Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?
di Marco Mazzamuto
1. La Corte di giustizia UE (21 dicembre 2021, C-497/20) non ha lasciato alcuno spazio al tentativo della Cassazione di aggirare l’orientamento del giudice delle leggi (sentenza n. 6/2018) a proposito dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111 cost.), facendo leva su una presunta contrarietà di tale orientamento al diritto UE.
Si trattava di una particolare sensibilità della Cassazione per l’effettività del diritto UE? Niente affatto. Del resto non è difficile trovare casi nei quali la situazione si presenta capovolta. Si prenda ad es. la questione della doppia qualità di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, ove la Cassazione ha ritenuto di far comunque prevalere il sottosistema dei settori speciali (Cass. s.u. n. 4899/2018), di contro a quanto poteva facilmente ricavarsi dalla giurisprudenza UE (Corte giust. ue 10/4/2008, C-393/06). Invero, i principi UE hanno, per diversi aspetti, una potenzialità di scardinamento di assetti consolidati, sicché non vi è nulla di nuovo nei tentativi della giurisprudenza nazionale di recepire a volte tali vincoli con gradualità o con una qualche resistenza: si tratta cioè di un processo complesso di progressiva interazione tra ordinamenti e bilanciamento di interessi. Si pensi da ultimo alla spinosa faccenda delle concessioni balneari: l’indicazione temporeggiatrice del Consiglio di Stato -che erroneamente viene criticata come una sostituzione del legislatore, trattandosi piuttosto di una modulazione del potere di disapplicazione (similarmente alla modulazione dell’annullamento), dunque di un potere giurisdizionale- è chiaro esempio di un percorso di ragionevole compromesso.
Ma la miglior riprova del fatto che il rinvio al giudice UE nel caso Randstad sia stato strumentalizzato, nel quadro di un più ampio disegno di affermare la supremazia della Cassazione sui giudici speciali, si ha con una immediata riapertura del fronte “interno”, come traspare da un recentissimo convegno (Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?, 11 febbraio 2022, vedi Giustizia insieme), specialmente con riguardo alle relazioni del Presidente Raffaele Frasca, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, ma parlante a titolo personale, e del Prof. Romano Vaccarella, ordinario di diritto processuale civile, già giudice costituzionale ed estensore della famosa sentenza n. 204/2004.
La relazione del Presidente Frasca si è mossa su tre punti: 1) il ridimensionamento del valore della pronuncia n. 6/2018 del giudice delle leggi; 2) l’inconfigurabilità di un conflitto di attribuzioni da parte del Consiglio di Stato; 3) una reinterpretazione del dettato costituzionale.
La premessa maggiore, subito esplicitata, è che sui motivi inerenti alla giurisdizione “l’ultima parola” spetti alla Cassazione e non al giudice costituzionale.
Da qui si ricava la presunta erroneità della pronuncia del 2018 in quanto con il giudizio di irrilevanza per difetto di potestas iudicandi il giudice delle leggi si sarebbe sostituito alle Sezioni unite, mentre, semmai, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della questione rinviandola all’organo competente, cioè alle stesse Sezioni Unite. Si tratta di per sé di pure conseguenze deduttive della premessa maggiore e che stanno o cadono insieme a quest’ultima.
Sin qui il discorso rimane invero assai debole. La limitazione del ricorso alle Sezioni unite per “soli motivi inerenti alla giurisdizione” non è più soltanto una semplice previsione di un codice processuale, sino indietro a risalire all’art. 3 della legge 31 marzo 1877, n. 3761, ma è divenuta anche una previsione costituzionale, come tale rimessa all’interpretazione del giudice delle leggi: è dunque del tutto mal posta l’affermazione che in materia “l’ultima parola” spetti alla Cassazione.
Forse nella consapevolezza di una fragile prospettazione, ecco che allora il discorso si arma anche di una, per così dire, astuzia processuale, indagando se vi sia un altro modo per neutralizzare in concreto il ruolo della Corte costituzionale.
Anzitutto, si afferma che la pronuncia n. 6/2018, trattandosi di una sentenza di inammissibilità, a fortiori, non potrà avere l’effetto vincolante di cui sono già prive le sentenze di rigetto. Ma soprattutto si afferma che, qualora le Sezioni unite dovessero tornare sul proprio orientamento, non vi sarebbe modo per far pervenire la questione di fronte al giudice delle leggi.
Si confessa invero che, subito dopo la pronuncia del 2018, nell’ambiente della Cassazione prevalse la cautela. Si temeva infatti che, con un’impugnazione da parte del Consiglio di Stato, la Corte costituzionale avesse potuto confermare il proprio orientamento, questa volta con effetti vincolanti.
Ma, melius re perpensa, il Presidente Frasca ritiene oggi che tale conflitto non sarebbe ammissibile, poiché riguarderebbe organi appartenenti al medesimo potere, citando altresì una, ritenuta significativa, pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, della Corte Costituzionale: dunque, liberi tutti!
Tale assunto, oltre che esprimere per implicito una scarsa considerazione delle prerogative del giudice delle leggi, che si vorrebbero così aggirare, appare comunque privo di fondamento.
Si insiste sul carattere unico del potere giurisdizionale e, sempre con una qualche consequenziale autoreferenzialità, se ne trova la prova più significativa nel fatto che al “vertice” vi sarebbero le Sezioni unite, dimenticando che i giudici speciali sono giurisdizioni “superiori”, come letteralmente, al di fuori dello stesso art. 111, ci indica il dettato costituzionale: “I giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative” (art. 135 c. 2 cost.).
Ma ciò di cui non ci si avvede è che anche a presupporre una siffatta stringente unità non per questo ne deriverebbe quanto desiderato sul versante dell’inammissibilità del rimedio.
Nella tradizione giuspubblicistica l’impermeabilità di soggetti o poteri ha sempre avuto, ai fini nell’esperibilità dei rimedi, un valore tendenziale, ma non assoluto. Basti ricordare le sofisticate riflessioni di Santi Romano sulla “suità” degli organi costituzionali e amministrativi e sui rapporti giuridici “riflessivi”, tanto che Vittorio Emanuele Orlando non aveva tema di osservare, riguardo in particolare al diritto amministrativo, che “le moderne istituzioni amministrative possono offrire il caso che una determinata norma assicuri e garentisca una certa sfera di libere facoltà ad enti, senza che perciò si possa dire che essi siano subbietti di quel determinato diritto”, il che “stando al rigore dei principii” non sembrerebbe ammissibile, poiché l’organo “non ha una personalità giuridica distinta da quella dello Stato cui serve”. Si tratterebbe quindi di una “particolarità specialissima del diritto amministrativo”, la quale “suppone il caso in cui si concede facoltà ad un organo amministrativo di impugnare in via contenziosa l’atto di un altro organo amministrativo” (si rimanda per tali riferimenti a M. Mazzamuto, Liti tra pubbliche amministrazioni e vicende della giustizia amministrativa nel secolo decimonono, in Dir. proc. amm., 2019, 405 ss.).
Ebbene, discorso non diverso vale per la giurisprudenza costituzionale, che, del resto, nei percorsi continentali, è essenzialmente figlia della giustizia amministrativa, riguardando mutatis mutandis il sindacato su un atto legislativo piuttosto che su un atto amministrativo.
L’assunta unità di un potere, ammesso e non concesso che sia predicabile nei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, non è infatti decisiva. Il vero punto scriminante consiste invece nel fatto che vi sia o meno una prerogativa costituzionale che si riferisca, in ipotesi, anche ad un anfratto interno a questo potere. Se questa condizione ricorre il conflitto è ammissibile anche tra organi di uno stesso potere, e di ciò si ha chiara contezza nella giurisprudenza costituzionale.
Così, nel famoso caso Mancuso, ove si intendeva difendere le prerogative costituzionali del Ministro della Giustizia, la Corte ha ritenuto ammissibile il conflitto, tra gli altri, anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, con riguardo alla proposta dello stesso Presidente del Consiglio di conferimento, a sé medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim (C. cost. ord. 470/1995).
Di particolare significato sono poi le affermazioni di principio sulla tutela delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari rispetto allo stesso organo di appartenenza: “Nell’ambito di istituzioni complesse, articolate e polifunzionali, qual è il Parlamento e quali sono le singole Camere, molteplici sono gli organi che possono configurarsi come poteri a sé stanti, idonei a essere parti nei conflitti di attribuzione. I parlamentari che, come si è detto, sono organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite debbono potersi rivolgere al giudice costituzionale qualora patiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari” (C. cost. ord. N. 17/2019 e i precedenti ivi citati).
Ebbene, mutatis mutandis, non vi è alcun dubbio che il giudice speciale, come giurisdizione superiore, goda di una prerogativa costituzionale, espressamente prevista nell’art. 111 cost., nel senso di non potere essere sottoposto ad un giudizio delle Sezioni unite della Cassazione che vada al di là dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Si tratta già di riferimenti di inequivocabile rilievo sistematico. Resta da prendere in considerazione la pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, che, a ben vedere, non sembra affatto condurre alle conseguenze che ne vorrebbe ricavare chi ne ha fatto evocazione. Nel caso di specie un giudice sollevava un conflitto riguardo ad un’azione di responsabilità erariale di fronte al giudice contabile per i provvedimenti di liquidazione dei compensi dei periti dal primo adottati nell’ambito di un procedimento penale. Il giudice costituzionale dichiarava l’inammissibilità del conflitto, ma con una motivazione significativa (corsivi ns.):
-"la concreta attribuzione della giurisdizione, in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario e non opera automaticamente in base all'art. 103 Cost., richiedendo l'interpositio legislatoris, " (sentenza n. 24 del 1993); così come più in generale “appartiene al legislatore, nel rispetto delle norme costituzionali, la determinazione dell'ampiezza di ciascuna giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile, militare, ecc.) (sentenza n. 641 del 1987)”;
“Il che spiega perché, quando sono in discussione, nei reciproci rapporti fra giurisdizioni, i rispettivi ambiti di competenza, se e in quanto determinati dal legislatore ordinario, il contrasto non assume, di norma, il carattere di conflitto di attribuzione, come confermano gli articoli 111, terzo comma, della Costituzione e 37, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87”
-“la contestata giurisdizione non potrebbe dirsi né attribuita né sottratta alla Corte dei conti da norme costituzionali, dipendendo essa invece dalle determinazioni che la legge abbia fatto in proposito per tener conto di tali esigenze. E questo basta perché si riconosca che l'attuale controversia non presenta le caratteristiche che l'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 richiede, affinché possa instaurarsi un conflitto costituzionale di attribuzioni, rientrante nella competenza di questa Corte”.
E un discorso analogo la Corte sviluppa rispetto alla pretesa lesione dell’indipendenza del giudice:
-“ anche sotto il profilo della previsione dei diversi tipi di responsabilità in cui possono incorrere i giudici, la Costituzione lascia aperto un campo all'esplicazione della discrezionalità del legislatore. Esso porta a riconoscere che, anche sotto questo aspetto, il presente conflitto non attiene alla "delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali".”;
-“le richiamate disposizioni dettate dalla Costituzione a garanzia dell'indipendenza e dell'insindacabilità della funzione giurisdizionale non si oppongono di per sé alla possibilità che la legge preveda casi e forme di responsabilità per atti giudiziari del tipo qui in questione. Ond'è che nemmeno per questa via è possibile ricavare un confine definito dalla Costituzione, che giustifichi la drastica affermazione che alla Corte dei conti è sempre preclusa - si ribadisce: preclusa per ragioni di costituzionalità - la giurisdizione sulla responsabilità dei magistrati per danno erariale”.
In sostanza, gli ambiti delle giurisdizioni usualmente non hanno dei puntuali vincoli costituzionali, ma esigono una interpositio legislatoris, sicché di regola non si può configurare un conflitto di attribuzioni non venendo in gioco la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali. In tali casi, potranno essere attivati i rimedi esistenti sulle questioni di giurisdizione, sino al giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione (cioè l’evocato art. 111 c. 3, ora c. 8, Cost.), nel contesto dei quali potrà semmai porsi in via incidentale un dubbio di costituzionalità sulle previsioni legislative attinenti alla giurisdizione. In questo senso, l’evocato art. 37, c. 2, L. n. 87/53: “Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”.
Ma ciò non può certo valere per il nostro caso: dirimente è che nell’art. 111 c. 8 viene invece in gioco, per usare sempre l’espressione dell’art. 37 cit. c. 1, la “delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”; a ciò può anche aggiungersi che non vi è un rimedio sub-costituzionale avverso le pronunce delle Sezioni Unite.
Questo trova del resto inequivocabile conferma nei precedenti giurisprudenziali, anche del giudice delle leggi. Non da ora si è affermato che la funzione della Cassazione di cui all’art. 111 va considerata “come rimedio costituzionalmente imposto” (così ad es. C. cost. n. 395/2000) ed immediatamente precettivo (ad es., ex multis, Cass. s.u. n. 2077/1994). E ciò vale sia riguardo al ricorso in Cassazione “per violazione di legge” (c. 2, ora c. 7), sia riguardo al ricorso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” (c. 3, ora c. 8): “le leggi ordinarie non possono disporre delle funzioni costituzionalmente riservate alla Corte di cassazione (in base al secondo e terzo comma dell'art. 111)” (già C. cost., n. 86/1982). E se dunque il ricorso alle Sezioni Unite “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione è una funzione “costituzionalmente” fissata, va da sé, trattandosi del rispecchiamento della medesima disposizione, che il Consiglio di Stato o la Conti dei conti godano della medesima prerogativa “costituzionale” nell’essere sottratti ad un ricorso in Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione. Per usare le parole proprio dell’evocata pronuncia n. 385/1996 vi è qui “un confine definito dalla Costituzione”.
In definitiva, sussistono, a nostro avviso, tutti i presupposti perché il Consiglio di Stato (o la Corte dei Conti), più esattamente il suo Presidente (c. cost. n. 302/1995), sollevi un conflitto di fronte al giudice costituzionale avverso una pronuncia della Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione.
Anzi, se il giudice della giurisdizione vorrà insistere, è auspicabile che tale conflitto si sollevi quanto prima, poiché non è certo tollerabile che si continui a rimanere sine die esposti all’incertezza di questa pervicace volontà espansionistica della Cassazione (o, si spera, solo di una parte di essa). E senza dimenticare che il passato ci offre un rimedio ancor più radicale, quando, nel 1965, la Corte dei conti arrivò ad affermare che “non può riconoscersi effetto” alla pronuncia delle Sezioni unite su un regolamento preventivo di giurisdizione, sin lì non ammesso nei confronti dei giudici speciali, come se tale pronuncia fosse emessa in carenza di potere, dunque nulla o inesistente (si rimanda a M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677).
Va inoltre menzionato, ma solo per completezza, l’implicito tentativo di delegittimazione soggettiva della pronuncia del 2018 messa in campo, e non solo in questa occasione, dal Prof. Vaccarella, e ciò perché il collegio era in composizione ridotta (12) e soprattutto perché le funzioni di redattore vennero attribuite ad un componente che proveniva dalla giurisdizione amministrativa. Potrebbe dirsi, specularmente, lo stesso per il redattore, questa volta proveniente dalla giurisdizione ordinaria, della pronuncia che ha condotto alla dichiarazione di incostituzionalità del d.lgs.vo n. 80/98 con riguardo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma evidentemente si usano due pesi e due misure. Comunque non intendiamo aggiungere altro, poiché siamo su un terreno di pure suggestioni.
Se poi vogliono mettersi in gioco dei conflitti d’interesse nell’assetto istituzionale dell’ordinamento, ebbene il primo conflitto di interessi, come già evidenziava, Ludovico Mortara, sta proprio nelle Sezioni unite della Cassazione, cioè di un giudice della giurisdizione che è parte in causa. Ben altro, sarebbe il discorso se tale organo avesse una composizione mista del tipo francese, soluzione questa più naturale, come ancora auspicava lo stesso Ludovico Mortara, in un ordinamento informato al pluralismo giurisdizionale (per questi riferimenti, M. Mazzamuto, Il tramonto dottrinario del mito della giurisdizione unica alla luce dell’esperienza tra Orlando e Mortara, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019).
Se per suscitare la sensibilità del Prof. Vaccarella, in un collegio, quello costituzionale, a composizione mista, è sufficiente che vi sia un redattore proveniente dalla giurisprudenza amministrativa per una questione di giurisdizione, figuriamoci allora, da parte nostra, se non vi sarebbe ben a fortiori ragione di lagnarsi del dover continuare ad assistere, da quasi un secolo e mezzo, a decisioni di un giudice della giurisdizione interamente composto da giudici ordinari.
2. Non da ora, anche da una parte della dottrina, si prospetta una reinterpretazione della costituzione nel segno di una visione unitaria della giurisdizione, finendo con ciò inevitabilmente per investire il crocevia sistematico delle funzioni delle Sezioni Unite: l’obiettivo è evidente, fare delle Sezioni unite, in qualche misura, un giudice di legittimità di terzo grado nei confronti dei giudici speciali, promuovendo la Cassazione ad “unica” Corte Suprema.
Il Presidente Frasca si produce in un’esegesi dell’art. 111 nel confronto con codici processuali, invece che con una tradizionale ordinamentale che risale alla legge 31 marzo 1877, n. 3761, per concludere che per motivi di giurisdizione debba intendersi violazioni di legge, sebbene in un ambito più ristretto, quello della violazione delle sole leggi sostanziali e non di quelle processuali. Rievoca il noto argomento della presunta grave incongruenza di un ricorso per violazione di legge sempre possibile per un diritto soggettivo, ma non per un diritto soggettivo rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nonché la preoccupazione espressa da Franco Bile nel 1998 della formazione di una doppia nomofilachia negli istituti di diritto comune. Infine il Prof. Vaccarella ripropone una versione ancor più larga, sicché nei motivi di giurisdizione rientrerebbero anche i vizi processuali.
Non è possibile affrontare qui funditus l’argomento. Ci limitiamo ad osservare che questi orientamenti ci sembrano affetti da un semplificante spirito geometrico non sostenuto da un’adeguata consapevolezza della complessità storica e sistematica della materia, indugiando soltanto su una premessa maggiore apodittica, e cioè che esista un solo modello di giurisdizione, quello loro, della giurisdizione ordinaria, che si pretende di assumere anche a modello costituzionale, e su cavillosi tentativi di interpretazioni esegetiche.
Sembra anzitutto che si ignori l’esistenza del diritto pubblico e del suo giudice. Il giudice amministrativo ha la sua ragione d’essere nel diritto pubblico e dunque poco si comprenderebbe perché mai un giudice che si occupa di tutt’altro, che è ambientato in un altro sistema, quello privatistico, dovrebbe operare in un terreno a lui estraneo. E’ questo il senso principale della scelta costituzionale: il mantenimento del diritto amministrativo e del suo giudice, nella consapevolezza che solo quest’ultimo è in grado di applicare i principi del primo, non certo un giudice informato a tutti altri principi. Si comprende così perfettamente, sul piano sistematico, perché le Sezioni unite possano al più atteggiarsi a giudici della giurisdizione, ma non certo a giudici di terzo grado delle giurisdizioni, appunto “superiori”, speciali.
Senza contare della vera ragione di fondo del dualismo: cioè il maggior garantismo del diritto pubblico per il cittadino. Un inquinamento privatistico del diritto e della giustizia amministrativi porterebbe infatti ad una verticale caduta della tutela, come è avvenuto nel pubblico impiego, essendo il vincolo della legalità privatistica, proprio perché rispettosa dell’autonomia privata, ben più flebile del vincolo del regime pubblicistico.
Quando dunque si parla delle posizioni soggettive, magari per evocare un principio di eguaglianza nella nomofilachia, non lo si può fare con una trasversale indifferenza rispetto al sistema nel quale una posizione soggettiva va a collocarsi, cioè in un rapporto di diritto pubblico o in un rapporto di diritto privato. Si prenda ad es. un diritto di proprietà, lo si chiami come si preferisce (diritto soggettivo o altro), ciò che veramente dovrebbe contare ai fini del riparto (e della nomofilachia) è se tale diritto si confronta con altre posizioni giuridiche nell’ambito di rapporti privatistici o nell’ambito di rapporti pubblicistici.
Vero è piuttosto che l’enfatizzazione delle posizioni soggettive ai fini del riparto è stato e continua ad essere fonte di grandi confusioni. Quando si parla di diritti soggettivi in opposizione agli interessi legittimi a cosa ci si riferisce, a diritti soggettivi di diritto privato o a diritti soggettivi di diritto pubblico? Se si guarda a come si è inizialmente formato il sistema non certo ai primi, essendo scontata la giurisdizione del giudice ordinario nei rapporti iure privatorum, bensì ai secondi poiché il problema era quello di dividere le controversie di diritto pubblico tra giudice ordinario e IV Sezione per evitare il conflitto tra giudicati. Ma sappiamo altresì che i diritti soggettivi di diritto pubblico rimasero più che altro sulla carta, grazie alla teoria della degradazione, che finì, sotto altra veste, per perpetuare la tradizionale distinzione tra di atti d’impero (latamente intesi) e atti di gestione, che, a sua volta, aveva assunto il significato di riprodurre la distinzione tra atti di diritto pubblico e atti di diritto privato.
Ed è proprio quest’ultimo, così come in tutti i sistemi dualistici, il vero punto meritevole di attenzione, unitamente alle dinamiche che possono determinarsi nei mutamenti di qualificazione. Significativo è l’esempio della giurisdizione esclusiva, tutta carica delle ambiguità dell’enfatizzazione delle posizioni soggettive. Se già, nel riparto ordinario, i diritti soggettivi di diritto pubblico erano assorbiti negli interessi legittimi con la teoria della degradazione, cosa mai si sarebbe dovuto guadagnare in più con la giurisdizione esclusiva, come giurisdizione anche sui diritti soggettivi (di diritto pubblico)? L’utilità pratica si poté in realtà apprezzare perché la norma processuale sul riparto divenne occasione per una riqualificazione pubblicistica, sul piano sostanziale, di parti dei rapporti che sin lì erano di qualificazione privatistica o di incerta qualificazione. E’ proprio per questo che si inventarono gli atti “amministrativi” paritetici, dove l’aspetto più importante stava nel qualificarli come “amministrativi”, mentre il carattere paritetico rispondeva soltanto all’esigenza di evitare che nel passaggio di regime vi fosse un peggioramento nella sottoposizione ai termini decadenziali. La verità è che le materie di giurisdizione esclusiva non erano tanto segnate dall’incertezza tra diritti soggettivi di diritto pubblico e interessi legittimi, bensì da zone grigie tra diritto pubblico e diritto privato.
Si sarebbe il giudice amministrativo così appropriato di istituti di diritto comune? Certamente sì. Ma, così come aveva già ben chiaro Vittorio Emanuele Orlando, gli istituti di diritto comune sono imputabili al sistema privatistico soltanto in senso storico, poiché è lì che avrebbero avuto la loro prima formazione, non invece che essi siano ontologicamente privatistici, bensì appunto comuni senza ulteriori aggettivazioni. E ciò significa altresì che ogni istituto di diritto comune vive e si caratterizza, modulandosi, in relazione al sistema nel quale si inserisce: anche qui non è praticabile una trasversalità indifferente dell’istituto nel passaggio da un sistema all’altro ed è così del tutto naturale che per i cd. istituti di diritto comune si formino delle nomofilachie autonome, secondo ciascun sistema.
Ciò tuttavia presuppone che l’assetto delle qualificazioni, affinché una fattispecie o un istituto si ambienti in questo o in altro sistema, sia sempre messo o rimesso in ordine, poiché è attraverso questa passaggio che si separano pianamente le sorti delle diverse nomofilachie. Ed è proprio quello che è tradizionalmente avvenuto nella giurisdizione esclusiva con un’espansione delle qualificazioni pubblicistiche.
Quando invece non si procede ad un siffatto riassetto il problema del concorso nella nomofiliachia riemerge inevitabilmente. È quello che sta avvenendo in questi anni con la responsabilità per i danni derivanti da rapporti di diritto pubblico. Vi è un’ontologia privatistica dell’istituto? Niente affatto, come dimostra il caso francese. Se dunque l’ordinamento ha assegnato tale rimedio al giudice amministrativo occorre, come si è più volte suggerito, che, in parte qua, l’istituto comune della responsabilità si ambienti pienamente nel sistema giuspubblicistico e assuma le vesti di una responsabilità di diritto pubblico. Incomprensibilmente invece la giurisprudenza amministrativa, in luogo di separare i forni, continua a configurare il rimedio risarcitorio, rimesso alle sue cure, in termini privatistici, lasciando in campo un disallineamento sistematico ed una inevitabile concorrenza nomofilattica con la Cassazione.
3. Un’ultima questione riguarda la possibilità per le Sezioni unite di sindacare la qualificazione, come interesse di fatto o come interesse giuridicamente rilevante, effettuata dal Consiglio di Stato.
Due cari Colleghi amministrativisti, la Prof. ssa Maria Alessandra Sandulli e il Prof. Fabio Francario, sempre nel contesto del citato convegno, insistono sull’idea che ciò sia possibile, osservando, rispetto al caso Randstad, che il Consiglio di Stato si sarebbe sostituito al legislatore (qui quello UE) e la relativa pronuncia si sarebbe sostanziata in un diniego di giurisdizione. Se ne trae così la conclusione che male avrebbe fatto la Cassazione ad effettuare il rinvio al giudice UE, avendo potuto invece pacificamente decidere da sé la questione, perché appunto traducentesi in un diniego di giurisdizione.
Il Presidente Frasca invece parla al riguardo di error in iudicando, dunque non sindacabile dalle Sezioni unite, se non appunto accedendo alla (da Egli) auspicata dilatazione del significato dei motivi inerenti alla giurisdizione, intesi come anche comprensivi della violazione di leggi sostanziali.
Da parte nostra si condivide pienamente l’idea che si tratti di error in iudicando, poiché attinente al merito, così come del resto già sostenuto dall’antica dottrina (così ad es, Federico Cammeo: v. M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.) e così come del resto si ricava da ciò che fa normalmente la giurisprudenza civile quando, anche nel caso che ricorra invero un interesse di fatto, rigetta un’azione perché il diritto vantato non sussiste, pronunciandosi cioè sul merito e non dichiarando il difetto di giurisdizione. Ovviamente noi ne facciamo derivare una conseguenza opposta, rispetto a quella desiderata dal Presidente Frasca, e cioè che siffatte questioni dovrebbero considerarsi estranee alle questioni di giurisdizione.
Vero è tuttavia che una qualche tendenza a valutare la questione dell’interesse come questione di giurisdizione era già emersa negli anni settanta del secolo scorso nella giurisprudenza delle Sezioni unite, sino a culminare nel famoso caso di Italia nostra, nel quale, per la prima volta, il Consiglio di Stato riconobbe il locus standi ad un titolare di interessi diffusi, salvo poi dover subire la censura della Cassazione che annullò la pronuncia per “difetto assoluto di giurisdizione” (Cass. S.U., 8.5.1978, n. 2207). Veemente, contro siffatto orientamento, fu in quegli anni la reazione di Vincenzo Caianiello di cui si caldeggia la lettura (Id., Il cosiddetto limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Giur. it., 1977, IV, 23; v. anche M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.).
Non si può al riguardo che confermare anche la nostra piena contrarietà. Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica: basti ricordare che Laferrière nel suo famoso trattato di giustizia amministrativa riteneva sufficiente anche un semplice interesse morale. Si sono già costruiti nel XIX sec., quando la giustizia graziosa assunse la formale veste giurisdizionale, tanti artifizi, come ad es. gli interessi occasionalmente protetti, per giustificare il perpetrarsi di questa tradizione. Ma si tratta appunto di artifizi: invero non vi è mai stata in ciò alcuna base normativa, bensì si trattava e continua a trattarsi, senza mai addivenire ad un’azione popolare, di una largheggiante selezione equitativa degli interessi da parte del giudice pretore.
Non bisogna lasciarsi traviare dal fatto che nel caso Randstad sia accaduto il contrario di quanto era avvenuto nel caso Italia nostra. Ciò è dovuto soltanto al fatto che in questi anni il giudice amministrativo è stato violentemente additato, specie nel settore degli appalti pubblici, come un impaccio all’azione pubblica e allo sviluppo economico, ed è stato costretto, tradendo in parte (e si spera temporaneamente) la sua tradizione, ad usare la leva della legittimazione per ridurre il contenzioso.
Se sul piano sistematico si volesse legare il giudice pretore ad espresse qualificazioni normative degli interessi giuridicamente rilevanti o lo si volesse al riguardo sottoporre ad uno stringente controllo della Cassazione, più legata ad un giuspositivismo legislativo e ad una tradizione, quella privatistica, caratterizzata da un catalogo più ristretto degli interessi giuridicamente rilevanti, si porrebbero le condizioni per una caduta verticale della tutela.
E la nostra Costituzione ha certo confermato il giudice amministrativo, volendo consapevolmente salvare, anche per tale aspetto, una gloriosa tradizione di protezione dei cittadini di fronte ai pubblici poteri.