ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista a Beatrice Secchi, candidata al C.S.M. per le elezioni del 18 e 19 settembre 2022
di Antonella Magaraggia
Come ti racconteresti a un elettore che non ti conosce?
Sono entrata in magistratura nell’ottobre del 1991 e ho sempre svolto le mie funzioni come giudice presso il Tribunale di Milano, occupandomi per oltre 25 anni del settore penale (prima al GIP, poi al dibattimento dove, tra l’altro, per dieci anni ho trattato reati contro i soggetti deboli). In passato sono stata membro del Consiglio Giudiziario di Milano. Dalla fine del 2019 svolgo le mie funzioni presso la sezione civile che si occupa di diritto di famiglia. Ho sempre avuto particolare interesse per i settori nei quali più evidente è la necessità di tutela dei diritti fondamentali delle persone e delle fasce deboli (benché sia evidente che ognuno di noi, in qualunque settore operi, tutela diritti). In questa prospettiva, ho dedicato particolare attenzione non solo alle problematiche afferenti la migliore tutela dei cd. soggetti deboli, ma anche a quelle relative alla tutela dei diritti degli imputati con disagio psichico e ho collaborato sia per la predisposizione di un Protocollo operativo in tema di misure di sicurezza psichiatriche sia per la formazione nella relativa materia. Ho sempre cercato di evitare un approccio burocratico al lavoro, cercando di cogliere le vicende umane sottese ad ogni fascicolo.
La consiliatura che volge al termine è stata travolta dalla cd. questione morale, che ha portato la magistratura a un minimo storico di credibilità, sia all’interno che nella valutazione dei cittadini. In che modo si può invertire la rotta?
Gli eventi della primavera del 2019 sono stati assolutamente dirompenti e hanno reso palese una realtà drammatica, della quale peraltro si avevano vari segnali. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Una delle più gravi è -secondo me- l’ attuale disaffezione di molti colleghi (soprattutto i più giovani) per qualsiasi forma di partecipazione alla vita associativa, l’astensionismo dal voto, la sfiducia profonda nell’organo di autogoverno. E’ assolutamente necessario, anche in considerazione della ritrovata possibilità di svolgere di nuovo riunioni in presenza, iniziare nuovamente a confrontarsi negli uffici (e non solo tra appartenenti allo stesso gruppo), parlare con i colleghi più giovani (che guardano ai più anziani con forte sospetto), spiegare loro, da un lato, le ragioni della necessità di impegno nella vita associativa e , dall’altro, aiutarli ad elaborare una visione del nostro lavoro non burocratica, ma realmente impegnata. Sarà poi imprescindibile un’azione estremamente chiara e trasparente del Consiglio, come dirò di seguito.
L’attività del Consiglio è spesso - e ingiustamente - ricondotta alle nomine dei direttivi e dei semidirettivi. In realtà riguarda molto altro (l’organizzazione degli uffici, le condizioni di lavoro, le valutazioni di professionalità, i carichi di lavoro ecc.). Ritieni che ci siano cambiamenti da portare?
Nelle condizioni che si sono venute a determinare questo Consiglio ha svolto un’opera per molti versi meritoria, confrontandosi con le numerose vicende interne ed esterne con grande trasparenza. Si è però chiaramente pagato un prezzo sul piano della efficienza, perché i tempi delle nomine o delle valutazioni di professionalità si sono dilatati oltremodo rispetto al passato, con criticità nella percezione dei colleghi.
Per quanto riguarda le altre materie, andrà affinata la riflessione ordinamentale sugli uffici requirenti, proseguendo nell’adozione di strumenti di normazione secondaria rispondenti alle peculiarità degli uffici, temperando l’ organizzazione gerarchica voluta dal legislatore sin dal 2006 e adattandola ai principi costituzionali di soggezione dei magistrati solo alla legge.
Sono anni che sento i colleghi lamentarsi del fatto che le Procure dal 2006 in poi sono diventate “caserme”; la gestione dell’ufficio requirente non può essere assembleare, ma nemmeno autocratica; il Consiglio deve lavorare su questo crinale sia per eventuali miglioramenti della circolare sia in settima commissione sui casi concreti che non di rado presentano importanti criticità. E’ però necessario che il nuovo Consiglio sappia affrontare e reagire a narrazioni, sempre più diffuse, che vedono gli Uffici delle Procure come “partito dei p.m.” che partecipa alla lotta politica adottando decisioni non nell’ambito delle proprie attribuzioni e responsabilità, ma in vista della tutela di questa o quella parte politica o interesse economico-finanziario. Si tratta di una deriva che ha gravi meccanismi distorsivi.
Per quanto attiene agli uffici giudicanti, la cultura tabellare può dirsi ormai radicata, anche se forse -nei limiti del possibile- sarebbe necessaria una maggiore semplificazione.
Più in generale, quello della semplificazione -delle procedure, delle circolari, persino, direi, del “linguaggio”- è un tema sensibile, che può fare recuperare credibilità al Consiglio.
Nei programmi di ogni tornata elettorale si parla di trasparenza dell’attività del Consiglio e di semplificazione delle procedure, finalità solo in parte raggiunte. Quali le tue proposte?
In punto “trasparenza attività del consiglio” innanzitutto sarà necessario proseguire nella via tracciata da questo CSM con la rigida calendarizzazione delle varie pratiche (in primo luogo quelle di nomina dei direttivi e semi direttivi) secondo criteri oggettivi e predeterminati, la velocità nelle nomine, la massima attenzione alle difficoltà specifiche di ogni singolo ufficio. Tutto questo nella certezza che solo un lavoro intenso, di qualità, efficiente e verificabile potrà consentirci di acquisire, come è stato in tante stagioni passate, la fiducia dei cittadini.
Più nello specifico, sarà necessario continuare con la notifica settimanale degli ordini del giorno sulla posta elettronica di tutti i magistrati e con un’informazione capillare su qualsiasi intervenuta modifica tabellare nell’ufficio di appartenenza consentendo di seguire l’attività consiliare pressoché quotidianamente.
Il “Diario” è anche riuscito a fornire spiegazioni in ordine alle dinamiche consiliari. La mia proposta per mantenere questo stesso livello di qualità e puntualità nell’ informazione è quella di garantire la pubblicazione della calendarizzazione dei lavori delle commissioni e rendere noto lo stato delle singole pratiche per fare in modo che ogni magistrato possa accedere alle necessarie informazioni, senza dovere acquisirle con modalità “informali” (insomma creare un sistema di tracciabilità tipo “pacco Amazon”).
Per la semplificazione mi riporto a quanto ho detto sopra.
Gli uffici sono attualmente impegnati nell’attuazione del programma riguardante PNRR, anche tramite gli Uffici per il processo. Come pensi debba muoversi il Consiglio nel monitorare/valutare i risultati e nei rapporti con il Ministero della giustizia?
L’Ufficio per il processo rappresenta una grande opportunità per migliorare il nostro modo di lavorare, ma perché questo possa veramente accadere è necessaria la disponibilità dei magistrati a modificare alcune abitudini lavorative e una dirigenza capace di organizzare l’attività degli UPP. Pur trattandosi di assunzioni temporanee, destinate al solo settore giudicante, un loro appropriato utilizzo potrebbe apportare consistenti miglioramenti, consentendo che l’attività del giudice si concentri sugli aspetti essenziali. E’ però necessario un valido coordinamento nell’organizzazione di queste attività, per fare in modo che risorse fondamenti non vengano disperse o utilizzate in modo inappropriato (per lo svolgimento di incombenze non strettamente funzionali all’ obiettivo). Lo scopo fondamentale del PNRR è sicuramente la riduzione dei tempi del processo e, dunque, l’abbattimento dell’arretrato: è quindi necessario, e ormai assolutamente urgente, offrire agli UPP un’adeguata formazione, dotarli di risorse tecnologiche e materiali e inserirli in uno schema organizzativo attentamente pensato e ben definito.
Proprio in riferimento all’informatizzazione degli Uffici e alla dotazione delle risorse, dovrà essere sempre più proficua la collaborazione fra le strutture del Consiglio ed il Ministero, nel rispetto della rigida ripartizione delle competenze voluta dalla Costituzione. E’ infatti necessario evitare sconfinamenti delle competenze ministeriali che tendono, secondo la normativa ordinaria ed la riforma dell’ordinamento giudiziario, ad ampliarsi.
In tre parole, come vorresti definire il Consiglio che verrà?
Indipendenza, rigore morale, semplificazione.
Intervento di Mario Serio in occasione della presentazione a Palermo il 7 maggio 2022 del libro a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti “Diritto, verità, giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”
Oggi è una giornata felice per l'Ateneo di Palermo, rappresentato dai vertici dei suoi organi di governo, che ospita questa presentazione: e ciò per una molteplicità di ragioni, alcune delle quali di immediata evidenza, quali la qualità ed il calibro degli intervenuti, sia come relatori sia come osservatori. La circostanza è particolarmente significativa non soltanto dell'interesse suscitato dalla presentazione del volume di omaggio a Sciascia curato da Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, ma soprattutto della rilevanza che la figura di Leonardo Sciascia ancora oggi riveste in comunità di studi e di fattivo impegno civile quale quella accademica. Dibattere del pensiero di Sciascia sulla giustizia, anche alla presenza dei suoi più cari familiari, implica rievocarne la sua partecipazione al tema con competenza e raffinatezza, entrambe alimentate dalla preziosa, invisibile guida costituita da un egregio magistrato palermitano da qualche anno scomparso, il compianto Presidente Francesco Nasca, uomo di rara cultura e sensibilità, nonché portatore di un'idea di giustizia ispirata al razionalismo, mai disgiunto - al pari del grande scrittore - dalla capacità di analisi del contesto nel quale la vicenda giuridica, poi degenerata in caso giudiziario, è inscritta. In questa vena di acuta, lucida sofferenza si innesta il processo, e la relativa decisione, ossia quel che Salvatore Satta definiva il più inumano degli atti dell'uomo, quasi vano, non perché superfluo o contrario a ragione ma a causa del grande travaglio che inevitabilmente i protagonisti, ed in primo luogo il giudice, sono destinati a provare nel districarsi tra i rami di una vicende umana che fuoriesce dall'ambito della soggettività per essere governata da una norma oggettiva ed astratta la quale converte in una regola di giudizio universale quella che è, piuttosto, proiezione di una (dolorosa) vicenda individuale. Ebbene, proprio di storie individuali (semplici e non) è intessuta l'opera di Sciascia, storie nelle quali risaltano caratteristiche comuni al genere umane e dalle quali Egli ha saputo estrarre la regola universale di giudizio, seppur sovente implicito o inespresso nelle sue pagine. Ma Egli fornisce i criteri discretivi perché si pervenga alla formulazione, da parte del lettore, di un modello interpretativo della realtà rappresentata. E la rappresentazione non avviene soltanto attraverso le parole pronunciate, ma anche grazie agli ammiccamenti, alle mezze frasi, alle allusioni che si raccolgono nei circoli dei notabili paesani, ossia in quel microcosmo della Sicilia nel quale, ammaliato, ha trascorso puntigliosamente, per certi versi disperatamente, per altri speranzosamente, la propria vita. I Suoi ultimi anni sono stati esasperatamente segnati dalla enfatizzazione della nota frase circa la pretesa costruzione di un ceto giudiziario connotato dal crisma mediatico e dall'appariscente esibizione nell'attività di perseguimento di delitti di criminalità mafiosa. Vi è, tuttavia, da ritenere che costringere un'opera così imponente ed esemplare nella incerta e controversa interpretazione di un frammento linguistico non renda il tributo di cui l'Autore è meritevole per ragioni evidenti e coincidenti con quelle enunciate prima a proposito dell'idea di giudizio coltivato in tutta la Sua opera. Il mondo che Sciascia ci consegna con vivacità di accenti e con la raffinatissima tecnica del non detto, del trasmesso cioè alla mente ed all'opinione del lettore, è di per sé una guida, un orientamento verso le scelte valutative finali che si possono compiere solo coordinando tutte le fasi e tutte le manifestazioni della vasta e complessa produzione letteraria. E questo perché Sciascia è un maestro nel dipingere il mondo, nelle sue varie componenti e sottospecie antropologiche, della mafia siciliana. Essa viene presentata utilizzando solo di rado la parola “mafia” (o nella originaria versione “maffia”), ma evocandone il contesto sociologico ed ambientale, illustrandone i caratteri diffusi, sia oggettivi sia individuali. Essa viene raffigurata nel doppio mortale (in senso letterale) coefficiente di mediocrità e vanità. Si scorge la meschinità dell'uomo politico (privo di qualità) che cerca l'affermazione senza un progetto, del tutto privo di un programma effettivo. Non è necessario richiamare vicende passate e presenti, ma sempre immanenti alla nostra esperienza isolana, in cui l'apparente dialettica politica nasconde semplicemente un conflitto tra ego smaniosi ed avidi, in cui non traspare mai l'idealità della proposta a beneficio della collettività. Perché deborda soltanto la ricerca invereconda dell'affermazione del proprio potere, con le relative, vantaggiose ricadute economiche. Questo spiega l'opinione, qui professata, secondo cui la polemica o l'ingiusto dubbio ermeneutico sulla reale portata dell'idea di Sciascia sui professionisti dell'antimafia sono contraddetti dalla globale coerenza dei suoi innumerevoli scritti. Egli, infatti, ci addita le caratteristiche dell'azione multi-livello della mafia, ce le squaderna una dietro l'altra: l'omertà, la tacita complicità, l'irrisione nei confronti del Professor Laurana, il “cretino” di turno che crede di frapporre il candore della propria intelligenza speculativa alla prepotenza mafiosa. Non si vede quale altro argomento debba spendersi per attrarre saldamente il nostro Autore nella schiera dei baluardi alla lotta intellettuale alla mafia. Ma è doveroso aggiungere un ulteriore segmento critico, idoneo a dirimere ogni restante dubbio. Nel momento in cui Sciascia offre il quadro desolante dell'irredimibilità morale della sua terra permeata dalla mafia egli ci indica anche l'unica strada possibile per superare o almeno tentare di ridurre al minimo queste pesanti distonie dalla civiltà: quella della legalità. Essa, doverosamente declinata nel versante giudiziario, non può che trovare albergo ed espressione nella lotta alla mafia. Sarebbe davvero illusorio immaginare che il messaggio di Sciascia possa aver mai scoraggiato o scoraggi oggi la magistratura dal perseguire i delitti di mafia. È vero l'esatto contrario. Quale magistrato potrebbe o vorrebbe sottrarsi al compito di sviscerare gli incunaboli del potere politico infiltrato dalla criminalità mafiosa per affermare la parola di giustizia? Non può esservi alcuna frattura tra l'analisi socio-politico-letteraria dei lavori di Sciascia e l'azione giudiziaria. Non può esservi alcuna soluzione di continuità ed il potere giudiziario ben ha saputo raccogliere il testimone e quella siciliana, luminosamente presente in aula, in special modo. Credo, allora che si sia realizzato in sé stesso il disegno di Sciascia, attuato mediante l'ideale affidamento all'azione di giustizia delle chiavi per accedere al miglioramento sociale in virtù della sua grande dote di livellatrice delle diseguaglianze e della preclusione che essa interpone alla possibilità che dalle diseguaglianze stesse possano sorgere situazioni di prepotere e di egemonia disancorate dal merito e dal sacrificio insito nel lavoro. È circolare il discorso generato dal pensiero di Sciascia. Si può discutere finemente della dicotomia tra una dimensione votata all'ottimismo della volontà o viziata dal pessimismo della ragione ravvisabili nella letteratura Sciasciana, ma non si può non convenire sulla esistenza di un manifesto ideale di intolleranza e di militanza intellettuale nei confronti di e contro l'illegalità.
L'Autore volle impegnarsi anche in battaglie paragiudiziarie, quale quella descritta nel delizioso pamphlet “L'affaire Moro”. Ma quello era il tributo, il più nobile, che in un certo senso egli volle corrispondere alla propria limitata esperienza di parlamentare nazionale. Volle mostrare, cioè, che egli non apparteneva passivamente alla schiera dei deputati privi di iniziativa e di tensione e passione politica che scelgono così di estraniarsi colpevolmente dal circuito che li dovrebbe sempre collegare ai cittadini rappresentati.
Se si vuole prospettare una conclusione al ragionamento che precede occorre riconoscere l'esistenza di una non trascurabile appendice alla generale opera di Sciascia. Essa è necessariamente di squisita natura giudiziaria. Si tratta, infatti, di convertire il suo pensiero, per via logicamente e fedelmente deduttiva, in concreta attività giurisdizionale il messaggio letterario rivolto a rimuovere dalla società civile la illegalità mafiosa ed a sublimare i valori costituzionali dell'eguaglianza dei cittadini e della necessità che il progresso, il benessere, l'ascesa sociale provengano esclusivamente dal lavoro lecito e dalla rigida obbedienza ai precetti della legge. C'è da auspicare che una manifestazione come quella odierna possa contribuire a lasciare da parte le superficiali ed ingenerose interpretazioni delle parole prima ricordate, spesso strumentalmente rinfocolate per affievolire o svilire il messaggio genuinamente ed intrinsecamente antimafioso di Sciascia. Ciò, al contrario e senza riserve, va colto dalla sua feconda vita: ed è altrettanto indubbio che l'opera costante e serrata della magistratura, in particolar modo di quella siciliana, continui a procedere lungo quell'ammirevole solco, guidata proprio da quel pensiero.
Giudizi in corso e intervento legislativo. Dalla Consulta un altro arresto
di Tiziana Orrù
Il contenzioso sul trattamento economico del personale dell’Amministrazione affari esteri nei periodi di servizio in territori stranieri è l’occasione per la Corte costituzionale per rimettere un punto fermo sulla possibile interferenza della legge, giustificata da ragioni finanziarie, nell’attività giurisdizionale. Si rinnova così il dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero – 3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali – 4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione – 5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta – 6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo.
1. Premessa
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 145 depositata il 13 giugno 2022 (relatrice prof.ssa Sciarra) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni nella l. 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La decisione (allegata alla presente nota) ha ad oggetto il pagamento dell'indennità di amministrazione in favore del personale all'estero e pone termine ad un contenzioso “seriale” di ampia portata, che si è sviluppato in primo e secondo grado, circa la natura dell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che, interpretando l’art. 170 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), ha escluso l'indennità di amministrazione dal trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti del Ministero degli Affari Esteri in servizio all'estero.
La sentenza della Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità di tale interpretazione autentica limitatamente alle fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU.
La decisione desta un certo interesse non solo per il definitivo accertamento della natura innovativa del citato art. 1-bis, ma anche per il percorso argomentativo della Corte Costituzionale nella ricostruzione dei rapporti tra la normativa nazionale e quella sovranazionale soprattutto con riferimento all’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale, valorizzando la conoscenza delle reciproche aree di intervento, perfeziona e sviluppa un dialogo con la Corte EDU fondato su una reciproca opera di costruttiva cooperazione riaffermando con forza il principio
2. La disciplina: le indennità dovute al dipendente pubblico per il servizio all’estero.
Il d.lgs. n. 165 del 24 marzo 2001, testo unico sul lavoro pubblico, disciplina i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e detta norme di carattere generale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Coerentemente con la natura di disciplina organica e tendenzialmente completa del testo unico, il citato decreto legislativo classifica, fin dai primi articoli, le varie categorie di dipendenti pubblici, distinguendo tra personale in regime di diritto pubblico (i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia e altre puntuali specificazioni) e personale privatizzato, i cui rapporti di lavoro sono regolati con contratti individuali, disciplinati dalle disposizioni contenute nel codice civile (capo I, titolo II, libro V) e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. Successivamente è intervenuta la c.d. riforma Brunetta, codificata con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, recante norme sull’attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, che ha introdotto una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Il medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 45, comma 1 dispone che il trattamento economico fondamentale ed accessorio, fatte salve alcune eccezioni, è definito dai contratti collettivi.[1]
Il successivo comma 5 prevede poi in particolare che le funzioni e i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri, per i servizi che si prestano all'estero, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18 e successive modificazioni ed integrazioni nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri.
L’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 dispone:
"Il personale dell'Amministrazione degli affari esteri, oltre allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, compresa l'eventuale indennità o retribuzione di posizione nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili, tranne che per tali assegni sia diversamente disposto, percepisce, quando è in servizio presso le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari di prima categoria, l'indennità di servizio all'estero, stabilita per il posto di organico che occupa, nonché le altre competenze eventualmente spettanti in base alle disposizioni del presente decreto.
Nessun'altra indennità ordinaria e straordinaria può essere concessa, a qualsiasi titolo, al personale suddetto in relazione al servizio prestato all'estero in aggiunta al trattamento previsto dal presente decreto.
A norma dell'articolo 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 le disposizioni di cui all’art. 170 si interpretano nel senso che:
a) il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione degli affari esteri nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento a "stipendio" e "assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno", non include né l'indennità di amministrazione né l'indennità integrativa speciale;
b) durante il periodo di servizio all'estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18.
Al fine di una migliore comprensione della vicenda sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale giova premettere alcune considerazioni in merito agli istituti retributivi presi in considerazione dalle norme citate.
L’indennità di servizio all’estero disciplinata dall’art. 171 del d.P.R. n. 18 del 1967 non ha natura retributiva, essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all'estero, ed è ad essi commisurata. Essa tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all'estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare; è onnicomprensiva; ha carattere di rimborso spese e, come tale, non è tassabile né pensionabile; ha carattere transitorio. È percepita, cioè, solo nei periodi in cui si permane all’estero (in tal senso Cass. 14112/2016; 6039/2018; 27345/2019).
L’indennità di amministrazione è stata istituita con il primo ccnl del Comparto Ministeri (1994/1997) in attuazione del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 72, comma 2 con la finalità di conservare nell'impiego privatizzato i trattamenti accessori corrisposti ai dipendenti ministeriali nel regime pubblicistico con carattere di generalità e continuità. Nei successivi rinnovi contrattuali gli importi previsti a titolo di indennità di amministrazione hanno tentato di agevolare il processo di perequazione delle retribuzioni complessivamente spettanti al personale del comparto ministeri. L'art. 17, comma 11, del ccnl integrativo del ccnl 1998/2001 ha poi specificamente previsto che l’indennità di amministrazione è corrisposta per dodici mensilità, ha carattere di generalità ed ha natura fissa e ricorrente.
In estrema sintesi può senz’altro essere affermato che l'indennità di amministrazione è una voce della retribuzione accessoria corrisposta continuativamente per dodici mensilità in tutte le amministrazioni dell'ex comparto Ministeri con importi diversi da amministrazione ad amministrazione, ma in misura fissa nell'ammontare in relazione a ciascuna posizione di inquadramento (in tal senso Cass. S.U. 13 luglio 2005 n. 14698 e successive conformi: Cass. 18196/2017; 22612/2015; 9313/2011; 11814/2008, 5118/2008, 2355/2007, 19564/2006).
L’indennità integrativa speciale (i.i.s.), istituita con l. n. 324 del 1959, a seguito di una costante evoluzione ad opera di numerosi interventi normativi e contrattuali collettivi (tra cui il ccnl di comparto del 24 luglio 2003 che ha previsto il c.d. conglobamento dell’indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare) ha perduto nel tempo la sua connotazione originaria, per assumere definitivamente un carattere retributivo; attualmente costituisce per il personale pubblico contrattualizzato un assegno mensile, calcolato in misura diversa per le differenti Aree/posizioni economiche, avente lo scopo di adeguare le retribuzioni al costo della vita e viene corrisposto per tredici mensilità.
Tuttavia l’i.i.s., in considerazione delle diversità di regime normativo previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, non ha un’applicazione uniforme per tutti i dipendenti pubblici in servizio all’estero.[2]
3. Alcune travagliate vicende giurisprudenziali.
La ricostruzione della diversità di natura e funzione delle voci retributive riconosciute al personale dipendente del MAECI in servizio all’estero ha determinato la composizione di un cospicuo contenzioso di natura seriale presente su tutto il territorio nazionale che spesso si è intersecato con il distinto contenzioso del personale scolastico in servizio all’estero.[3]
La giurisprudenza di merito e di legittimità ha, ad esempio, affermato la diversa natura dell’assegno di sede estera percepito dal personale scolastico in servizio all’estero rispetto alle speciali indennità previste dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967 per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri.
La scelta ermeneutica ormai consolidata[4] si fonda sulla differente denominazione e struttura delle indennità riconosciute dall'art. 27 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 (assegno di sede) per i dipendenti del Ministero dell'istruzione, ai quali non si applica il coefficiente di maggiorazione di sede stabilito dall'art. 5 del d.lgs. 27 febbraio 1998, n. 62 per il personale del servizio diplomatico consolare del Ministero degli esteri, al quale invece spetta una indennità di servizio estero quantificata in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico consolare in considerazione del tenore di vita e del decoro specificamente connessi agli "obblighi derivanti dalle funzioni esercitate”.
Corollario di tale interpretazione è che il richiamato art. 1-bis del d.l. n. 138 del 2011 (oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale in commento) non si applica ai docenti che prestano servizio all’estero, in quanto la disposizione si riferisce esplicitamente all’indennità di servizio estero prevista per il personale dell’Amministrazione degli Affari Esteri, che è analoga ma non coincidente, neppure negli importi, con l’assegno di sede percepito dagli insegnanti.
Altra questione correlata al tema in discussione ha ad oggetto il pagamento dell'indennità integrativa speciale non corrisposta dall'Amministrazione degli Affari Esteri sullo stipendio percepito durante il periodo di servizio svolto all'estero, stante la pretesa non cumulabilità di quell'indennità con l'indennità di servizio all'estero erogata.
Il contenzioso ha trovato definitiva conferma dell’applicabilità alla fattispecie della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138,[5] ritenuta costituzionalmente legittima.
La diversa opzione circa il sindacato di legittimità costituzionale della norma rispetto al cumulo tra indennità di amministrazione e indennità di sede estera (oggetto della decisione in commento) risiede nella natura e nella funzione degli emolumenti (i.i.s. e i.s.e.), entrambi corrisposti per sopperire ad esigenze correlate al costo della vita.
La giustificazione si rinviene nel fatto che la determinazione dei coefficienti di sede necessari per il calcolo dell’i.s.e. tiene conto delle variazioni del costo della vita, del corso dei cambi, dei disagi eventuali della sede, nonché dei costi per gli alloggi e per il personale domestico, indici tutti equivalenti all'indice del costo della vita, posto a base dell'aggiornamento annuale dell'indennità integrativa speciale.[6]
Lo stesso legislatore, nel ribadire la vigenza dell’indennità integrativa speciale con il d.lgs. n. 179 del 2009 (n. 1628 dell'allegato 1), all'art. 1, dopo aver indicato le modalità di calcolo della i.i.s., alla lettera d) del comma 2 ha stabilito che detta indennità “non è dovuta al personale civile e militare in servizio all'estero fornito dell'assegno di sede previsto dalla L. 4 gennaio 1951 n. 13 o da disposizioni analoghe”.
Differentemente per il personale scolastico (dipendente dal MIUR) che presta servizio nelle istituzioni estere la questione relativa alla compatibilità tra assegno di sede e indennità integrativa speciale è stata risolta sulla base della diversa disciplina che regola il rapporto di lavoro, sul presupposto che la norma di interpretazione autentica abbia riguardo al solo personale del MAECI, come chiaramente espresso dalla lettera b) dello stesso art. 1-bis, che prevede che durante il periodo di servizio all’estero al suddetto personale possono essere attribuite soltanto le indennità previste dal d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18.
Coerentemente, ed in ragione del ruolo attribuito alle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva in relazione alla determinazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45), la clausola di cui alla nota a verbale dell'art. 76 del c.c.n.l. del comparto scuola del 24 luglio 2003 ha previsto specificamente che la ritenuta relativa all'indennità integrativa speciale sullo stipendio, ivi stabilita per il personale in servizio all'estero, non è applicabile a decorrere dal successivo c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, ove non è stata reiterata la relativa previsione, avendo detta indennità perso la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e concorrendo, ormai, a formare lo stipendio tabellare.[7]
Il contenzioso di cui si è invece occupata la Corte Costituzionale con la decisione in commento ha ad oggetto la cumulabilità, per i periodi di servizio all’estero, dell’indennità di sede estera con l’indennità di amministrazione.
4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione.
Alcuni dipendenti del MAECI (già Ministero degli Affari Esteri - MAE) avevano presentato ricorso al giudice del lavoro chiedendo una pronuncia di accertamento del loro diritto a percepire, durante il periodo di servizio all’estero, l’indennità di amministrazione unitamente all’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, con conseguente richiesta di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di amministrazione durante il periodo di servizio all’estero.
In sintesi, nel giudizio di fronte alla Corte di Cassazione contestavano l’illegittimità della mancata corresponsione dell’indennità di amministrazione prevista dalla contrattazione collettiva sulla base della non cumulabilità di tale emolumento con l’indennità di servizio estero prevista dall’art. 170 d.P.R. n. 18 del 1967 così come disposto art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, convertito, con modificazioni, in l. 14 settembre 2011 n. 148.
Specificavano che fino all’entrata in vigore della norma censurata la giurisprudenza di merito si era orientata prevalentemente a favore della tesi della cumulabilità, in coerenza con la natura retributiva e non compensativa dell’indennità di amministrazione, che la rendeva assimilabile agli “assegni a carattere fisso e continuativo”.
Assumevano la natura innovativa della disposizione del suddetto art. 1-bis e, dunque, la sua inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa e chiedevano, ove la Corte avesse invece ritenuto la norma di interpretazione autentica, di rimettere la questione alla Corte Costituzionale - per contrasto: con l'art. 6 della CEDU in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con l'art. 1 del protocollo I addizionale alla CEDU, sempre in relazione all'art. 10 Cost., comma 1 e art. 117 Cost., comma 1; con gli artt. 101, 102, 104 Cost.; con gli artt. 3 e 36 Cost.
La Corte di Cassazione con ordinanza del 27/11/2020 n. 27174, previa declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, ha rimesso il giudizio alla Corte Costituzionale sul presupposto che l’efficacia retroattiva della norma (chiaramente espressa nel testo) entrerebbe in contrasto sul piano della ragionevolezza con molteplici valori costituzionalmente tutelati.[8]
L’esito del contenzioso sorto in epoca antecedente all’emanazione dell’art. 1-bis citato riteneva legittimo il cumulo dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera in considerazione della natura e della funzione dei due emolumenti[9], che pertanto dovevano essere erogati a tutto il personale in servizio all’estero.
Il primo dubbio di legittimità costituzionale del d.l. n. 138 del 2011, art. 1-bis, attiene, secondo l’ordinanza di rimessione, alla violazione del parametro della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., comma 1: la diversità tra la disciplina originaria e quella sopravvenuta, che presenta un insopprimibile elemento di novità nella indennità oggetto della interpretazione; qualifica l’art. 1-bis in termini di norma innovativa con efficacia retroattiva… che può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata.
Il secondo e terzo dubbio di legittimità costituzionale attengono alla violazione degli artt. 24 comma 1, 101, 102 e 104 Cost., sotto il profilo della compromissione dell’effettività della tutela giurisdizionale in quanto la norma è dichiaratamente finalizzata ad incidere su concrete fattispecie sub iudice.[10]
Il quarto profilo di contrasto con la Carta costituzionale è ravvisato nei confronti degli artt. 111 e 117, comma 1 Cost., - quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle Libertà Fondamentali - poiché la norma censurata, nel predeterminare l’esito dei giudizi in favore dell’amministrazione statale, si porrebbe in contrasto con il principio della parità delle parti, con il diritto a un equo processo e con la tutela dell’affidamento.[11]
L’ultimo sospetto di illegittimità costituzionale si configura, secondo l’ordinanza di rimessione, in riferimento all'art. 39 Cost., comma 1, in quanto l’intervento legislativo retroattivo operato sull’assetto del trattamento economico complessivo dei dipendenti del MAECI avrebbe leso l’autonomia delle parti sociali nella sede negoziale collettiva.
5. Le valutazioni giuridiche espresse dalla Consulta.
A seguito dell’udienza di discussione del 10 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha depositato in data 13 Giugno 2022 la sentenza n. 145 con la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1-bis del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 nella parte in cui dispone, per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore, che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell'Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all'estero, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo previsti per l'interno, non include l'indennità di amministrazione.
La Corte, nel confermare la natura giuridica e la funzione dell’indennità di amministrazione e dell’indennità di sede estera così come ricostruite dalla giurisprudenza di legittimità, ha rilevato che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.
La Corte Costituzionale richiama in apertura della motivazione la sentenza della medesima Corte n. 133 del 2020, in cui si ribadisce che una norma può essere qualificata di interpretazione autentica solo se esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata, secondo gli ordinari criteri di interpretazione della legge, e che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni, anche in mancanza di contrasti giurisprudenziali, purché la scelta imposta dalla legge interpretativa rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.
Nel caso di specie esclude che l’art. 1-bis costituisca una norma di interpretazione autentica quanto piuttosto una norma innovativa con efficacia retroattiva, precisando che l’efficacia retroattiva della legge deve trovare un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, così come chiarito dalla Corte EDU in plurime occasioni.[12]
Prosegue specificando che nella relazione tecnica all’emendamento 1.0.35 presentato al Senato della Repubblica in sede di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 138 del 2011, si dava atto che il contenzioso riferito all’indennità di amministrazione constava di trentadue ricorsi, per un numero complessivo di 1131 dipendenti, dei quali 454 avevano ottenuto sentenza favorevole; che le sentenze di primo grado già emesse erano otto, ed altrettante erano le sentenze che avevano deciso in senso sfavorevole per l’Amministrazione. Si stimava inoltre il presumibile impatto economico di tale contenzioso nei successivi cinque anni.
La ratio della norma oggetto di emendamento era espressamente individuata nell’esigenza di chiarire la portata dell’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, per porre termine al contenzioso «seriale», riferito sia all’indennità di amministrazione, sia all’indennità integrativa speciale, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica.
Rileva la Corte che i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso.
L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.
Le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU.
Conclusivamente la Corte Costituzionale ha evidenziato, sempre con riguardo alla norma censurata, che lo scopo dichiarato di porre fine al contenzioso «seriale», che aveva visto l’Amministrazione soccombente, non consente di invocare motivi imperativi di interesse generale, non esplicitati nei lavori preparatori e neppure ricavabili dall’esame del quadro normativo, in quanto le pretese delle parti coinvolte nel contenzioso risultano incardinate nelle fattispecie sorte prima dell’entrata in vigore della disposizione con efficacia retroattiva, proprio perché volte a preservare la corrispettività fra prestazioni svolte all’estero e trattamento retributivo complessivo.
6. Conclusioni: c’è un giudice anche a Strasburgo
La decisione in commento conferma le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale rispetto al ruolo da riconoscersi alla giurisprudenza europea, quale espressione di una costruttiva cooperazione nell’ambito di complesse dinamiche interistituzionali.
Una questione centrale e continuamente ricorrente è quella relativa al ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Non è questa la sede adatta per dilungarsi sul punto, tuttavia è bene ricordare che il problema del rispetto della giurisprudenza di Strasburgo è emerso con forza con le “sentenze gemelle” del 2007 n. 348 e n. 349, nelle quali la Corte Costituzionale ha affermato che la CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, rappresenta, per effetto del rinvio mobile previsto dall’art. 117, primo comma, Cost., una fonte di rango sub-costituzionale attraverso la quale ricercare il più ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale ha consentito di rafforzare il principio secondo il quale l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità è possibile a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente, e che da esse derivi un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
La Corte Costituzionale ha in più occasioni favorito l’integrazione dell’ordinamento interno con i livelli sovranazionali di protezione dei diritti, accogliendo le interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo che assicuravano un livello di tutela dei diritti più ampio di quello garantito dalle norme nazionali.[13]
Al contrario, ribadendo il suo ruolo di garante ultima delle libertà fondamentali consacrate dalla Carta costituzionale, la Corte ha negato l’integrazione del diritto nazionale alla giurisprudenza CEDU che non riconosceva adeguati standard di tutela.[14]
Mentre, infatti, la Corte EDU pronuncia con effetti limitati al caso concreto, la Corte Costituzionale è chiamata ad apprestare una tutela dei diritti sistemica e non frazionata, inquadrandoli nella cornice pluralistica della Costituzione.
Facendo applicazione di quanto sopra, anche nel caso in commento la Corte Costituzionale ha fatto propri i principi e le regole del diritto ultranazionale dei diritti umani, trasfondendoli nel diritto nazionale.
L’arresto della Corte Costituzionale ha, infatti, l’indubbio merito di consolidare il principio più volte espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU[15] secondo il quale le considerazioni di natura finanziaria non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie, né consentire la retroattività di una norma. L’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia può essere giustificata solo per imperative ragioni di interesse generale.
[1] In sintesi la contrattazione collettiva è considerata come una fonte eteronoma di livello nazionale che determina il trattamento economico dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Questo è costituito dai compensi di natura fissa e continuativa (trattamento fondamentale) e da indennità di varia natura; alcune di esse concorrono con lo stipendio a formare il trattamento economico fondamentale, altre costituiscono il trattamento accessorio, ossia la componente variabile dello stipendio.
[4] Cfr. per tutte Cass. 30 ottobre 2014, n. 23058 e Cass. 16 novembre 2017, n. 27219.
[5] Cass. 17/12/2019, n. 33395 e successive conformi, tra le quali da ultimo Cass. 05/05/2021, n. 11759, per la quale la norma si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo, alla quale si sarebbe comunque pervenuti per la natura e la funzione degli emolumenti: la chiara natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitata a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi (v. ex plurimis, Corte Cost. n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (v. Corte Cost. n. 209 del 2010), così da non vulnerare le attribuzioni del potere giudiziario e non incorrere in alcuna violazione dell'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e così a quello inerente al principio di preminenza del diritto ed a quello del processo equo, consacrati nell'art. 6 della CEDU, mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalla norma interpretata, difetta ogni elemento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (Corte Cost. n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).
[6] La giurisprudenza amministrativa ha sempre evidenziato l’identità di funzione delle due indennità (v. Cons. Stato 25 maggio 2012, n. 3088; Consiglio di Stato 24 febbraio 2011, n. 1223.
[7] In tal senso Cass. n. 17134 del 2013, confermata da Cass., ord., 18/10/2019, n. 26617 che ha sottolineato il tema della non facile conciliabilità tra il disposto conglobamento della misura della indennità integrativa speciale nello stipendio tabellare e la natura non retributiva legislativamente qualificata - del d.lgs. n. 297 del 1994, art. 658 e successive modificazioni - dell’assegno di sede, con conseguente non agevole equiparabilità, sotto il profilo funzionale, dell’indennità integrativa speciale quale componente dello stipendio tabellare e l’assegno stesso.
[8] La Corte di Cassazione dubita che la norma sia sostenuta da adeguati motivi di interesse generale, sì da rappresentare un puntuale bilanciamento tra le ragioni della sua emanazione ed i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata.
[9] V. infra § -1-
[10] L’Avvocatura dello Stato, nella memoria depositata per l’udienza pubblica del 4 marzo 2020, ha specificato che la ratio della norma risiede nella necessità "di fornire l'esatta interpretazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 170, al fine di porre termine al contenzioso seriale, riferito sia all'indennità di amministrazione sia all'indennità integrativa speciale, instauratosi nei confronti del MAE, dal quale possono derivare ingenti oneri a carico della finanza pubblica".
[11] La Corte di Cassazione richiama sia la giurisprudenza costante della Corte EDU, secondo cui è precluso
al legislatore di interferire sulle controversie in atto, salvo che ricorrano impellenti motivi di interesse generale, sia la giurisprudenza costituzionale che, in armonia con la giurisprudenza convenzionale, attribuisce rilievo, tra gli elementi sintomatici di un uso distorto della funzione legislativa, al metodo e alla tempistica dell’intervento del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte Costituzionale n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) sottolineando che i «motivi finanziari», esplicitati nella relazione tecnica dei lavori preparatori della norma censurata, non sarebbero sufficienti a giustificare l’intervento del legislatore
sul contenzioso in atto, né vi sarebbe stata l’esigenza di porre rimedio a imperfezioni del testo normativo
originario.
[12] In uno scrutinio stretto di costituzionalità, che si impone in questo caso, poiché serve riscontrare non “la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo” (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016), occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017).
[13] Ciò è avvenuto, ad esempio, con le sentenze in materia di risarcimento del danno derivante da appropriazione acquisitiva della pubblica amministrazione, meglio nota come “accessione invertita” (sentenza n. 349 del 2007); di computo del giusto indennizzo espropriativo (sentenza n. 338 del 2011); con la sentenza sulla revisione del processo penale per l’ipotesi in cui la sentenza di condanna sia stata resa in un giudizio che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia considerato non equo per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sentenza n. 113 del 2011).
[14] Ciò è avvenuto con la sentenza n. 264 del 2012, relativa alla disciplina dei contributi previdenziali versati in Svizzera da lavoratori italiani. Al riguardo, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che contrastasse con la CEDU una legge italiana che modificava retroattivamente i trattamenti pensionistici di quei lavoratori. La Corte Costituzionale non si è allineata a tale pronuncia, considerando pienamente giustificata la disciplina retroattiva alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, non valutati dalla Corte di Strasburgo in sede di bilanciamento. La Corte italiana ha quindi ribattuto che, nel caso di specie, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte EDU, non poteva integrare l’ordinamento interno.
[15] Ex plurimis, sentenze 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, paragrafo 132; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 47; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, paragrafo 39.
Il processo amministrativo sulle controversie PNRR e le sue criticità
di Francesco Volpe
Sommario: 1. Scopo dell’indagine. – 2. Ambito oggettivo di applicazione dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85. – 3. Applicabilità del nuovo rito anche quando sia occulta alle parti e al giudice l’esistenza di un finanziamento PNRR. – 4. La diversità di regime, secondo che sia stata introdotta o no un’istanza cautelare. – 5. La cessazione degli effetti della misura cautelare. - 6. La cessazione degli effetti della misura cautelare e i giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.l. 7 luglio 2022, n. 85. – 7. Ricadute sistematiche della cessazione degli effetti della misura cautelare sul processo cautelare in generale e sul processo di ottemperanza. – 8. La fissazione dell’udienza di merito e i termini a difesa delle parti. – 9. Una nuova parte necessaria nel processo amministrativo: l’amministrazione titolare dell’intervento PNRR. Aspetti problematici e profili contraddittori. – 10. La nuova parte necessaria e i giudizi già pendenti. – 11. Conclusioni.
1. Scopo dell’indagine
Per come vengono frequentemente utilizzati, i decreti-legge sono diventati una sorta di disegni di legge rafforzati del Governo, assunti in modo da ottenere una calendarizzazione sollecita da parte delle Camere e in modo da godere di una specie di efficacia cautelare preventivarispetto al momento della loro approvazione parlamentare, che è data dalla legge di conversione.
Come tutti i disegni di legge, quindi, anche il decreto-legge che sia impiegato con queste finalità (affatto distorte) si presta a essere oggetto di modifiche, in occasione della sua definitiva approvazione.
Per questo motivo, l’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85 è forse destinato a assumere contenuti diversi da quelli attuali.
Il rilievo incoraggia a proporne un’esegesi, non fosse altro che per suggerire, a chi volesse tenerne conto, alcuni emendamenti che possano superare le difficoltà di regime che il testo attuale sembra suscitare.
2. Ambito oggettivo di applicazione dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85
Detta disposizione introduce l’ennesimo rito speciale nel processo amministrativo.
In ragione della priorità che si vuole riconoscere alle controversie che interessano l’attuazione del PNRR, queste ultime vengono a godere di un giudizio accelerato, la cui disciplina, tuttavia, non si esaurisce nella mera applicazione degli artt. 119 e 120 cpa, connotandosi, invece, per ulteriori peculiarità.
È preliminare a ogni altra indagine definire i limiti oggettivi del nuovo rito.
Esso si riferisce ai giudizi (il testo del decreto, tuttavia, parla di “ricorsi”) che abbiano “ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Dalla formula emergono due profili di immediata evidenza.
Il primo profilo attiene all’ampiezza e, per così dire, anche a una sorta d’indeterminatezza dei casi in cui la nuova normativa si applica.
È verosimilmente erroneo sostenere che il nuovo rito si riferirebbe alle sole controversie che investano le procedure a evidenza pubblica o le procedure espropriative collegabili in modo diretto ai medesimi finanziamenti.
Se così fosse, sarebbe difficile comprendere perché la riforma riconduca tali liti sotto la disciplina dell’art. 119 cpa, dal momento che esse, almeno in gran parte, già vi rientrerebbero per quanto esplicitamente disposto da quest’ultimo articolo.
A sostegno della tesi secondo la quale gli interventi, a cui si riferisce l’art. 3 in commento, non si limiterebbero ai procedimenti di realizzazione di opere pubbliche militano, peraltro, anche alcuni argomenti testuali.
Vi è, innanzi tutto, il comma 8 del medesimo art. 3, il quale (nel riferirsi alle liti instaurate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge) precisa che esse riguardano “opere e interventi”, a dimostrazione del fatto che la norma prende in considerazione interventi che non consistono in opere.
Inoltre, l’art. 3 - nel riformare l’art. 48, comma 4, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, e applicando alle relative controversie il regime dell’art. 125 cpa - contrappone ancora una volta le impugnazioni “degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui al comma 1 e nei giudizi che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e relative attività di espropriazione, occupazione e di asservimento” a quelle relative a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Se ne ricava, così, la volontà di ricondurre al nuovo rito tutti i procedimenti che siano in qualsiasi modo collegati con i finanziamenti del Piano nazionale; questo a valere tanto per il caso in cui il collegamento sia diretto, tanto per il caso in cui esso sia solo indiretto[1].
Concepito in un modo a tal punto esteso l’ambito di riferimento dell’art. 3, va rammentato, d’altra parte, che gli interventi del PNRR, nel complesso delle loro sei missioni, spaziano dall’ambiente, all’energia, all’istruzione, scolastica e universitaria, all’agricoltura, alla logistica e all’innovazione digitale, con la conseguenza che i medesimi finanziamenti possono essere il presupposto di una congerie altrettanto vasta di provvedimenti amministrativi (per lo più con funzioni di controllosull’attività economica dei privati) dipendenti da quello in cui è stato deciso il finanziamento stesso, i quali, allo stato, sono difficilmente individuabili, pur potendo essere suscettibili di sussunzione nella nuova previsione normativa.
Non si può escludere, perciò, che nel rito riformato debba ricadere, ad esempio, l’impugnazione degli esiti di un concorso universitario, se il posto a ruolo fosse in tal modo finanziato o che (sempre esemplificativamente) vi possa rientrare l’impugnazione da parte del terzo di un titolo edilizio o ambientale rilasciato a chi, per realizzare un impianto di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, abbia ottenuto un preventivo e analogo finanziamento, ancorché sulla scorta di una serie procedimentale distinta e indipendente.
Più in generale (se è consentita l’enfasi), quasi ogni attività amministrativa, in questo momento storico, “è PNRR”, Perciò, quasi ogni attività amministrativa è anche astrattamente riconducibile all’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, così da esporsi a un regime processuale che, per quel che si cercherà di esporre, non è privo di criticità.
3. Applicabilità del nuovo rito anche quando sia occulta alle parti e al giudice l’esistenza di un finanziamento PNRR
Un secondo profilo, che si ritiene di evidenziare in via preliminare, attiene al carattere oggettivo del collegamento della lite con i finanziamenti del PNRR, affinché il rito speciale si debba applicare.
Ciò significa che il nuovo rito è destinato ad imporsi indipendentemente dalla conoscenza (in capo a chi proponga il ricorso o, in tesi, anche in chi lo subisca) dell’esistenza del finanziamento.
Questo sembra evincersi dalla locuzione “qualora risulti anche sulla base di quanto rappresentato dalle amministrazioni o dalle altre parti del giudizio” contenuta nel citato art. 3 ai fini della sua stessa applicazione. Quell’“anche” allude all’ipotesi in cui l’esistenza del finanziamento non emerga dall’attività delle parti essendo, invece, oggetto di investigazione diretta del giudice, il quale, a tal fine, può dunque utilizzare gli strumenti istruttori d’ufficio che gli competono in forza degli artt. 63 ss. cpa.
Da questi rilievi deriva che l’applicabilità del nuovo rito alla specifica controversia potrebbe essere occulta, perché occulto potrebbe essere lo stesso finanziamento, in quanto erogato in seno a un procedimento amministrativo presupposto di cui le parti (ivi compresa la stessa amministrazione resistente) potrebbero non avere nessuna precisa contezza.
Salvo, poi, doversi ammettere che la medesima applicabilità potrebbe emergere nel corso del giudizio, causando – lo si nota incidentalmente - potenziali criticità per il caso in cui, in modo incolpevole[2], non sia stata rispettata la dimidiazione dei termini successivi a quelli di notificazione del ricorso, dei motivi aggiunti o dell’incidentale[3].
In sintesi, si è di fronte a una nuova forma di processo il cui ambito di applicazione è potenzialmente imponente, incerto e, in concreto, persino ignoto alle parti e al giudice stesso della concreta lite controversa, pur essendo comunque in grado di incidere sul regime degli atti processuali.
Questo aspetto della riforma in commento non può non destare perplessità, le quali sembrano accresciute per il fatto che l’incremento in termini assoluti del numero dei riti accelerati si riflette, in modo negativo, sulla stessa efficacia dell’iniziativa assunta.
È evidente, infatti, che quanto maggiore è il contenzioso ricondotto alle varie forme di abbreviazione del processo, tanto minori sono le possibilità di attuare, in concreto, un’effettiva accelerazione della definizione delle liti, perché se tutto è più celere, nulla è più celere.
Il tutto va valutato, anche non volendo considerare il preliminare rilievo per cui, in generale, l’intensificazione dei riti accelerati conduce, indirettamente, a relegare le residue cause ordinarie(che pur sempre godono di una loro dignità) a una sorta di binario morto e a spingerle verso una probabile perenzione ultraquinquennale, con conclusivo e sostanziale diniego di giustizia.
4. La diversità di regime, secondo che sia stata introdotta o no un’istanza cautelare
Le problematicità che derivano dalla nuova disposizione non si limitano a quanto sinora illustrato.
Ferma restando la dimidiazione dei termini (che è indipendente da ogni attività delle parti e applicabile a tutte le controversie del PNRR), alcune peculiarità del nuovo rito acquistano rilievo solo per l’ipotesi in cui il ricorrente abbia chiesto e ottenuto un provvedimento cautelare.
Altre peculiarità, più limitate, si applicano, invece, anche quando tale provvedimento non sia stato reso.
A ben vedere, pertanto, i riti speciali introdotti con l’art. 3 in esame sono due, secondo che sia stata rilasciata o no la misura interinale.
L’art. 3, cit., stabilisce, infatti, che solo in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, “il tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza, fissa la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza”.
Viceversa, nel caso in cui un’istanza cautelare non sia stata proposta o, nel caso in cui l’istanza cautelare, pur proposta, non sia stata concessa, non vi è dovere, in capo al giudice, di fissare l’udienza di merito, ma il processo è sottoposto comunque a una disciplina speciale che si esprime, soprattutto, nella previsione della partecipazione al contraddittorio di un nuovo tipo di parte necessaria, identificata nell’“amministrazione titolare dell’intervento PNRR”.
Viene così a delinearsi un regime mutevole in ragione dell’impulso della parte ricorrente (alla quale spetta la decisione di presentare o no l’istanza cautelare), che desta qualche perplessità, ma che, soprattutto, sembra incoerente con la finalità di favorire una definizione accelerata delle controversie PNRR.
A tal riguardo, è sufficiente che il ricorrente (o l’appellante) ometta di presentare la domanda cautelare, affinché il giudizio segua le modalità di svolgimento dell’art. 119 cpa (fatte salve la peculiarità a cui si è accennato, relativa alla nuova parte necessaria), con nessuna garanzia di una sua sollecita conclusione[4].
5. La cessazione degli effetti della misura cautelare
In ogni caso, prendendo innanzitutto in esame la prima delle due eventualità ora tratteggiate, si deve aggiungere, a completare il quadro normativo, che particolari disposizioni contenute nell’art. 3 regolano l’ipotesi in cui il provvedimento reso ex art. 55 cpa sia rilasciato a seguito di appello cautelare[5], nonché l’ipotesi in cui la misura cautelare sia stata assunta in cause già pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge.
In ispecie, anche per detta ultima ipotesi al giudice spetta di fissare la trattazione della lite nel merito entro il medesimo termine di cui si è fatto cenno (comma 8).
Oltre alla descrizione di un regime di valutazione del periculum in mora che - similmente a quanto già previsto per altri casi già noti[6], presuppone una comparazione degli interessi in gioco (secondo il comma 2 dell’art. 3 cit., “nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilità della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR”) - è soprattutto rimarchevole il fatto che, per il caso in cui la discussione del merito non venga fissata dal giudice entro la prima data di udienza successiva al suddetto termine di trenta giorni, il provvedimento cautelare sia destinato a perdere automaticamente efficacia.
Il testo del decreto-legge riecheggia, così, l’art. 120, comma 8-bis cpa, il quale, per il rito sugli appalti, stabilisce che “il collegio, quando dispone le misure cautelari di cui al comma 4 dell'articolo 119, ne può subordinare l’efficacia, anche qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento del suddetto valore. Tali misure sono disposte per una durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della relativa ordinanza, fermo restando quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119”.
Rispetto a quella più antica disposizione, l’art. 3 si distingue per l’automatismo della cessazione degli effetti, con il verificarsi della descritta condizione risolutiva, laddove, nella disciplina dell’art. 120, comma 8- bis, cpa, è compito del giudice cautelare stabilire il termine finale di efficacia dell’ordinanza, sia pure entro il limite massimo indicato dalla legge.
Si coglie altresì una certa assonanza con quanto statuito dall’art. 61 cpa per le misure cautelari monocratiche rese ante causam, le quali sono parimenti destinate a cessare i propri effetti, nel caso in cui entro quindici giorni dalla loro emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni, ovvero nel caso in cui, entro sessanta giorni dalla loro pronuncia, dette misure non siano state sottoposte all’esame del Collegio per l’eventuale conferma.
Mentre, tuttavia, la cessazione automatica dei provvedimenti cautelari, assunti sulla base dell’art. 61 cpa, è fatto che deriva, quasi esclusivamente, dall’inerzia di chi le abbia richieste e ottenute (cosicché l’istante non avrebbe nessuna ragione di dolersene), la cessazione degli effetti delle misure cautelari rese in forza dell’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, è fatto imputabile solo al giudice che non abbia fissato l’udienza di merito entro il termine prescritto e non è in alcun modo imputabile alla parte.
E poiché, fatti salvi casi molto particolari, è difficile comprendere il motivo per il quale il giudice intenderebbe limitare indirettamente (astenendosi dal fissare con tempestività l’udienza)[7] l’efficacia dei propri provvedimenti cautelari entro un termine così breve, vi è da interrogarsi sulla ragionevolezza della previsione.
Tanto più tali perplessità sussistono, perché la medesima previsione presuppone, nei destinatari dell’ordinanza, la conoscenza di taluni documenti i quali costituiscono una sorta di acta interna corporis in quanto essi sono conosciuti solo dall’organizzazione dell’ufficio giudiziario e, al più, da chi lo frequenta, ma che, non necessariamente, sono noti all’esterno, pur essendo in grado d’incidere in modo diretto sul perdurare dell’efficacia del provvedimento cautelare e, quindi, sulla regolamentazione della fattispecie sostanziale dedotta in giudizio.
Ci si riferisce, in ispecie, alla conoscenza del calendario delle udienze pubbliche stabilito da ogni sede giudiziaria, giacché è solo sulla base di detto documento che è possibile individuare la “prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza” a cui si riferisce l’art. 3, primo comma.
Questo calendario potrebbe non essere noto all’Amministrazione resistente o ai controinteressati, specie ove questi non fossero costituiti in giudizio e non fossero assistiti da un difensore tecnico che li possa informare[8].
6. La cessazione degli effetti della misura cautelare e i giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.l. 7 luglio 2022, n. 85
I rilievi critici sul rito cautelare introdotto dall’art. 3 si aggravano ove si consideri la sorte dei provvedimenti cautelari rilasciati in quei giudizi lambiti dal PNRR che siano già pendenti[9].
Non pare che sussistano dubbi, invero, sull’estensione del regime di cessazione automatica dell’efficacia anche ai provvedimenti cautelari pronunciati prima dell’entrata in vigore del decreto-legge.
L’art. 3, comma 8, prevede, infatti, che “in tale ipotesi si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo” e tra queste si annovera proprio quella che stabilisce la cessazione degli effetti delle misure cautelari di cui si è sin qui trattato[10].
Viene così in rilievo un problema di grave incertezza del diritto, stante il fatto che, quando quei provvedimenti cautelari sono stati rilasciati, essi non erano sottoposti ad alcuna condizione risolutiva, cosicché le parti erano giustificate nel ritenerli pienamente operativi, essendo stata solo la sopravvenuta, generale e astratta volontà del legislatore d’urgenza a stabilire la caducazione degli effetti.
In questi casi, sussiste, per di più, un’ulteriore incertezza relativa al dies a quo del termine, la cui decorrenza (insieme all’eventuale mancata fissazione dell’udienza di merito) concorre a costruire la condizione risolutiva stessa, atteso che lo stesso art. 3, comma 8, stabilisce che “l'udienza per la discussione del merito è anticipata d'ufficio entro il termine del comma 1”[11] e quindi decorso il termine di trenta giorni “dalla data di deposito dell'ordinanza”.
Se tale deposito fosse, dunque, avvenuto prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, la condizione potrebbe essersi già avverata nel momento stesso della sopravvenienza della nuova fonte, nel caso in cui il termine di trenta giorni fosse già integralmente spirato e fossero già state tenute udienze di merito successive alla sua scadenza.
In modo solo apparentemente meno grave, con l’entrata in vigore del decreto-legge il termine potrebbe risultare essere ampiamente consumato, sì da comprimere i poteri di difesa delle parti ai fini della produzione di documenti e memorie in vista dell’udienza di trattazione.
Un’interpretazione alternativa a quella ora proposta potrebbe essere quella di sostenere che il termine debba decorrere, per i provvedimenti cautelari anteatti, non già dal loro deposito, ma proprio dal giorno di entrata in vigore del decreto-legge stesso[12].
Detta ricostruzione consentirebbe, in effetti, di superare, almeno in parte, i problemi a cui si è accennato.
Essa si porrebbe, tuttavia, in contrasto con la lettera della fonte normativa; da qui deriva la difficoltà di seguirla.
Infine, sempre con riguardo alle misure cautelari precedenti al d.l. 7 luglio 2022, n. 85, si pone il non secondario problema, per il giudice, d’individuare le loro puntuali ricorrenze e d’identificare le specifiche controversie del PNRR in cui i provvedimenti cautelari siano stati pronunciati.
Anche a tale riguardo, vanno ripetute le osservazioni già esposte circa la possibilità che queste liti PNRR siano occulte, quando non sia palese l’esistenza del relativo finanziamento (pur restando ferma l’oggettiva applicabilità dell’art. 3 in esame).
Emerge così l’eventualità, nel caso in cui alcune delle relative liti dovessero sfuggire all’indagine del Tribunale, che i provvedimenti cautelari assunti abbiano perso i propri effetti nella piena inconsapevolezza delle parti.
Il risultato complessivo del nuovo regime dimostra, in definitiva, l’insorgenza di gravi fenomeni di incertezza del diritto che la nuova disciplina sembra suscitare sia con riferimento al processo, sia con riferimento al modo con cui la fattispecie sostanziale dedotta in giudizio è interinalmente regolata dai provvedimenti cautelari del giudice.
7. Ricadute sistematiche della cessazione degli effetti della misura cautelare sul processo cautelare in generale e sul processo di ottemperanza
La cessazione degli effetti dell’ordinanza cautelare, insieme al dovere (per il giudice) di fissare l’udienza entro il termine già illustrato, comporta alcune conseguenze anche sullo stesso impianto generale del giudizio cautelare e su quello di ottemperanza.
Quanto al primo, deve ritenersi che, per quanto attiene alle controversie del PNRR, l’art. 55, comma 10, cpa (il quale consente al giudice, in accoglimento di una conforme istanza cautelare, di fissare la data della discussione del ricorso nel merito, ove egli ritenga che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio), sia stato implicitamente riformato in deroga.
Una tale soluzione del processo cautelare sembra, infatti, incompatibile con l’art. 3 ora in esame, salvo che non si ritenga – e la soluzione pare plausibile – che, vertendosi in una lite del tipo qui considerato, il giudice, in applicazione del medesimo art. 55, comma 10, possa pur sempre accogliere l’istanza cautelare limitandosi a fissare l’udienza di merito, con l’avvertenza che, in tal caso, egli debba rispettare il termine indicato dallo stesso art. 3[13].
Per quanto attiene, invece, ai rapporti con il giudizio di ottemperanza, sembra significativo il punto in cui l’art. 3 statuisce che, con la cessazione degli effetti dell’ordinanza cautelare, vengano meno anche gli effetti conformativi, volti “a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione”.
In realtà, si deve ritenere che tali effetti, nelle controversie a cui si riferisce l’art. 3, siano inesistenti fin dall’inizio, giacché risulta impossibile obbligare l’Amministrazione a rideterminarsi prima che la lite venga trattata nel merito.
Sulla base dell’art. 87, comma 3, cpa, infatti, l’udienza per la discussione del giudizio di ottemperanza, a tal fine introdotto, non potrebbe essere fissata prima che siano decorsi trenta giorni dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate e quindi prima di sessanta giorni dalla notificazione del relativo ricorso (vigendo il principio della dimidiazione dei termini anche nei riti in Camera di consiglio), sì da superare il termine di trenta giorni indicato dall’art. 3.
Quando, infine, la lite che avesse originato il provvedimento cautelare fosse decisa nel merito, il medesimo provvedimento cautelare risulterebbe, eventualmente, assorbito dalla sentenza e sarebbe questa, e non già l’ordinanza cautelare, a produrre gli effetti conformativi.
8. La fissazione dell’udienza di merito e i termini a difesa delle parti
Sempre con riguardo al regime della fase cautelare, va segnalato un altro profilo di potenziale incertezza relativo agli oneri defensionali da cui sono gravate le parti, in vista dell’udienza di trattazione nel merito della lite.
L’art. 3, cit., stabilisce che la discussione della causa debba essere celebrata non oltre la prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’udienza cautelare.
Ciò comporta che la data di discussione potrebbe[14] essere fissata senza che sia stato rispettato il termine a ritroso di sessanta giorni previsto dall’art. 71, comma 5, cpa, così che neppure si possano rispettare gli ulteriori termini indicati dall’art. 73 dello stesso codice per il deposito dei documenti e delle memorie.
D’altra parte, dall’art. 3 in commento non si ricava entro quali termini le parti siano chiamate a svolgere tali adempimenti nel nuovo rito.
Il problema, tuttavia è, in questo caso, solo apparente.
Poiché si ricade in controversie per le quali vige la dimidiazione dei termini, è ragionevole sostenere che anche il termine di sessanta giorni dell’art. 71 cpa debba considerarsi ridotto a trenta. E poiché l’art. 3, per sua definizione, prevede che l’udienza debba essere fissata oltre la scadenza di trenta giorni dal deposito (e quindi dalla contestuale comunicazione) dell’ordinanza cautelare, il suddetto termine dimidiato, quale si desume dal combinato disposto degli artt. 119 e 71 cpa, deve ritenersi necessariamente rispettato.
Conseguentemente vanno adeguati, secondo i consueti principi della dimidiazione, anche i termini a difesa indicati dall’art. 73 cpa.
9. Una nuova parte necessaria nel processo amministrativo: l’amministrazione titolare dell’intervento PNRR. Aspetti problematici e profili contraddittori
Vi è, infine, un ultimo profilo che emerge dalla nuova disciplina processuale e che, pure, merita di essere analizzato.
Si allude alla previsione secondo la quale sono parti necessarie di tutte le controversie del PNRR (siano stati richiesti o no i provvedimenti cautelari) le “amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera l), del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108”[15].
Anche a voler trascurare la difficoltà d’individuare quali siano, nel caso concreto, siffatte amministrazioni[16] e dato per ragionevole che per tali debbano intendersi tutte le amministrazioni che, a qualunque titolo, partecipino all’intervento del PNRR a cui si riferisce l’impugnazione (e non solo una di esse), l’inquadramento sistematico di queste nuove figure è incerto e verosimilmente porta all’introduzione di un nuovo tipo di parte processuale, che si affianca a quelle tradizionali e già note.
Le amministrazioni titolari dell’intervento, infatti, non possono coincidere né con l’amministrazione resistente né con i controinteressati sostanziali, atteso che, se così fosse, la loro partecipazione al contraddittorio sarebbe necessaria già di per sé, sulla base delle regole generali del processo amministrativo[17].
Ma è difficile ipotizzare, anche, che tali amministrazioni rivestano il ruolo di una sorta di controinteressati indiretti (i quali non sono parti necessarie, perché privi di un interesse diretto personale e attuale a contestare l’accoglimento del ricorso), investiti di una sorta di legittimazione straordinaria a contraddire.
La funzione di queste ulteriori parti necessarie, invero, non è precisata dall’art. 3, cit.
Sebbene il nuovo rito miri a “consentire il rispetto dei termini previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza”, detta finalità non può, tuttavia, essere l’unica a cui debbono sovrintendere le amministrazioni titolari degli interventi.
Le stesse - si reputa - non possono non essere incaricate di curare, oltre alla sollecita realizzazione degli interventi del Piano, anche la migliore destinazione dei finanziamenti, a meno che non si voglia accettare il principio per cui quegli interventi debbano comunque progredire, quali essi siano e in qualunque modo siano attuati.
Pertanto, nulla esclude che le nuove parti necessarie partecipino al giudizio non solo al fine di contestare l’accoglimento del ricorso, ma, in tesi, anche al fine di promuoverne l’accoglimento, per il caso in cui il provvedimento impugnato, in quanto illegittimo, comporti un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche.
Se su questo si conviene, ne segue che le nuove parti necessarie sembrano svolgere un ruolo simile a quello di una sorta di promotore dell’interesse pubblico, per certi (molto imprecisi) aspetti accostabile a una specie di pubblico ministero, con ricadute (lo si nota incidentalmente) forse impreviste e forse anche indesiderate verso una concezione oggettivistica del processo amministrativo.
Non sarà necessario investigare ulteriormente su quale sia l’utilità effettiva di tali nuove parti e su quale sia il concreto apporto che le medesime possano aggiungere al contraddittorio, perché dette questioni attengono al merito delle valutazioni operate dal legislatore d’urgenza.
Preme, tuttavia, illustrare le difficoltà che la loro presenza nel processo reca, proprio con riguardo al fine di favorire una sollecita realizzazione degli interventi del PNRR.
Soprattutto nell’ipotesi in cui l’esistenza del finanziamento PNRR sia occulto alle parti ordinarie del giudizio (oltre che al giudice) e nell’ipotesi in cui il finanziamento sia sopravvenuto in corso di causa, l’eventuale mancata intimazione di queste nuove parti necessarie è causa di appellabilità, per l’incompletezza del contraddittorio, della sentenza di primo grado, con conseguente rinvio al giudice di prime cure, secondo quanto previsto dall’art. 105 cpa.
Non diversamente, è sostenibile che, in forza di quanto stabilito dall’art. 108 cpa, le medesime parti siano legittimate a proporre opposizione di terzo ordinaria contro la sentenza, sia di primo che di secondo grado, pronunciata senza la loro partecipazione al giudizio[18].
La partecipazione di dette amministrazioni al giudizio si rivela essere, così, incoerente con le stesse finalità di raggiungere una celere definizione delle controversie, perché essa si presta a lungaggini (la cui necessità non era sin qui avvertita) e a ripetizioni, forse non indispensabili, di alcuni gradi del giudizio.
10. La nuova parte necessaria e i giudizi già pendenti
Né si possono trascurare i problemi minori che queste nuove parti necessarie recano.
Non è del tutto certo, in particolare, se le amministrazioni titolari degli interventi siano chiamate a partecipare anche ai giudizi che, pur astrattamente rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 3, siano stati, tuttavia, introdotti prima dell’entrata in vigore del decreto.
A seguire l’argomento letterale, le amministrazioni titolari degli interventi dovrebbero essere intimate solo nell’ipotesi in cui, nelle liti anteatte, sia stata chiesta e ottenuta una misura cautelare, perché solo per tale eventualità l’art. 3, u.c., stabilisce che “si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo”[19].
Ma questa è una conclusione che, per altri versi, si rivela insoddisfacente sotto il profilo sistematico, giacché essa introduce una diversità di regime processuale – su uno degli aspetti fondamentali della lite, qual è quello della completezza del contraddittorio – che è conseguenza di un fatto accidentale (qual è dato dalla emanazione di un provvedimento cautelare) e che soprattutto dipende dall’impulso del ricorrente, al quale non può, neppure indirettamente, riferirsi il potere di stabilire in che modo il contraddittorio debba ritenersi integrato[20].
Ancora più problematica, infine, è l’ipotesi in cui una lite del PNRR, pur essendo stata definita in primo grado prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, pervenga in appello solo dopo tale data.
In tale caso, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che le nuove parti necessarie debbano essere chiamate a integrare il contraddittorio nel giudizio d’appello, perché l’art. 3 in esame (comma 6) stabilisce che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo” e perché, secondo il principio tempus regit actum, l’impugnazione segue il regime vigente al momento della sua celebrazione.
Un’integrazione del contraddittorio operata solo in secondo grado, tuttavia, priverebbe le nuove parti necessarie di un grado di giudizio e porterebbe, probabilmente, il giudice dell’appello ad annullare d’ufficio[21] la sentenza impugnata con rinvio al giudice di primo grado, sì da provocare una dispersione dei tempi processuali nonché la vanificazione delle finalità acceleratorie a cui l’art. 3 si è ispirato.
11. Conclusioni
Si possono a questo punto trarre le conclusioni dell’indagine sull’art. 3, d.l. 7 luglio 2022, n. 85.
Chi scrive ritiene che si sia di fronte a una disposizione indeterminata nel suo ambito di applicazione, asistematica nel suo impianto e foriera di gravi problematicità.
Né si può sottacere che, sullo sfondo, essa sembra manifestare una complessiva inclinazione a comprimere o, quanto meno, a limitare l’effettività delle tutele[22], a vantaggio di una accelerazione del rito che non è neppure certo che si riesca a raggiungere.
L’opportunità di assicurare una sollecita attuazione degli interventi previsti dal PNRR non può, dunque, essere portata a giustificazione di riforme processuali che non solo sembrano di dubbia compatibilità con lo Stato di diritto, ma che, per di più, rischiano di compromettere il raggiungimento stesso degli obiettivi proposti.
Si auspica, perciò, che il testo della riforma venga rivisitato e che, soprattutto, esso non funga da modello per ulteriori, e più ampi, interventi di riforma del processo amministrativo.
[1] Sembra aderire a questa impostazione T.A.R. Lazio, II, 15 luglio 2022, n. 4602 (ord.): “… le disposizioni in questione sono applicabili al giudizio de quo, tenuto conto:
1) ratione temporis, della natura processuale delle stesse e, quindi, della loro applicabilità ai giudizi in corso, in difetto di apposita norma transitoria (cfr., quam multis, Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2010, n. 3759; TAR Lazio, Roma, sez. III, 16 giugno 2010, n. 18131; Tar Cagliari, sez. I, 13.1.2011, n.16);
2) ratione materiae, in riferimento all’art.3, co.1 del d.l. n.85/2022, della sussumibilità della gara in oggetto nell’ambito della nozione di “procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”; al riguardo, peraltro, non rileva, in senso ostativo all’applicazione della citata disposizione, la previsione recata dal co.5 del predetto art.3, dal momento che l’evidente finalità di tale norma è quella di rendere applicabili le disposizioni ivi considerate (artt.119, co.2 e 120, co.9 cpa) del rito appalti (con la prevista riduzione dei termini processuali) a tutte le controversie afferenti alle procedure amministrative che impattano sul PNRR (anche se non riferite, quindi, all’affidamento di contratti pubblici) e non già quella di sottrarre le controversie sui contratti pubblici alle ulteriori disposizioni acceleratorie introdotte dal d.l. n.85/2022”.
[2] Alla parte non resterebbe, a quel punto, null’altro, se non invocare l’errore scusabile, rammentando che “nel processo amministrativo il rimedio del riconoscimento dell'errore scusabile, oggi codificato dall' art. 37 c.p.a ., presuppone una situazione di obiettiva incertezza normativa o di grave impedimento di fatto tale da provocare - senza alcuna colpa della parte interessata - menomazioni o maggiore difficoltà nell'esercizio dei diritti di difesa” (Cons. di Stato, III, 8 febbraio 2021, n. 1129; Cons. di Stato, VI, 10 maggio 2021, n. 3640).
[3] Né si esclude che possa sopravvenire una sorta di mutamento del rito in pendenza di causa. Come, infatti, possono esistere finanziamenti PNRR sin dall’origine occulti, non si esclude che possano prospettarsi pure finanziamenti PNRR sopravvenuti, per il caso in cui l’intervento a cui si riferisce la lite riceva un finanziamento PNRR quando la causa che lo riguarda sia già stata introdotta.
In questo caso, per il ricorrente potrebbe, peraltro, risultare estremamente difficile venire a conoscenza di questa nuova circostanza, con la conseguenza che una causa introdotta secondo il regime ordinario potrebbe ricadere poi nel regime delle liti a termini dimidiati, senza che le parti ne abbiano consapevolezza.
[4] Va, d’altronde, segnalato che l’art. 3, riformando l’art. 48, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, ha esteso alle controversie del PNRR l’applicazione dell’art. 125 cpa, così sostituendo la tutela costitutiva avverso gli eventuali contratti stipulati in attuazione del finanziamento con la tutela risarcitoria. Più in generale sembra così doversi ricavare che l’obiettivo del legislatore sia quello di evitare la caducazione immediata degli atti e che, a tal fine, sia disposto a concedere che le amministrazioni possano essere chiamate patrimonialmente a rispondere. In tal senso, il fatto che una lite PNRR possa rimanere a lungo pendente, perché il ricorrente abbia omesso di presentare istanza cautelare, è una eventualità in un certo coerente con questo stesso obiettivo.
Si evidenzia, in ogni caso, che l’estensione dello stesso art. 125 cpa alle controversie del PNRR è in sé problematica, poiché il citato art. 48, così come riformato, la prevede sia con riferimento all’impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento sia con riferimento a “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”. Se, tuttavia, nella prima ipotesi è facile immaginare l’esistenza di contratti “non annullabili” ai sensi dell’art. 125, meno facile è comprendere come gli stessi possano ricorrere nelle fattispecie procedimentali del secondo tipo.
[5] L’art. 3, pur considerando l’ipotesi della misura cautelare rilasciata in forza dell’appello cautelare contro l’ordinanza (di rigetto) di primo grado, non considera l’ipotesi in cui, a un analogo effetto, si pervenga perché la sentenza di rigetto di primo grado sia sospesa in grado di appello, con effetti cautelari estesi sino al provvedimento amministrativo impugnato. Il comma 6 della disposizione, peraltro, stabilisce che che “le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo”, il che porta a sostenere che, in detta ipotesi, il Consiglio di Stato debba fissare udienza di merito alla prima udienza pubblica successiva al decorso di trenta giorni dal deposito dell’ordinanza.
[6] Da ultimo, si rammenti quanto previsto dall’art. 120, comma 8, cpa: “Nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all' esecuzione contrattuali del contratto, dandone conto nella motivazione” e dall’art. 125, comma 2, cpa: “In sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure”.
[7] Non si può, in effetti, escludere che il giudice valuti di concedere di concedere una misura cautelare a termine finale, deliberatamente omettendo di rispettare il termine della discussione di merito indicato dall’art. 3.
[8] I calendari di udienza del giudice amministrativo sono ormai pubblici nelle pagine istituzionali di ogni singolo ufficio giudiziario. Tuttavia, la circostanza non è necessariamente nota e, per dipiù, è dubbia l’ufficialità e la comprovabilità di tale forma di pubblicità.
[9] Sull’applicabilità dell’art. 3 ai giudizi già pendenti, peraltro desumibile dalla lettera della disposizione, v. T.A.R. Lazio, III – bis, 18 luglio 2022, n. 10163
[10] Al contrario, quando, con l’art. 40, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, è stato inserito il comma 8-bis nel codice di rito, si è inteso precisare che la nuova disciplina si sarebbe applicata solo “ai giudizi introdotti con ricorso depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto”, in tal modo superando i problemi di applicazione ai giudizi già pendenti di cui si tratta nel testo.
[11] L’anticipazione, tuttavia, non può considerarsi, per ovvie ragioni, automatica, ma presuppone un provvedimento esplicito del giudice in tal senso orientato.
[12] È questa la soluzione a cui aderisce la, forse, prima pronuncia del giudice d’appello che ha dato applicazione della nuova disciplina. V. Cons. di Stato, 15 luglio 2022, n. 3387 (decreto): “Rilevato altresì che, con riferimento allo specifico ambito in trattazione, è recentissimamente intervenuto, nelle more tra la pubblicazione dell’ordinanza cautelare qui appellata e la proposizione dell’odierno appello, l’art. 3 del decreto-legge 7 luglio 2022, n. 85, ai sensi del quale, tra l’altro:
1) per “qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”, tra cui per consenso unanimemente espresso dalle parti in causa rientra l’opera ferroviaria di cui qui trattasi, è disposta d’ufficio l’anticipazione della “data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza” (da intendersi nella specie, per effetto del ricordato ius superveniens, come data di entrata in vigore di detto decreto-legge, ossia dal giorno 8 luglio 2022) – di tal ché, in forza di tale sopravvenuta disposizione di legge, il giudice di primo grado ha anticipato l’udienza di trattazione del merito al 28 settembre 2022 – altresì processualmente sanzionata con la previsione che, nel “caso in cui l'udienza di merito non si svolga entro i termini previsti dal presente comma, la misura cautelare perde efficacia, anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione”.
[13] Una tale soluzione potrebbe esprimere anzi un adeguato contemperamento tra le aspettative del ricorrente e la valutazione, imposta al giudice, sulla compatibilità della misura cautelare con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.
[14] Possa e non necessariamente debba. La discussione del merito potrebbe essere fissata nel termine di sessanta giorni previsto dall’art. 71 per il caso in cui, nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine di trenta giorni dal deposito dell’ordinanza cautelare, non sia stata calendarizzata nessuna udienza di merito.
[15] L’art. 3, comma 43, d.l. 7 luglio 2022, n. 85, richiamando (attraverso il rinvio all’art. 49 del codice di rito) l’istituto dell’integrazione del contraddittorio implicitamente chiarisce che l’omessa notificazione del ricorso, entro il termine decadenziale di sua proposizione, a queste non nuove parti necessarie non comporta l’irricevibilità del gravame.
[16] Secondo l’art. 1, comma 1, lettera l), d.l. 31 maggio 2021, n. 77, si intende per “«amministrazioni centrali titolari di interventi previsti nel PNRR», i Ministeri e le strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri responsabili dell'attuazione delle riforme e degli investimenti previsti nel PNRR”,
[17] Il rilievo porta un ulteriore argomento a favore della tesi secondo la quale gli interventi a cui allude l’art. 3 in esame comprendano tutte le procedure comunque ricollegabili ai finanziamenti PNRR e non solo le procedure di evidenza pubblica e espropriative che ne costituiscano diretta applicazione, con riferimento alle quali le amministrazioni titolari dell’intervento sarebbero parti resistenti e, dunque, già parti necessarie del processo.
[18] Si pone, così, un ulteriore problema, che concerne l’opponibilità, da parte delle nuove parti necessarie di sentenze del giudice amministrativo già passate in giudicato. Ove, infatti, si dovesse dare una risposta affermativa al quesito, il decreto-legge consentirebbe, indirettamente, la possibilità di ridiscutere fattispecie processuali ormai definitivamente stabilite. Sul punto, chi scrive reputa che si debba dare, tuttavia, una risposta contraria, atteso che, proprio in ragione dell’ormai raggiunta definizione del processo, è incerto che si possa applicare il principio tempus regit actum e, soprattutto, perché si attuerebbe, in tal modo, un’ingerenza del Potere legislativo su quello giudiziario.
[19] Si osservi, incidentalmente, che, per gli stessi motivi, a questa conclusione si dovrebbe pervenire anche con riferimento all’applicabilità ai giudizi anteatti dei termini dimidiati previsti dall’art. 119 cpa.
[20] A tale conclusione si oppone, inoltre, anche il fatto che, una volta raggiunto il grado d’appello, il contraddittorio dovrebbe essere ugualmente integrato, secondo quanto si ritiene di dimostrare dappresso.
[21] Cons. di Stato, ad. pl. 30 luglio 2018, n. 15: “Per completezza è ancora opportuno evidenziare che la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice di appello e dei casi di annullamento con rinvio di cui all’articolo 105 presenta evidenti profili di indisponibilità, perché è diretta a tutela interessi di ordine pubblico che attengono al regolare svolgimento del processo, realizzando un delicato bilanciamento di valori costituzionali (fra i quali, in primis, quelli del giusto processo e della sua ragionevole durata).
Deve escludersi, quindi, che in tale materia la volontà delle parti possa condizionare l’esercizio dei poteri del giudice.
Ciò implica, fermo restando ovviamente l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, che in presenza di una delle ipotesi di cui all’art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d’appello deve procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o, addirittura, formula una richiesta contraria, chiedendo espressamente che la causa sia direttamente decisa dal giudice di appello. Così, ad esempio, se il T.a.r. ha erroneamente declinato la giurisdizione, il rinvio al primo grado risulta doveroso, anche se la parte, che impugna il capo sulla giurisdizione, chiede che la causa venga direttamente decisa nel merito in sede di appello”.
[22] Depongono in tal senso soprattutto il secondo comma dell’art. 3, dove è previsto che “nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilità della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR” e il successivo sesto comma, che, in riforma dell’art. 48, d.l. 31 maggio 2021, n. 77, stabilisce: “In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR”. Dette disposizioni, ormai non sconosciute all’impianto del processo amministrativo, causano, a giudizio di chi scrive, uno sostanziale squilibrio delle armi processuali.
Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il PNRR
L’art. 3 del d.l. 7 luglio 2022 n. 85 ha dettato disposizioni per l’accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il PNRR manifestamente rivolte a vanificare l’effettività della tutela giurisdizionale erogabile dal giudice amministrativo e che allontanano il processo amministrativo dal rispetto dal principio fondamentale del giusto processo.
Il Comitato di redazione della Sezione diritto e processo amministrativo della rivista Giustiziainsieme, pur consapevole dello sforzo che nell’attuale momento storico è richiesto all’intero ordinamento per assicurare la massima efficienza possibile dell’azione amministrativa per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi PNRR, intende manifestare al riguardo la propria preoccupazione sulla grave compromissione che le nuove norme arrecano alla tutela giurisdizionale erogabile dal giudice amministrativo, nel fermo convincimento che il giudice amministrativo rappresenti una risorsa da salvaguardare e non un fattore di crisi dell’efficienza amministrativa.
Il Comitato di redazione ritiene di fare proprie e di esprimere nei termini essenziali di seguito riportati le considerazioni critiche che emergono a prima lettura dalle norme introdotte dall’art 3 del dl 7 luglio 2022 n. 85, auspicando che ciò sia utile affinché vengano apportate le opportune modifiche e correzioni al testo normativo.
Problema dell’individuazione dei giudizi che abbiano ad oggetto “una procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Il comma 5 prevede l’applicazione in ogni caso a questi giudizi dell’art 119, c. 2 (oltre che dell’art 120, c 9) del c.p.a.; ovvero la dimidiazione dei termini processuali con conseguenti rischi di inammissibilità delle impugnazioni delle sentenze, di improcedibilità dei ricorsi non tempestivamente depositati, in genere di caos sui termini di deposito delle memorie, dei documenti e delle repliche (oltre che delle sentenze e dei dispositivi). Sarebbe necessario prevedere che i Presidenti dei Tribunali o delle Sezioni cui sono assegnati i ricorsi, indicassero, con inserimento sul sito, sentite le p. A. (o soggetti equiparati) parti del giudizio o la Presidenza del Consiglio dei Ministri, se questo rientra o meno tra quelli interessati dalla disposizione, tanto ai fini della certezza dei termini di “scambio” degli atti e dei documenti in vista dell’udienza, quanto ai fini della scusabilità dell’errore di chi, in assenza di una tale indicazione, non rispettasse i termini. Sussiste inoltre un problema di coordinamento con il comma 3, laddove prevede che le p.A. sono tenute a rappresentare che il ricorso ha a oggetto una procedura amministrativa rientrante nella disposizione, ma non stabilisce alcun termine per tale adempimento.
Il comma 1 prevede all’ultimo periodo che, nel caso in cui l’udienza pubblica non sia celebrata nei termini (estremamente stringenti) previsti dallo stesso comma, la misura cautelare perde efficacia.
Il ricorrente è quindi pregiudicato dalle tempistiche fissate dal giudice. La disposizione, più rigida di quella introdotta dal comma 8-bis dell’art. 120 c.p.a. (che prevede che le misure cautelari siano “disposte” per una durata non superiore a 60 gg. dalla pubblicazione della relativa ordinanza, “fermo restando quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 119” e sembra dunque più dare una “guida” al giudice, da coordinare con la sollecita fissazione del merito, che stabilire un tempo massimo di efficacia della misura concessa, facendola automaticamente decadere al suo spirare) è tanto più assurda e grave in quanto si applica ai giudizi in corso e non è neppure esplicitato che (come sembra corretto ritenere) vi si applichi la sospensione feriale.
Il comma 1 fissa tempistiche iper-accelerate per la definizione dei giudizi in caso di accoglimento dell’istanza cautelare e il comma 2 condiziona la decisione del giudice in sede cautelare (oltre che per la fissazione di merito) all’onere di motivare sul rispetto dei tempi del PNRR.
Si riduce, ulteriormente, la possibilità di concedere misure cautelari e si chiede in sostanza al giudice di rinunciare al suo ruolo di dare giustizia, impedendo, se del caso, che un atto illegittimo produca i suoi effetti (come pure imposto dalla direttiva UE 2007/66), pur di non compromettere il rispetto dei tempi del PNRR; come se questa tempistica possa di per sé consentire di derogare ai principio di legalità dell’azione amministrativa, di effettività della tutela giurisdizionale e alle norme anti corruzione.
Il comma 1 prevede che, in caso di accoglimento dell’istanza cautelare, il giudice disponga il deposito dei documenti necessari e l’acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti.
La previsione è sicuramente apprezzabile, ma dovrebbe valere sempre, in forza degli artt. 55, comma 12 e 65 c.p.a., e non essere collegata all’accoglimento dell’istanza cautelare.
Il comma 3 dispone che “Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rappresentare che il ricorso ha ad oggetto una procedura amministrativa che riguarda interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”.
Non è però, come detto, previsto un termine entro il quale le pubbliche amministrazioni debbono rappresentare quanto richiesto, né le modalità con cui debbano farlo; e neppure un obbligo delle segreterie degli uffici giudiziari di darne immediata comunicazione alle altre parti. Con quanto ne consegue in termini di incertezza sui termini processuali.
Il comma 4 individua come parti necessarie del processo, facendo espresso riferimento anche all’obbligo di integrazione del contraddittorio, “le amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR ai sensi dell’art 1, c 1, lett l), dl 77/21”.
Il rinvio all’art 1, c 1, lett l), dl 77/21 è privo di qualsivoglia utilità perché fa anch’esso generico riferimento a “ministeri e strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri responsabili dell’attuazione delle riforme e degli investimenti previsti dal PNRR. L’integrazione del contraddittorio, oltre ad essere già di per sé complessa per la difficile individuazione delle suddette parti, va peraltro manifestamente nel senso opposto alle esigenze di accelerazione, in nome delle quali si impone addirittura al giudice di rinunciare al suo ruolo e di anticipare d’ufficio le udienze già fissate sui ricorsi pendenti.
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