 2019, p.1536 e ss.; M. Salvago, “I nuovi controlli della Corte dei conti sulla gestione finanziaria regionale (art. 1, d.l. n. 174/2012) nei più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale”, in www.federalismi.it, 2015, n. 19; D. Morgante, “I nuovi presidi della finanza regionale e il ruolo della Corte dei nel d.l. n. 174/2012”, in www.federalismi.it, 2013; D. Morgante, “Controlli della Corte dei conti e controlli regionali: autonomia e distinzione nella sentenza della Corte costituzionale n. 60/2013”, in www.federalismi.it, 2013, n. 9.
[3] Nel dettaglio, con la predetta norma il legislatore ha modificato la l.r. n. 3 del 24.6.2013 prevedendo l’inserimento, nel testo dell’art. 24, del nuovo comma 7-bis, che disciplina il descritto regime transitorio.
[4] Pronuncia di orientamento, di natura vincolante ai sensi dell’art. 6, co. 4, del d.l. n. 174/2012, in ordine alla prima applicazione della nuova disciplina sul controllo dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali.
[5] Corte Costituzionale n. 130/2014.
[6] L’art. 1, co. 12, del d.l. 174/2012, prevede che: “Avverso le delibere della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, di cui al presente comma, e' ammessa l'impugnazione alle Sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione, con le forme e i termini di cui all'articolo 243-quater, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”.
[7] L’art. 11, co. 6, del D.lgs. 174/2016, prevede che “6. Le sezioni riunite in speciale composizione, nell'esercizio della propria giurisdizione esclusiva in tema di contabilità pubblica, decidono in unico grado sui giudizi” (…) “d) in materia di rendiconti dei gruppi consiliari dei consigli regionali”.
[8] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015, Id., n. 598 del 21.3.2019 e n. 1509 dell’1.7. 2019.
[9] In dottrina, per un’analisi sulla sentenza della Corte costituzionale n. 39/2014, si v. B. Caravita e E. Jorio, “La Corte costituzionale e l’attività della Corte dei conti (una breve nota sulla sentenze n. 39 e 40 del 2014)”, in Federalismi.it; G. Di Cosimo, “Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (nota a sentenza 39/2014)”, in “Le Regioni” 2014; L. Buffoni e A. Cardone, “I controlli della Corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion?”, in “Le Regioni” 2014; M. Salvago, “I nuovi controlli della Corte dei conti sulla gestione finanziaria regionale (art. 1, d.l. n. 174 del 2012) nei più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale”, in Federalismi.it; F. Guella, “Il carattere “sanzionatorio” dei controlli finanziari di fronte alle prerogative dei Consigli regionali e dei gruppi consiliari: ricadute generali delle questioni sollevate dalle autonomie speciali”, in Osservatorio Costituzionale AIC, Aprile 2014; P. I. D’Andrea, “Commento alla sentenza Corte Cost. n. 39/2014”, in Federalismi.it.; M. Morvillo, “L'ausiliarietà ai tempi della crisi: i controlli della Corte dei conti tra equilibrio di bilancio e autonomia dei controllati”, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 2, 2014, pag. 0933B”.
[10] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015.
[11] TAR Lombardia, sez. III, n. 2505 del 2.12.2015, Id., n. 598 del 21.3.2019 e n. 1509 dell’1.7.2019.
[12] SS.RR. in sede giurisdizionale in speciale composizione della Corte dei conti n. 32/2020/EL.
[13] In dottrina, si v. R. Bocci, “La giurisdizione sull’equilibrio di bilancio in caso di dissesto”, in Diritto & Conti; A. Romano, “I rapporti tra giurisdizione contabile e amministrativa nei giudizi sui piani di riequilibrio finanziario pluriennali”, in ildirittoamministrativo.it;
[14] Cons. Stato, sez. V, n. 8108 del 17.12.2020 che richiama Cass., SS.UU., n. 22645 8.11.2016; Cass., n. 16631 del 2014, “che valorizza la non riconducibilità della fattispecie concreta esaminata alla specifica “previsione di giurisdizione esclusiva” presa a riferimento; Cass., SS.UU., 18 maggio 2017, n. 12496, in cui si afferma sì la giurisdizione “piena ed esclusiva” della Corte dei conti riconoscendole un sindacato “estes[o] a tutti i vizi dell’atto”, ma nel quadro pur sempre d’una espressa attribuzione di legge, in specie ex art. 1, comma 169, l. n. 228 del 2012”.
[15] SS.RR. in sede giurisdizionale in speciale composizione n. 32/2020/EL. In dottrina, si v. R. Bocci, “La giurisdizione sull’equilibrio di bilancio in caso di dissesto”, in “Diritto e Conti – Bilancio, Comunità, Persona”.
[16] Per l’analisi della sentenza della Corte Costituzionale n. 39/2014 si rinvia alla dottrina richiamata alla nota n. 9.
[17] La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei co. 10 e 11 nella parte in cui attribuiscono al Presidente della Giunta regionale l’onere della trasmissione dei rendiconti dei gruppi consiliari alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Sul punto la Corte, richiama i propri precedenti con i quali, da un lato, è stato affermato che il legislatore statale non può individuare l’organo della Regione quale soggetto titolare di determinate funzioni (cfr. punto 6.3.9.4.) e, dall’altro lato, è stato affermato che il legislatore statale ben può legittimamente individuare il Presidente del Consiglio regionale quale organo titolare di funzioni inerenti alla trasmissione del rendiconto di ciascun gruppo alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti (cfr. punto 6.3.9.5.).
[18] La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo periodo del co. 11, il quale prevede che, in caso di riscontrate irregolarità da parte della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, il gruppo consiliare che non provveda alla regolarizzazione del rendiconto entro il termine fissato “decade”, per l’anno in corso (quindi per l’esercizio successivo a quello rendicontato), dal diritto all’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale. La Corte ha evidenziato sul punto che si tratta di “misura repressiva di indiscutibile carattere sanzionatorio che consegue ex lege, senza neppure consentire che la Corte dei conti possa graduare la sanzione stessa in ragione del vizio riscontrato nel rendiconto, né che gli organi controllati possano adottare misure correttive. Ciò non consente di preservare quella necessaria separazione tra funzione di controllo e attività amministrativa degli enti sottoposti al controllo stesso che la giurisprudenza di questa Corte ha posto a fondamento della conformità a Costituzione delle norme istitutive dei controlli attribuiti alla Corte dei conti (tra le tante, sentenza n. 179 del 2007)”.
[19] In dottrina si v. P.L. Tomaiuoli, “La Corte costituzionale e la disciplina dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali”, in www.questionegiustizia.it.
[20] Corte Costituzionale n. 107/2015 che richiama la sentenza n. 187/1990.
[21] Corte Costituzionale n. 107/2015.
[22] Corte Costituzionale n. 107/2015 che richiama le sentenze nn. 252 del 2013, n. 195 del 2007 e n. 163 del 1997.
[23] Corte Costituzionale n. 215/2021.
[24] Corte Costituzionale n. 215/2021 che richiama le sentenze della Corte nn. 235 e 107 del 2015, nonché nn. 130 e n. 39 del 2014.
[25] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 del 2016, 87 del 2015, 263 del 2014, 52 del 2013.
[26] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 del 2016, 87 del 2015 e 137 del 2014.
[27] Corte Costituzionale n. 10 del 2017 che richiama le sentenze nn. 260 e 104 del 2016.
[28] Corte Costituzionale n. 260 del 2016, 104 del 2016, n. 263 del 2014. Più nel dettaglio, con le sentenze n. 260 del 2016, 104 del 2016, la Corte Costituzionale ha precisato che tra i criteri richiamati, l’art. 1 dell’Allegato A al d.P.C.m. 21 dicembre 2012, menziona la «veridicità e correttezza delle spese», specificando che «la veridicità attiene alla corrispondenza tra le poste indicate nel rendiconto e le spese effettivamente sostenute» (comma 2), mentre «la correttezza attiene alla coerenza delle spese sostenute con le finalità previste dalla legge» (comma 3), con l’ulteriore puntualizzazione che «ogni spesa deve essere espressamente riconducibile all’attività istituzionale del gruppo» (comma 3, lettera a)”.
[29] Corte Costituzionale n. 235 del 2015.
[30] Corte Costituzionale n. 107 del 2015.
[31] P. Santoro, “La nozione di contabilità pubblica nella giurisprudenza costituzionale”, relazione illustrata in occasione del Convegno di studi in memoria di S. Zambardi, dal titolo “La Corte dei conti e la contabilità pubblica nella tradizione e nella evoluzione del quadro normativo e giurisprudenziale”, Venezia 03.10.2014.
[32] F. Sucameli, “Contabilità finanziaria, contabilità economica e contabilità analitica come «materia» e come «tecnica». In particolare, il principio della competenza finanziaria potenziata”, in AA.VV., “La Corte dei conti. Responsabilità, Contabilità, Controllo, 2019.
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