ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Paesaggio, ambiente, territorio: il binomio tutela-fruizione dopo la riforma costituzionale*
di Giancarlo Montedoro
Sommario: 1. Un po’ di storia – 2. La Costituzione nel suo testo originario e la riforma del Titolo V - 3. L’attuazione costituzionale fra speculazione e ricomposizione - 4. La recente riforma della Costituzione in materia di ambiente: alcune domande scomode.
1. Un po’ di storia
La vita è metamorfosi.
Ogni nascita – ci dice E. Coccia il sociologo italo francese nel libro Metamorfosi – è un nuovo cheemerge (nell’oblio di ciò che è stato nel ventre materno) ma è anche un futuro che si perde in un passato senza limiti.
Ogni conservazione è giudizio sulla fruizione (incompatibile con essa).
Ogni fruizione (compatibile con la conservazione) ha dentro di sé il problema del limite dato dall’eredità materiale ed identitaria su cui agisce.
Ogni sentimento del passato è apertura al futuro. Ogni futuro – fatto in un certo modo e non in altro - è reso possibile (e condizionato) da ciò che eravamo prima della sua apparizione.
Nascere non è altro che questo l’impossibilità di essere al di fuori di un rapporto di continuità fra ilnostro io e l’io degli altri, tra la vita umana e quella non umana, tra la vita umana e la materia del cosmo.
Sono lieto di essere qui a Capri a celebrare un anniversario importante.
Il primo convegno dedicato al paesaggio in Italia si tenne a Capri il 9- 10 luglio del 1922 organizzato dal Sindaco di Capri Edwin Cerio e con il sostegno di due numi tutelari come Giovanni Rosadi, allora Sottosegretario alle belle arti e Luigi Parpagliolo (nonno della cantante GiovannaMarini), vero e proprio pioniere del diritto del paesaggio in Italia, allora vice direttore generale alle belle arti.
A Capri da sempre trionfa la bellezza. Quindi mi sento confortato.
Nel congresso del 1922 fu presentato un ordine del giorno da Filippo Cifariello, Luigi Parpagliolo e Filippo Tommaso Marinetti, intellettuale e poeta futurista.
Si voleva coniugare la bellezza (la sua tutela) con il presentismo e con futurismo attraverso lo “stile pratico” in grado di tenere insieme l’essenza del profilo insediativo nella natura con le esigenze della vita moderna.
Siamo ancora – mutatis mutandis – allo stesso punto.
Conviene riportare quell’ordine del giorno (tratto dal bel libro di Paolo Passaniti Il diritto cangiante. Il lungo Novecento giuridico del paesaggio italiano, Milano 2019 pag. 56 nota 104 ) : “ Il Convegno deplorando le continue deturpazioni commesse a danno del paesaggio italiano esprime il voto che , in relazione alla legge per la tutela delle bellezze naturali ed in ossequio ai criteri informativi della Leggecomunale e provinciale ed ai recenti responsi della giurisprudenza, i regolamenti edilizi ed i piani regolatori, riconoscendo i bisogni della vita moderna ed adoperando nuovi materiali e metodi di costruzione, debbano rispettare l’ambiente ed intonarsi al paesaggio locale.”
Conservazione e trasformazione sono declinate insieme in questa prospettiva, conciliata e conciliante.
Lo stesso paesaggio è prodotto della cultura, di una cultura agraria che ha agito per secoli sul territorio, essendo evidente che in Italia non abbiamo i grandi spazi di natura incontaminata chesono presenti nel nuovo mondo ( in Canada e negli Stati Uniti ) dando vita alla tutela dei parchi naturalicome luoghi di wilderness di ecologia profonda, integrale, di recupero di una dimensione di rapporto con la natura che – come insegna Rousseau l’uomo moderno ha del tutto perduto a favore della propriadimensione sociale – artificiale ( frutto di infelicità connotata come è dalla logica proprietaria ) .
Conviene – prima di definire gli oggetti della tutela e della fruizione – fare, sinteticamente, un po’ di storia in ciò aiutati dal citato libro di Passaniti.
L’Italia all’origine è Italia dei Comuni.
Basta guardare un centro storico medioevale per vederne l’armonia architettonica.
Si tratta di una concezione dell’urbe, ispirata ad un’idea di coralità, frutto della dominanza della concezione etica e religiosa del cristianesimo medievale.
Una piazza, una cattedrale, più chiese (se ci sono più confraternite), un’idea di comunità calda che si riflette nella concezione dell’abitare improntata ad una pianificazione spontanea e vivente nella quale ogni elemento si collega ad un altro.
Non emerge, a questa altezza della storia, alcuna esigenza di tutela del paesaggio poiché il territorio circostante è fuori dalle mura cittadine concepito come ambiente ingrato ed ostile o come ambiente asservito, mentre all’interno della cinta urbana regna l’ordine al quale si aspira (per salvarsi dalla selva oscura).
L’idea di tutelare il paesaggio nasce con il terribile diritto (Rodotà), ossia dalla tutela ottocentesca della proprietà liberale svincolata dall’insieme che la contiene, proprietà intesa (alla Locke) come frutto del lavoro dell’uomo e dell’individualismo e della divisione del lavoro o (alla Rousseau ; il Rousseau del Secondo discorso sull’origine ed i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini) come frutto di un’ambizione divorante che ha in sé una capacità distruttiva e che costituisce la radice dell’infelicità dei moderni.
Infatti è allora che si verifica un divorzio fra il diritto di trasformare (legato alla proprietà come diritto soggettivo assoluto ed incondizionato) e la natura che viene assoggettata violentemente al disordine (vitale) dell’industrialesimo.
Per lungo tempo domina la questione della fuoriuscita dal medioevo.
Si liquidano gli usi civici – interminabile partita che conosce una revisione nei tempi di oggi con idomini collettivi (legge 20 novembre 2017 n. 168) – e si approva alla fine di un lungo percorso diliberazione della proprietà individua la legge del 16 giugno 1927 n. 1766. Ordine liberale, produzione statuale del diritto, paesaggio agrario moderno, città da modernizzare, imprese manifatturiere agliesordi sono i processi che connotano la nascita dello Stato italiano nel corso dell’Ottocento e impediscono di tematizzare la questione della tutela del paesaggio che va emergendo nella sensibilità grande-borghese solo con l’emergere della coscienza dell’esistenza di una questione sociale ( v’è unastoria parallela della legislazione sociale e della legislazione paesaggistico ambientale che non vatrascurata: essa è parte della lettura critica del capitalismo, vicenda che connota tutta la storia dell’uomo occidentale ).
I primi problemi sono dati dalle bonifiche delle paludi e dalla lotta al degrado igienico sanitario delle grandi città formatesi per effetto della concentrazione delle attività industriali.
L’accrescimento delle città, delle officine, delle strade, delle ferrovie e delle innovazioni agricole cominciano a trasformare lo scenario italiano e fanno emergere una sensibilità per i modelli europei.
La natura si rivela nella sua bellezza, come spettacolo, estetico-romantico e come speranza per un domani legato ad una vita più conciliata.
Sono chiare le radici culturali della tutela del Paesaggio.
La critica del giudizio di I. Kant in primo luogo, il testo nel quale egli tenta la conciliazione di necessità elibertà (di mondo della natura e mondo morale): conciliazione che egli trova nel bello.
Dice Kant: «Sebbene vi sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura o ilsensibile, e il dominio del concetto della libertà o il soprasensibile, in modo che nessun passaggio siapossibile dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione) quasi fossero due mondi tantodiversi che l'uno non potesse avere alcun influsso sull'altro... tuttavia il secondo [il mondo della libertà]deve avere un influsso sul primo [il mondo della necessità], cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo [il fine] posto mediante le sue leggi e la natura deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi che costituiscono la sua forma possa accordarsi con la possibilità degli scopi che in esse debbono essere effettuati secondo leggi della libertà».
Nel giudizio estetico si conciliano mondo naturale e mondo morale.
In questo senso per l’uomo occidentale la bellezza è sempre la via alla vita morale.
Il giudizio estetico che è soggettivo (occorre ricordarsene quando si pretende di sindacare con consulenze i giudizi dei Sovrintendenti) lo è poiché si basa sul sentimento del bello:
Permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioè verso l’osservatore, il soggetto.
Il culmine del sentimento del bello – da esso distinto – perché consistente nella sua vertigine (cara aStendhal) è il sublime (Stendhal racconta così il Grand Tour: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da SantaCroce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»).
Ancora Kant: «Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso didepressione delle nostre energie vitali. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Il sublime è una bellezza che fa perdere i sensi e poi li rafforza.
Anche in Hegel troviamo radici ideologiche della giurisprudenza e della legislazione a tutela del paesaggio e dei beni culturali.
Nei lineamenti della Filosofia del diritto (1821) si trova la seguente frase: “I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, vale a dire più propriamente, come avviene delleopere d’arte quando sono utilizzate, così anche i monumenti pubblici, finché sono abitati dall’animadella memoria e dell’onore, hanno il valore di fini viventi ed autonomi. Una volta abbandonati da quest’anima essi divengono… possessi privati adespoti ed accidentali, come ad es. le opere d’arte greche in Turchia”.
Altro fondamentale passaggio ( ricordato da Settis ) per la nascita della sensibilità borghese di tutela del bello è Ruskin ( ricorda Passaniti anche il Ruskin del libro del 1862 Cominciando dagli ultimi Unto this Last, è un libro composto da quattro saggi di argomento economico precedentemente pubblicatisu una rivista ; in questo libro Ruskin critica la visione della natura umana tipica degli economisti, che riduce ogni movente all'avarizia, sostenendo che in realtà la volontà è piuttosto mossa dagli affetti ).
Tra le frasi di Ruskin che hanno fatto la storia della tutela del paesaggio v’è quella ricordata da Robert deLa Sizeranne in Ruskin et la religion de la beauté (1867): “il paesaggio è il volto amato della Patria.”
Il ritorno alla natura e la tutela dei monumenti come memoria appaiono legati nella costruzione di un’identità nazionale.
Il ritorno alla natura è poi antidoto agli eccessi della società industriale.
Cultura, natura intrisa di bellezza, tutela della salute ed uso corretto del territorio sono le matrici da cuisi diparte il più appassionante capitolo della storia del diritto amministrativo europeo.
In Italia l’esordio è tenuto a battesimo dal Consiglio di Stato. Si tratta della storia della pineta di Ravenna.
Una storia fondativa – come quella del convegno di Capri – ma anteriore, essa va ricordata. E’ storialegata al nome di Luigi Rava, ministro dell’Agricoltura nel 1905 promotore della legge di salvataggio della pineta di Ravenna 16 luglio 1905 n. 411.
Tutelata e conservata come argine all’aria malsana delle paludi che circondavano la città (infestata ancor oggi da zanzare notevoli) la pineta fu fino al 1836 di proprietà di corporazioni religiose.
Venne poi concessa in enfiteusi perpetua alle Canoniche Lateranensi di San Pietro in Vincoli e di San Lorenzo fuori le mura di Roma.
Il 4 settembre 1906 fu venduta ad un privato. Il Governo italiano impugnò la vendita la causa fu transatta ed il bene trasferito al Comune di Ravenna.
L’amministrazione comunale non si preoccupò affatto della salute della pineta ma iniziò una serie di atti di alienazione che misero a rischio i vincoli forestali con progetti di disboscamento.
Intervenne il Consiglio di Stato con la storica sentenza 22 dicembre 1881 che mantenne il vincolo forestale e respinse le ragioni dell’amministrazione comunale.
Rava con la legge del 1905 dichiarò inalienabili i relitti marittimi posti nella Provincia di Ravenna,pervenuti al demanio dello Stato in forza dell’atto di transazione 30 giungo 1904 fra il demanio e le signore Pergami Belluzzi.
Stabilì un vincolo di destinazione finalizzato al rimboschimento. Una leggeprovvedimento diremmo oggi, ma quanto coraggiosa.
La legge contiene un riferimento ad un concreto contratto e i cognomi delle parti.
La pineta era stata tutelata dai Brevi di Papa Sisto V del 1588 e del 1590 e dall’editto del delegatoapostolico Cesare Nembrini Pironi del 1816 che tutelava la pineta “per la salubrità dell’aria che conserva nel suolo ravennate.”
La pubblica igiene come matrice della legislazione di protezione paesaggistica.
Il diritto alla salute è un grande motore di queste vicende ci dice la storia, alla fine però la pineta viene conservata anche per la sua insigne bellezza dice uno dei giuristi ambientalisti dell’epoca il Falcone.
Altra figura chiave della storia della tutela è Giovanni Rosadi al quale si deve la legge 20 giugno 1909 n. 364 riguardante le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paleontologico o artistico.
Una legge che lasciava scoperte le bellezze naturali, specie quelle che non fossero connesse con la storia della cultura.
Si trattava di un passaggio difficile per la costituzione economica dello Stato liberale. Mariano d’Ameliosostenne che la legge del 1909 fosse applicabile a ville, giardini e parchi ove di interesse culturale o anche contemplati da citazioni letterarie.
Ma erano fuori le bellezze spontanee delle contrade, pur quando davano luogo a quadri di grande – vertiginosa - bellezza.
Il vuoto di tutela venne colmato dalla legge Croce (legge 11 giugno 1922 n. 778) in tema di tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico.
Cambiava la prospettiva.
Sempre si menzionavano anche gli interessi culturali ma il paesaggio veniva fatto oggetto di una considerazione autonoma.
Alla legge lavorò una Commissione presieduta da Giovanni Rosadi di cui faceva parte Luigi Parpagliolo.
Nasce il vincolo come dichiarazione di interesse pubblico e la tutela si declinanell’autorizzazione alla trasformazione.
La legge – disse U. Ojetti – “sembra più un sospiro che una minaccia” (per l’assenza di vere sanzioni) ma fu un salto in avanti enorme nel tutelare la bellezza come eccezione alla logica proprietaria ed industriale.
Nel frattempo nasceva – all’ombra delle fanciulle in fiore - il turismo grande borghese e si individuavauna ragione economica alla tutela della bellezza naturale (occorre pensare che Benedetto Croce non fosse per nulla insensibile alle ragioni dell’industria turistica).
Poi abbiamo la legge Bottai n. 1497 del 1939 (e la gemella legge n. 1089 del 1039 di Tutela delle cose di interesse artistico e storico).
Sono complesse le ragioni di continuità –discontinuità fra i due corpi normativi.
I quadri di insieme sono il fulcro della nuova disciplina che aveva avuto il suo antecedente nella volontà del regime di bloccare la speculazione edilizia ad Ischia.
La legge Croce era giudicata provvida ma insufficiente, specie nel tutelare le bellezze di insieme (i c.d. quadri naturali). L’obiettivo – enunciato nel convegno dei soprintendenti alla presenza del Duce – era “il nostro Paese è il più bello del mondo, tale deve rimanere ad ogni costo” (Passaniti op. ult. cit. pag. 70 ).
Ancora orgoglio nazionale e tutela dei beni culturali legati insieme nella politica del regime certo anche a fini propagandistici ma con senso di innovazione istituzionale che si è rivelato non caduco.
Il diritto di proprietà è subordinato all’interesse pubblico e un grande interesse pubblico è quello di mantenere il volto dell’Italia.
Nasce il concetto di bellezza d’insieme ma esso non è disgiunto dalla considerazione delle ragioni dello sviluppo turistico (allora evidente nella disciplina delle stazioni di cura, soggiorno e turismo).
Il paesaggio si autonomizza dalla tutela dei beni culturali (pur essendo anche esso spesso il frutto dell’opera dell’uomo) ma non si separa da detta tutela.
Diritto politica ed urbanistica si legano insieme e si delineano – sul piano ideativo - sin da allora i pianipaesistici come strumento per la gestione dinamica delle bellezze di insieme. Gestione dinamica aperta alle esigenze del mondo produttivo.
I beni paesaggistici singoli oggetto di tutela conservativa, le bellezze di insieme di tutela dinamica, consegnata al piano paesistico (di competenza ministeriale).
Concezioni olistiche dell’uso del territorio, non certo casualmente nascono in un’atmosfera totalitaria, producendo tuttavia anche un effetto di modernizzazione economica ed istituzionale.
Leonardo Severi, poi Presidente del Consiglio di Stato nel 1951, “uomo di Giovanni Gentile” (così nel profilo biografico contenuto nel volume i Presidenti del Consiglio di Stato), insieme a Gustavo Giovannoni, collaborò alla redazione delle riforme di Bottai.
Basta rileggere il suo discorso di insediamento come Presidente del Consiglio di Stato per coglierne lo spirito di servizio e la indipendenza di giudizio e la concezione moderna dell’amministrazione (in vista dell’attuazione della riforma regionale).
Certamente nasce allora la premessa della scissione non ricomposta che attraverserà anche la storia della Repubblica democratica, quella fra tutela paesaggistica (alta) e disciplina urbanistica (bassa) che cercasempre strumenti di raccordo e ricomposizione senza trovarli, come due amanti separati da una guerra(quella fra mondo estetico e mondo economico).
2. La Costituzione nel suo testo originario e la riforma del Titolo V
Dopo le leggi Bottai abbiamo l’art. 9 della Costituzione.
Va ricordato, alla luce del dibattito all’Assemblea Costituente, che l’art. 9 Cost. fu introdotto come contrappeso ai pericoli di una gestione localistica del territorio.
In particolare il promotore della norma fu Concetto Marchesi, il testo finale fu il frutto di una mediazione con gli autonomisti.
In particolare con Lussu, autore dell’emendamento approvato in Assemblea il 30 aprile del 1947.
I problemi discussi furono l’oggetto della tutela, la sua estensione territoriale, i suoi effetti sulla proprietà (tema classico ottocentesco) le funzioni dello Stato rispetto alle regioni.
L’idea costituente si sviluppò passando dal riferimento ai monumenti, a quello al patrimonio storico artistico ed al paesaggio.
Si discusse se fare riferimento al territorio (a qualsiasi parte del territorio della Repubblica) ed ai privati(a chiunque appartengano) fin alla dizione che dava per implicita l’estensione territoriale e giuridica della protezione, indifferente al regime proprietario pubblico o privato sempre però mantenendo centralità al ruolo dello Stato (implicito nel riferimento alla Nazione).
Tupini e Clerici furono contrari a quella che S. Cassese ha chiamato la costituzionalizzazione della legge Bottai.
Clerici sostenne che sarebbero bastate le leggi speciali perché si trattava di una questione di diritto amministrativo e non di diritto costituzionale.
Fra le voci contrarie anche l’On. Micheli sostenne che sarebbe stata più efficiente la tutela locale, perché spesso lo Stato non ha i mezzi per assicurare la tutela.
La posizione suscitò la reazione di Marchesi preoccupato di mantenere la centralità della tutela statale contro la temuta invadenza dei poteri regionali.
Si arrivò quindi a mantenere la diretta tutela unitaria del più eccelso patrimonio della Nazione.
La riforma del Titolo V – dai contenuti che si danno per noti - è intervenuta su questo nodo, ma nonha spostato – sostanzialmente - la centralità della tutela dei beni culturali e del paesaggio in capo allo Stato (essendo tale riforma incentrata sul binomio tutela / valorizzazione mentre la fruizione è termine che connetterei alla disciplina urbanistica essendo più generalmente fruizione del territorio).
Ha indotto una interpretazione meno differenziata della tutela paesaggistica e di quella ambientale (specie in conseguenza della menzione parallela ma equiordinata di beni culturali e beni ambientali); ciò specialmente nella giurisprudenza costituzionale (che ha enucleato dal paesaggio la nozione diambiente), meno in quella amministrativa, ed ha fatto distinguere fra tutela ambientale spettante allo Stato e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali spettante alle regioni.
La giurisprudenza costituzionale, pur negando sempre l'assimilabilità dell’interesse paesaggistico con l’interesse urbanistico (fra le molte Corte Cost. n. 56 del 1968, n. 141 del 1972, n.359 del 1985, n. 327 del 1990, n. 417 del 1995, n. 378 del 2000) ha variamente affermato che la tutela del paesaggio va intesa nel senso lato della tutela ecologica (Corte Cost. n. 430 del 1990) e della conservazione dell’ambiente (Corte Cost. n. 391 del 1989) che essa è basata primariamente sugli interessi ecologici e quindi sulla difesa dl ambiente come bene unitario, pur se composto da molteplici aspetti rilevanti per la vita naturale ed umana (Corte Cost. n. 1029 del 1988) e che l’art. 9 Cost. tutela il paesaggio –ambiente come espressione di principio fondamentale dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo e si sviluppa la persona umana (Corte Cost. sent. 85 del 1988 e 378 del 2000); per la Corte Costituzionale l’ordinamento giuridico impone una tutela del paesaggio improntata ad integrità e globalità in quanto implicante una riconsiderazione dell’intero territorio nazionale alla luce del valore estetico culturale del paesaggio, sancito dall’art. 9 Cost. ed assunto come valore primario come tale (Corte Cost. n. 417 del 1995; analogamente Corte Cost. n. 151 del 1986, n. 67 del 1992, n. 269 del 1993 e n. 46 del 1995). Il paesaggio è forma del territorio e dell’ambiente, diviene tutto in questa chiave, un tutto comprensivo di ciò che è della natura e ciò che è dell’uomo (ammesso che oggi i due piani siano distinguibili nell’Antropocene).
Sembra quasi chiedersi da parte del giudice delle leggi, una lettura della pianificazione volta, nel dinamismo che la caratterizza, a cogliere le tracce della bellezza, per conservarle quando bellezza individua e tenerne conto quando bellezza d’insieme proporzionando gli interventi alla compatibilità fra innovazione e conservazione, sviluppo e mantenimento della tradizione identitaria.
Il paesaggio è la valenza culturale del rapporto uomo- ambiente ( Merusi ) o la forma dell’ambiente, visibile ma inscindibile dal non visibile ( Predieri ).
Da questo punto di vista nel codice del paesaggio si trova l’art. 131 che recita:
1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.
2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.
3. Salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio quale limite all'esercizio delle attribuzioni delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano sul territorio, le norme del presente Codice definiscono i principi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici (norma dichiarata incostituzionale con sentenza Corte Cost. n. 226 del 2009 nella parte in cui include le Provinceautonome di Trento e di Bolzano tra gli enti territoriali soggetti al limite della potesta' legislativa esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione).
4. La tutela del paesaggio, ai fini del presente Codice, è volta a riconoscere, salvaguardare e, ovenecessario, recuperare i valori culturali che esso esprime. I soggetti indicati al comma 6, qualora intervengano sul paesaggio, assicurano la conservazione dei suoi aspetti e caratteri peculiari.
5. La valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura. A tale fine le amministrazioni pubbliche promuovono e sostengono, per quanto di rispettiva competenza, apposite attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. La valorizzazione è attuata nel rispetto delle esigenze della tutela.
6. Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché tutti i soggetti che, nell'esercizio dipubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, informano la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità.
A seguito della riforma del titolo quinto sorge la tematica dell’individuazione dei soggetti e degli oggetti di disciplina costituzionale, paesaggio, ambiente, territorio, nonché di beni culturali paesaggistici ed beni ambientali, questioni rilevanti a vari fini, ad es. di individuazione della competenza a legiferare, se statale o regionale, e delle procedure amministrative da seguire per la tutela e la valorizzazione.
Il problema è stato definito come vero e proprio rebus logico-normativo. Complicato anche dall’intervento delle fonti sovranazionali.
La Convezione europea sul paesaggio, resa esecutiva in Italia con la legge n. 14 del 2006, all’art. 1 contiene una definizione di paesaggio e delle azioni pubbliche ad esso relative.
a. "Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni;
b. "Politica del paesaggio" designa la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l'adozione di misure specifichefinalizzate a salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio;
c. "Obiettivo di qualità paesaggistica" designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita;
d. "Salvaguardia dei paesaggi" indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli
e. "Gestione dei paesaggi" indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali;
f. "Pianificazione dei paesaggi" indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi.
Vediamo qui comparire lo sviluppo sostenibile come elemento qualificante le politiche paesaggistiche tanto che la politica novecentesca di tutela del paesaggio può dirsi improntata alla tutela prima statica e poi dinamica della bellezza, mentre la politica di questo secolo è già intrecciata e sempre più lo sarà con la questione ambientale e dello sviluppo sostenibile.
L’ambiente è nozione composita, plurisensa, polivalente, eterogenea, tale da comprendere differenti problematiche in relazione alle diverse matrici ambientali ed alle politiche del momento; è nozione quindi che impone una politica di tutela che non è ricavabile se non a posteriori come frutto di complesse ponderazioni date dal combinarsi di apporti tecnico scientifici ed apporti politici.
L’ambiente è una nozione giuridica aperta al contributo delle scienze ecologiche che evolvono con le tecniche di governo delle emergenze ambientali delineando sempre nuovi orizzonti e ridefinendo i modi di produrre nel tecnocapitalismo consapevole dei limiti ambientali del modo di produzione.
L’ambiente è un orizzonte del modo di produzione che incide sul paesaggio come insieme dei luoghi connotanti la nostra identità.
La giurisprudenza amministrativa consapevole di queste evoluzioni ha mantenuto rispetto alla tutela paesaggistica una posizione “originalistica”, fedele alla primazia della tutela del paesaggio, tendenzialmente contraria alla bilanciabilità del paesaggio con altri interessi pubblici, volta a salvaguardare il ruolo che i Costituenti vollero assegnare alle Soprintendenze.
Per il Consiglio di Stato la tutela del paesaggio non può essere subordinata ad altri interessi. Questo è quanto emerge per esempio dalla sentenza n.3652/2015 del Consiglio di Stato che ribadisce con forza il rispetto dell’art. 9 della Costituzione Italiana, uno degli articoli fondamentali del nostro ordinamento giuridico.
La sentenza ha interdetto la realizzazione di un elettrodotto ad altissima tensione (380 KW) di circa 39 chilometri con sostegni dell’altezza di 61 metri, previsto da Terna S.p.A, tra Udine e Redipuglia.
Nei confronti di quest’opera, che avrebbe compromesso l’area golenale del fiume Torre (Udine), nonostante il parere contrario della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di concerto col Ministro per i Beni e le Attività Culturali, si era espresso per la compatibilità del progetto in nome del primario interesse pubblico della realizzazione.
Il Consiglio di Stato ha però riformato le sentenze del Tar ed ha accolto i ricorsi di associazioni, imprese e privati, ribadendo fortemente l’assoluta importanza della tutela del paesaggio, che essendo un bene comune fondamentale, non può sottostare a nessun altro interesse, tanto meno a quelli meramente economici.
Di notevole risalto è la reprimenda nei confronti del comportamento del Mibac (Ministro per i Beni e le Attività Culturali), che, secondo i magistrati, deve occuparsi di “curare l’interesse paesaggistico” senza operare valutazioni di “interessi pubblici di altra natura”. La sentenza ritaglia un ruolo tecnico al Mibac e non esclude, a bene vedere la bilanciabilità, ma sembra rimettere lo scioglimento di eventuali contrasti a successivi passaggi di legalità procedurale (che ad es. vedano il coinvolgimento del CDM).
Alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio. Il parere del MIBAC in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove – similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.
Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere tecnico e proprio del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost. il quale fa eccezione a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e questo richiede, a opera dell’Amministrazione appositamente preposta, che si esprimano valutazioni tecnico- professionali e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e da altre amministrazioni stimabili di particolare importanza.
3. L’attuazione costituzionale fra speculazione e ricomposizione.
Nell’attuazione costituzionale della tutela del paesaggio poi è emersa come problematica la questione del rapporto fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica.
Troppo note sono le vicende della speculazione edilizia legata allo sviluppo economico del Paese ed all’alibi della ricostruzione (ora avremo l’alibi del Green Deal?), il ritardo nell’adozione dei piani regolatori comunali, la disciplina delle zone bianche ed il ritardo nell’adozione dei piani paesistici con scempi vari denunciati da Aldo Natoli (il sacco di Roma) ed Antonio Cederna fondatore di Italia nostra (Vandali in casa).
Tutto poi precipita nella legge Galasso che blocca con vincoli ex lege – forse tardivamente ed anche eccessivamente - le modificazioni di un paesaggio italiano in dissolvenza.
Il Consiglio di Stato ha elaborato la teorica della legittimazione ad agire delle associazioni e degli enti esponenziali avverso atti amministrativi lesivi di interessi paesaggistico ambientali al fine di costruire e ricucire dal basso una tutela ex art. 9 Cost. slabbrata dal divorzio fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica.
Torna in questa deriva del contenzioso giuridico amministrativo ad imporsi inevitabilmente una letturadel paesaggio che, pur ricomprendo l’ambiente, ai sensi dell’art. 9 Cost. non tutela la natura in sé e per sé non essendo oggetto di tutela paesaggistica una pianta rara o la tutela della biodiversità.
La febbre del cemento denunciata da Italo Calvino (La speculazione edilizia) è il risvolto più evidentedi una avidità speculativa che non può essere fronteggiata solo dalla disciplina vincolistica, occorrendouna pianificazione più saggia e sistematica ed una più lungimirante programmazione delle attività edilizie e di sviluppo urbano.
La proposta di Fiorentino Sullo volta a legare programmazione economica e pianificazione urbanistica si accompagna alle riflessioni dottrinali è del 1963 la monografia di Predieri Pianificazione e Costituzione che legge questi temi in chiave evolutiva per evitare quella che Aldo Moro chiamerà l’irrazionalità e disumanità dello sviluppo delle nostre città.
Si arriva così alla legge ponte del 1967 (legge n. 765 del 1967) vero e proprio spartiacque delladisciplina edilizia, che recupera il divario fra l’urbanistica rimasta sulla carta e la realtà di uno sviluppo incontrollato delle città.
Il d.m. n. 1444 del 1968 è un altro pilastro volto a colmare le inattuazioni della legge urbanistica ragione delle speculazioni che hanno stravolto il volto amato del nostro Paese. L’adozione dei piani paesistici regionali avviata dalla legge Galasso colma gradatamente quel divario fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica che ha costituito – insieme agli interventi condonistici - la ferita storica su cui si sono innestati i cattivi usi del nostro territorio.
4. La recente riforma della Costituzione in materia di ambiente: alcune domande scomode
E siamo alla recente riforma costituzionale.
La riforma recente grava da una crescente consapevolezza del tema dei limiti allo sviluppo del capitalismo.
C’è un insieme di minacce che gravano sull’umanità e mettono in pericolo la sua sopravvivenza.
Il cambiamento climatico, l’innalzamento del livello dei mari, la distruzione della biodiversità, gli inquinamenti industriali, i processi di riduzione dei bacini idrici, la desertificazione, la deforestazione sono elementi di questo processo che, alla sua fine, potrebbe travolgere la stessa vita della nostra specie sul pianeta.
Agli intellettuali consapevoli tocca la parte di Tiresia.
Peraltro la questione dei limiti allo sviluppo era stata focalizzata già da Aurelio Peccei e dal Club di Roma a metà del secolo scorso.
Siamo di fronte a sessanta anni di inerzie.
E la guerra del gas prossima ventura (il gas essendo la fonte energetica necessaria per uscire dal mondo delle energie fossili principali imputate del climate change) dimostra che ora che si vanno creando i presupposti del cambiamento la storia – con i suoi duri conflitti – si rimette non casualmente in movimento (per frenare pacifici processi evolutivi).
Ai giuristi tocca ora la progettazione di principi, regole e procedure che consentano di adottare decisioni in grado di farci mutare la rotta.
Fra queste decisioni vi sono le riscritture delle Costituzioni novecentesche, mediante procedure di revisione costituzionale.
È quello che viene menzionato come green constitutionalism.
Le Costituzioni come Grundnormen sulle quali puntare per imporre limiti e vincoli a quelli che Luigi Ferrajoli chiama i “poteri selvaggi” degli Stati sovrani e dei mercati globali.
Ciò naturalmente è solo una risposta transitoria. Un problemaglobale richiede una risposta globale.
Uno Stato mondiale, magari improntato a principi di giustizia ecologica.
Un nuovo Leviatano che rischia di essere neo-totalitario, soffocando le diversità che sono state prodotte dai travagli del Novecento.
La prospettiva kantiana dello Stato mondiale è tuttavia lontanissima, occuparsene non ha alcun senso, mentre sono aperte le danze sul baratro.
Dobbiamo riflettere – incalzati oggi dalla guerra – sempre più a partire dal mondo come è e non dall’idea di mondo che vorremmo che fosse.
Resta acquisita, sul piano puramente filosofico, la prospettiva di una rifondazione dei rapporti mondiali fra economia, diritto e politica, come necessità storica che si manifesterà certamente (speriamo senza eccessivi travagli).
Nel frattempo disponendo solo degli Stati nazionali come comunità politiche dobbiamo, nel lavoro culturale, seguire la loro rifondazione costituzionale con spirito critico (evitando gli autoinganni del pensiero politicamente corretto vera e propria grande malattia della cultura occidentale che stende una cappa di conformismo sul mondo ed ostacola la libertà di manifestazione del pensiero aggravando le ragioni della crisi, esponendoci agli effetti non calcolati o non voluti di scelte apparentemente da tutti esaltate come manifestazioni di un nuovo spirito di giustizia e per questo motivo non costruite convenientemente).
La legge costituzionale n. 1 del 2022, approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti, interviene sugli articoli 9 e 41 della Costituzione per introdurre la tutela dell’ambiente nelle loro previsioni.
Il testo introduce un nuovo comma all’articolo 9 della Costituzione, al fine di riconoscere – nell’ambito dei principi fondamentali enunciati nella Costituzione – il principio di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione, richiamato dal secondo comma dell’art. 9 Cost. si attribuisce alla Repubblica anche la tutela di tali aspetti.
Viene inoltre inserito un principio di tutela degli animali, attraverso la previsione di una riserva di legge statale che ne disciplini le forme e i modi.
È al contempo oggetto di modifica l’articolo 41 della Costituzione in materia di esercizio dell’iniziativa economica. In primo luogo, si interviene sul secondo comma stabilendo che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno alla salute e all’ambiente, premettendo questi due limiti a quelli già vigenti, ovvero la sicurezza, la libertà e la dignità umana. La seconda modifica investe, a sua volta, il terzo comma dell’articolo 41, riservando alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, a fini non solo sociali, ma anche ambientali.
Il testo reca infine una clausola di salvaguardia per l’applicazione del principio di tutela degli animali, come introdotto dal progetto di legge costituzionale, alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.
L’introduzione della clausola ambientale in materia di principi fondamentali può essere vista come semplice recezione degli approdi della giurisprudenza costituzionale in materia di ambiente.
In Costituzione come è noto vi era già la menzione della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” prevista dall’articolo 117, secondo comma della Costituzione – introdotto con la riforma del Titolo V approvata nel 2001 – nella parte in cui enumera le materie su cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva.
Ci siamo già soffermati su questo.
Ora però l’ambiente – citato nell’art. 9 Cost. – e la sua tutela diviene un principio fondamentale equiordinato al paesaggio.
Si potrebbe dire nihil sub sole novi.
La Corte ha fatto riferimento (nella sentenza n. 179 del 2019) ad un “processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo [di questo si trattava, in quel giudizio, ndr.] quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”. “In questa prospettiva la cura del paesaggio riguarda l’intero territorio, anche quando degradato o apparentemente privo di pregio”, aggiunge la sentenza n. 71 del 2020 – la quale sottolinea altresì che “la tutela paesistico-ambientale non è più una disciplina confinata nell’ambito nazionale”, soprattutto in considerazione della Convenzione europea del paesaggio (adottata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000 e ratificata con legge n. 14 del 2006), secondo la quale “il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni” (donde “il passaggio da una tutela meramente conservativa alla necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati”, tra i quali, in quel caso, l’acquisizione e il recupero delle terre degradate).
Su questa evoluzione interpretativa della tutela, da paesaggistica (dunque morfologica, visiva, culturale) ad ambientale (costitutiva, valoriale, comunitaria), era intervenuta altresì la riforma del Titolo V,modificativa dell’articolo 117, secondo comma della Costituzione. In tale ambito è stata introdotta laprevisione della “tutela” dell’ambiente e dell’ecosistema, tra le materie riservate alla potestà legislativaesclusiva dello Stato (con attribuzione invece della “valorizzazione” dei beni ambientali alla potestà concorrente delle Regioni).
La Corte ha avuto modo di ribadire in proposito (con la sentenza n. 407 del 2002) come “l’evoluzionelegislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una ‘materia’ in senso tecnico, qualificabile come ‘tutela dell’ambiente’, dal momento che non sembra configurabilecome sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Donde “una configurazionedell’ambiente come ‘valore’ costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta dimateria ‘trasversale’, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”.
L’ambiente come valore costituzionalmente protetto (e come entità organica complessa: sentenza n. 378 del 2007) fuoriesce da una visuale esclusivamente ‘antropocentrica’. Nella formulazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), ambiente ed ecosistema non si risolvono in un’endiadi, in quanto, “col primo termine si vuole, soprattutto, fare riferimento a ciò che riguarda l’habitat degli esseri umani, mentre con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della natura come valore in sé” (sentenza n. 12 del 2009).
Ma gli approdi della giurisprudenza costituzionale sono volti a guardare alla nozione di paesaggio in termini evolutivi e dinamici estendendone le valenze agli ecosistemi alla natura, alle matrici ambientali suscettibili di degrado, a sottolineare la trasversalità della tutela ambientale (come quella della concorrenza), a enucleare un concetto di ambiente come valore, a superare visioni meramente antropocentriche del bene ambiente.
Tutti gli interventi della Corte, riguardano in verità dei casi nei quali non si ponevano conflitti – nemmeno potenziali – fra valori paesaggistici e valori ambientali.
Si inquadrano in un’ottica di conciliata convergenza di ambiente e paesaggio.
Tuttavia la recezione costituzionale dell’ambiente fra i principi fondamentali non è solo meramente ricognitiva degli approdi della giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di Titolo V ma sottende una scelta di carattere valoriale e sostanziale ( volta dire che la natura – ma cosa si intende per natura sarà tutto da stabilire nella legislazione ambientale che ha carattere sempre più tecnico – è valore da tutelare, anche quando riguardi beni privi di bellezza, al pari di ciò che è il prodotto umano della cura della natura che chiamiamo paesaggio concetto formatosi durante il romanticismo e che può farsi risalire all’estetica Kantiana del sublime ).
In realtà proprio la transizione ecologica sul piano energetico (questione drammatica all’origine di conflitti internazionali che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi) è incentrata sullo sviluppo delle energie rinnovabili mediante progetti di impianti – volti a invertire le tendenze di evoluzione del clima connesse all’uso dei fossili – ben suscettibili di incidere su zone di interesse culturale e paesaggistico.
In questa chiave ambiente e paesaggio sono valori tutt’altro che conciliati. E tale mancata conciliazione emerge sempre nei giudizi amministrativi.
Spetterà alla giurisprudenza – dei Tar e del Consiglio di Stato – conciliare i valori paesaggistici e quelli ambientali, dopo le previste valutazioni ambientali dell’Amministrazione su impianti di produzione energetica a tecnologia eolica o fotovoltaica.
La tecnica sarà il bilanciamento dei valori.
L’equiordinazione costituzionale di ambiente e paesaggio consente –nelle attività di bilanciamento fra valori – un indubbio favor per le attività industriali green, eliminando ogni prospettiva di sovraordinazione sul piano valoriale delle tutele paesaggistiche su quelle ambientali (la fine della prospettiva di Dostoevskij per cui “solo la bellezza ci può salvare”).
Si spera che questo non conduca a nuove ondate speculative ed a scempi del territorio magari consumati in nome dell’ambiente in conseguenza della regressione – ben possibile in concreto – degli alti livelli di tutela paesaggistica raggiunti storicamente dall’Italia in conseguenza di una tradizione storica ben nota (sempre al centro delle riflessioni di Salvatore Settis).
L’ambiente può essere anche solo un’etichetta (il fenomeno del c.d. greenwashing) di cui ci si fregia talvolta nel promuovere iniziative industriali all’insegna del politicamente corretto.
Ma con questa avvertenza non resterà che operare in concreto, esaminando i bilanciamenti amministrativi operati progetto per progetto.
Al giudice amministrativo viene consegnata così una grande responsabilità da condursi alla luce del principio di proporzionalità e individuando un nucleo duro – dipendente dalle caratteristiche del singolo caso – di inviolabilità dell’interesse paesaggistico (da tempo l’amico Enrico Scoditti riflette sull’indegradabilità all’interno della figura giuridica dell’interesse legittimo ove siano in giuoco valori costituzionali primari).
Viene poi in questione anche la vicenda dei diritti delle generazioni future.
Si tratta di quella che viene chiamata “posterity provision” intendendosi per essa la previsione, nel testo costituzionale, di un vincolo al Legislatore di tipo sostanziale o procedurale, che imponga in ogni decisione, di tener conto dei diritti delle generazioni future.
Il Legislatore, nel caso di vincolo sostanziale, dovrà evitare danni alle risorse naturali decisive per provvedere sul piano fisico e biologico ai bisogni delle future generazioni.
Le leggi di incentivazione economica sono potenzialmente scrutinabili alla luce dei diritti delle nuove generazioni conquistando una nuova centralità al potere giudiziario (peraltro in una fase in cui la politica diffida di esso e spinge per riforme che ne riducano gli spazi di autonomia talvolta mal utilizzata) e preconizzando nuove inedite rimessioni al giudice delle leggi (che diverrà anche il giudice della giustizia intergenerazionale).
Un vincolo procedurale, del tipo necessità di referendum consultivi o di un controllo
preventivo di costituzionalità o di particolati quorum nei procedimenti approvativi delle leggi incidenti sui diritti delle nuove generazioni, non è stata la via prescelta dalla riforma costituzionale di cui alla legge cost. n. 1 del 2022 .
Ne potrebbe risultare un mutamento degli equilibri della divisione dei poteri nel Paese.
Il punto critico è segnalato in letteratura (ex plurimis Green Constitutionalism: The Constitutional Protection of Future Generations di Kristian Skagen Ekeli in Ratio Juris. Vol. 20 No. 3 September 2007 (378–401)) con considerazioni ben argomentate e valide anche per riflettere sulle scelte appenafatte in Italia con la riforma costituzionale in esame Le Corti costituzionali ed amministrative stanno per trasformarsi in guardiani delle generazioni future.
La cosa ha implicazioni sistematiche di notevole spessore. I giudici divengono guardiani della posterità?
È desiderabile questo?
Ciò implica che ogni decisione pubblica suscettibile di incidere sulle risorse naturali non rinnovabili con effetti sulle generazioni future dovrà essere accompagnata da studi tecnologici ed ambientali.
Ciò può senz’altro indurre decisioni più attente e lungimiranti.
Ma può anche innescare contenziosi inediti in un Paese già diviso e conflittuale.
In sostanza le minoranze d’ora in poi avranno un potere di veto ambientale sulle politiche economiche delle maggioranze basato sulla clausola costituzionale ambientale e sulla supremazia della Costituzione sulle leggi ordinarie.
Non potrebbe questo essere un limite non ben calcolato o un eventuale futuro ostacolo alle politiche economiche dirette alla ripresa del Paese?
Lo scopo della norma costituzionale è ben chiaro e del tutto condivisibile: avere acqua aria suolo più puliti, contrastare il cambiamento climatico con strumenti tecnologici adeguati di riconversione del capitalismo, introdurre un ciclo virtuoso del riciclo dei rifiuti chiamato economia circolare.
Ma attenzione le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni: speriamo che le future magnifiche sorti e progressive del legislatore della revisione costituzionale non si arenino tristemente nell’esplosione dei conflitti giudiziari (mentre già si profilano conflitti bellici).
Il pensiero irenico produce danni come ogni politica puramente simbolica.
Una terza implicazione riguarda l’art. 41 Cost. che introduce ambiente e salute come limiti dell’attività di impresa e finalità atte ad orientare le future leggi di conformazione delle attività di impresa.
Anche qui si consegnano alla giurisdizione poteri conformativi in via diretta (ove vi sia da interpretare un assetto di regole già date) e si consegna al Legislatore il compito di enucleare l’impresa del futuro che o sarà impresa ambientalmente compatibile o non sarà. Se il legislatore saprà indirizzare il sistema economico in modo opportuno e condiviso avremo fatto un salto effettivo di qualità ma altrimenti anche per questo verso dovremo attenderci un incremento del contenzioso amministrativo e civilistico in forme inedite sul grado di rispetto – da parte delle singole imprese – delle disposizioni ambientali.
In attesa della sfera pubblica sovranazionale ambientale prossima ventura (quella che Ferrajoli chiama Costituzione della Terra) ci tocca gestire saggiamente a livello nazionale la transizione ecologica, se lo faremo, avremo prefigurato il futuro.
*L’articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno di Capri 30-31 maggio 2022 “Il paesaggio: nozioni, trasformazioni, tutele”.
A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale*
di Giovanna Razzano, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma
[Per l’introduzione al tema si rinvia all’Editoriale]
*Nel pomeriggio del 24 giugno (ora europea) è stata pubblicata la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, il cui testo corrisponde puntualmente alla bozza Alito, fatta salva la presenza, in calce, della concurring opinion di Thomas e di quella di Kavanaugh; della concurring opinion in the judgment di Roberts e della dissenting opinion di Breyer, Sotomayor e Kagan. Nel testo della sentenza, inoltre, sono state inserite le risposte alle argomentazioni addotte, nelle rispettive opinions, dai giudici dissenzienti e da Roberts (pagg. 35-39 e pagg. 69-77).
Sommario: 1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto - 2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso - 3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo - 4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo - 5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano.
1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto
Il trafugamento e la pubblicazione di una bozza riservata concernente un giudizio pendente dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, lo scorso 2 maggio 2022, è un fatto senza precedenti ed è tanto più grave quanto più si consideri la questione sottesa. In gioco c’è, infatti, la questione di costituzionalità di una legge statale in materia di aborto (Mississippi’s Gestational Age Act), la quale, anziché conformarsi alla precedente decisione costituzionale Roe v. Wade del 1973 - la quale ha sancito il diritto costituzionale di abortire fino al sesto mese di gravidanza, vietando ai legislatori statali di limitare questa possibilità[1] - proibisce l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione, salvo casi di emergenza medica o di grave anomalia fetale.
Il Presidente della Corte John G. Roberts ha qualificato la fuoriuscita del documento riservato - la draft opinion del Justice Samuel Alito - come un affronto alla Corte stessa, assicurando che non ne pregiudicherà in nessun modo il lavoro; ha ordinato un’inchiesta e ha confermato, inoltre, che l’opinione del giudice costituzionale è autentica, pur se si tratta appunto di una bozza, ossia di un testo che non esprime né una decisione della Corte, né la posizione finale di nessuno dei suoi componenti[2].
Naturalmente l’episodio è bastato a riaccendere la già focosa discussione sull’aborto[3], che la bozza Alito qualifica sia in apertura, sia conclusivamente, come «una grave questione morale» (a profound moral issue). Una questione - si legge fin dalle prime righe della draft opinion - che divide gli americani fra quanti ritengono che la persona umana abbia inizio con il concepimento, per cui l’aborto pone termine ad una vita innocente; fra quanti ritengono che, invece, una regolazione dell’aborto limiti il diritto delle donne sul proprio corpo e impedisca loro di raggiungere la piena uguaglianza; e fra quanti ritengono che l’aborto debba essere permesso in alcune circostanze e con alcuni limiti, rispetto ai quali si distinguono ulteriori posizioni. Esiste insomma un quadro variegato di opinioni, che si rispecchia, peraltro, negli orientamenti dei rappresentanti politici, come dimostra l’esito della votazione avvenuta al Senato lo scorso 12 maggio 2022, laddove più della metà dei senatori ha rigettato la proposta di legge federale (Women’s Health Protection Act) volta a statuire un ampio diritto di aborto[4].
Al riguardo, prima di interrogarsi sugli elementi di novità che tutto ciò potrebbe portare al dibattito, anche nel nostro Paese, sembra doveroso considerare i contenuti della draft opinion, che per verità in pochi sembrano aver letto. Il lungo documento (98 pagine, che includono due appendici storiche), infatti, non entra nel merito della «grave questione morale» - ossia non preferisce le posizioni pro life a quelle pro choice, né dichiara incostituzionali le leggi permissive dell’aborto - ma consiste, piuttosto, in un’articolata dissertazione di carattere giuridico nella quale si confuta il fondamento costituzionale del diritto di aborto, affermato dalla sentenza Roe, e si dichiara che, in base alla Costituzione americana, compete piuttosto agli Stati e non alla Corte Suprema disciplinare la materia, trattandosi di scelte politiche che attengono al bilanciamento di interessi, che spettano ai legislatori sulla base del mandato elettorale e delle valutazioni dei cittadini e delle cittadine.
Le conclusioni che se ne traggono sono fondamentalmente quattro: l’aborto non è un diritto costituzionale fondamentale[5]; la sentenza Roe - come la successiva sentenza Casey - è clamorosamente errata (egregiously wrong) e rappresenta un abuso di potere giudiziale (abuse of judicial authority)[6]; tale precedente giurisprudenziale, pur tenendo conto dei principi dello stare decisis, può e deve essere annullato (overruled)[7]; la competenza, in tema di aborto, torna agli elettori e ai loro rappresentanti (the authority to regulate abortion must be returned to the people and their elected representatives)[8].
Quanto alla valutazione costituzionale delle norme che i legislatori potranno adottare in materia - in concreto, con riguardo alla legge del Mississippi, oggetto del giudizio - la Supreme Court afferma di non poter sostituire le proprie valutazioni a quelle delle assemblee rappresentative, ma solo di poter accertare, sul piano razionale (rational basis review), se vi siano interessi statali legittimi per legiferare[9], che nel caso risultano essere: il rispetto per la vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, la protezione della salute e della sicurezza della madre, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare, la preservazione dell’integrità della professione medica, la mitigazione del dolore fetale, la prevenzione di discriminazioni sulla base della razza, del sesso o della disabilità. Per la Corte si tratta di interessi che legittimano l’intervento del legislatore statale, per cui la Mississippi’s Gestational Age Act supera il vaglio di costituzionalità[10].
La draft opinion presenta quindi profili di interesse sia con riguardo alla questione dell’aborto, su cui va registrato un approccio sicuramente diverso dal passato, sia con riguardo al principio democratico e agli stessi principi del costituzionalismo, poiché coinvolge i temi della sovranità popolare, della rappresentanza, della competenza a ponderare interessi confliggenti, dei limiti del potere giudiziale, e di quello dei giudici costituzionali in particolare, in un quadro costituzionale di equilibrio fra diversi poteri. Ove la bozza si traducesse in sentenza, peraltro, si tratterebbe della decisione di una Corte costituzionale di un ordinamento di common law - tra l’altro la Supreme Court of the United States - che, rispetto ad «una grave questione morale», qualifica così erroneo un suo precedente giurisprudenziale, da dover superare lo stare decisis.
Sembra importante, quindi, esaminare ulteriormente i contenuti della bozza.
2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso
Il percorso argomentativo della draft opinion muove dalla constatazione per cui l’aborto, per i primi 185 anni dall’adozione della Costituzione americana, è stato disciplinato dagli Stati americani e dalle rispettive assemblee elettive. Un «processo democratico» che viene troncato nel 1973, quando la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema afferma l’esistenza di un diritto costituzionale di aborto, pone fine alla possibilità degli Stati di legiferare in materia[11] e introduce una dettagliata disciplina basata sui trimestri di gestazione[12]; criterio poi integrato da quello della successiva sentenza Casey, secondo cui nessuna norma deve comportare un ingiusto peso (undue burden) per la donna che intende abortire[13].
Occorre notare, per inciso, che sul piano processuale le controparti dello Stato del Mississippi - ossia i respondents (Jackson Women Organizations et al.) e il Solicitor General - hanno chiesto alla Corte Suprema di confermare o di annullare Roe e Casey, senza mezze misure[14], poiché non dichiarare incostituzionale la legge del Mississippi che vieta l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione equivarrebbe comunque ad annullare Roe e Casey[15].
La bozza Alito sceglie di annullare le due sentenze, demolendo l’impalcatura interpretativa creata dai giudici della sentenza Roe, ossia l’assunto secondo cui il diritto alla privacy includerebbe il diritto di aborto in ragione di alcuni Emendamenti, in particolare del Quattordicesimo[16]. Per la bozza Alito si tratta di un’operazione ermeneutica illegittima. Infatti, né il diritto di aborto, né quello alla privacy sono esplicitamente garantiti dalla Costituzione americana, mentre il Quattordicesimo Emendamento non conferisce un rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso. Tale qualità, infatti, può essere riconosciuta, in base agli standard della stessa giurisprudenza della Corte[17], solo a quei diritti profondamente radicati nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché racchiusi nel concetto di libertà ordinata (any such right must be “deeply rooted in this Nation’s history and tradition” and “implicit in the concept of ordered liberty).
La bozza mostra quindi come, fino alla seconda metà del XX secolo, un diritto costituzionale di aborto fosse del tutto sconosciuto al diritto americano e come, al momento dell’adozione del Quattordicesimo Emendamento, nel 1868, l’aborto fosse, all’opposto, un reato per i tre quarti degli Stati americani[18]. Dall’analisi del common law, emerge poi come l’aborto fosse espressamente punito come crimine da quando fosse percepibile il movimento del bambino nel grembo materno (c.d. quickening), ossia dalla sedicesima/diciottesima settimana[19], mentre, con riguardo alle settimane gestazionali precedenti, fonti dottrinali e giurisprudenziali attestano come fosse comunque considerato una pratica illegittima e non come un diritto. A partire dal XIX secolo, fra l’altro, ogni riferimento al quickening divenne irrilevante, perché il Parlamento britannico, nel 1803, qualificò l’aborto come un crimine in ogni stadio della gravidanza, seguito dalla maggioranza degli Stati americani[20]. Anche in seguito, fra il 1850 e il 1919, quando altri Stati si unirono alla Federazione, l’orientamento prevalente continuò ad essere quello di considerare l’aborto un crimine[21], cosicché, quando fu pronunciata la sentenza Roe, due terzi degli Stati americani punivano chiunque procurasse un aborto, qualsiasi fosse lo stadio di gravidanza, salvo in caso di pericolo di vita per la madre, mentre un terzo lo regolava comunque in maniera più restrittiva della disciplina dettata dalla sentenza stessa[22].
La conclusione è che l’aborto non è un diritto radicato nella storia americana, come invece affermarono Roe e Casey e vorrebbe, in questa occasione, il Solicitor General[23]. Né è accoglibile, secondo Alito, l’obiezione, pure avanzata da alcuni amici curie (brief for Amici Curiae American Historical Association and Organization of American Historians), secondo cui il divieto di aborto, sancito dalle leggi statali precedenti alla Roe, troverebbe la sua spiegazione non già nella consapevolezza che con esso si uccide la vita di un essere umano, ma in una ragione di politica demografica: il timore che le donne immigrate cattoliche, contrarie a questa pratica, avrebbero avuto più figli delle protestanti, ove a queste ultime fosse stato liberamente permesso l’aborto. Secondo questa teoria, insomma, gli Stati americani avrebbero vietato l’aborto solo per ragioni di opportunità, considerandolo in realtà legittimo, potendosi così avvalorare la tesi che l’aborto sarebbe un diritto radicato nella storia americana[24].
La draft opinion esclude infine che l’aborto possa dirsi protetto dal XIV Emendamento non solo inteso quale Due Process Clause, ma anche quale Equal Protection Clause, con riguardo, dunque, al tema delle discriminazioni in ragione del sesso. Osserva infatti la bozza che il fatto che la disciplina dell’aborto e le norme volte a prevenirlo riguardino una procedura di cui solo le donne possono avvalersi, non implica un’odiosa discriminazione basata sul sesso, tale da richiedere uno scrutinio specifico sotto questo profilo[25].
Prima di concludere, la draft opinion chiarisce che l’annullamento delle sentenze Roe e Casey non significa che il Quattordicesimo Emendamento non tuteli in assoluto diritti non menzionati in Costituzione, poiché la decisione attiene solo all’aborto e non ad altri diritti[26]. Si afferma, infine, che la Corte Suprema non ha il potere di decretare che, a causa dei principi dello stare decisis, un precedente errato debba rimanere per sempre esente da una revisione[27]. Tanto più che 26 Stati hanno chiesto alla Supreme Court di annullare Roe e Casey e di restituire la parola ai rappresentanti eletti[28].
3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo
Nella lunga motivazione possono individuarsi tre filoni argomentativi, tanto più interessanti, quanto più di carattere logico-giuridico.
Si tratta, in primo luogo, dei punti in cui la bozza Alito si sofferma sul diritto alla privacy o, con le parole della sentenza Casey, sul concetto di libertà come “diritto di individuare il proprio concetto di esistenza, di senso, di universo e di mistero della vita umana” (un’accezione del right to privacy - precisa la bozza Alito - che va distinta da quella consistente nel diritto alla riservatezza dei dati e nel diritto di adottare decisioni personali senza l’interferenza dei pubblici poteri[29]). Al riguardo si osserva che se è vero che c’è la più ampia libertà di pensare e di dire - in merito all’universo, alla vita, etc. - quello che si vuole, tale ampia libertà non si estende anche al piano del fare, perché il concetto giuridico di “libertà ordinata” prevede un bilanciamento fra interessi contrapposti (boundary between competing interests) [30]. L’osservazione è poi utile a concludere che questi interessi possono essere differentemente valutati e che pertanto spetta agli elettori ponderarli[31].
Si assiste, in tal modo, ad una razionalizzazione e ad una de-ideologizzazione del concetto di privacy; al suo sgonfiamento, in altri termini, che viene compiuto con una punta di spillo, ossia con un ragionamento logico elementare: in un ordinamento giuridico non c’è l’assoluta libertà di fare secondo le proprie opinioni sul mondo e sulla vita, come la prospettiva del diritto del lavoro evidenzia in modo palese[32]. Ove confermato dalla sentenza definitiva, questo passaggio relativo alla privacy, che riconduce le libertà sul campo reale degli interessi di tutti i soggetti coinvolti, nel quadro di un ordinamento giuridico costituzionale, non potrà verosimilmente non avere le sue ricadute in Europa, dove la privacy ha parimenti rappresentato - e rappresenta - il riferimento per l’edificazione di ogni “nuovo diritto”, come mostra la pletora di ricorsi alla Corte di Strasburgo basati sull’art. 8 CEDU, considerato una specie di Grundnorm per tutte le istanze iper-liberali e anti-paternaliste, refrattarie ad ogni “ingerenza” dei pubblici poteri.
In secondo luogo, la bozza Alito osserva come un conto sono i diritti di libertà che si risolvono in una sfera tutta individuale o consensuale (come sposarsi con chi si vuole, incluso persone dello stesso sesso, ottenere contraccettivi, educare come si crede i propri figli, etc. - tutte libertà citate da Roe e Casey), altro conto è l’aborto. Questa procedura, infatti, a differenza delle altre libertà, implica, a seconda dei punti di vista, la distruzione di una “vita potenziale” o di “un essere umano ancora non nato”, ossia coinvolge un altro essere[33]. Ѐ questo l’elemento che caratterizza la questione morale posta dall’aborto, a prescindere dal fatto che si consideri il feto “vita potenziale” o “essere umano ancora non nato”[34]. Un’osservazione non priva di fondamento razionale, al pari della conseguente qualificazione dell’aborto come «grave questione morale».
Quanto al terzo filone argomentativo, si tratta di quella che potrebbe definirsi la questione metodologica ed ermeneutica. Afferma la bozza Alito, non senza una punta di ironia, che nel valutare quali libertà rientrino sotto la protezione del Quattordicesimo Emendamento, i giudici costituzionali debbono guardarsi dalla naturale tendenza umana a confondere quello che l’Emendamento effettivamente garantisce con ciò che è invece l’ardente desiderio di ognuno circa la libertà di cui gli americani dovrebbero godere[35]. Traspare qui un chiaro approccio “originalista”, peraltro affine all’ermeneutica elaborata, in ambito europeo, da Emilio Betti, basata su di un metodo scientifico aderente all’oggettività del testo, che esige dall’interprete un’analisi storica e tecnica, senza l’influenza di prevenzioni dottrinarie, nella convinzione che il testo ha una sua verità storica, un significato che l’interprete è tenuto a ricavare e non ad attribuire[36], come pure Hans-Georg Gadamer ebbe a dire[37]. La bozza Alito richiama, sul punto, una dissenting opinion di Justice White, per cui le sentenze che trovano nella Costituzione principi o valori che non possono ragionevolmente essere letti nel testo, usurpano la competenza del popolo[38]. Sullo sfondo si intravede, soprattutto, l’originalismo di Justice Scalia, per il quale la concretizzazione dei valori non spetta al giudice ma al legislatore; compito del giudice, piuttosto, è ricercare il significato della disposizione così come inteso al momento in cui fu adottata dai costituenti o dai legislatori, mentre è precluso al giudice, in base al principio democratico, riscrivere la Carta fondamentale sulla base delle sue opinioni individuali sul giusto e sul vero[39]. Tutte questioni che sono di grande interesse anche dalle nostre parti[40]. Al riguardo occorrerebbe domandarsi, fra l’altro, se quanto sostenuto dalla bozza Alito sulla scorta di importanti precedenti (un diritto non espressamente menzionato dalla Costituzione può riconoscersi come fondamentale ove risulti profondamente radicato nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché implicito nel concetto di libertà ordinata) possa assimilarsi alla tesi, autorevolmente sostenuta nell’ambito della dottrina italiana, per cui il carattere fondamentale di un diritto non scritto è attribuibile a quelle consuetudini culturali di riconoscimento che attengono a bisogni elementari dell’uomo, il cui appagamento è condizione di una esistenza libera e dignitosa[41]. Una questione di spessore, che ci si limita qui a delineare, e che merita approfondite riflessioni.
4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo
Vanno poi segnalati due aspetti di rilievo, che attengono al processo costituzionale e alla ricaduta della decisione sulla condizione femminile.
Il primo attiene alla dottrina dello stare decisis[42], cui la bozza Alito riconosce un ruolo considerevole ma non assoluto. Si nota come alcune delle decisioni storicamente più significative della Supreme Court abbiano comportato proprio l’overruling di un consolidato indirizzo giurisprudenziale opposto, come nel caso della segregazione razziale[43] e della riduzione di talune libertà economiche a vantaggio di misure di welfare[44]. Annullare Roe e Casey, per la bozza Alito, è quindi ammissibile in base a cinque ragioni: la grave erroneità; la qualità della loro motivazione (eccezionalmente debole e carente[45]); la difficile applicazione uniforme delle regole imposte (specialmente l’«undue burden» della Casey); il loro effetto dirompente su altre aree del diritto[46]; l’assenza di un concreto affidamento[47].
Quanto a quest’ultimo aspetto, la bozza Alito, richiamando quanto affermato proprio dalla sentenza Casey, ribadisce che non può esserci un legittimo affidamento per l’aborto, che è un fatto imprevisto (unplanned activity)[48], non pianificato. Con riguardo poi all’affidamento sociale, ossia alle ricadute che una modifica della disciplina dell’aborto potrebbe avere sulla condizione femminile, la relativa ponderazione è un giudizio di natura politica, che spetta come tale agli elettori, alle elettrici e ai loro rappresentanti, ma non ai giudici costituzionali. Le donne americane - osserva la draft opinion - non sono prive di potere politico ed elettorale e potranno contribuire ad influenzare la legislazione. Proprio nello Stato di Mississippi - si osserva - le donne sono la maggioranza dei votanti[49].
Questo passaggio merita attenzione. Non pare irrilevante, infatti, che la Mississippi’s Gestational Age Act sia stata proposta e sostenuta da parlamentari donne, come rimarca il parere denominato Brief for Women Legislators and the Susan B. Anthony List as Amici Curiae supporting Petitioners[50]. Né è trascurabile il dato per cui le donne americane siano tutt’altro che uniformemente schierate per la libertà di aborto, come emerge da un altro parere amici curiae, il Brief of 240 Women Scholars and Professionals, and Prolife Feminist Organizations in Support of Petitioners. Al contrario, è proprio la presenza delle donne nelle istituzioni rappresentative, mai così alta come negli ultimi anni, che avrebbe influenzato i processi democratici portando in diversi Stati ad una riconsiderazione della disciplina in tema di aborto; anche per questo la Supreme Court dovrebbe rimettere la questione alla competenza delle assemblee elettive, dove le donne sono rappresentate[51]. Inoltre, la sentenza Roe, che si è auto-assegnata la competenza sull’aborto («self-awarded sovereignty over abortion»)[52], sarebbe caratterizzata da un atteggiamento paternalista nei confronti degli Stati della Federazione («driven by that very kind of paternalism»), non consentito dalla Costituzione[53].
Le donne, insomma, non hanno bisogno della Corte Suprema per difendere diritti e interessi, ma di poter valutare e decidere direttamente nelle sedi appropriate. Notevole è altresì che l’accusa di paternalismo provenga, questa volta, non già da prospettive iper-liberali, ma da donne elette nelle assemblee legislative statali che ritengono abusivo il sigillo posto dalla Corte Suprema, nel 1973, ad una delle possibili regolazioni dell’aborto. Il mondo femminile americano si presenta, quindi, plurale. Emerge che sono state le stesse donne ad aver proposto e supportato, in molti Stati, legislazioni limitative dell’aborto; che esistono movimenti femministi pro-life; che esistono donne che accusano di paternalismo e interventismo creativo Roe e Casey. Interessa, soprattutto, che di queste ultime sentenze venga contestato l’assunto centrale: quello secondo cui alle donne sarebbe necessaria la libertà di aborto per poter competere con gli uomini in ambito lavorativo e in tutti i settori[54]. Tale paradigma, al contrario, non avrebbe giovato alla condizione femminile, perché avrebbe relegato la maternità e l’impegno che richiede in un ambito tutto individuale, in cui portare o meno a termine una gravidanza è un problema della donna; con la conseguenza paradossale di aver favorito una mentalità maschilista, secondo cui il lavoratore ideale è il single, senza figli; prototipo che non richiede da parte degli attori, pubblici o privati, dispendiosi assetti lavorativi adatti alle donne con i figli; le quali - si rileva - continuano tuttora ad esser discriminate se madri[55].
Si tratta, a mio avviso, di osservazioni di estremo interesse e meritevoli di attenzione, su cui è possibile discutere e confrontarsi, specie nel differente contesto costituzionale italiano. Qui esiste, infatti, un espresso dovere dei pubblici poteri di proteggere la maternità favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma), sottolineato dalla Corte costituzionale proprio nella prima sentenza in tema di aborto (n. 27/1975). Né va dimenticato che la stessa l. n. 194/1978, all’art. 1, esordisce affermando che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio»[56], mentre esclude che l’aborto possa essere mezzo per il controllo delle nascite. Il tema, pertanto, è il seguente: lo Stato italiano protegge effettivamente la maternità? Le donne sono realmente libere di essere madri? Come interpretare, nella prospettiva femminile, i dati Istat, per cui, a fronte di una fecondità reale in costante calo dal 2010, il numero di figli desiderato resta sempre fermo a due, evidenziando «un significativo scarto tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare?»[57]
5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano
Nel tirare le fila, va innanzitutto considerato quanto estremo sia il modello americano di aborto fissato da Roe e Casey, del tutto sbilanciato sulla volontà della donna, che può abortire non solo fino al sesto mese di gravidanza, ma anche oltre; all’opposto dell’uniformità che sarebbe dovuta discendere dalle pronunce costituzionali, il vago criterio dell’undue burden della sentenza Casey ha consentito infatti agli Stati di liberalizzare ulteriormente l’accesso, cosicché alcuni, come quello di New York, permettono l’aborto per tutta la gravidanza, sulla base di condizioni alquanto indefinite[58]. Né va dimenticato che la stessa contestata legge del Mississippi, oggetto del giudizio, permette comunque l’aborto fino alla quindicesima settimana di gestazione, ossia oltre le dodici settimane, ossia i 90 giorni indicati dalla legge italiana[59]; la quale, oltretutto, richiede la sussistenza di determinate condizioni e circostanze[60].
La bozza Alito rappresenta pertanto un avvicinamento della Supreme Court al modello italiano almeno sotto tre profili.
Il primo attiene alla qualificazione dell’aborto, che per la bozza non è (più) un diritto costituzionale. Infatti, non lo è neppure per l’ordinamento italiano, dove né la legge che lo ha legalizzato, né la Corte costituzionale[61] hanno mai qualificato l’aborto come diritto tout court[62]. La mera liceità di un comportamento, d’altronde, non implica la sua assunzione nel novero dei diritti di libertà costituzionalmente tutelati[63]. Il giudice delle leggi, fin dalla sent. n. 27/1975, ha affermato, piuttosto, l’«obbligo del legislatore di predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione»[64]. E la l. n. 194/1978, da parte sua, prevede misure per prevenire ed evitare l’aborto, indicando che i consultori familiari assistano la donna in stato di gravidanza «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2, lett. d) e trovino «le possibili soluzioni dei problemi proposti», aiutandola a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza e promuovendo ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna (art. 5, comma 1). Un assetto, questo, che pare coerente con la definizione di aborto come «grave questione morale», piuttosto che come «diritto», la cui nozione non è compatibile con l’impegno dell’ordinamento per prevenirlo, evitarlo e rimuovere le cause che portano a richiederlo. I diritti non si prevengono. Va aggiunto che il medico, ai sensi della legge, può rilasciare il certificato di cui all’art. 5 della legge «sulla base delle circostanze di cui all’art. 4», cosicché non può dirsi che nel nostro ordinamento, a differenza di altri (dove il certificato è rilasciato su semplice richiesta da un impiegato amministrativo)[65], vi sia l’aborto on demand per i primi 90 giorni[66]. Il diritto di abortire si configura, quindi, solo in un secondo momento, una volta ottenuto il certificato, a fronte del quale vi è il dovere da parte delle strutture regionali, pubbliche o convenzionate, di eseguirlo, con il conseguente obbligo del personale sanitario di realizzarlo, salva l’obiezione di coscienza. Quanto a quest’ultima, pare importante sottolineare che, da un lato, trova la sua giustificazione in un diritto costituzionale fondamentale - quello alla vita - e non già in una mera ragione di coscienza individuale o privata[67]; dall’altro, non ha rappresentato[68] né rappresenta[69] un ostacolo all’accesso all’aborto, come si vuole far credere.
In secondo luogo, la bozza Alito ritiene che sia interesse legittimo degli Stati intervenire, in materia, per ponderare e disciplinare una pluralità di interessi. Di fronte alla volontà della donna, infatti, non c’è più, solo, una “vita potenziale” (la potential life della sentenza Roe), ma anche la protezione della vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare[70], la mitigazione del dolore fetale, la preservazione dell’integrità della professione medica. Analogamente la Corte costituzionale italiana, fin dalla sent. n. 27/1975, ha posto in luce una serie di “interessi”: oltre alla vita e alla salute della donna (la sua privacy e la sua libertà di scelta non sono menzionate), vi è infatti la protezione della maternità, nonché «la tutela del concepito», che ha «fondamento costituzionale» ed è da annoverare fra i diritti inviolabili dell’uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie»[71]. Inoltre, non è possibile l’abrogazione di quelle parti della l. n. 194/1978 che rappresentano «il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell’infanzia e della gioventù» (sent. 35/1997)[72]. Quanto alla tutela della vita «fin dal suo inizio», tale sentenza ha precisato che si tratta di un diritto da iscriversi tra quelli inviolabili, cioè «tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
In terzo luogo, infine, la bozza Alito rimette la questione dell’aborto alla competenza del legislatore, allineandosi, anche sotto questo profilo, all’Italia e alla maggior parte dei Paesi nel mondo, dove l’aborto è disciplinato da leggi e non da sentenze[73].
Della disciplina italiana, a conclusione di queste note, sembra di dover mettere in luce, in una prospettiva costituzionale, quel nucleo che la Corte, nella sent. n. 35/1997, ha appunto qualificato «a contenuto normativo costituzionalmente vincolato». Interessa, in particolare, quanto previsto dall’art. 5 della l. n. 194/1078, le cui disposizioni si incentrano sul concetto di aiuto alla donna da offrirsi nel momento in cui accede al colloquio di cui ai commi 1 e 2. Si tratta dell’approccio sociale e giuridico al problema dell’aborto, «la cui attuazione - secondo un giudizio ampiamente condiviso - è rimasta insufficiente», come affermava il Comitato Nazionale di Bioetica quasi vent’anni or sono[74]; così come la percettibilità, nel nostro Paese, di un clima positivo, di simpatia e disponibilità solidaristica, verso la gravidanza in atto[75]. Si suggeriva, fra l’altro, «una seria progettazione» delle modalità con cui venga svolto il colloquio con la donna per ciò che attiene all’aiuto sociale, psicologico ed economico, ricercando in concreto, come la legge richiederebbe, «le possibili soluzioni dei problemi e (…) offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto»[76].
Si tratta di indicazioni tuttora valide, specie a fronte del sempre maggiore ricorso all’aborto farmacologico, sia perché riferibili a quel nucleo costituzionalmente necessario, sia perché le donne rischiano di essere lasciate sempre più sole con i loro problemi e le loro scelte. Del resto, occorre domandarsi, quali diritti e quali libertà verrebbero lesi, ove una donna, a motivo dell’aiuto efficace e concreto delle istituzioni e della società, decidesse, anziché di abortire, di tenere il suo bambino?
Penso che sia questa la domanda cruciale da cui ripartire per una proficua discussione pubblica sulla «grave questione morale» che l’aborto pone.
[1] La sentenza Roe, dopo aver distinto la gestazione in tre trimestri, ha statuito che, nel primo, gli Stati USA non sono abilitati a disciplinare l’aborto, che rimane nella completa disponibilità del medico e della gestante; nel secondo trimestre, gli Stati possono intervenire con una disciplina funzionale alla salute della donna che abortisce, ma non tutelare il nascituro; nel terzo trimestre, poiché vi sarebbe la vitalità (viability) del feto, ossia la sua possibilità di vita autonoma fuori dall’utero materno, gli Stati possono legittimamente avere interesse anche a tutelare la vita del nascituro. In seguito, la c.d. sentenza Casey (1992) ha poi diffidato gli Stati dall’adottare norme che rappresentino un ingiusto peso (“undue burden”) per una donna che intende esercitare il suo diritto ad ottenere all’aborto.
[2] Cfr. https://www.supremecourt.gov/publicinfo/press/pressreleases/pr_05-03-22 Singolare appare quindi la risoluzione adottata il 9 giugno scorso dal Parlamento europeo, il quale, dicendosi preoccupato per le conseguenze che una futura sentenza della Supreme Court USA potrebbe avere per i diritti delle donne, incoraggia fortemente il governo degli Stati Uniti a rimuovere tutti gli ostacoli ai servizi di aborto. La risoluzione, infatti, - priva di valore giuridico - non solo si riferisce ad una bozza illegalmente trafugata, riferibile ad una sentenza non pubblicata del tribunale costituzionale di uno Stato esterno alla UE, ma entra nel merito di un ambito - l’aborto - che non è neppure di competenza delle istituzioni comunitarie.
[3] Al momento la sede della Supreme Court è stata recintata e le autorità pubbliche sono dovute intervenire per proteggere l’incolumità dei giudici costituzionali.
[4] Per l’approvazione della legge - caldeggiata dai democratici, nonché dal Presidente Biden - occorrevano i voti di 60 senatori, ma il provvedimento ne ha ricevuti solo 49, mentre 51 sono stati i voti contrari (tutti i repubblicani oltre al senatore Dem Joe Manchin).
[5] Cfr. bozza Alito, p. 65.
[6] Ivi, pp. 6, 40.
[7] Ivi, pp. 5, 35, 42, 52, 62, 63, 64, 65.
[8] Ivi, pp. 2, 6, 34, 40-41, 64, 65, 67.
[9] Ivi, p. 66: «It must be sustained if there is a rational basis on which the legislature could have thought that it would serve legitimate state interests». La sent. Roe aveva infatti negato l’esistenza di interessi statali legittimi per legiferare (primo trimestre) o li aveva fortemente limitati (nessuna tutela per il nascituro se non dal terzo trimestre di gravidanza).
[10] Ibidem.
[11] Al momento della sentenza Roe, 30 Stati vietavano l’aborto in ogni stadio di gravidanza, salvo che in caso di pericolo per la vita della madre (bozza Alito, p. 24).
[12] Cfr. nota 1.
[13] Bozza Alito, p. 4.
[14] Brief for Respondents, p. 43 e 50.
[15] Bozza Alito, p. 5.
[16] Ivi, p. 9.
[17] Ivi, p. 13, dove si citano Washington v. Glucksberg, 521 U. S. 702, 721 (1997) e, in seguito (p. 12 ss.), Timbs v. Indiana, 586 U.S. (2019); McDonald, 561 U. S., at 764; Collins v. Harker Heights, 503 U. S. 115,125 (1992).
[18] Ivi, p. 5.
[19] Ivi, p. 16 ss.
[20] La relativa documentazione nell’Appendice A.
[21] Ulteriori riferimenti nell’Appendice B.
[22] Bozza Alito, p. 24.
[23] Ivi, p. 27, on ulteriori riferimenti.
[24] Ivi, pp. 28-29.
[25] Ivi, pp. 10-11. Sarebbe del resto come sostenere che i protocolli di prevenzione del tumore al seno, poiché riguardano le donne, esigono uno stretto scrutinio sotto il profilo della discriminazione in base al sesso.
[26] Ivi, p. 62.
[27] Ivi, p. 64.
[28] Ivi, p. 61.
[29] Ivi, p. 45.
[30] Ivi, pp. 30, 45.
[31] Ivi, pp. 33-34.
[32] Nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, un ragionamento analogo si rinviene nella sent. n. 141/2019.
[33] Ѐ interessante ricordare che il Tribunale costituzionale tedesco, nella sentenza del 27 febbraio 1975, considerò il concepito il soggetto debole da tutelare e ritenne impossibile un compromesso fra la sua vita, da un lato, e la libertà della gestante di interrompere la gravidanza, dall’altro, dal momento che l’aborto implica un annientamento della vita del nascituro.
[34] Ivi, p. 32.
[35] Ivi, p. 13.
[36] E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, II, Milano, 1955, 795-798; ID., L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, con saggio introduttivo di G. Mura, Roma, 1987, p. 64. Sul canone dell’autonomia dell’oggetto nell’ermeneutica bettiana, G. CRIFÒ, Emilio Betti, In memoriam, Milano, 1968, 298 (estratto da BIDR, 3° serie, vol. IX).
[37] Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Milano, 1983, 316.
[38] Bozza Alito, p. 41.
[39] Cfr., fra i numerosi scritti, A. SCALIA- B.A. GARNER, Reading Law: The Interpretation of Legal Texts, St. Paul, MN, Thomson/West, 2012; interessante pure ID., La mia concezione dei diritti, Intervista di Diletta Tega ad Antonin Scalia, in Quaderni cost., 3/2016, p. 671.
[40] Ci si limita a segnalare AA.VV, Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. ROMBOLI, Torino 2017 e A. RUGGERI, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in Consulta online, 1° febbraio 2019, p. 43.
[41] Fra i numerosi scritti dell’A., cfr. A. RUGGERI, Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, in Cos’è un diritto fondamentale, a cura di V. BALDINI, Atti del Convegno Annuale del Gruppo di Pisa svoltosi a Cassino il 10-11 giugno 2016, Napoli, 2017, p. 337 ss.
[42] Bozza Alito, p. 35.
[43] Brown v. Board of Education.
[44] West Coast Hotel Co. v. Parrish.
[45] Bozza Alito, p. 41.
[46] Ivi, p. 59, dove si afferma, fra l’altro, che le precedenti sentenze della Corte in materia di aborto hanno annacquato il rigore dello standard delle questioni di costituzionalità, i principi della res iudicata, il principio per cui gli Statuti devono essere interpretati in modo da evitare di dichiararne l’incostituzionalità.
[47] Ivi, p. 39 ss., dove si qualifica gravemente carente la motivazione offerta da Roe e Casey, prive di aggancio al testo, alla storia, ai precedenti e alle fonti sulle quali sono solitamente basate le decisioni costituzionali. Del tutto erronea è poi la ricostruzione del common law in tema di aborto, basata su di una fonte dottrinale screditata. Vengono anche ricordati i quattro argomenti della sentenza Roe: 1) il peso degli interessi coinvolti, 2) la lezione e gli esempi della storia della medicina e del diritto, 3) l’orientamento permissivo del common law, e 4) la domanda proveniente dai problemi della società contemporanea. Destituiti di fondamento il secondo e il terzo argomento, altro non resta che una valutazione di opportunità politica, che non può, come tale, che spettare al legislatore. Si osserva, poi, come il criterio della viability, cruciale nella disciplina trimestrale di Roe, è discutibile non solo perché varia a seconda dei progressi della medicina, del luogo, della salute, sia della madre, sia del feto, anche perché arbitrario (così infatti Corte cost. italiana, sent. n. 35/1997, per la quale tutti i nascituri meritano protezione, non solo quelli capaci di sopravvivere fuori dall’utero). Sono poi molti i giuristi - ricorda poi la bozza Alito - anche pro aborto, che hanno criticato la Roe in quanto priva di fondamento.
[48] Bozza Alito, p. 59 ss.
[49] Ivi, p. 61.
[50] Brief for Women Legislators, p. 18. Per i testi dei vari briefs degli amici curiae (più di 140): https://www.scotusblog.com/2021/11/we-read-all-the-amicus-briefs-in-dobbs-so-you-dont-have-to/
[51] Brief for Women legislators, cit., p. 13 ss.
[52] Ivi, p. 21.
[53] Ivi, p. 17.
[54] Brief of 240 women scholars and professional, p. 17 ss.
[55] Ivi, p. 39 ss.
[56] Corsivo mio.
[57] ISTAT, Rapporto annuale 2020 sulla situazione del Paese, p. 262.
[58] Cfr. il Reproductive Health Act, 2019, section 2, art. 25-A, che permette l’aborto oltre il sesto mese non più solo per salvare la vita della madre, ma anche quando il feto non sopravviverebbe fuori dall’utero e l’aborto è necessario per proteggere la vita e la salute della donna («there is an absence of fetal viability, or the abortion is necessary to protect the patient’s life or health»).
[59] Anche la maggioranza degli Stati europei che ha legalizzato l’aborto restringe notevolmente le condizioni di accesso oltre il primo trimestre di gravidanza.
[60] Cfr. art. 4 della l. n. 194/1978.
[61] Cfr. in particolare le sentt. n. 27/1975; 26/1981; 196/1987; 108/1981; 35/1997.
[62] Lo stesso vale sul piano del diritto internazionale. Come conferma la recente Dichiarazione di Ginevra, del 2020, non vi sono trattati internazionali che sanciscano il diritto di aborto, né il dovere da parte degli Stati di promuoverlo o finanziarlo (tali non sono la Convention on the Elimination of Discrimination against Women, 1979; il Rome Statute of the International Criminal Court, 1998; i c.d. documenti del Cairo e di Beijing). La Corte di Strasburgo, da parte sua, nella sentenza A, B & C v. Ireland del 2010, mai smentita dalle pronunce successive, ha affermato che l’art. 8 CEDU, sul diritto alla privacy (o, meglio, all’autonomia), non può essere interpretato in modo da includere il diritto di aborto. Numerosi sono poi i trattati internazionali che impegnano espressamente gli Stati a proteggere la vita del nascituro (ad es. U.N. Convention on the Rights of the Child, 1989, basata sulla Declaration of the Rights of the Child, 1959; The International Covenant on Civil and Political Rights, 1966; The American Convention on Human Rights, 1969).
[63] A. BARBERA, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 2016, p. 157.
[64] Corsivi miei.
[65] Cfr. ad es. la legge svedese, l’Abortlag del 1974, secondo cui fino alla diciottesima settimana di gravidanza l’aborto è a semplice richiesta e non occorre verificare la presenza di determinate circostanze.
[66] Anche se è vero che l’interpretazione della legge (in particolare il modo di intendere il pericolo per la salute psichica) ha portato verso questa configurazione. Sul punto M. OLIVETTI, Diritti fondamentali, II ed., Torino, 2020, p. 494.
[67] Ne è conferma l’art. 9, comma 5, della stessa l. n. 194/1978, per il quale l’obiezione di medici e ausiliari non è invocabile «quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».
[68] Il riferimento è ai ricorsi contro l’Italia intrapresi dalla International Planned Parenthood Federation (nel 2012) e dalla CGIL (nel 2013) dinanzi al Comitato europeo per i diritti sociali (organo del Consiglio d’Europa competente a garantire l’effettività della Carta sociale europea da parte degli Stati aderenti), in quanto l’alto numero di medici obiettori non avrebbe assicurato l’accesso all’aborto. La questione si è conclusa con una risoluzione del Comitato dei ministri, il quale - a fronte delle informazioni fornite dal Ministero della salute, che hanno evidenziato che il numero di non obiettori risulta congruo, anche a livello sub-regionale, rispetto alle Ivg effettuate - ha accolto «gli sviluppi positivi» prendendo dunque atto che l’obiezione non provoca una disfunzione nell’applicazione della legge n. 194 e del 1978 (sul punto si veda la Relaz. al Parlamento del Min. della salute sull’attuazione della l. n. 194/1978, 7 dicembre 2016, p. 57).
[69] La conferma proviene dalle relazioni al Parlamento presentate dal Ministero, basate su dati e parametri regionali accuratamente individuati e raccolti, che mostrano che «non sembra essere il numero di obiettori di per sé a determinare eventuali criticità nell’accesso alle Ivg ma probabilmente il modo in cui le Strutture Sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge 194/78» (relaz. Min. Speranza del giugno 2020). Quanto agli anni precedenti (dati 2018), risulta che il 15% dei ginecologi non obiettori non è assegnato al servizio Ivg; un dato che conferma che la situazione non è critica.
[70] La Mississippi’s Gestational Age Act osserva infatti come, dopo le 15 settimane di gestazione, le modalità per effettuare l’aborto consistano inevitabilmente in procedure per distruggere il feto che sono “barbare” nonché pericolose per la salute della madre. Peraltro è dal 2003 che gli Stati Uniti hanno bandito l’atroce pratica del partial-birth abortion, rispetto alla quale viene in mente, rispetto all’ordinamento italiano, la l. n. 413/1993, sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, che tutela quanti «si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi» (art. 1).
[71] Com’è noto, la medesima sentenza ha altresì ritenuto che non ci sia equivalenza fra il diritto alla vita dell’embrione, «che persona deve ancora diventare», e il diritto «non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre».
[72] Su cui C. CASINI e M.G. GIAMMARINARO, in Bioetica, 5/1997, p. 425.
[73] Cfr. Center for Reproductive Rights, 2021, https://reproductiverights.org/maps/worlds-abortion-laws/
[74] Così il CNB, Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum, 16 dicembre 2005, p. 9.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
Giustizia Insieme pubblica la relazione annuale dell’Autorità Garante delle Persone Private della Libertà Personale, presentata il 20 giugno 2022 al Senato alla presenza del Presidente della Repubblica.
La relazione, ricchissima di dati e di informazioni, ha come sempre il merito di richiamare gli interlocutori istituzionali - il Parlamento, il Governo nelle sue articolazioni centrali e periferiche e la Magistratura - ai loro compiti di tutela e promozione dei diritti di chi, in una fase più o meno lunga della propria vita e per diversi motivi, subisce una limitazione coattiva o, comunque, non scelta, della propria libertà. Tanti i temi toccati, con rigore e attenzione, da quelli più "classici" dell'esecuzione penale detentiva e delle misure di sicurezza, con il richiamo alle istituzioni perché il percorso delle REMS venga portato a compimento, all'attenzione alle detenute madri ed ai loro figli, passando per la gestione strutturale, e non più emergenziale, della prima accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, fino alle relativamente nuove questioni poste dalle RSA in epoca pandemica. Un lavoro che, anno dopo anno, disegna un quadro di quanto è stato fatto e quanto è da fare, ed è scritto per accompagnare il lettore nell'anno in corso, sollecitando un impegno duraturo.
https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/
L’aborto, il diritto ed il vento della “bozza Alito” della Supreme Court sul piano interno
Editoriale
Giustizia Insieme ha deciso di aprire una riflessione plurale a margine della pubblicazione non autorizzata della bozza di decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che, qualche mese fa, è stata resa pubblica senza autorizzazione.
La c.d. bozza Alito - dal nome del giudice che ha redatto l’opinione - dalla quale sembrano emergere le linee portanti di quello che si preannunzia come un inaspettato revirement giurisprudenziale rispetto ai precedenti della stessa Corte che avevano riconosciuto il fondamento costituzionale del diritto all’aborto e la carenza di potere legislativo rispetto ad ipotesi di divieto di praticare l’aborto, al netto delle polemiche che ha suscitato e suscita negli Stati Uniti per la fuga di notizie, offre l’occasione, assai importante, di tornare su un tema tradizionalmente divisivo anche sul versante interno, pur caratterizzato da un diritto scritto e vivente ben consolidato.
I piani di riflessione da affrontare sembrano essere molteplici e plurali se si guarda al mondo degli operatori del diritto interno.
Per un verso sembra evidente l’interesse per il preannunciato grand arrêt che, riguardando un tema coinvolgente posizioni giuridiche di particolare valore quali i diritti del concepito e della donna ed il loro bilanciamento impone, già sul piano della comparazione, particolare attenzione.
Ed invero, l’attività di emersione dei diritti fondamentali ed il controllo di legalità in tal modo realizzato sono ormai alimentati dalla comparazione (intesa come strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale) che, in apparenza non codificata, è desumibile dall’apertura della Costituzione – artt. 2, 3, 10, 11, 117, comma 1, Cost. – alle fonti sovranazionali. Tale cornice, in definitiva impone al giudice costituzionale il canone dell’interpretazione secondo tali fonti ma, a cascata, si ripercuote sull’interpretazione delle leggi che sono attuazione dei principi costituzionali da parte del giudice comune. D’altra parte, l’apertura al piano della comparazione data dallo stesso riferimento all’interpretazione sistematica contemplata dall’art. 12 disp. preleggi c.c. costituisce dato ineludibile tanto sul piano interno, per quanto detto, che su quello sovranazionale.
In definitiva, pochi dubitano ormai dell'efficacia e della rilevanza di siffatto metodo, soprattutto laddove si discuta di diritti fondamentali, capace di produrre un moto circolare fecondo quando la stessa traccia quasi inconsapevolmente una strada di comunanza di tutela dei diritti fondamentali.
Proprio sul piano interno e rispetto a temi eticamente sensibili la sentenza Englaro della Cassazione ha confermato come il ricorso al metodo comparatisitico costituisca in modo ormai stabile elemento indefettibile per applicare, interpretare, adattare o completare il diritto nazionale, specialmente quando quel diritto è obsoleto, poco chiaro, contraddittorio o addirittura carente.
Ora, la pronunzia della Corte Suprema anticipata dalla bozza Alito non potrà che inserirsi in questo circuito, pur provenendo da un’esperienza nella quale spesso la comparazione è stata fortemente osteggiata e senza che possa o debba comunque essere tralasciata la necessità di un uso accorto della comparazione, su tali questioni apparendo utile il rinvio alle riflessioni di Guido Calabresi sulle pagine di questa Rivista- cfr. Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, di R. Conti -
In questo contesto il prannunziato overruling giurisprudenziale della Corte Suprema rispetto ai precedenti che avevano codificato il diritto all’aborto come inserito nella Costituzione americana - cfr., in particolare, il caso Roe c. Wade e Planned Parenthood c. Casey - ma ancora più a monte come il tema del ruolo della giustizia costituzionale rispetto all’attività interpretativa della Costituzione ed al ruolo del decisore giudice rispetto ai compiti riservati al legislatore, costituzionale e non, costituiscono nodi gordiani ben presenti sul piano interno ed oggi messi al centro di analisi che segnano una contrapposizione, tanto latente quanto insanata, fra diversi sentire a proposito del ruolo e dela funzione della Costituzione, della giurisdizione, dell’interpretazione dei diritti fondamentali e della legittimità e legittimazione verso operazioni di bilanciamento.
A ragionare insieme su questi ed altri temi saranno la Professoressa Giovanna Razzano, ordinario di diritto costituzionale dell’Università La Sapienza di Roma - A proposito della bozza Alito, l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, l’Avvocata del foro di Bologna Maria (Milli) Virgilio, pres. Assoc. GIUdiT-Giuriste d’Italia e la Professoressa Maria Rosaria Marella, ordinaria di diritto privato presso l’Università di Perugia.
Pubblichiamo di seguito il contributo della Professoressa Razzano.
Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini
di Giovanni Landi
Sommario: 1. Confessione di un massacro - 2. Fra le baracche di Ostia - 3. La parola alla giustizia - 4. L’Appello e i complotti.
1. Confessione di un massacro
Un’auto contromano a folle velocità. Inizia con una doppia infrazione stradale la storia giudiziaria dell’omicidio Pasolini, un enigma che dura da quasi mezzo secolo. Una vicenda talmente simbolica da sembrare essa stessa un’opera: per la vittima, prima di tutto, intellettuale gigantesco e tormentato; per il presunto colpevole, archetipo umano ed estetico dei «ragazzi di vita», e quindi di un mondo che il poeta aveva disvelato e narrato come nessuno prima; per la collocazione temporale: il giorno dei Morti del 1975, centro esatto degli anni di piombo e del secondo Novecento; infine, per i risvolti processuali, i comprimari, le clamorose rivelazioni e le domande irrisolte.
La corsa illecita di quella macchina è breve. Vedendola sfrecciare sul lungomare Duilio di Ostia, all’1.30 di notte, una volante dei carabinieri la affianca e la blocca. Ma a scendere dal posto di guida non è il proprietario, bensì un diciassettenne di Guidonia di nome Pino Pelosi, tanti riccioli scuri e un viso da furbetto. Sulla fronte ha una piccola ferita, da lui attribuita alla brusca frenata. «L’ho rubata sulla Tiburtina», mente in commissariato. Una bugia che dura poche ore: i militari accertarono che l’Alfa Romeo GT è di Pier Paolo Pasolini, e alle 6.30 di quel 2 novembre 1975 il cadavere dello scrittore viene rinvenuto su una strada sterrata dell’Idroscalo di Ostia, con i segni chiari e visibili di un feroce massacro. È Ninetto Davoli a effettuare il riconoscimento. A tre metri di distanza giace un anello con una pietra rossa: sarà la pistola fumante per inchiodare Pelosi. Dopo l’arresto, infatti, il ragazzo aveva confidato agli agenti di aver perso un anello, pregandoli di cercarlo nella macchina. Quasi una firma dell’assassinio, o una clamorosa ingenuità. A quel punto, il giovane viene svegliato nella sua cella di Casal del Marmo e interrogato dal magistrato Luigi Tranfo. La sua confessione è immediata. Racconta di essere stato «abbordato» dal poeta in piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione Termini di Roma, intorno alle 22.30. Dopo una pausa in trattoria, dove Pelosi aveva consumato una cena tardiva, si erano fermati a un distributore di benzina e avevano proseguito per l’Idroscalo di Ostia, parcheggiando sotto la porta di un campetto di calcio rudimentale, a pochi metri da un nugolo di baracche abusive. Ventimila lire la ricompensa promessa. Al termine di un veloce rapporto orale, però, Pino era sceso dall’auto e la situazione era degenerata. Pasolini aveva preteso altre prestazioni, avvicinandosi al diciassettenne con un bastone: «“Ma che te sei impazzito”, gli dissi. Nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto, tanto che ne ho avuto proprio paura». Il ragazzo aveva tentato di scappare, ma era stato aggredito con il randello di legno, da cui la ferita alla fronte. Aveva provato a correre di nuovo, rimediando altri colpi «alla tempia e in varie parti del corpo». Quindi aveva raccolto da terra una tavola e l’aveva spaccata in testa all’aggressore, senza tuttavia riuscire a fermare la sua smania violenta. «Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ho trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei pezzi della tavola l’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare». L’interrogato spiega poi di essere salito sull’Alfa Romeo per tornare a casa. Il magistrato gli riferisce che il poeta, al termine del massacro, era stato addirittura sormontato dall’auto in fuga. Il giovane nega di averlo fatto volontariamente, e conclude: «Ho agito per difendermi e ho avuto l’impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare, per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo. Anzi, siamo stati sempre soli io e il Paolo, dal momento in cui abbiamo lasciato l’osteria fino a quando è successo quello che è successo».
2. Fra le baracche di Ostia
Lo sconcerto per la fine di un personaggio tanto conosciuto e discusso si somma fin da subito alle analisi sul significato e sulle cause di un episodio così tragico. Nel corso del funerale, Alberto Moravia urla tutta la propria disperazione per la perdita di un poeta vero, quando «di poeti ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo». L’apparente coerenza fra opera e biografia inquieta. Pier Paolo Pasolini aveva costantemente avvertito la società sul pericolo di una violenza dilagante e appiattente, da ultimo all’indomani dei fatti del Circeo, avvenuti appena due mesi prima, ma si era anche fatto interprete di un’esistenza votata al rischio, alla provocazione, all’esperimento. «Amo la vita ferocemente» aveva scritto, «così disperatamente, che non me ne può venire bene». Inizia ad originarsi, in questo lutto inatteso, il mito pasoliniano giunto fino a noi, con il suo carico di bellezza, dolore, struggimento. E mistero.
La confessione di Pelosi non convince gli amici di Pasolini e i legali della famiglia. Il sospetto che il borgataro intenda coprire qualcuno aleggia nell’aria immediatamente. A risultare auto-evidente, in primo luogo, è la sproporzione fra le condizioni fisiche dei due protagonisti dell’evento. Il verbale parla di una crudele lotta reciproca sfociata nel sangue per legittima difesa, ma mentre la vittima, cioè il presunto assalitore, ha subìto lesioni gravissime e mortali, l’omicida, ovvero «l’aggredito», la notte fatidica aveva appena una ferita alla testa, piccole ecchimosi ed escoriazioni alle mani e alle gambe e una frattura incompleta al setto nasale. I vestiti erano asciutti e riportavano tre macchie ematiche quasi invisibili. E infatti i carabinieri che lo avevano arrestato non avevano sospettato nulla. Gli oggetti di legno trovati vicino al corpo, leggeri e friabili, appaiono inidonei a causare un tale scempio. Ma a lasciare perplessi è anche il motivo di una reazione così violenta, culminata con un investimento, e l’incapacità dello scrittore, forte e in salute, di difendersi di fronte all’improvvisa furia di un ragazzino. Nell’Alfa Romeo, poi, vengono rinvenuti un maglione verde e un plantare non appartenenti né a Pasolini né a Pelosi.
In un’inchiesta a puntate pubblicata sul settimanale «L’Europeo», Oriana Fallaci elenca i dubbi sulla vicenda e riferisce il racconto di una fonte anonima, secondo la quale il poeta sarebbe stato ucciso da due teppisti giunti sul posto in motocicletta. Furio Colombo, peraltro autore dell’ultima intervista a Pasolini, riporta sulla «Stampa» la testimonianza di un baraccante: «Lo scriva che è tutto uno schifo, che erano in tanti. Lo hanno massacrato quel poveraccio. Erano quattro o cinque». Alcuni discepoli di Pasolini, come i fratelli Franco e Sergio Citti e lo sceneggiatore Enzo Ocone, avviano una serie di indagini parallele, e lo stesso fa il legale della famiglia, Nino Marazzita. Il lavoro della magistratura, nel frattempo, viene accusato di approssimazione: la scena del delitto non è stata circostanziata, l’automobile è stata lasciata alla pioggia, gli interrogatori dei residenti sarebbero stati incompleti e tardivi.
La stampa si divide. Se a sinistra inizia a emergere l’ipotesi del complotto contro un intellettuale scomodo, o comunque di un martirio sociale e culturale, le principali testate conservatrici si ribellano a qualsiasi mitologia e confermano – o approfondiscono – la loro storica ostilità verso un nemico del buon costume e della moralità. Franco Grattarola, nel ricchissimo saggio Pasolini. Una vita violentata (Coniglio, 2005), restituisce con lucidità il clima di quei giorni. Il delitto viene circoscritto e spiegato nella dinamica corrotto-corruttore. Quando lo stile comportamentale è quello della devianza e della libidine, si nota, la morte violenta diventa un accidente prevedibile, persino necessario. Il ribaltamento di prospettiva è totale. Di fronte alle tesi cospirative, il «Borghese» parla di una «sporca, sordida speculazione politica». «Fosse stato ucciso, poniamo, da un “fascista”, egli, oggi, sarebbe il martire della resistenza. Purtroppo per i suoi apostoli, egli era sempre primo nelle ore di un solo pericolo: quando scoccava un raptus indomabile che si esercitava su “ragazzi di vita”, nei quali il bisogno spinge, spesso, a non difendere a oltranza la inviolabilità del pudore. Il diciassettenne che recalcitra e per sottrarsi a turpitudini uccide, non muove il mondo della sinistra neppure a pietà; è considerato indegno di interesse e difesa. Il martire dell’idea è soltanto lui, Pasolini, che si è immolato sul fronte dell’amore socratico». Senza alcuna continenza verbale, «La Gazzetta del Sud» considera il defunto «un omosessuale perverso»: «La sua morte non ci turba, né ci commuove, né ci emoziona». «I ragazzi di vita gli hanno dato la morte», ironizza «Lo Specchio». Sulle pagine del «Candido», Paolo Pisanò esprime la sua delusione per un uomo che pure aveva seguito con speranza e interesse, considerandolo come l’oppositore del mondo disumanizzato e consumista e della violenza bestiale che da esso si sprigiona. Invece «la sua morte, purtroppo, ha cancellato di colpo quello che si è rivelato un abbaglio, un’illusione: lungi dall’essere concretamente un campione di quella lotta, Pasolini si è rivelato, in punto di morte, un portatore di quei valori negativi e di quella violenza che egli diceva di combattere e condannare». E conclude: «Quella tragica notte, fra le baracche del lido di Ostia, il rapporto era estremamente rovesciato: volendo usare termini correnti, Pasolini era “il mostro”, Pelosi “la vittima”».
Ma i distinguo e i biasimi si ritrovano anche a sinistra. Sul «Manifesto», Rossana Rossanda e Luigi Pintor invitano a non cadere in ipocrisie e a sanzionare la mercificazione del corpo. Su «Paese Sera», giornale paracomunista, Edoardo Sanguineti è severo: «Sembra impossibile negare a questa morte i tratti di un suicidio preparato minuziosamente, quasi a completare il disegno di una persecuzione perpetuata lentamente, e, al tempo stesso, un lungo progetto di confusione tra arte e vita, tra letteratura e esistenza». Lo stesso quotidiano ospita un intervento dello psicologo Ignazio Maiore, che di PPP ricorda il dolersi per il diffondersi della delinquenza negli strati popolari e giovanili, dai quali, presago, si sentiva minacciato. «Erano quegli stessi giovani che lo attraevano in maniera coatta, per lui inarrestabile». E ancora: «Il problema più profondo dell’omosessualità è la difficoltà di sopportare la convivenza e la rivalità con il proprio sesso, che viene sentito come persecutorio e pericoloso, come appunto accadeva a Pasolini. In definitiva, un rapporto omosessuale è basato più sull’odio che sull’amore. Pasolini ha cercato in tutti i modi di spadroneggiare ed esorcizzare il suo dramma. Ha perduto. La sua poesia non l’ha salvato». Il Pasolini offeso, boicottato e incompreso, il Pasolini che in vita aveva subìto oltre trenta procedimenti giudiziari, vendendo accusato dei reati più diversi – fra questi, corruzione di minori, vilipendio alla religione, persino rapina a mano armata – riemerge in molti commenti successivi al delitto, e continuerà a farlo nel corso del processo a Pino Pelosi, quando la principale strategia difensiva dell’imputato, o meglio dei suoi legali, sarà quella di far precipitare definitivamente nel fango la vita e l’opera della vittima.
3. La parola alla giustizia
Il dibattito giornalistico si rispecchia nella tensione scatenatasi intorno al collegio difensivo di Pino Pelosi. L’avvocato d’ufficio dura una notte, mentre il primo legale di fiducia, scelto su consiglio di un compagno di cella, viene revocato dopo due giorni. Il 5 novembre il giovane indagato firma una tripla nomina: i fratelli Tommaso e Vincenzo Spaltro e Rocco Mangia, difensore di uno dei massacratori del Circeo. Il nome di Mangia, noto giurista di destra, è stato suggerito ai genitori di Pelosi da un cronista del «Tempo», il massone Franco Salomone. Ma il terzetto si fraziona subito. Mentre gli Spaltro propendono per la tesi del complotto, temendo che l’assistito taccia l’identità dei veri colpevoli, Mangia sceglie un’altra linea. Pelosi dice la verità: ha agito da solo perché provocato da un adulto corruttore. Prevedibilmente, a metà novembre Mangia diventa l’unico difensore del ragazzo. Il detenuto viene interrogato altre tre volte, nel corso delle quali aggiunge alcuni particolari e ribadisce l’assenza di complici. Nel frattempo, il procuratore generale Walter del Giudice, lamentando la lentezza delle indagini, avoca a sé l’inchiesta e la affida a un altro magistrato, Guido Guasco. Il 10 dicembre 1975, il reo confesso Pelosi è rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario.
Il processo per il delitto Pasolini inizia il 2 febbraio 1976 di fronte al tribunale minorile di Roma. Presidente del collegio giudicante è Carlo Alfredo Moro, fratello del politico DC, giudice a latere è Giuseppe Salmè. L’accusa è rappresentata dal sostituto procuratore Giuseppe Santarsiero, mentre la parte civile si è affidata a Nino Marazzita e Guido Calvi, con delega firmata dall’anziana madre dello scrittore, Susanna Colussi.
Rocco Mangia punta sull’immaturità di Pelosi e sulla legittima difesa, sperando nella non imputabilità o in un esito di omicidio preterintenzionale o colposo. Fin dalle sue primissime istanze, appare chiaro come l’avvocato intenda tramutare il procedimento nell’ultimo, definitivo processo a Pasolini. Malgrado l’imputato sia minorenne, chiede le «porte aperte» e le telecamere; contesta la costituzione di parte civile, sostenendo l’incapacità d’intendere e di volere della signora Colussi; cerca di far acquisire agli atti il corposo fascicolo sui procedimenti giudiziari contro l’intellettuale; propone come testimoni numerosi oppositori di Pasolini. In quel periodo, tra l’altro, è arrivato al cinema – ed è stato subito sequestrato – il film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma, definito da un settimanale un «mostruoso testamento». Mangia ha buon gioco nell’additare la pellicola come la conferma dell’indole sadica del regista. L’attore Uberto Paolo Quintavalle, membro del cast, porta alle stampe il libello Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, ricco di pettegolezzi e indiscrezioni sul periodo delle riprese. La difesa di Pelosi tenta senza successo di far acquisire anche quel testo.
In udienza non mancano colpi di scena e aspre polemiche. Mario Appignani, il futuro disturbatore “Cavallo Pazzo”, irrompe in aula accusando dell’omicidio due conoscenti dell’imputato, salvo rimangiarsi tutto. Oriana Fallaci rifiuta con forza di rivelare la fonte della sua inchiesta giornalistica, che per alcuni era lo stesso Appignani. E ancora: si viene a sapere che due giovanissimi amici di Pelosi, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, hanno confidato a un carabiniere infiltrato di aver partecipato al delitto. Interrogato a più riprese, però, il più grande giura di essersi inventato tutto per semplice vanteria.
L’audizione del medico legale Faustino Durante, perito di parte civile, rappresenta un momento essenziale. Planimetrie e autopzia alla mano, lo specialista dimostra come lo scrittore fosse stato volontariamente «sormontato» dalle ruote dell’auto, e non «schiacciato» dalla parte inferiore della vettura, come dichiarato dai consulenti d’ufficio. Inoltre, le lesioni sul cadavere vengono giudicate incompatibili con il bastone e la tavoletta rinvenuti sul posto. Il perito analizza nel dettaglio le varie fasi della lotta per ritenere contraddittoria «la constatazione che il Pelosi sia rimasto indenne da ampi imbrattamenti di sangue», visto che nella prima fase Pasolini era senz’altro in grado di reagire, essendosi addirittura tolto la camicia e avendo percorso a piedi molti metri. Il perito si concentra poi su una macchia ematica trovata sullo sportello anteriore del passeggero; la traccia lascia aperta la possibilità che, al momento della fuga, ci fosse qualcun altro.
Durante il suo esame, Pino Pelosi ribadisce di aver agito da solo. Tutti i periti del processo, in maniera inaspettata, concordano sulla sua immaturità, sottolineando la debole strutturazione dell’Io, la superficialità affettiva e la povertà culturale.
La parte civile chiede la condanna del diciassettenne e enumera gli indizi su un concorso di persone, dopo di che si ritira dal processo ed evita di pretendere un risarcimento. Nella relazione fornita alla Corte, Marazzita e Calvi tratteggiano un accorato ritratto artistico e umano della vittima: «Pelosi è di questo processo, è di questo tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché è di un’altra realtà». Anche la pubblica accusa reclama la condanna per omicidio volontario in concorso con ignoti. Nella sua lunga arringa, l’avvocato Mangia chiede l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere e lancia duri improperi contro la stampa, la parte civile e PPP.
La sentenza arriva il 26 aprile 1976, quando il giudice Moro e i suoi colleghi condannano Pino Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti, furto d’auto e atti osceni. Vista la minore età e le attenuanti, la pena comminata è di nove anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione. La tesi dell’immaturità è rigettata, poiché il giovane era in grado di «percepire il significato antisociale dell’atto omicida». Quanto ai complici, «il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».
4. L’Appello e i complotti
Al termine del primo grado, la Procura generale sostituisce il pm Santarsiero con Guido Guasco, il quale prende una decisione eclatante: impugna la sentenza Moro per contestare il concorso con ignoti, ovvero la tesi sostenuta dal suo stesso predecessore. A fare ricorso, naturalmente, è anche la difesa, che continua a puntare sull’immaturità e sul gesto colposo. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello conferma la condanna per omicidio volontario e furto d’auto, assolve per atti osceni e stralcia il concorso con ignoti. I giudici cercano di smontare tutti gli indizi sulla presenza di terze persone. La sproporzione fra le ferite, ad esempio, può essere spiegata ipotizzando che sia stato Pelosi ad aggredire per primo l’altro, «cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi». La pronuncia esclude che Pasolini abbia cercato di violentare il giovane, e quindi l’interrogativo sul movente «è destinato a rimanere senza risposta». Forse Pelosi voleva rapinare l’uomo e rubargli l’auto, oppure aveva esagerato con la violenza dopo un banale litigio, uccidendo per guadagnarsi l’impunità.
Il 26 aprile 1979 la Cassazione conferma totalmente la sentenza d’Appello, ma non mette la parola fine agli enigmi. Nel corso di questi cinque decenni, il relativo fascicolo giudiziario è stato riaperto – e chiuso – quattro volte, mentre sono fioccati i libri, i film e le teorie alternative sulla notte dell’Idroscalo. Il 1987 è la data della prima riapertura dell’inchiesta, attuata su istanza dell’avvocato Marazzita. Lo scopo era verificare un eventuale coinvolgimento nel delitto di Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», un criminale romano amico di Pelosi e il cui nome compariva in alcune lettere e indiscrezioni. Nel 1995 i magistrati romani tornano a indagare sul caso a seguito del film di Marco Tullio Giordana Pasolini – Un delitto italiano, da cui è tratto l’omonimo libro: una ricostruzione puntigliosa di tutti gli elementi a favore della pluralità di assassini. Dieci anni dopo, il 7 maggio 2005, va in scena la svolta più clamorosa e controversa: Pino Pelosi cambia platealmente versione e si dichiara innocente. Lo fa durante un’intervista televisiva concessa a Franca Leosini per la trasmissione di Raitre Ombre sul Giallo. L’ex ragazzo di vita, ormai quarantaseienne, racconta tutta un’altra storia: lui e il poeta erano stati aggrediti da un gruppo di persone, le quali avevano massacrato Pasolini a suon di insulti («Arruso, fetuso, sporco comunista»), e avevano indotto lui al silenzio sotto minaccia («Fatti i cazzi tuoi, sennò uccidiamo pure te e tutta la tua famiglia»). Ora che era rimasto solo, essendo morti i genitori, Pelosi si era deciso a rivelare la verità.
Il caso si riaccende con prepotenza. Il giorno dopo, il «Corriere della Sera» ospita un’intervista a Sergio Citti, storico collaboratore di Pasolini, secondo il quale il regista sarebbe stato tirato in trappola da alcuni malviventi con la scusa delle pellicole rubate di Salò. Ed ecco la terza inchiesta, archiviata in ottobre senza nuovi riscontri. Nel frattempo le teorie del complotto si sono affinate. Una delle più rilevanti riguarda il romanzo incompiuto Petrolio, pubblicato postumo nel 1992. In esso Pasolini sembra accusare Eugenio Cefis di aver ordito l’attentato contro il presidente dell’ENI Enrico Mattei. Altre tesi hanno parlato di una spedizione punitiva di stampo omofobico e politico, di un suicidio rituale, della P2, della volontà di silenziare una voce libera e capace di scottanti rivelazioni.
La quarta e ultima istruttoria, sollecitata da un cugino di Pasolini e dallo stesso ministero della Giustizia, dura cinque anni, dal 2010 al 2015. Fra i diversi testimoni ascoltati ci sono anche alcuni baraccanti dell’epoca. La signora Anna ricorda di aver sentito, quella notte, «voci di diverse persone, sicuramente più di due». Ora che è possibile, gli inquirenti dispongono le analisi del DNA sui reperti dell’omicidio, ovvero i vestiti e i bastoni conservati nel museo criminologico di Roma. In effetti, emergono materiali biologici appartenenti a terze persone, ma le tracce, come sempre, non sono databili, né risultano riferibili ad alcun sospettato, come Mastini o i Borsellino. Nel frattempo, Pelosi cambia ancora una volta versione in un libro dal titolo Io so… come hanno ucciso Pasolini (2011): con l’intellettuale si frequentava da tempo, dice, ma malgrado ciò aveva accettato di fare da intermediario nella restituzione delle bobine di Salò. Arrivati all’Idroscalo, erano stati raggiunti dai fratelli Borsellino e da altri ignoti assalitori. Di fronte ai pm, il condannato ribadisce questa nuova ricostruzione, apparendo sempre meno credibile. Le sue giravolte e contraddizioni lo rendono ormai un personaggio tragico. Neanche stavolta, insomma. si raggiungono risultati concreti. Il 25 maggio 2015 il Gip di Roma dispone l’ultima archiviazione. Nel provvedimento, la presenza di altri soggetti viene ritenuta «molto probabile», ma si rivela la difficoltà di stabilirne l’identità. Nessun altro magistrato interverrà in futuro sulla vicenda.
Pino Pelosi è morto di cancro il 20 luglio 2017, portando con sé, se c’è, la verità definitiva su quel 2 novembre 1975. L’omicidio Pasolini, eterno mistero italiano, continua a chiamare a rapporto le nostre coscienze, così come l’intera, straordinaria opera della sua vittima.
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