ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il processo a Pasolini difeso dal “fascista” Alfredo De Marsico
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. Premessa. - 2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana. - 3. Le ragioni dell'importanza storico - giuridica dell' affaire "I racconti di Canterbury". - 4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. - 5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni. - 6. Spunti conclusivi di riflessione.
1. Premessa
Nel settembre del 1972 al teatro comunale di Benevento venne proiettato in anteprima "I racconti di Canterbury", film diretto e sceneggiato da Pier Paolo Pasolini. Si tratta del secondo dei tre episodi della c.d. "Trilogia della vita", una composizione filmica che presenta in sequenza "Il Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972) e "Il fiore delle Mille e una notte" (1974); opere che rivisitano le omonime novelle medioevali, il cui tema centrale è, appunto, la vita, intesa come esperienza fisica avente come suo centro il corpo. A detta del regista, la Trilogia è infatti pervasa dalla necessità della rappresentazione dei corpi e, sopratutto, del loro simbolo culminante: il sesso. Tale necessità si inserisce "in quella lotta per la democratizzazione del "diritto a esprimersi" e per la liberazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta"[1]. Sicché, non può meravigliare che tutti e tre i film (assieme a molte altre sue produzioni artistiche) siano stati oggetto - da parte di pubblico e critica - di grandi apprezzamenti ma anche di feroci critiche e di numerose denunce per oscenità, e posti così al centro di intricate vicende giudiziarie.
Non fece eccezione la pellicola "I racconti di Canterbury", per cui, come era già accaduto per il "Decameron", venne celebrato il processo - innanzi al Tribunale di Benevento, competente per territorio - nei confronti di Pier Paolo Pasolini per il reato di cui all'art. 528 c.p., che punisce, tra l'altro, la fabbricazione di immagini oscene per farne commercio o esporle pubblicamente. Un processo che, come gli oltre trenta che alla fine si conteranno, si concluderà con l'assoluzione, ma che, per le ragioni che esporremo, assume una importanza ed una significatività tutta particolare. Questa complessa vicenda (artistica e processuale) rappresenta dunque l'oggetto delle nostre riflessioni.
2. Lo scontro totale di Pasolini con la giustizia italiana
Si sostiene generalmente che la società italiana degli anni Settanta (o comunque buona parte di essa) non fosse "pronta" ad accogliere espressioni artistiche a sfondo sessuale quali erano quelle di Pier Paolo Pasolini, e che lo scontro frontale con la giustizia e la sottoposizione dell'intellettuale ad una sorta di inquisitio generalis acclarasse, in qualche misura, l'inadeguatezza delle leggi - che ancora in quegli anni derivavano, senza sostanziali modifiche, dal ventennio fascista - allo spirito dei tempi, che Pasolini intendeva interpretare; o, comunque, attraversare, per sconvolgerli.
In effetti, a determinare lo scontro di Pasolini con il potere giudiziario si poneva sopratutto la tutela penale della morale pubblica e del pudore apprestata dall'ordinamento, che secondo l'intellettuale si fondava ancora sulla "ridicola" concezione del pudore rigidamente limitata all'amplesso tra un uomo e una donna [2].
Ne derivò una contrapposizione totale. Uno scontro agonistico, impregnato di ideologia: da una parte e dall'altra. E certo taluni magistrati approfittarono dell'illustre controparte processuale per ritagliarsi fette di protagonismo e di consenso nell'opinione pubblica. Ad esempio, nel processo (celebrato nel 1963) centrato sul film "La ricotta", in cui l'accusa era quella di vilipendio di religione, il pubblico ministero, in dichiarata competizione intellettuale con Pasolini, così formulò la sua singolare requisitoria:
"Davanti a me è Pier Paolo Pasolini. E' l'imputato, perché deve rispondere di un'accusa mossagli dal pubblico ministero. Qui sono io, al banco del pubblico ministero, ma in quale veste? [...] Ebbene, io pure sono imputato! [...] Da varie fonti senza metafore mi si accusa: l'attentatore della libertà, il liberticida, l'inquisitore! Non occorre altro per rendersi conto che in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini ed io. [...] Se voi condannerete Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora, ineluttabilmente, condannerete il mio operato"[3].
L'ingaggio di questa sfida con la giustizia italiana si protrasse per quasi trent'anni e produsse, come detto, oltre trenta processi, riducendosi - in parte per volontà dello stesso Pasolini - in un circo mediatico-giudiziario[4] senza periodi di chiusura; tanto che, chi si è incaricato di ricostruire tutti i passaggi processuali, ha avuto l'impressione di ripercorrere un unico grande "Processo"; o, più kafkianamente, il Processo [5].
In realtà, procedendo ad una più approfondita analisi, si dovrebbe evidenziare come, all'interno di questo scontro, si siano comunque generate vicende sintomatiche di una lenta ma progressiva evoluzione della società italiana, alcune delle quali assumono altresì un significato profondo nell'universo giuridico. La grande avversione dell'intellettuale nei confronti di quello che lui definiva uno Stato capitalista piccolo-borghese e della sua cultura letteraria di ristrette vedute, che attaccava strumentalmente le opere di un diverso e ne faceva scempio non era certo fine a se stessa: era volta a stimolare polemiche e dibattiti (quasi) sempre costruttivi, ed a smuovere dal fondale fangoso della cultura - artistica, politica, giuridica - italiana quelle tendenze progressiste ancora involute.
Ecco dunque che, collocandoci in tale prospettiva storica, il processo beneventano rappresenta un momento d'incontro suggestivo, che segnalerebbe, per l'appunto, il lento emergere della società dalle secche del passato: quello tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico, uno dei penalisti italiani più autorevoli che il Novecento abbia avuto. Si tratta, probabilmente, del punto di intersezione meglio sviluppato tra la dimensione giuridica e la dimensione artistica della vicenda pasoliniana, che ci permette di fotografare nitidamente, al contempo, la vis polemica dell'artista e l'originalità liberale del giurista. La cui congiunzione ha prodotto un risultato che, in chiave storica, non è probabilmente ancora stato valutato appieno[6].
3. Le ragioni dell'importanza storico-giuridica dell'affaire "I racconti di Canterbury"
Occorre allora chiederci quali sono le ragioni per cui assegnamo tanta importanza al processo di Benevento centrato su "I racconti di Canterbury". Esse, per vero, sono molteplici.
Anzitutto, si tratta del film che valse a Pasolini l'Orso d'oro al festival di Berlino del 1972 e che fin da subito acquisì, per ciò, un certo grado di celebrità nel panorama cinematografico internazionale. Fu poi questo l'ultimo film a sfondo sessuale del quale egli poté seguire la vicenda processuale, conclusasi appena due anni prima la sua tragica scomparsa del 1975. L'inevitabile processo che seguì alla pellicola "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (un film che non rientrava però nella Trilogia, e che verrà presentato al pubblico quando il regista era già morto da qualche settimana), infatti, che pure rappresentava il gesto supremo di sfida alla censura[7], avrà un esito scontato (anche) per l'assenza del suo principale imputato[8]. Inoltre, "I racconti di Canterbury", assieme agli altri due della Trilogia, rimangono il compimento di un percorso "estremo" che Pasolini, se anche fosse rimasto in vita, non avrebbe replicato. E' infatti nota la sua pubblica "abiura" del complesso filmico, pronunciata pochi mesi prima del suo omicidio.
Ma l'attenzione del giurista ricade fatalmente sul processo di Benevento per una più specifica ragione: in quell'occasione, infatti, Pasolini fu difeso da uno dei più illustri esponenti del pensiero giuridico del Novecento italiano: Alfredo De Marsico.
Invero, il clamore mediatico che suscitavano puntualmente i processi che lo vedevano coinvolto aveva già permesso al poeta di godere del patrocinio di alcuni giuristi accademici tanto noti quanto "illuminati": è il caso di Francesco Carnelutti, uno dei padri del diritto civile italiano, che difese Pasolini nel 1962. Ma l'intervento del giurista napoletano, personaggio molto vicino alle gerarchie fasciste, poi nominato ministro della Giustizia nel febbraio del 1943 (dunque, per pochi mesi, fino alla caduta del governo presieduto da Mussolini, il 25 luglio dello stesso anno) [9], ha una rilevanza simbolica ancora maggiore, che parla da sé: l'intellettuale comunista e provocatore difeso da uno dei giuristi di spicco del regime fascista, che aveva in qualche misura collaborato ai lavori preparatori di quello stesso codice su cui si chiedeva la condanna di Pasolini per oscenità delle sue opere.
Eppure, ripercorrendo i suoi lavori ed i suoi processi, non stupisce che il giurista campano, nonostante i trascorsi politico-ideologici, abbia accettato la difesa di Pasolini. La sua concezione del diritto penale, come rivelano i suoi scritti, fu sempre particolarmente garantista e ancorata ad alcuni principi - quali il divieto di analogia in materia penale, o la necessaria correlazione tra il reato ed il bene giuridico da proteggere [10] - il cui rispetto e la cui salvaguardia, nel pieno della dittatura, non era affatto scontato. E' anche per questa ragione che, secondo alcune fonti, Mussolini era solito descrivere De Marsico come un "liberale del fascismo"[11], mentre quest'ultimo ebbe a dire di sé: "il Partito mi considerava un fascista non conformista"[12].
Ed è certo questo, in prospettiva storiografica, l'aspetto di più grande rilevanza. L'aver voluto, proprio lui, ex membro del Gran Consiglio del fascismo, difendere Pasolini in quel processo, dimostra nitidamente come gli esponenti più importanti del pensiero giuridico del tempo potessero rivelarsi profondamente liberali (e certamente più "illuminati" di altri, che con il regime non avevano avuto nulla a che fare) pur essendo stati fascisti. O che, sovvertendo i termini di un noto articolo di Pasolini, si poteva professare senza alcuna contraddizione, almeno in campo giuridico, un certo "antifascismo dei fascisti"[13].
4. La vicenda processuale: analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna
A distanza di oltre quarant'anni, l'unico modo per ricostruire i percorsi processuali beneventani, evitando di cadere in ricostruzioni approssimate o, peggio, inesatte, è quello di ricorrere all'analisi della documentazione conservata presso l'Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. Il fascicolo su "I racconti di Canterbury", come su molti altri processi, venne infatti formato verso la fine degli anni Settanta da Laura Betti, grande amica del poeta (morta nel 2004), che intendeva preservare la memoria della parabola pasoliniana finanche nei suoi aspetti più dolorosi: è dunque grazie a lei che oggi è possibile avvicinarsi alla verità storica di quei frangenti.
Orbene, la vicenda che ci occupa può essere suddivisa due tre tronconi: il processo principale per oscenità, svoltosi nei tre gradi di giudizio tra l'ottobre del 1972 e il dicembre 1973 e il parallelo procedimento d'esecuzione, avviato dalla difesa di Pasolini e del produttore del film Alberto Grimaldi, volto ad ottenere il dissequestro della pellicola.
Il poeta è dunque chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 528 c.p. per aver dato, mediante il film, pubblico spettacolo di oscenità. Il processo segue senza intoppi l'iter che già era stato seguito negli altri processi che avevano riguardato i suoi film, e conduce ad una assoluzione piena. D'altronde, come si può leggere nella sentenza del tribunale, "la validità della direzione artistica, curata essenzialmente dal Pasolini, risulta dalla visione e dalla valutazione complessiva del film e dalla stessa personalità del regista, considerata la più significativa del secondo dopoguerra italiano"[14].
Non è giunta fino a noi, purtroppo, la trascrizione dell'arringa di De Marsico, tra le tante che sono poi state in seguito pubblicate, né ci sono giunti suoi appunti o riflessioni sul processo di primo o secondo grado. Secondo l'unica fonte che riporta la vicenda, egli "fornisce l'ennesima prova della sua limpida concezione dell'Avvocatura, nella quale il diritto alla libertà dell'individuo va anteposto a qualunque ragionamento di ordine politico"; mentre Pasolini, accanto, "ne resta ammirato, elogiandone il rigore semantico"[15].
Esiste però un passaggio (che merita di essere riportato per intero) tratto da una arringa fatta proprio in quegli anni, che - mutatis mutandis, e nonostante lo si estrapoli quasi forzosamente da un contesto del tutto diverso, ed in cui peraltro De Marsico difendeva non l'imputato, ma la parte civile - può forse consegnarci, con un margine di verosimiglianza accettabile, le parole che egli pronunciò innanzi alla Corte beneventana:
"Non sono qui, in quest'aula, uomini di lettere e artisti, poeti e pittori e drammaturghi che vengono a controllare se la loro stessa libertà di artisti non sia in pericolo e ad invocarne in muta ma tesa solidarietà la liberazione? Oseremo ancora retrocedere verso il medioevo, verso le tenebre di una ignoranza e di una barbarie anche più fitta di quelle medievali? E voi siete giudici o aguzzini e tiranni? Rappresentate lo Stato o un fideismo conventuale da respingere? Rappresentate la coscienza sociale e politica e morale del secolo o gli spettri assurdamente risorti dagli ipogei di una reazione che minaccia le conquiste più elementari ed essenziali del sapere e della libertà?"[16].
Arriviamo dunque all'ultimo passaggio del processo: la Corte di Cassazione, nel dicembre 1973, assolve in via definitiva gli imputati da ogni accusa [17]. Ai nostri fini è però interessante, al di là del dato di cronaca processuale, riprendere alcuni passaggi della memoria di Alfredo De Marsico e di Francesco Gianniti depositata in occasione della camera di consiglio dei giudici di Cassazione: stigmatizzando in essa la decisione di condanna della corte d'appello di Bologna intervenuta appena qualche mese prima in relazione al film "Ultimo tango a Parigi", basata su principi giuridicamente erronei, si rileva che "le sequenze presunte oscene suscitano più disgusto che erotismo, il che corrisponde alle asserite finalità del regista di demitizzare il sesso"; e, sopratutto, respingendo ogni concezione pedagogica dell'arte, si afferma - in linea con quanto già ribadito dalla Corte di Appello di Napoli nel procedimento de quo - che:
"occorre tenere ben distinto il principio etico-sociale sulla oscenità, che deve essere elaborato in relazione al sentimento medio del pudore, da quello esclusivamente filosofico di arte. Sono evidenti, per quanto riguarda quest'ultima indagine, l'impossibilità di fare ricorso a criteri empirici e la necessità per il giudice di interpretare il concetto di arte quale risulta recepito dal legislatore"[18].
È evidente - ed eloquente al contempo - come De Marsico vorrebbe che il concetto di arte "recepito" dal legislatore (fascista dell'epoca, potremmo aggiungere) venisse "interpretato" ed attualizzato dai giudici, riempiendosi di nuovi contenuti alla luce delle nuove sensibilità e delle tendenze attuali.
Il procedimento d'esecuzione volto al dissequestro della pellicola costituisce, come detto, il terzo troncone dell'affaire "Canterbury", quello che presenta più problematiche d'ordine giuridico.
Difatti, nonostante la sentenza di primo grado del 20 ottobre 1972 disponesse il dissequestro del film, lo stesso tribunale respingeva [19] la richiesta di immediata esecutorietà, sulla scorta del combinato disposto tra l'art. 240 c.p. in materia di confisca delle cose che servirono a commettere il reato e l'art. 622 c.p.p. (del previgente codice), che dispone, in via generale, la restituzione delle cose sequestrate solo dopo la sentenza irrevocabile di proscioglimento: insomma, non si poteva dare immediata esecuzione all'ordine di dissequestro poiché doveva pronunciarsi ancora il giudice d'appello.
La difesa guidata da De Marsico propone allora ricorso in Cassazione contro l'ordinanza, ricorso che viene accolto e che permette il dissequestro della pellicola. E' il 9 gennaio 1973, ed il film può finalmente tornare nelle sale cinematografiche grazie ad una nuova ordinanza del tribunale di Benevento.
Ma avverso tale incidente d'esecuzione - che la Cassazione aveva ritenuto ammissibile dal punto di vista procedurale - la Procura di Benevento ricorre nuovamente in Cassazione, la quale, con una decisione che non conosce precedenti, afferma il principio secondo cui la pellicola può essere dissequestrata solo a seguito di sentenza definitiva di assoluzione[20], annullando così l'ordinanza beneventana che disponeva il dissequestro. Il 2 aprile 1973 il film venne dunque nuovamente sequestrato (lo rimarrà fino al dicembre 1973, intercorsa la definitiva assoluzione degli imputati), scatenando una campagna di stampa contro la magistratura, oramai definita senza mezzi termini corpo fascista par excellance, braccio della censura del Governo[21].
È proprio in questa occasione, ed a fronte di queste problematiche, che emerge il profilo di fine giurista del Maestro, il quale, comprendendo la portata della questione giuridica che era stata posta dalla Procura prima, e del principio espresso dalla Cassazione poi, ingaggia una battaglia strenua con l'una e l'altra. L'Archivio Pasolini conserva la memoria (sottoscritta anche dall' avv. Giuseppe De Luca) che Alfredo De Marsico deposita presso la Cassazione in vista della decisione dell'aprile 1973 sul dissequestro del film. In essa, l'argomentazione si basa tanto su questioni di stretto diritto, tanto sui più importanti principi costituzionali: egli parte dall'art. 21 che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, passa sotto l'impalcatura dell'art. 33, a detta del quale l'arte e la scienza sono libere, per approdare infine all'art. 27 ed alla presunzione di innocenza costituzionalmente garantita. Ma non solo. Il giurista campano affronta anche il tema dell'eccessivo potere di cui gode la pubblica accusa in materia cautelare, il cui passaggio testale merita davvero di essere riproposto: "La libertà dell'arte restaurata dal giudice con la sentenza non può essere sottoposta ad una ulteriore "censura sospensiva" attuata "di fatto" mediante l'impugnazione di un organo (P.M.) che non gode costituzionalmente delle stesse garanzie di indipendenza del giudice (art. 107, ultimo comma)". Egli, dunque, così conclude: "Trattasi, evidentemente, più che di un sequestro a fini probatori, di una confisca anticipata del film, non prevista da alcuna norma di legge"[22].
Al di là della pregevole fattura della strategia difensiva, appare di tutta evidenza come De Marsico, il giurista di estrazione fascista, sia riuscito ad impostare la questione in termini non soltanto rigorosamente codicistici, ma anche - sopratutto - costituzionali; allargando così la vicenda oltre i suoi naturali confini e conferendo alla stessa un respiro "nazionale", una portata simbolica eccezionale, trasformandola in una "prova di resistenza" del principio di libertà di manifestazione del pensiero, come di altri fondamentali principi. La contemporaneità culturale e giuridica di De Marsico si schiude così agli occhi dello storico, come a quelli del giurista.
5. Il (difficile?) rapporto tra Pasolini e De Marsico: alcune interpretazioni
La società italiana che assiste al processo su "I racconti di Canterbury" sembra ancora spaccata, tra coloro che non intendevano arretrare d'un passo sul terreno del pudore e della morale pubblica e coloro che, all'opposto, sembravano pronti a cavalcare la "rivoluzione culturale" partita nel 1968. Fuori dai tribunali, dove veniva giudicata una figura così controversa qual era quella di Pier Paolo Pasolini, si svolgevano in parallelo, nell'opinione pubblica, processi ai processi, e ci si divideva puntualmente i ruoli: innocentisti da una parte, colpevolisti dall'altra.
Dunque, a concentrare la curiosità collettiva era il processo in sé, e l'atteggiamento dello stesso Pasolini davanti ai giudici e alla stampa, non certo i profili dei suoi avvocati, né tantomeno le loro strategie difensive. Le cronache dell'epoca danno, dei processi pasoliniani, pochissimo rilievo a tali personaggi.
Eppure, il rapporto tra Pasolini e De Marsico acquista d'un tratto rilevanza nell'opinione pubblica, ma tempo dopo le vicende processuali di cui si è dato conto. A processo oramai concluso infatti, il 19 gennaio 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pasolini si prese "una piccola vendetta contro De Marsico"[23], per aver dichiarato, quest'ultimo, inammissibile il rapporto omosessuale in quanto inutile alla sopravvivenza della specie: "ora, egli, per essere coerente, dovrebbe, in realtà, affermare il contrario: sarebbe il rapporto eterosessuale a configurarsi come un pericolo per la specie, mentre quello omosessuale ne rappresenta una sicurezza"[24].
Si tratta di un "colpo basso", sferrato nell'ambito di un dibattito giornalistico sull'aborto. Lo stesso De Marsico, che non risponderà mai all'intellettuale per mezzo stampa, nei suoi diari annota la circostanza [25], e pochi giorni dopo riporterà sullo stesso quaderno personale, con velata ma percettibile amarezza: "Il mio nome non è fatto nelle cronache se non accompagnato dalla notazione di ciò che, da anni, si ripete stucchevolmente e che sanno anche le pietre e gli incavi in cui sono infisse: che ho più di 85 anni, che non sono ancora morto, e che mi batto con energia e lucidità e che (dimenticavo), sono stato il collaboratore di Mussolini"[26].
All'affermazione di Pasolini seguiranno poi alcune repliche, tra cui quelle di Umberto Eco e di Giorgio Bocca [27], i quali, pur mai citando il giurista campano, verranno comunque bollati da Pasolini - con l'intento evidente di inasprire il dibattito - come "compari di De Marsico"[28].
Ora, ci pare di scorgere, anche a distanza di quarant'anni, una polemica di bassa lega, puramente provocatoria (in pieno stile pasoliniano, del resto), e ci è difficile dire in che misura il suo attacco nei confronti del giurista (che Pasolini pubblicamente definiva "il mio amico De Marsico"[29]) debba essere considerato meramente strumentale; dall'altra parte, invece, così si esprimeva De Marsico nei confronti di Pasolini: "scrittore salace, ma libero e non legato ad alcun pregiudizio né compromesso. Lo preferisco come poeta; sommo come regista, quando non scivola nell'osceno, dalle cui conseguenze l'ho salvato tirandolo per i capelli"[30].
Al di là delle apparenze, sulla cui superficie si possono prefigurare frizioni ideologiche, il rapporto si è instaurato: i due personaggi avevano, del resto, un profilo ideologico meno marcato di quanto si possa immaginare[31], e i due - sulla scorta dei documenti di cui disponiamo - godevano l'uno della stima dell'altro, come abbiamo appena visto. Rimane però una fonte di curiosità difficile da soddisfare il fatto che Pier Paolo Pasolini abbia scelto proprio Alfredo De Marsico come suo difensore (e viceversa). Le interpretazioni che di questa relazione possono essere date sono tante, tantissime, e molte di esse, del resto, sono già affiorate: ad esempio, allorquando si è messo in evidenza il ruolo di Maestro del diritto di De Marsico, il suo non aver mai abbandonato, neppure in pieno regime, importanti principi di garanzia in materia penale, il suo - per utilizzare un'espressione semplicistica ma efficace - "antifascismo dei fascisti".
Ma è alle riflessioni di Mauro Mellini che intendiamo affidare l'ultimo, più importante, spunto interpretativo, giacché nessuno meglio di lui può immaginare come e perché questo rapporto si sia istruito: egli era infatti, negli anni Settanta, uno dei più noti avvocati italiani, un conoscitore profondo di quel mondo forense; ma sopratutto, è stato uno dei principali esponenti del Partito radicale, alle cui battaglie Pasolini spesso si era affiancato, negli ultimi anni della sua vita. Mellini, dunque, così legge in controluce l'incontro tra Pasolini e De Marsico:
"Alfredo De Marsico è stato uno dei più grandi avvocati italiani. Uno degli ultimi di quella “scuola napoletana” per la quale l’avvocato “principe del Foro” era una sorta di distillato dello spirito della città. Malgrado le sue vicende politiche Alfredo De Marsico era “soprattutto avvocato”. Ed ancora, nel 1972, quell’essere “grande avvocato” metteva in ombra ogni qualifica politica. [...] Nel 1972 si erano cancellati molti solchi tra gli italiani. E non se ne erano aperti del tutto altri che furono poi capaci di produrre follie e sangue. Ma, soprattutto, nel 1972 il processo penale non aveva quella connotazione politica che in seguito la “giustizia di lotta” di certi magistrati e la testimonianza politica degli stessi imputati nei processi trasformarono in eventi nei quali la sigla politica, la Sinistra e la Destra marchiarono tutti, giudici, P.M., avvocati, oltre agli imputati.
Così quel “grande avvocato” poté essere ancora il difensore dell’eretico comunista anche a prescindere dal fatto di essere stato, nei fatti se non anche nelle teorizzazioni, un “eretico fascista”. Credo che Alfredo De Marsico sentisse fortemente quell’essere “avvocato prima di tutto”. E mi piace pensare che Pier Paolo Pasolini lo abbia capito e lo abbia apprezzato, magari simulando di imporsi solo di tener conto delle “capacità tecniche” del difensore"[32].
6. Spunti conclusivi di riflessione
"Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere, ha creato una situazione altrettanto e forse più insana di quella dei tempi della povertà"[33]. L'impegno intellettuale di Pasolini era rivolto proprio contro questa falsa libertà sessuale, e le sue opere rappresentano il punto più alto di una provocazione puramente artistica, che non conoscerà eredi, né sarà mai più replicata: la sua vicenda può essere immaginata come un prisma, esemplare unico, dalle molte sfaccettature, in cui anche il diritto penale si specchia nella facciata che gli appartiene.
Per quanto ci concerne, il processo di Benevento - che è, come abbiamo visto, il proscenio dell'incontro tra Pasolini e De Marsico - rappresenta un'occasione formidabile per verificare, in un certo qual modo, a che punto fosse, nella prima metà degli anni Settanta, il processo di faticoso superamento dei retaggi culturali e giuridici in cui la società italiana era avvinta fin dalla caduta del fascismo. La sequenza beneventana permette, più in particolare, a due vicende personali che possono dirsi, ciascuna nei propri ambiti, ideali, di "illuminarsi" reciprocamente: da un lato ritroviamo Pasolini, "simbolo di tutto ciò che conservatori e fascisti in particolare odiano visceralmente"[34]; dall'altro De Marsico, il giurista più fine ma anche più "liberale" del regime (anzi, "dello Stato", come lui stesso ebbe a dire). Un rapporto all'apparenza impossibile, ma che pure si è istituito, si è alimentato e segna la congiuntura tra due mondi. E' stato Mauro Mellini, del resto, ad illustrarcelo magistralmente.
Insomma, in chiusura, potremmo anche dire che l'assunzione della difesa di Pasolini da parte di De Marsico ribadisce, sul fronte penalistico ove si collocava quest'ultimo, l'originalità liberale e l' "onestà" scientifica di un Maestro, il cui pensiero giuridico, nonostante avesse raggiunto la piena maturazione nel "ventennio", ha sempre mantenuto un atteggiamento di autonomia ed anzi, di distacco; ed una presa di distanza - per certi versi clamorosa, ma pienamente compatibile con il suo "modo" di essere stato fascista - dagli ambienti politici neofascisti dell'epoca, nei quali De Marsico non volle mai penetrare [35]; e sostanzia, sul fronte artistico di Pasolini, l'ennesima provocazione scagliata addosso ad una società ancora divisa tra clericali e atei, democristiani e comunisti, fascisti e antifascisti.
Come se, davanti all'opinione pubblica, si fosse incaricato di affermare "tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo"[36], come recita la sua più nota poesia: un atteggiamento, quello della scissione dei due piani - quello delle implicazioni ideologiche del passato e quello prettamente artistico-professionale - , che non difettò mai lungo il suo percorso intellettuale.
È, dunque, per queste ragioni che il film "I racconti di Canterbury", ed il seguente processo svoltosi a Benevento tra il 1972 e il 1973, ci fornisce lo spaccato ideale illustrativo dei rapporti - meno scontati di quanto si potesse immaginare in un primo momento - che intercorrono tra il pensiero pasoliniano e quello di De Marsico, tra il variegato mondo culturale e quello giuridico, attraversati entrambi da istanze e contributi d'ogni genere, e riesce ancora - ed il processo è di per sé impegnativo in tema di suggestioni - ad offrire un rimando quasi metafisico, certamente letterario, e probabilmente impossibile da replicare oggigiorno.
[1] P.P. Pasolini, Abiura della Trilogia della vita, in Lettere luterane, Torino, 1980, p. 71.
[2] Vd. quanto egli afferma in Cani (inedito), in Scritti corsari, 8° ed., Milano, 2011, p. 121.
[3] Citato in B. Castaldo, Imputato Pasolini: un caso di "diritto e letteratura", in Lawton - Bergonzoni (a cura di), Pier Pasolini. In living memory, Washington, 2009, p. 240 ss.
[4] Va nondimeno ricordato che l'espressione è divenuta d'uso comune soltanto con la pubblicazione del pamphlet di D.S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario (trad. it.), Macerata, 1994.
[5] "E' perfino banale scrivere che non ci sono tanti processi quanti sono i procedimenti giudiziari iniziati contro Pier Paolo Pasolini e che c'è, invece, un processo solo, ininterrotto per almeno vent'anni, che si gonfia e si assecchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità: mettere in dubbio la legittimità dell'esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana": S. Rodotà, Un solo processo, in L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, 1977, p. 279.
[6] In letteratura, l'unico (breve) riferimento al significativo incontro tra Pier Paolo Pasolini e Alfredo De Marsico si rinviene nella nota di D. Zampelli, Pasolini, l'assoluzione di Benevento, in La voce del Foro (rivista dell'Ordine degli Avvocati di Benevento), n. 4/2006, a margine della pubblicazione della sentenza in parola.
[7] Commentando l'uscita del film con l'editore Livio Garzanti, Pasolini affermò che lo aveva voluto come "ultima sfida alla censura" e aggiunse: "se lo lasciano passare, la censura non c'è più". Così rivela lo stesso Garzanti in Post-scriptum, in L. Betti (a cura di), Pasolini, cit., p. 404.
[8] Il produttore del film, Alberto Grimaldi, che divenne a quel punto il principale imputato dei processi che verranno celebrati per oscenità, verrà infine assolto e il film dissequestrato, ma a condizione di alcuni tagli per complessivi 5 minuti.
[9] Alfredo De Marsico, oltre ad essere deputato nazionale dal 1924, fu membro della commissione parlamentare per la riforma dei codici dal 1925 al 1942 e, come detto, ministro della Giustizia dal 6 febbraio al 25 luglio 1943.
[10] Egli, inoltre, aveva assistito con preoccupazione al progressivo allineamento ideologico con il nazismo tedesco, che riteneva in contrasto con i principi della civiltà giuridica italiana: cfr., ad es., A. De Marsico, Prime linee della riforma hitleriana del diritto penale, in Riv. pen., 1934, p. 18 ss.; Id., Dogmatica e politica nella scienza del diritto penale, in Annali dir. e proc. pen., 1941, p. 484 ss.
[11] Vd. P. De Luca, Alfredo De Marsico, il penalista emulo di Demostene, in La Repubblica, 7 agosto 2010.
[12] In M. Bianchi, Come e perché cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Milano, 1970, p. 281; nello stesso volume si riporta un fatto vieppiù significativo: De Marsico avrebbe assunto il suo incarico ministeriale presentando a Mussolini un programma di poche righe, tra cui l'affermazione: "nessun favore ai fascisti, nessuna persecuzione agli antifascisti. Sarò il Ministro dello Stato e non del Regime" (p. 281): una dichiarazione al limite dell'incredibile, assumendo come punto di riferimento l'allineamento assoluto alle direttive del fascismo che era richiesto a tutti gli uomini che ricoprivano cariche pubbliche, ed in particolare a coloro che erano parte del Governo.
[13] Il riferimento è a P.P. Pasolini, Il fascismo degli antifascisti (apparso col titolo "Apriamo un dibattito sul caso Pannella" sul Corriere della Sera del 16 luglio 1974), in Scritti corsari, cit., p. 65.
[14] Tribunale di Benevento, sentenza n. 308 del 20 ottobre 1972 (dep. 26 ottobre 1972). Ed anzi, i giudici si profondono in considerazioni elogiative de "I racconti di Canterbury": "Il film è opera valida a rinfacciarci i mali spesso ipocritamente celati; incita lo spettatore a riflettere sulla propria condizione e a sperare in un mondo individualmente e socialmente migliore. Opera d'arte, dunque, anche per il contenuto d'intuizione universale, per la fiamma ideale che risuscita, per l'elevatezza dell'aspirazione mistica cui conduce". Pertanto, "responsabilmente ed obiettivamente il Tribunale ravvisa nel film giudicato il carattere dell'opera d'arte tale da soverchiare largamente le oscenità e le scurrilità strumentalmente contenutevi; conseguenzialmente, a norma del capoverso dell'art. 529 c.p., e nel superiore interesse delle libertà dell'arte di cui all'art. 33 Cost., serenamente assolve gl'imputati perché il fatto non costituisce reato". La sentenza verrà poi confermata nei medesimi termini dalla Corte di Appello di Napoli nel luglio del 1973.
[15] D. Zampelli, Pasolini, cit.
[16] A. De Marsico, Arringhe, vol. V, Napoli, 1975, p. 325.
[17] Corte di Cassazione, sez. III penale, sent. n. 2073 del 20 dicembre 1973 (dep. 5 agosto 1974). La sentenza, peraltro, contiene passaggi interessanti, che rivelano interpretazioni giuridiche "eccentriche". Si consideri ad esempio quanto si afferma sulla valutazione dell' "opera d'arte": "è al complesso unitario dell'opera che occorre fare riferimento per stabilire, conformemente ai canoni dell'estetica crociana cui si ispira il vigente codice penale [risulta cancellato a penna: "recepita dal nostro Codice penale"] se l'opera manifesti una qualche intuizione, come oggettivazione di impressioni spirituali tradotte in espressione, giudizio cui deve essere estranea ogni suggestione che tenda a limitare la libertà dell'artista".
[18] De Marsico - Gianniti, Memoria nell'interesse di Alberto Grimaldi e Pier Paolo Pasolini, 30 novembre 1973, conservata presso l' Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna.
[19] Tribunale di Benevento, ordinanza del 7 novembre 1972, che afferma l'inammissibilità dell'incidente di esecuzione.
[20] Cassazione, sez. III penale, sentenza del 2 aprile 1973, in Foro it., vol. 96, 1973, p. 299 ss. Tale principio sarà poi superato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 82 del 27 marzo 1975, che dichiarerà costituzionalmente illegittima la tesi della Suprema Corte a proposito del sequestro del film "Nanà 70".
[21] La stampa consumò tutti i possibili titoli ad effetto: si guardi, ad esempio, quello de Il Messaggero del 3 aprile 1973: "Un film è colpevole finché non sia dimostrata la sua innocenza per tre volte di seguito". Cfr. anche l'articolo di N. Ajello, Da oggi c'è la censura, in L'Espresso, 8 aprile 1973, in cui il giornalista, penna di spicco del settimanale, afferma: "siamo fra coloro che si accaniscono a pensare - nonostante le brucianti smentite periodicamente offerte dalla cronaca - che il nostro paese sia ancora fornito di clandestine risorse capaci di fermare il suo ultimo passo verso il baratro dell'imbecillità. La più efficace di queste risorse potrebbe essere la sua propensione a non obbedire mai alle leggi, e perciò neppure, provvidenzialmente, a quelle assurde".
[22] Non inopportunamente si segnala che De Marsico, proprio in quegli anni, si batteva all'interno del mondo forense (in specie, nei Congressi nazionali dell'Avvocatura) sostenendo la tesi della necessaria "apoliticità" della magistratura e del singolo magistrato, che deve rimanere fedele all'interpretazione e all'applicazione della legge sulla scorta di scelte politiche già compiute dagli organi preordinati ad esprimere la volontà popolare, così da essere completamente obiettivo e imparziale. Egli avanzava così, in tempi "non sospetti", il tema del rapporto tra politica e magistratura, attirandosi le critiche degli ambienti di sinistra, che bollava la sua tesi dell' "apoliticità" come "aberrante" e "reazionaria". Il quadro è ben tratteggiato da L. Caponi, "Apoliticità": una tesi reazionaria, in L'Unità, 8 settembre 1973.
[23] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 116.
[24] P.P. Pasolini, Il coito, l'aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti (apparso sul Corriere della Sera del 19 gennaio 1975 con il titolo "Sono contro l'aborto"), in Scritti corsari, cit., p. 102.
[25] De Marsico parla dell' "articolo di Pasolini", senza null'altro specificare, il 21 gennaio 1975, come risulta nel volume che raccoglie i suoi appunti personali: A. De Marsico, "Il sole tramonta sul tavolo di questa Corte di Assise", Fasano, 1989, p. 60.
[26] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit., p. 62.
[27] Rispettivamente su Il Manifesto del 2 febbraio 1975 e su l'Espresso del 6 febbraio 1975.
[28] P.P. Pasolini, Cani, cit., p. 119.
[29] P.P. Pasolini, Il carcere e la fraternità dell'amore omosessuale, in Scritti corsari, cit., p. 198.
[30] A. De Marsico, "Il sole tramonta", cit.,p. 61.
[31] Con riguardo a Pasolini, si veda quanto egli afferma sul Corriere della Sera del 4 febbraio 1973: "Quanto poi ai miei attuali interessi ideologici, il loro insieme è troppo complesso e anche contraddittorio per poter essere qui definito". Su De Marsico, invece, già molto si è detto: basti ricordare, comunque, che - pur non rinnegando mai il fascismo né, però, quel voto nel Gran Consiglio che contribuì a demolirlo - tornò in Parlamento negli anni Cinquanta non nelle file dei "nostalgici" del M.S.I., partito dichiaratamente fascista: coerente con quel suo voto di sfiducia nei confronti di Mussolini, si presentò al Senato con il partito monarchico che, più che "nostalgico", era "vagheggiatore" di una Monarchia inesistente fin dai tempi della prima guerra mondiale.
[32] Così Mauro Mellini, rispondendo per iscritto alle sollecitazioni sul punto fatte dell'autore di questo articolo, in una lettera del 30 aprile 2015.
[33] P.P. Pasolini, Il coito, cit., p. 99.
[34] Ivi, p. 153.
[35] Ad ogni modo, la sensazione è che, con il passare del tempo, la figura di De Marsico si stia gradualmente nobilitando. Si prenda, ad esempio, il recente contributo elogiativo di V. Siniscalchi, La parola civile di De Marsico, in La Repubblica, 24 marzo 2006.
[36] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Le ceneri di Gramsci (5°ed.), Milano, 2009, p. 51.
La riforma della disciplina delle intercettazioni preventive dei Servizi di informazione per la sicurezza nella legge di bilancio di Federica Resta, Dirigente del Garante per la protezione dei dati personali-Le opinioni contenute nel presente contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità
Tra gli emendamenti governativi al disegno di legge di bilancio, approvati in Commissione alla Camera dei deputati, il 123.01.000 introduce disposizioni rilevanti in materia di intercettazioni preventive da parte dei Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica.
L’inserimento della disposizione nel disegno di legge di bilancio (che non può contenere norme a carattere ordinamentale: art. 15, c.2, l. 243 del 2012) è motivata essenzialmente in ragione dell’esigenza di modificare l’imputazione dei fondi destinati a coprire queste operazioni, spostandola dal relativo capitolo all’interno dello stato di previsione del Ministero della giustizia allo specifico programma di spesa (il 5.2), contenuto all’interno dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze. In questo modo, “si consente anche di evitare la circolazione al di fuori del Comparto intelligence di documentazione contabile contenente elementi di natura sensibile, come numeri telefonici e autorità giudiziaria autorizzante, che rende riconducibile la relativa attività ai Servizi di informazione, determinando un evidente vulnus alle esigenze di riservatezza che caratterizzano le suddette operazioni”.
Tuttavia, l’emendamento non si limita alla modifica dell’imputazione contabile ma incide anche sulla disciplina dell’istituto, con innovazioni significative e una sua complessiva “sistematizzazione”(così definita dalla Relazione illustrativa).
In particolare, l’emendamento mira ad autonomizzare la disciplina delle intercettazioni del Comparto intelligence rispetto a quella delle intercettazioni volte alla prevenzione di gravi reati (art. 226 disp.att.c.p.p.) cui, invece, l’art. 4 d.l. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla l. 155 del 2005, nel suo testo attuale rinvia integralmente.
L’esigenza di una disciplina autonoma è comprensibile, in ragione delle caratteristiche che connotano le operazioni captative di competenza dei Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica, finalizzate alla tutela di un interesse giuridico, quale la sicurezza nazionale, dallo statuto normativo del tutto peculiare. Così come comprensibile appare l’esigenza di sistematizzazione della disciplina, sinora caratterizzatesi per stratificazioni successive e rinvii normativi incrociati meritevoli, certamente, di un drafting migliore. L’emendamento, a tal fine, introduce, nel corpo del d.l. 144 del 2005, un apposito articolo, il 4-bis, recante appunto “Disposizioni in materia di intercettazioni preventive dei servizi di informazione per la sicurezza”.
In estrema sintesi, le innovazioni principali della disciplina concernono i presupposti autorizzatori delle operazioni captative (non solo di natura intercettativa), i termini per il deposito dei verbali, gli adempimenti successivi alle comunicazioni al Copasir e le possibilità di utilizzo degli elementi acquisiti mediante le operazioni.
Con riferimento alla diversa disciplina dei presupposti legittimanti le operazioni, va anzitutto segnalata la soppressione del riferimento- che resta invece, nell’art. 226 disp.att.c.p.p. per le intercettazioni preventive “di polizia”- al contenuto dell’obbligo motivazionale del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica, relativo alla sussistenza di elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione e alla ritenuta (da parte dell’a.g.) necessità del compimento dell’atto. La norma proposta prevede ora che le intercettazioni siano autorizzate “quando risultano sussistenti le condizioni” che le giustificano, ossia quando siano ritenute indispensabili per l’espletamento delle attività rimesse alle Agenzie (Aise e Aisi). Si esclude, dunque, la necessità che l’istanza sia sorretta da “elementi investigativi” giustificanti la captazione.
Tale, almeno apparente, alleggerimento dell’onere motivazionale della richiesta, è tuttavia compensato dall’oggetto della valutazione rimessa al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, che con decreto (motivato, conformemente al requisito richiesto dall’art. 15 Cost.) dovrà accertare la sussistenza della (ritenuta) indispensabilità delle attività intercettative (anche ambientali, come del resto già prevede la disciplina vigente) per l’espletamento delle attività demandate alle Agenzie. Tale indispensabilità costituisce, infatti, il requisito legittimante le captazioni ai sensi del nuovo art. 4-bis, c.1, d.l. 144 del 2005. Resta, peraltro, fermo, rispetto al testo vigente, l’onere motivazionale relativo alla sussistenza di ragioni che rendano necessaria la proroga (eventuale) dell’intercettazione.
Innovazioni rilevanti caratterizzano anche la disciplina del deposito, presso il Procuratore generale, dei verbali delle operazioni di ascolto svolte e dei contenuti intercettati, oltre che dei contenuti captati e dei supporti mobili eventualmente utilizzati. In particolare, il termine per il deposito viene esteso da cinque (prorogabili a dieci in caso di traduzione) a trenta giorni. Il termine del deposito- che può avvenire anche “con modalità informatiche” da individuarsi con dPCM- può peraltro essere prorogato ad un massimo di sei mesi, su autorizzazione del Procuratore generale, in presenza di richiesta motivata che comprovi “particolari esigenze di natura tecnica e operativa”.
La norma, inoltre, onera espressamente il Procuratore generale della distruzione (in questo caso non qualificata dal requisito dell’immediatezza prescritto, invece, per il materiale depositato e le copie, anche informatiche, totali o parziali, dei contenuti) della documentazione da lui stesso detenuta, ad eccezione dei decreti autorizzatorii, una volta decorso il termine per l’adempimento, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, degli obblighi di comunicazione al Copasir.
In ordine alla disciplina dell’utilizzo successivo degli elementi acquisiti attraverso le operazioni captative, la data retention e il tracciamento delle comunicazioni “per lo sviluppo della ricerca informativa”, il generale divieto di utilizzo nel procedimento penale è confermato e anzi rafforzato. Il comma 5 del nuovo art. 4 bis sopprime, infatti, il riferimento (presente invece al comma 5 dell’art. 226 disp. att.c.p.p.) alla possibilità di utilizzo, ai soli fini investigativi, dei risultati delle intercettazioni (e delle altre operazioni descritte).
Tale differenza si spiega con la strutturale diversità dell’attività d’intelligence rispetto a quella disciplinata dall’art. 226 disp.att., che mira pur sempre alla prevenzione di delitti. Per la prima ben si giustifica, dunque, un’ancor più radicale separazione rispetto al procedimento penale. Essa è, peraltro, temperata pur sempre dal dovere, sancito dall’art. 23, c.7, della l. 124 del 2007 in capo agli Organismi (recte: ai loro direttori) di comunicare “informazioni ed elementi di prova relativamente a fatti configurabili come reati, di cui sia stata acquisita conoscenza nell’ambito delle strutture che da essi rispettivamente dipendono” alla polizia giudiziaria. L’adempimento dell’obbligo può essere peraltro ritardato, su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, “quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza”.
Significative sono, inoltre, le innovazioni che caratterizzano i presupposti legittimanti l’acquisizione dei tabulati e il tracciamento delle comunicazioni, ai sensi dell’art. 4-bis, c.4. Per tali operazioni, infatti, non è più previsto il requisito (sancito dall’art. 226 disp.att.) della necessità investigativa né il deposito di elementi a supporto, ma la mera finalizzazione di tali operazioni all’espletamento delle attività (genericamente indicate) demandate ai Servizi (non solo, a rigore, alle Agenzie, come invece dispone, per le intercettazioni, il comma 1 del’art. 4-bis). In tal senso depone, infatti, il riferimento operato dal comma 4 del citato articolo 4-bis, introdotto dall’emendamento, alle sole “modalità” di svolgimento delle operazioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 del d.l. 144 del 2005 (ovvero previa richiesta di autorizzazione avanzata, anche dai direttori dei Servizi, su delega del Presidente del Consiglio dei Ministri).
Circa la “profondità cronologica” dell’acquisizione, ovvero la risalenza dei tabulati (tema oggetto di una copiosa giurisprudenza della Cgue), la norma continua, come per le operazioni di cui all’art. 226 disp.att.c.p.p., a far mero riferimento ai dati in possesso degli operatori (dunque, per i tabulati, con estensione del termine massimo di settantadue mesi tuttora in vigore ai sensi dell’art. 24 l. 167 del 2017). I tabulati, come già previsto dall’art. 226 disp.att., vanno distrutti entro sei mesi (termine prorogabile nel massimo a ventiquattro su autorizzazione del Procuratore generale, ma senza più la previsione del requisito, sancito invece dall’art. 226 disp.att., della indispensabilità per la prosecuzione dell'attività di prevenzione).
Tale nuova disciplina, pur sancendo presupposti meno stringenti dell’attuale rispetto alla data retention, sembra comunque compatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che in materia ha avuto modo di rilevare come:
-la direttiva 2002/58 si applichi a ogni tipo di conservazione dei dati di traffico, seppur finalizzata ad un’eventuale acquisizione per fini di sicurezza nazionale. L’argomento sotteso a tale assunto è che il fine perseguito non muta l’attività di conservazione, ritenuta in quanto tale lesiva della riservatezza già prima di ogni acquisizione: cfr., in particolare, CGUE, sent. 6 ottobre 2020, C 623-17, Privacy international,, ove al punto 49 si afferma che “l’articolo 1, paragrafo 3, l’articolo 3 e l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letti alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE, devono essere interpretati nel senso che rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva una normativa nazionale che consente a un’autorità statale di imporre ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica di trasmettere ai servizi di sicurezza e di intelligence dati relativi al traffico e dati relativi all’ubicazione ai fini della salvaguardia della sicurezza nazionale”;
-il fine di sicurezza nazionale legittimi, tuttavia, la deroga ai limiti stringenti previsti per la data retention “giudiziale” tali da consentire la conservazione preventiva (che invece con le sentenze di aprile e settembre 2021 la Corte esclude, salvo presupposti limitati, per la data retention giudiziale). Significativa, in tal senso, la sentenza del 20 settembre 2022, Space Net, cause riunite C-793 e 794/19 che, ai fini della disciplina dei tabulati, traccia una distinzione (rilevante anche in termini di “gerarchia assiologica”) tra “criminalità particolarmente grave” e minacce “per la sicurezza nazionale”, la cui importanza “è maggiore rispetto a quella degli altri obiettivi di cui all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58” (punto 72) . In replica a un’eccezione della Commissione europea tesa ad equiparare i due presupposti, la Corte ha infatti ribadito (punti 92-94) che la salvaguardia della sicurezza nazionale corrisponde “all’interesse primario di tutelare le funzioni essenziali dello Stato e gli interessi fondamentali della società, mediante la prevenzione e la repressione delle attività tali da destabilizzare gravemente le strutture costituzionali, politiche, economiche o sociali fondamentali di un paese, e in particolare da minacciare direttamente la società, la popolazione o lo Stato in quanto tale, quali le attività di terrorismo”. La Corte nota inoltre come, diversamente dalla criminalità, anche particolarmente grave, una minaccia per la sicurezza nazionale debba caratterizzarsi per requisiti di concretezza ed attualità o, quantomeno, prevedibilità, desumibili dalla ricorrenza di “circostanze sufficientemente concrete da poter giustificare una misura di conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, per un periodo limitato”. Tali diversità inducono la Corte a rigettare la tesi della Commissione volta ad equiparare la criminalità particolarmente grave alle minacce per la sicurezza nazionale, così introducendo, ad avviso dei giudici, una categoria intermedia tra la sicurezza nazionale e la pubblica sicurezza, applicando alla seconda i requisiti inerenti alla prima;
-le deroghe ammissibili per ragioni di sicurezza nazionale incontrino, tuttavia, il limite della proporzionalità, in quanto l’acquisizione non deve essere massiva. Come chiarisce la sentenza Privacy International ai punti 81 e 82, infatti, “una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica di procedere alla comunicazione mediante trasmissione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione ai servizi di sicurezza e di intelligence eccede i limiti dello stretto necessario e non può essere considerata giustificata in una società democratica, così come richiesto dall’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE nonché degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta (…); l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE nonché degli articoli 7, 8 e 11 e dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale che consente a un’autorità statale di imporre ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, ai fini della salvaguardia della sicurezza nazionale, la trasmissione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione ai servizi di sicurezza e di intelligence”.
Tanto la disciplina vigente quanto quella proposta dall’emendamento sembrano, dunque, conformarsi al canone di proporzionalità indicato come dirimente nel reasoning della Corte e applicabile, appunto, anche alle operazioni limitative della riservatezza (quali, appunto, la conservazione dei tabulati) funzionali ad esigenze di sicurezza nazionale.
Ma il controllo sull’osservanza, in concreto, di questo principio fondativo risiede, principalmente, nel vaglio rimesso al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma sulla sussistenza dei requisiti legittimanti le operazioni. Un presidio importante, cui è affidato, in ultima analisi, il delicato equilibrio tra esigenze di salvaguardia della sicurezza nazionale e riservatezza individuale.
Ampliamento della giurisdizione oggettiva e nuovi limiti del giudicato dopo la sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19)
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis expansiva dei dicta in essa contenuti. - 2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione. - 3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità. - 4. Sul rilievo costituzionale del giudicato. - 5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito. - 6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis espansiva dei dicta in essa contenuti.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19), emessa insieme ad altre pronunce sul medesimo tema della speciale protezione attribuita ai consumatori dal diritto dell’Unione, ha stabilito, tra l’altro, che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ostano ad una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole.
Al par. 65 della motivazione, questa sentenza rileva che «una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali».
L’esigenza di effettività della tutela del consumatore, realizzata dal diritto comunitario, avuto riguardo all’interesse superindividuale oggetto di tale protezione, implica l’attribuzione al giudice nazionale, non solo del potere, ma anche del dovere di esaminare, pure in difetto di domanda di parte, l’eventuale carattere abusivo della clausola contrattuale; e questo dovere può ritenersi adempiuto solo se nel provvedimento giurisdizionale è contenuta specifica motivazione al riguardo.
La lettura di questo paragrafo della motivazione consente di intuire la vis expansiva dei dicta contenuti in questa e nelle altre pronunce del giudice comunitario: la questione non involge soltanto la disciplina del consumatore ma tutte le norme imperative poste a tutela della libertà negoziale delle partes debiliores e, dunque, tutte le nullità di protezione; inoltre, la portata dei principi affermati dalla Corte di Giustizia non è circoscritta al decreto ingiuntivo non opposto ma si estende a qualsiasi titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, in primo luogo alla sentenza, con riguardo alle statuizioni inespresse in esso implicitamente contenute che si pongono in rapporto di pregiudizialità rispetto alla statuizione principale resa sul diritto azionato in giudizio.
Lasciando da parte ogni considerazione sulle implicazioni delle pronunce del giudice europeo in ordine alla natura e ai caratteri sostanziali della disciplina sovranazionale di tutela del consumatore, sotto il profilo strettamente processuale il riferimento al dovere del giudice evoca la necessità di ritenere, se non del tutto disapplicati, almeno recessivi, in subiecta materia, i noti principi che regolano l’ordinario procedimento di cognizione, quali l’impulso di parte e il principio dispositivo in senso materiale, nonché, verosimilmente, per conseguenza, anche il principio dispositivo in senso formale. Per altro verso, l’evidenziazione che le norme imperative violate a danno del consumatore tendono alla tutela (anche) di un interesse pubblico, induce a ritenere che la domanda sia strumentale all’accertamento di un diritto indisponibile o, se si vuole, non pienamente disponibile, in quanto compromesso con un interesse generale: il che, implica, anche sotto questo profilo, un necessario inquinamento officioso ed inquisitorio del relativo procedimento. Infine, la necessità della motivazione espressa postula che sulla questione dell’abusività della clausola venga debitamente suscitato il contraddittorio: ciò che, per la verità, lungi dall’apparire destabilizzante, sembra del tutto connaturato al nostro sistema, atteso che l’obbligo del giudice di motivare l’accoglimento o il rigetto della domanda è sempre stato previsto nella nostra Costituzione (art. 111, già secondo comma, ora sesto) mentre quello di suscitare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio (cui segue, evidentemente, il dovere di motivazione esplicita) è stato introdotto ormai da diversi anni nel nostro codice di procedura civile (art.101, secondo comma, c.p.c., aggiunto dalla legge n. 69 del 2009), colmando un vulnus al diritto di difesa cui già la giurisprudenza aveva cercato di porre rimedio (cfr., già, Cass. 21 novembre 2001, n. 14637).
2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione.
In prospettiva futura, l’esigenza di attuare i dicta della Corte di Giustizia comporta la necessità di riconsiderare, sotto il profilo processuale, la natura e la disciplina dell’azione dichiarativa della nullità contrattuale, con specifico riferimento alle nullità di protezione, derivanti dalla violazione di norme finalizzate alla tutela di un interesse superindividuale.
Sul piano sistematico, l’operazione non dovrebbe essere particolarmente dolorosa poiché la nostra dottrina classica ha, già da epoca ormai risalente, denunciato l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una categoria di processi in cui l’accertamento giudiziale non ha per oggetto (soltanto) il diritto soggettivo della parte, ma il dovere del giudice di provvedere al verificarsi di specifiche fattispecie previste dalla legge.
Si tratta di quei processi che Enrico Allorio denominò processi a contenuto oggettivo, ponendo in evidenza come essi non tendono alla tutela di una situazione soggettiva privata, ma piuttosto alla realizzazione di un interesse superiore e indisponibile, contrapponendosi così ai processi vertenti su diritti o stati personali (E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.).
Nell’ambito di questa categoria di procedimenti sono stati di volta in volta ricondotti processi eterogenei (quello di interdizione, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla protezione dell’incapace: Vignolo, Principio inquisitorio e impulso d’ufficio nel procedimento di interdizione, in Riv. dir. civ., 1975, I, 339, 341; la querela di falso, diretta ad attuare l’interesse pubblico all’eliminazione dal commercio giuridico dei documenti falsi: V. Denti, Querela di falso, NDI, 1967, 658 ss.; la dichiarazione di assenza e morte presunta, tendente ad attuare l’interesse pubblico alla conservazione e chiarificazione dei rapporti giuridici: F. Carpi, L’efficacia ultra partes della sentenza civile, Milano, 1974, 63 ss.; la dichiarazione di adottabilità, tendente ad attuare l’interesse pubblico a fornire una famiglia sostitutiva al minore abbandonato: C.M.Bianca, Diritto civile, II, La famiglia - Le successioni, Milano, 1989, 312; il processo fallimento, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla liquidazione delle imprese in crisi: G.A. Micheli, Il processo di fallimento nel quadro della tutela giurisdizionale dei diritti, in Riv. dir. civ., 1961, I, 6), nei quali, tuttavia, la presenza di un interesse superiore, alla cui realizzazione è funzionale la pronuncia del giudice, implica la comune operatività, pur in vario modo, del principio dell’impulso d’ufficio, del principio inquisitorio in senso materiale e del principio inquisitorio in senso formale.
La dottrina che ha approfondito lo studio di questi processi (F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) ha rilevato come, mentre l’assunzione del carattere officioso si traduce in modalità differenti di impulso processuale (dal mero allargamento della categoria dei legittimati, all’attribuzione del diritto di azione al pubblico ministero, sino alla configurazione - in casi limite, ormai quasi del tutto superati - di modelli di processo officioso puro), invero la tendenziale disapplicazione del criterio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (in favore del principio inquisitorio materiale) e del criterio della disponibilità delle prove (in favore del principio inquisitorio formale) si traduce in un effetto comunemente riscontrabile di tendenziale sottrazione alle parti sia della disponibilità dell’oggetto del processo sia della disponibilità della tutela giurisdizionale.
Tenendo conto della esistenza, nel nostro sistema processuale, di questa peculiare categoria di procedimenti e dell’altrettanto peculiare loro disciplina, è lecito chiedersi, alla luce delle sentenze del giudice dell’Unione Europea - che costituiscono fonti del diritto europeo, direttamente applicabile nell’ordinamento interno - se nell’ambito di essa possa essere ricondotta l’azione finalizzata alla declaratoria delle nullità contrattuali di protezione.
La questione non è nuova poiché la dottrina si è già domandata se i giudizi per la dichiarazione di nullità del contratto (e anche del matrimonio) costituiscano espressione di giurisdizione oggettiva.
Sulla tesi positiva - che trovava conforto nel dato normativo che non limita alla parte la legittimazione all’impugnativa, ma la estende a tutti coloro che vi abbiano interesse (art.117 c.c.; art.1421 c.c.); e che da tale dato traeva l’implicazione che il provvedimento giudiziale dichiarativo della nullità non è invocato a tutela del diritto di un singolo, ma per la realizzazione di un interesse pubblicistico, consistente nell’attuazione dell’ordinamento (F. Carpi, cit., 68 ss.) - è prevalsa la tesi negativa, fondata sul rilievo che l’allargamento della sfera dei legittimati non tocca la natura di processi su diritti che deve pur sempre riconoscersi ai giudizi di nullità del matrimonio e del contratto, atteso che chi esercita l’azione di nullità chiede al giudice una sentenza di accertamento, che dichiari l’insussistenza dei diritti che troverebbero la loro fonte nel negozio ritenuto nullo (F. Tommaseo, cit., 509).
Questa tesi potrebbe, peraltro, essere rimeditata alla luce della disciplina eurounitaria, con specifico riferimento al giudizio dichiarativo delle nullità di protezione, in cui al diritto soggettivo della parte si affianca (e probabilmente si sovrappone, divenendo l’interesse protetto in via preminente dal procedimento) un interesse generale di carattere superindividuale.
D’altra parte, per un verso, la riconducibilità del giudizio di nullità contrattuale di protezione alla giurisdizione oggettiva non contrasta con la (ma anzi potrebbe trovare specifica conferma nella) monumentale ricostruzione della disciplina sostanziale di tale istituto, operata nelle storiche pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243); per altro verso, la vis expansiva di tale categoria della giurisdizione, in funzione delle esigenze di tutela di interessi superindividuali che possono assumere rilevanza nel contesto sociale, è stata autorevolmente rimarcata dalla nostra dottrina classica (L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596).
Ove si avesse riguardo al carattere oggettivo del procedimento vertente alla dichiarazione delle nullità negoziali di protezione, dovrebbe dunque ritenersi che la relativa questione possa essere sollevata (anche, doverosamente, d’ufficio) nel processo, tutte le volte in cui, pur non costituendo oggetto diretto della domanda, assuma tuttavia rilevanza pregiudiziale, in funzione della statuizione sul diritto azionato.
Oltre che nei casi di pregiudizialità, la questione della nullità della clausola negoziale, potrebbe/dovrebbe essere sollevata anche nelle ulteriori ipotesi di connessione oggettiva con la domanda principale proposta, pur in difetto dei presupposti di volta in volta richiesti (ad es. dagli artt. 35 e 36 c.p.c.) e salve le implicazioni che il rilievo della questione possa avere in ordine alla modificazione della competenza del giudice.
Deve invece escludersi che il giudice possa/debba sollevare la questione persino nei casi in cui essa presenti, rispetto alla domanda principale, una connessione meramente soggettiva, per essere la controversia vertente su un diverso rapporto giuridico intercorrente tra le stesse parti. L’esigenza di tutela dell’interesse pubblico alla protezione della pars debilior, infatti, si traduce nella limitazione della disponibilità dell’oggetto del processo e della tutela giurisdizionale, ma non esige - né consente - l’integrale sostituzione del giudice alla parte che resti inerte nell’esercizio dei suoi diritti soggettivi. In tale prospettiva, la stessa Corte UE rimarca (par. 58 della motivazione della sentenza resa nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19) che la tutela del consumatore non è assoluta e non può essere somministrata dal giudice in spregio ai principi fondamentali del sistema processuale.
In tutti i casi in cui sussiste il potere-dovere del giudice di esaminare la questione di nullità, la statuizione su di essa deve essere espressamente motivata, in quanto, attraverso la motivazione, il giudice rende conto dei risultati del contraddittorio che necessariamente deve essere suscitato sulla questione di rilievo superindividuale.
Ove, però, la questione della validità del rapporto contrattuale non venga evocata da alcuna delle parti e il giudice ometta di procedere ad un esame d’ufficio dell’eventuale nullità della clausola, non si determina alcuna invalidità dell’accertamento condotto sul diritto azionato in giudizio.
Ciò, anche nell’ipotesi in cui la connessione tra la questione della nullità e la domanda formulata in giudizio si qualifichi come connessione per pregiudizialità.
In tal caso, questo accertamento, implicitamente compiuto, resterà un mero accertamento incidentale, senza l’idoneità a passare in giudicato.
3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità.
I dicta della Corte di Giustizia non valgono solo per il futuro ma anche per il passato, giacché il dovere di esaminare d’ufficio la questione della validità o invalidità del contratto, non già precedentemente esaminata, si pone in capo al giudice anche in pendenza del processo esecutivo, iniziato sulla base di un titolo che ha accertato, con efficacia di giudicato, un diritto che trova fondamento nel rapporto contrattuale e che, pertanto, ne presuppone necessariamente l’esistenza e la validità, da reputarsi a sua volta pregiudizialmente, ancorché implicitamente, accertata con il medesimo provvedimento divenuto cosa giudicata.
Sotto questo specifico profilo, le statuizioni del giudice comunitario sembrerebbero avere una portata dirompente, poiché, nel momento in cui pongono la necessità di condurre l’espresso esame, nel rispetto del contraddittorio e dell’obbligo di motivazione, anche di questioni che sono state già, sia pur implicitamente, risolte, sembrerebbero non tenere conto del fatto che quell’accertamento è ormai incontrovertibile, per avere acquisito l’autorità di cosa giudicata.
Potrebbe dunque maturarsi l’opinione che i dicta del giudice europeo, mentre, da un lato, attribuiscono una tutela eccessiva al diritto di difesa della pars debilior (riconoscendole il diritto ad un contraddittorio tardivo su una questione che avrebbe potuto sollevare precedentemente, durante il processo di cognizione finalizzato alla formazione del titolo esecutivo), dall’altro lato, recano un vulnus al diritto difesa dell’altra parte, la quale perderebbe il bene della vita acquisito attraverso il medesimo procedimento di cognizione, costituito dall’incontrovertibilità dell’accertamento giurisdizionale del suo diritto.
4. Sul rilievo costituzionale del giudicato.
La premessa logica necessaria di tale opinione sta nel ritenere che l’istituto del giudicato trovi fondamento, non già esclusivamente nelle norme del codice civile (art.2909 c.c.) e del codice di procedura civile (art.324 c.p.c.), bensì, al pari del contraddittorio, nella norma costituzionale che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art.24, secondo comma, Cost.).
In questa prospettiva, dunque, si potrebbe persino pensare che i dicta della Corte di Giustizia, nel vulnerare il giudicato, finiscano per porsi in contrasto con un istituto che costituisce espressione dei principi costituzionali fondamentali e delle norme costituzionali che tutelano i diritti inviolabili della persona, i quali non solo non recedono dinanzi alla c.d. preminenza del diritto sovranazionale - ivi compreso quello eurounitario - ma operano invece come controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione Europea, legittimando il giudice nazionale a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente l’ingresso di regole sovranazionali incompatibili con gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale.
In contrario, può, peraltro, osservarsi che la qualificazione della cosa giudicata quale espressione del diritto costituzionale di difesa non trova conferma né nelle teorizzazioni dottrinali dell’istituto né nelle, ormai definitive (e per vero anche piuttosto risalenti), acquisizioni della giurisprudenza costituzionale.
Sia le une che le altre, infatti, in contrasto con una autorevole ma risalente tesi (E. Allorio, Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Trim., 1948, 487 ss.), tendono ad escludere il giudicato dai requisiti essenziali qualificanti l’attività giurisdizionale, sul rilievo che provvedimenti di schietta giurisdizione contenziosa, destinati ad incidere su diritti soggettivi, possono essere legittimamente assunti anche nell’ambito del procedimento camerale di cui agli artt. 737-742 bis c.p.c., sempre che vengano rispettate le garanzie fondamentali della difesa e del contraddittorio, stante, in ogni caso, la possibilità di proporre ricorso straordinario per cassazione (art.111, settimo comma, Cost.) contro tutti i provvedimenti decisori e definitivi (in tal senso, cfr., già, F. Cipriani, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir. proc., 1974, 195, e V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc., 1975, 585; v., inoltre, Corte Cost. 10 luglio 1975 n.202 e Cass., Sez. Un., 9 aprile 1984 n.2255).
Oltre a ribadire che l’idoneità al giudicato non rappresenta un carattere indefettibile del provvedimento giurisdizionale (in tal senso, già G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 759, secondo cui «dal concetto dell’ufficio del giudice deriva necessariamente soltanto che la sentenza debba potersi mandare ad esecuzione, ma non che debba tenersi in futuro come norma immutabile del caso deciso»), la dottrina ha anche precisato che «da nessun precetto costituzionale discende come attributo dell’esercizio della funzione giurisdizionale la immutabilità degli effetti delle decisioni giudiziali, come è delineata dall’art.2909 c.c.» (così V. Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Trim., 1987, 326); il che risulta evidente se si pensa che la nostra Costituzione prescrive bensì che la funzione giurisdizionale venga esercitata da organi imparziali e indipendenti (artt.101, secondo comma; 104, primo comma; 106, primo comma; 107, primo comma; 108, secondo comma), che venga garantito l’esercizio del diritto di difesa (art.24, secondo comma) e che i provvedimenti giurisdizionali siano adeguatamente motivati (art.111, sesto comma); ma non prevede affatto che essi debbano necessariamente assumere l’incontrovertibilità propria della cosa giudicata.
5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito.
A prescindere dalla sussistenza o meno di una “copertura” costituzionale dell’istituto del giudicato, sembrerebbe, poi, comunque eccessiva la tesi volta a ritenere che tale istituto sarebbe stato messo in sofferenza, o addirittura posto nel nulla, dalle pronunce della Corte di Giustizia.
Queste pronunce, infatti, non ripudiano affatto il concetto del giudicato e la sua utilità, quale istituto che trova fondamento nell’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, ma richiamano l’attenzione sulla altrettanto rilevante esigenza che - per lo meno nelle ipotesi in cui il provvedimento giudiziale tende alla protezione (anche) di interessi superindividuali, oltre che alla tutela di diritti soggettivi privati - la formazione del giudicato postuli un accertamento espresso e motivato, maturato a seguito dell’esercizio, ad opera delle parti, del diritto fondamentale al contraddittorio (diritto, quest’ultimo, senz’altro di matrice costituzionale e, dunque, non comprimibile).
L’esigenza, espressa dalle pronunce della Corte di Giustizia, che la formazione del giudicato nelle fattispecie di rilevanza pubblicistica, sia condizionata da un accertamento espresso e motivato, non contrasta con il fondamento tradizionale dell’istituto, il quale presuppone, sul piano sostanziale, in funzione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici (art.2909 c.c.), che non venga proposta più volte la stessa domanda (principio del ne bis in idem) e, sul piano formale, in funzione dell’esigenza che l’accertamento giudiziale sia il più possibile immune da errori (art.324 c.p.c.), che non vengano proposte domande diverse nei due gradi di giudizio (principio del doppio grado di giurisdizione).
La postulazione dell’accertamento espresso e motivato, fondato sull’esperimento del contraddittorio, è perfettamente in linea con il richiamato duplice fondamento del giudicato, giacché, invece, il mero accertamento implicito nuoce sia alle esigenze di certezza che a quelle di correttezza della decisione.
In tale prospettiva potrebbe ritenersi, per un verso, che il giudicato e il contraddittorio non vadano più riguardati come due istituti distinti, ma come un unico composito istituto, dal momento che la formazione del giudicato, almeno nelle decisioni di rilevanza superindividuale, presuppone il previo esperimento del contraddittorio; per altro verso, che ciò che sembra contrastare con il sistema processuale, non è il dictum della Corte di Giustizia, ma il concetto stesso di giudicato implicito, quale prodotto di una decisione non assunta in contraddittorio.
Del resto, ciò è stato già eloquentemente stigmatizzato da accorta dottrina, la quale ha lanciato la seguente provocazione: «se è fatto divieto al giudice di decidere in modo espresso una questione pure rilevabile ex officio, senza sottoporla prima al contraddittorio delle parti, come si può convenire sulla ammissibilità nella stessa identica situazione di una decisione implicita?» (così A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in Judicium, 2019, p.315).
6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
L’attuazione dei dicta contenuti delle pronunce della Corte di Giustizia - che costituiscono, lo si ripete, norme di diritto europeo direttamente applicabili nell’ordinamento interno - determinando, con riguardo alle questioni di nullità di protezione, un restringimento del perimetro dei limiti oggettivi del giudicato, impone al giudice (pure in sede esecutiva) di rilevare anche officiosamente la nullità contrattuale e legittima la parte interessata a proporre la relativa azione se la questione non è stata espressamente esaminata, ma non a paralizzare l’esecuzione.
Dovrebbe, infatti, escludersi che, nell’ipotesi di soluzione implicita della questione (quale si verifica soprattutto nel caso - che ha determinato la pronuncia del giudice europeo - in cui l’accertamento del diritto principale è stato effettuato con decreto ingiuntivo non opposto, ma può ricorrere anche nell’ambito di un accertamento effettuato con sentenza), la parte esecutata possa far valere l’eventuale nullità del contratto, donde è sorta la sua obbligazione, attraverso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art.615 c.p.c.; così come, nel caso specifico del decreto ingiuntivo non opposto, dovrebbe escludersi la possibilità di esperire rimedi tardivi (ad es. quello di cui all’art.650 c.p.c.), quando non ne ricorrano gli specifici presupposti.
Piuttosto, dovrebbe prendersi atto, da un lato, che al giudice dell’esecuzione è sottratta ogni ingerenza sul titolo giudiziale; dall’altro, che il decreto ingiuntivo non opposto messo in esecuzione (ma la considerazione vale anche per la sentenza non impugnata) è ormai passato in giudicato e non è aggredibile con gli ordinari mezzi di gravame.
Peraltro, la disciplina generale della connessione per pregiudizialità prevede che le questioni pregiudiziali siano risolte in via meramente incidentale, in difetto di una disposizione di legge o di un’esplicita domanda di una delle parti dalle quali derivi la necessità di deciderle con efficacia di giudicato (art.34 c.p.c.).
Di questa regola - la cui letterale osservanza comporterebbe un notevole restringimento del perimetro oggettivo del giudicato - è prevalsa nel diritto processuale vivente un’interpretazione restrittiva: la sua operatività viene infatti limitata alla c.d. pregiudizialità tecnica, escludendosene l’applicazione alla c.d. pregiudizialità logica, che ricorre allorché l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto (così, ad es., l’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento e del conseguente diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria o risarcitoria, presuppone l’accertamento dell’esistenza e del rapporto di lavoro subordinato; l’accertamento del diritto del locatore ad ottenere dal conduttore il pagamento di una o più mensilità del canone, presuppone l’accertamento dell’esistenza e della validità del rapporto di locazione).
Ne discende che tutte le volte che per decidere sulla domanda avente ad oggetto l’accertamento di un diritto, venga risolta anche la questione logicamente pregiudiziale relativa all’esistenza, validità e natura giuridica del rapporto che ne costituisce il presupposto (c.d. nesso di pregiudizialità logica), il giudicato costituito dalla sentenza di accertamento del diritto si estende anche alla questione pregiudiziale, che non può più essere messa in discussione in successivi processi.
L’attuazione dei dicta della Corte di giustizia impone una applicazione dell’art.34 c.p.c. più aderente al suo disposto testuale, rendendo necessaria, ai fini del passaggio in giudicato dell’accertamento della validità del contratto, allorché venga dedotta la violazione di una norma imperativa di protezione, l’espressa e motivata statuizione del giudice, previo esperimento del contraddittorio delle parti, eventualmente suscitato ex officio.
Viene così ad enuclearsi, tra le due categorie della pregiudizialità tecnica (in cui la questione pregiudiziale è decisa incidenter tantum) e della pregiudizialità logica (in cui la questione pregiudiziale è decisa con efficacia di giudicato), una terza categoria di pregiudizialità: la pregiudizialità logica espressa. Essa appartiene, concettualmente, alla pregiudizialità logica, ma produce gli effetti della pregiudizialità tecnica se non viene suscitato il contraddittorio sulla questione.
In altre parole, la questione di nullità, avente un rilievo pubblicistico e superindividuale, sarà decisa con efficacia di giudicato soltanto nel contraddittorio delle parti e con statuizione espressa e motivata; sarà, invece, decisa in via meramente incidentale, allorché la decisione sull’esistenza e validità del contratto sia implicitamente desumibile dall’accertamento del diritto azionato con la domanda principale.
In tale ultima ipotesi, il titolo contenente l’accertamento del diritto potrà ugualmente essere messo in esecuzione, ma la parte interessata, pur esecutata - ed eventualmente proprio in seguito al rilievo del giudice dell’esecuzione - potrà esercitare autonomamente, dinanzi al giudice competente, l’azione di nullità contrattuale, quale azione di giurisdizione oggettiva destinata all’accertamento di una questione non coperta da giudicato.
Se l’azione di nullità verrà esercitata in pendenza del processo esecutivo, esso sarà sospeso, ai sensi dell’art.623 c.p.c.; se invece l’esercizio dell’azione, in sé imprescrittibile, sopravverrà alla conclusione del procedimento esecutivo, residuerà, per la parte che ottenga la declaratoria di nullità, la sola tutela risarcitoria, restando da risolvere (particolarmente, ai fini della prescrizione) il problema se la responsabilità della controparte vada inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale o - come classicamente si suole ritenere nell’ipotesi di stipulazione di contratto invalido - in quello della responsabilità extracontrattuale di tipo precontrattuale.
In definitiva, in analogia con tutte le ipotesi in cui il titolo posto in esecuzione contiene accertamenti incidentali su connesse questioni tecnicamente pregiudiziali (si pensi, ad es., alla domanda di nullità del contratto, proposta dopo che è stato messo in esecuzione il titolo che ne dichiara la risoluzione: Cass. 5 dicembre 2002, n. 17313), l’attuazione dei dicta della Corte di Giustizia, anche nelle procedure esecutive pendenti in cui la questione del carattere abusivo delle clausole contrattuali non ha formato oggetto di espresso esame (questione legata alla domanda principale da un nesso di pregiudizialità logica espressa), si risolverà, non già nella paralisi dell’esecuzione, ma nella possibilità di introdurre una autonomo processo di cognizione, dinanzi al giudice ordinariamente competente, per la decisione di una questione non coperta da giudicato.
Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici
di Maria Alessandra SANDULLI
Sommario: 1. L’iter dello Schema - 2. Premessa e principi generali - 3. Altre importanti novità - 4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
1. L’iter dello Schema
Lo scorso 16 dicembre il Governo ha approvato “in via preliminare” lo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici presentato dal Consiglio di Stato.
Come noto, il Governo con legge n. 78 del 21 giugno 2022 era stato delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi recanti la disciplina dei contratti pubblici, anche al fine di adeguarla al diritto europeo e ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali, e di razionalizzare, riordinare e semplificare la disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, nonché al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea e di giungere alla risoluzione delle procedure avviate”. Il comma 4 dell’art. 1 legge n. 78/2022 prevedeva peraltro che, ove il Governo intendesse demandare al Consiglio di Stato la formulazione del progetto di Codice ai sensi dell’art. 14 del t.u. n. 1954 del 1924, quest’ultimo dovesse avvalersi ai fini della stesura dell’articolato normativo “di magistrati di tribunali amministrativi regionali, di esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’avvocatura generale dello Stato”; e che sul testo governativo non dovesse essere più acquisito il parere del Consiglio di Stato.
Avendo il 30 giugno 2022 il Presidente del Consiglio dei Ministri comunicato al Presidente del Consiglio di Stato di volersi avvalere della suddetta facoltà, ricordando altresì che l’approvazione della riforma costituisce un importante obiettivo del PNRR, il 4 luglio scorso il Presidente Frattini ha quindi istituito una Commissione speciale, da lui presieduta e con il supporto di un board composto dal Presidente aggiungo (Luigi Maruotti) e da due vice (Luigi Carbone e Rosanna De Nictolis), Presidenti titolari di sezione del Consiglio di Stato di cui uno con compiti di coordinatore (Luigi Carbone, Presidente della Sezione del Consiglio di Stato per gli atti normativi). La Commissione, composta inoltre da otto Presidenti di sezione del Consiglio di Stato, trentadue Consiglieri di Stato, dieci Consiglieri di TAR, due Avvocati dello Stato, due Consiglieri della Corte di Cassazione e un Consigliere della Corte dei conti, otto Professori universitari di prima fascia in materie giuridiche e avvocati (tra i quali ho avuto l’onore di essere inserita), quattro avvocati e sei “esperti tecnici” (economisti, ingegneri, esperti di drafting, un informatico e un Accademico della Crusca), era divisa in sei gruppi di lavoro, ciascuno guidato da uno o due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato (Gabriele Carlotti e Roberto Giovagnoli - gruppo I; Gabriele Carlotti e Fabio Taormina - gruppo II; Carlo Saltelli e Hadrian Simonetti - gruppo III; Carlo Saltelli e Claudio Contessa - gruppo IV; Giancarlo Montedoro - gruppo V; Michele Corradino - gruppo VI), con il coordinamento generale del Presidente Luigi Carbone, supportato dal cons. Gianluca Rovelli.
I gruppi hanno elaborato – lavorando in parallelo – gli schemi di articolato dei singoli Libri del codice (il lavoro dei gruppi II e III è poi confluito prevalentemente nell’unico Libro II).
Nonostante il periodo estivo, la Commissione ha lavorato molto alacremente. In considerazione dei tempi molto ristretti, i vari gruppi e i rispettivi coordinatori si sono riuniti con assidua frequenza e i singoli componenti hanno lavorato individualmente su specifici adempimenti, sfruttando anche i giorni festivi.
Come evidenziato nella Relazione illustrativa, i membri della Commissione hanno lavorato senza alcun compenso e senza riduzioni del carico di lavoro e i lavori si sono articolati in riunioni plenarie di gruppo, in sottogruppi che riferivano periodicamente sull’attività svolta in occasione delle plenarie di gruppo, nonché in riunioni tra i coordinatori di gruppo, sovrintese dal coordinatore generale, per un totale di oltre 170 riunioni. Le riunioni si sono svolte quasi tutte online e si è deciso su ogni questione sulla base delle posizioni prevalentemente espresse dai componenti della Commissione, con il filtro, per ciascun gruppo, dei rispettivi coordinatori.
I testi dei sottogruppi e dei gruppi, elaborati già nella prima metà di agosto, sono stati trasmessi dai relativi coordinatori agli altri gruppi. Si è avviata così la lunga e complessa opera di rilettura, coordinamento ed elaborazione dello Schema.
Come riportato si legge nella Relazione, il 20 ottobre, nel pieno rispetto del termine che il Governo aveva assegnato, è stato così consegnato uno “Schema preliminare di codice dei contratti”. Dopo l’insediamento del nuovo Governo, sulla base di una nuova interlocuzione avvenuta con nota del 14 novembre del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Commissione ha continuato a lavorare, in composizione più̀ ristretta, con l’apporto soprattutto dei coordinatori, per affinare gli ultimi miglioramenti tecnici, curare il drafting, sciogliere alcune questioni giuridiche di particolare impatto, redigere un’accurata Relazione illustrativa per ogni singolo articolo (che intende fornire anche le linee guida per l’applicazione delle nuove norme) e predisporre gli allegati che garantiranno l’autoesecutività del nuovo Codice.
Lo “Schema definitivo di codice” sottoposto al Governo ha un numero di articoli analogo a quelli del Codice del 2016, ma ne riduce di molto i commi, riduce di quasi un terzo le parole e i caratteri utilizzati e, con i suoi allegati, abbatte in modo rilevante il numero di norme e linee guida di attuazione.
La Relazione precisa inoltre che “Gli allegati sono 35, molti consistono di poche pagine. Si tratta di un numero comunque contenuto, specie se si considera che solo le tre direttive da attuare hanno, in totale, 47 annessi e che nel nuovo codice gli allegati sostituiranno ogni altra fonte attuativa: oltre ai 25 allegati al codice attuale, essi assorbiranno 17 linee guida ANAC e 15 regolamenti ancora vigenti, alcuni dei quali di dimensioni molto ampie (tra cui il d.P.R. n. 207 del 2010, risalente addirittura all'attuazione del codice del 2006, nonché quello sui contratti del Ministero della difesa, ridotto da oltre 100 articoli a poco più di 10). Ciò è stato possibile anche rinviando, in vari casi, direttamente agli allegati delle direttive, assicurando sia uno sfoltimento della legislazione interna sia il suo adeguamento immediato e automatico alle future modifiche delle norme europee. In non pochi casi si è scelto di conservare – verificandone preventivamente il positivo impatto – le norme del codice vigente che, in sede applicativa, hanno dato buona prova di sé. Un testo a fronte le indica con chiarezza, per facilitarne la lettura e la riconoscibilità da parte di chi dovrà rispettarle. Ma anche le novità sono molteplici, tutte analiticamente illustrate nella relazione di accompagnamento, un “materiale della legge” (Gesetzmaterial) che si propone come un vero e proprio manuale operativo per l’uso del nuovo codice, assorbendo anche la funzione di indirizzo attuativo sinora rivestita dalle “linee guida non vincolanti”.
Il testo approvato in via preliminare dal CdM, non ancora diramato, verrà trasmesso alla Conferenza unificata e alle Commissioni parlamentari per i rispettivi pareri e tornerà al Governo per l’approvazione definitiva, che dovrebbe avvenire entro il 31 marzo 2023 (anche se gli organi di stampa segnalano già un possibile slittamento).
Lo Schema prevede peraltro una fase transitoria di tre mesi, disciplinata dagli artt. 225 e ss. anche per ciò che attiene all’abrogazione e alla perdurante efficacia del d.lgs. n. 50/2016 e delle altre disposizioni indicate dai suddetti articoli. L’ultimo articolo dello Schema (art. 229) stabilisce infatti che “il Codice entra in vigore con i relativi allegati il 1° aprile 2023”, ma che “le disposizioni del Codice con i relativi allegati, eventualmente già sostituiti e modificati, acquistano efficacia il 1° luglio 2023”.
Si confida che entro il 31 marzo 2023 l’individuazione delle disposizioni codicistiche (e di attuazione) cui dovranno fare riferimento gli operatori del settore non presenterà profili di incertezza.
2. Premessa e principi generali
Lo Schema di Codice presenta profili fortemente innovativi, tanto sul piano dell’impostazione che su quello dei contenuti. Merita anzitutto sin da subito evidenziare il chiaro riferimento del suo ambito applicativo, per quanto non diversamente stabilito, tanto agli appalti che alle concessioni (art. 13). Si è inoltre scelto di redigere un Codice che non rinvii a ulteriori provvedimenti attuativi e sia immediatamente “autoesecutivo”, consentendo da subito una piena conoscenza dell’intera disciplina da attuare. Ciò è stato possibile grazie a un innovativo meccanismo di delegificazione che opera sugli allegati al Codice (legislativi in prima applicazione, regolamentari a regime). La fonte regolamentare, pur evidentemente più agile di quella legislativa, ha il pregio di valere solo per il futuro e non creare la confusione derivante dalle linee guida ANAC.
Per una migliore comprensione e interpretazione dell’intero testo è fondamentale il confronto con l’ampia e dettagliata Relazione che costituisce una vera e propria guida alla lettura dell’articolato.
Ciò vale anche e in primo luogo per i “Principi generali”, cui il testo dedica ben undici articoli (l’art. 12 opera un rinvio esterno, per quanto attiene alle procedure di affidamento, alla legge generale sull’azione amministrativa e, per quanto attiene alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione, al Codice civile).
I principi enunciati nei primi tre articoli assumono una valenza particolare, in quanto l’art. 4 li individua espressamente come “criterio interpretativo e applicativo” delle disposizioni codicistiche.
Come evidenziato anche dai comunicati stampa, i primi due articoli introducono i principi del “risultato” (art. 1) e della “fiducia” (art. 2).
Il primo prevede che le “stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo […]”. Per evitare distorte chiavi di lettura della disposizione (che veda il valore preminente nella rapidità i lavori) merita però richiamare l’attenzione sull’espresso richiamo, oltre che alla “qualità”, al rispetto dei principi di “legalità, trasparenza e concorrenza”, che opportunamente chiude il primo comma (anche se la concorrenza è dichiarata poi funzionale a conseguire il miglior risultato possibile), e alla finalizzazione del principio del risultato all’interesse della comunità e al raggiungimento degli obiettivi dell’UE. Tali -necessari- temperamenti al criterio della rapidità sono invero parte integrante del principio del risultato e devono essere tenuti ben presenti anche nella lettura del quarto comma, che stabilisce che detto principio costituisce “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva”.
In uno Stato di diritto la certezza e la prevedibilità delle regole è invero un principio e un canone ermeneutico irrinunciabile, che non può essere sacrificato in nome della rapidità ad ogni costo dell’affidamento e dell’esecuzione di prestazioni che, deviando dal rispetto delle regole, non assicurino la qualità soggettiva del contraente e contenutistica dell’offerta.
L’art. 2 afferma il principio della reciproca fiducia “nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”, ma, come risulta dai comunicati stampa e dai primi commenti, sembra essenzialmente mirare alla tutela dei funzionari pubblici, delimitandone la colpa grave, al fine di contrastare la c.d. “paura della firma”. Si ricorda tuttavia che (ad oggi fino al 2023) l’art. 21 del d.l. 76/2020 come prorogato dal PNRR ha limitato la responsabilità erariale dei funzionari pubblici ai casi di dolo, limitando la responsabilità per colpa grave ai casi di condotte omissive e si segnala che l’art. 17 dello Schema di Codice dispone semplicemente che il superamento dei termini della procedura di affidamento “costituisce silenzio inadempimento e rileva anche al fine della verifica del rispetto del dovere di buona fede, anche in pendenza di contenzioso”, e analoga disposizione è contenuta nel comma 7 dell’art. 18 nel caso di mancata o tardiva stipula del contratto. Scompare quindi il riferimento contenuto nell’art. 32 nel d.lgs. n. 50/2016 alla responsabilità erariale e disciplinare. Gli unici riferimenti nello Schema alla responsabilità del soggetto agente per danno erariale sono infatti contenuti nell’art. 215 a proposito dell’inosservanza dei pareri e delle determinazioni del Collegio consultivo tecnico. Nessuna disposizione dell’articolato fa invece riferimento alla responsabilità disciplinare.
Anche con riferimento al principio della fiducia lo Schema prevede in ogni caso, a ben vedere, dei temperamenti, laddove precisa che costituisce colpa grave “la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto”. Mentre “non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”.
Il tema delicato sarà il contenuto che si vorrà dare all’aggettivo palese. Si lascia quindi, in buona sostanza alla giurisprudenza, il temperamento tra la celerità che porterebbe a ridurre le “cautele, verifiche ed informazioni preventive” e la violazione delle regole di “prudenza, perizia e diligenza” che richiederebbero una attività istruttoria più complessa.
La consapevolezza dell’oggettiva difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra rapidità da un lato e correttezza e qualità dall’altro emerge dal comma 4 dell’art. 2, laddove dispone che “Per promuovere la fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all’articolo 15, comma 7”.
L’art. 3 - Principio dell’accesso al mercato – anch’esso significativamente richiamato tra i criteri applicativo e direttivo delle disposizioni codicistiche, conferma quanto detto sull’ineludibilità, in ogni caso, dei -tradizionali- “principi di concorrenza, imparzialità, e non discriminazione di pubblicità e trasparenza di proporzionalità”.
Gli altri articoli si occupano rispettivamente dei “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento” (art. 5); “Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del Terzo settore” (art. 6); “Principio di auto-organizzazione amministrativa (art. 7); “Principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d’opera intellettuale a titolo gratuito” (art. 8, che, però, al comma 3, prevede la possibilità che le Amministrazioni ricevano “per donazione” beni e prestazioni rispondenti al pubblico interesse); “Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale” (art. 9); “Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione” (art. 10); “Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore. Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti” (art. 11, che fa in realtà riferimento anche ai contratti collettivi territoriali)).
Nel rinviare ad altra sede più ampie riflessioni su tali principi, merita evidenziare che l’art. 5, sotto il titolo “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, nel richiamare la valenza di tali principi nell’ambito dell’intera procedura di gara, anche prima dell’aggiudicazione, al comma 3 afferma che “In caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole [recte, non vi è legittimo affidamento: ndr] se l’illegittimità̀ è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”. La disposizione sembra dare spazio a una presunzione di concorso di colpa dell’aggiudicatario illegittimo: presunzione che pone. a ben vedere problemi di coerenza con l’enunciazione al comma 1 dell’art. 2 del principio di fiducia “reciproca”. Il comma 4, pur ponendo l’accento sulla possibilità di un’azione di rivalsa della “stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso”, limita peraltro opportunamente la concorrente responsabilità dell’aggiudicatario illegittimo all’ipotesi in cui esso abbia conseguito l’aggiudicazione con un comportamento “illecito”. Negli stessi termini, l’art. 209, comma 4 dello Schema, sostituendo l’art.124 c.p.a., stabilisce al suo nuovo comma 1, 3° periodo, che “Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo”. Come rilevato in altre occasioni, non posso non esprimere serie preoccupazioni per le riferite disposizioni che, se lette nel contesto di un sistema di tutela giurisdizionale che indebitamente privilegia la tutela risarcitoria rispetto a quella soprassessoria e caducatoria (in evidente spregio anche alla qualità della prestazione), corre il rischio di ridurre il contenzioso sui contratti de quibus a una controversia tra privati. Il che oltretutto farebbe dubitare della ratio della sua attribuzione alla giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo.
Con riferimento al principio di auto-organizzazione amministrativa, va segnalato che l’art. 7 rinvia la disciplina dell’affidamento in house dei servizi di interesse economico generale a livello locale all’apposito decreto legislativo di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali, a sua volta approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 dicembre scorso, il quale rafforza l’obbligo motivazionale dell’affidamento, espressamente estendendolo anche al trasporto pubblico locale, con la sola strana eccezione delle funivie.
Merita particolare attenziona anche l’art. 10 (“Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione”), che afferma utilmente in modo chiaro il “divieto di affidamento” dei contratti pubblici “agli operatori economici nei confronti dei quali sia stata accertata la sussistenza di cause di esclusione espressamente definite dal codice” e che “Le cause di esclusione di cui agli articoli 94 e 95 sono tassative e integrano di diritto i bandi e le lettere di invito; le clausole che prevedono cause ulteriori di esclusione sono nulle e si considerano non apposte” e delimita i requisiti speciali (“Fermi i necessari requisiti di abilitazione all’esercizio dell’attività professionale, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono introdurre requisiti speciali, di carattere economico-finanziario e tecnico- professionale, attinenti e proporzionati all’oggetto del contratto, tenendo presente l’interesse pubblico al più ampio numero di potenziali concorrenti e favorendo, purché sia compatibile con le prestazioni da acquisire e con l’esigenza di realizzare economie di scala funzionali alla riduzione della spesa pubblica, l’accesso al mercato e la possibilità di crescita delle micro, piccole e medie imprese”).
3. Altre importanti novità.
Importanti novità riguardano poi la forte spinta verso la digitalizzazione, la programmazione di infrastrutture prioritarie, l’appalto integrato, una maggiore flessibilità per i settori speciali, il riordino delle competenze dell’ANAC (oltre all’eliminazione delle linee guida, il rafforzamento delle funzioni sanzionatorie e la titolarità in via esclusiva della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, con l’anagrafe unica delle stazioni appaltanti, compreso l’elenco dei soggetti aggregatori, nonché l’anagrafe degli operatori economici), la revisione delle soglie al di sotto delle quali gli appalti potranno essere affidati senza gara, il partenariato pubblico-privato (cui è dedicato l’intero IV libro), l’introduzione del c.d. “subappalto a cascata”, la revisione prezzi (per la quale sono state trasposte nel Codice le norme emergenziali che fissano l’alea al 5% e la quota di copertura dei prezzi), le qualificazioni delle stazioni appaltanti (anche se il Governo ha alzato la soglia fino alla quale i piccoli comuni potranno affidare direttamente i lavori); la trasparenza delle procedure di affidamento e l’accesso ai relativi atti per i concorrenti non definitivamente esclusi; la decorrenza dei termini di impugnazione e l’inserimento nel Codice della disciplina del Collegio consultivo tecnico.
4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
Nell’ottica di un’effettiva accelerazione della stipula del contratto e di una più effettiva tutela dei concorrenti non definitivamente esclusi, lo Schema è intervenuto anche sulle fasi delle procedure di affidamento, sulla trasparenza degli atti di gara, sulle comunicazioni e sulla decorrenza dei termini di impugnazione. A questi fini merita leggere in combinato disposto gli artt. 17, 18, 36, 90 e 209.
In particolare, l’art. 17, reintroduce la distinzione tra “proposta di aggiudicazione” e “aggiudicazione”, disponendo, al comma 5, che “L’organo preposto alla valutazione delle offerte predispone la proposta di aggiudicazione alla migliore offerta non anomala. L’organo competente a disporre l’aggiudicazione esamina la proposta, e, se la ritiene legittima e conforme all’interesse pubblico, dopo aver verificato il possesso dei requisiti in capo all’offerente, dispone l’aggiudicazione, che è immediatamente efficace” e, al comma 7, che “Una volta disposta l’aggiudicazione, il contratto è stipulato secondo quanto previsto dall’articolo 18”.
La decorrenza del termine dilatorio (c.d. standstill procedimentale) per la stipula del contratto e dei termini di impugnazione sono pertanto posticipati all’esito della verifica dei requisiti e alla conseguente comunicazione della -effettiva- aggiudicazione.
L’art. 18 dispone, infatti, opportunamente al comma 3 che “Il contratto non può essere stipulato prima di 35 giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione. (…)”
L’art. 36 dispone poi al comma 9 che “Il termine di impugnazione dell’aggiudicazione e dell’ammissione e valutazione delle offerte diverse da quella aggiudicataria decorre comunque dalla comunicazione di cui all’articolo 90”. La disposizione, ripresa dall’art. 209 -che sostituisce l’art. 120 c.p.a.- si combina con i commi 1 e 2 dello stesso art. 36 i quali dispongono che “1. L’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, i verbali di gara e gli atti, i dati e le informazioni presupposti all’aggiudicazione sono resi disponibili, attraverso la piattaforma digitale di cui all’articolo 25 utilizzata dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a tutti i candidati e offerenti non definitivamente esclusi contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione ai sensi dell’articolo 90. 2. Agli operatori economici collocatisi nei primi cinque posti in graduatoria sono resi reciprocamente disponibili, attraverso la stessa piattaforma, gli atti di cui al comma 1, nonché le offerte dagli stessi presentate.”.
In questo modo si reintroduce e si rafforza il sistema di accesso automatico e immediato (senza onere di richiesta) a tutti i verbali, dati, atti e informazioni della procedura, ivi comprese le offerte dei primi cinque candidati nelle parti che la stazione appaltante o l’ente concedente non ha ritenuto di dover oscurare (anche se occorrerebbe per chiarezza aggiungere “contestualmente alla comunicazione dell’aggiudicazione”). Il sistema mira così ad evitare i ricorsi “al buio” (con inutile consumo della risorsa giustizia) e a dare, sin da subito, massima informazione ai concorrenti interessati a verificare la correttezza della gara ed eventualmente a contestarne l’esito. A questi fini l’art. 36 introduce un rito specialissimo per contestare, rispettivamente, da parte dell’offerente, l’eventuale totale/parziale diniego di oscuramento e, da parte degli altri concorrenti, l’eventuale eccesso di oscuramento.
Più correttamente, pertanto, la decorrenza del termine di impugnazione - tanto per l’aggiudicazione, quanto, a maggior ragione, per l’ammissione e la valutazione delle offerte diverse dall’aggiudicataria (di cui l’art. 90 non prevede alcuna comunicazione, a meno che si inserisca nell’obbligo di comunicazione dell’aggiudicazione anche quello della graduatoria) - dovrebbe essere ancorata, per i vizi deducibili da atti ostesi successivamente alla comunicazione del provvedimento impugnato, al momento in cui tali atti vengono effettivamente resi disponibili.
La norma deve essere sotto questo profilo meglio coordinata con il nuovo art. 120 c.p.a. che, nel testo riscritto dall’art. 209 dello Schema, dispone che il termine di impugnazione degli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinati dal Codice “decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici”.
Dal momento che la certezza del termine di impugnazione costituisce una garanzia di effettività della tutela assolutamente irrinunciabile, anche quest’ultima disposizione dovrebbe però essere opportunamente integrata al fine di rendere chiaro che (i) la dilazione non può essere un’opzione, ma vale solo per i vizi non ancora conoscibili; (ii) si tratta di una dilazione e non di una anticipazione: quest’ultimo chiarimento è essenziale per non dare spazio a strumentali eccezioni delle amministrazioni resistenti o dei controinteressati sulla necessità di anticipare l’impugnazione di verbali e atti endoprocedimentali casualmente conosciuti prima della comunicazione di quello effettivamente lesivo o, all’opposto, a un atteggiamento di estrema prudenza dei ricorrenti (c.d. “contenzioso cautelativo”) con inutile spreco della risorsa giustizia.
Il nuovo secondo periodo del comma 2 dell’art. 120 potrebbe a questi fini essere allora più opportunamente così riformulato: “Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione dell’atto impugnato ai sensi dell’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure, se si impugnano atti diversi e non direttamente comunicati oppure si denunciano vizi conoscibili dagli atti messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, dai successivi momenti in cui tali atti sono stati effettivamente messi a disposizione”. Analogamente, il comma 9 dell’art. 36 potrebbe essere opportunamente integrato con la precisazione “o dai successivi momenti in cui la stazione appaltante o l’ente concedente abbia messo a disposizione gli atti impugnati e quelli da cui sono evincibili i vizi dedotti”.
La distinzione tra proposta e aggiudicazione e la posticipazione a quest’ultima della decorrenza del termine di impugnazione e dello standstill procedimentale ha comunque l’importante scopo di evitare inutili contenziosi anteriormente all’esito della verifica dei requisiti e, al contempo, “bruciare” la dilazione della stipula del contratto in un periodo che spesso è inferiore a quello necessario a tale verifica.
In un’ottica di migliore equilibrio tra i diversi interessi (di accelerazione e di tutela giurisdizionale) sarebbe peraltro a mio avviso più opportuno, come rappresentato anche nell’ambito della Commissione, anticipare la fase di eventuale contestazione degli oscuramenti delle offerte (contro il diniego o contro l’eccesso di oscuramento) al momento della proposta, in modo da utilizzare il tempo della verifica dei requisiti per definire il pur rapidissimo rito disegnato dallo stesso art. 36 per tale contenzioso.
A tali fini occorrerebbe aggiungere alle comunicazioni di cui all’art 90 quella della proposta di aggiudicazione e della sottostante graduatoria e prevedere la messa a disposizione degli atti di cui all’art 36, commi 1 e 2 contestualmente a tale comunicazione, facendo decorrere da tale momento i termini per contestare le decisioni sull’oscuramento delle offerte, sì che, al momento dell’aggiudicazione, i concorrenti abbiano la massima disponibilità del quadro fattuale di riferimento.
Ferma restando la necessità di ogni opportuna attività istruttoria e di verifica per raggiungere un risultato di qualità (soggettiva e oggettiva) dell’affidamento, è evidente invero che l’anticipazione del contenzioso sull’accesso -ma anche l’introduzione di un termine per la verifica dei requisiti e, a monte, per il rilascio delle informazioni all’uopo necessarie da parte delle autorità e degli organismi competenti- avrebbe l’ulteriore importante effetto di ridurre il ricorso agli affidamenti d’urgenza, che è di fatto un altro strumento per aggirare l’istituto dello standstill e (quel poco che resta del)la tutela cautelare.
Sul piano dell’effettività della tutela, merita peraltro, con soddisfazione, segnalare, per un verso, l’opportuna previsione, nel nuovo testo dell’art. 120 c.p.a., che per la proposizione di motivi aggiunti per impugnare gli atti della medesima procedura non è dovuto il pagamento di ulteriori contributi unificati, e, per l’altro verso, la “non trasposizione” nello Schema del decreto delegato, delle criticabili e criticate disposizioni del rito speciale PNRR inserite in sede di conversione del d.l. n. 68 del 2022 (sub art. 12-bis).
Novità normative dall’Unione Europea in materia di tutela penale dell’ambiente
di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente - 2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422) - 3. I profili critici.
1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente
É attualmente in corso presso le istituzioni europee l’iter di approvazione di una nuova Direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Tale iniziativa normativa si inserisce nel contesto di un processo di complessivo rinnovamento delle politiche europee in materia ambientale.
Con l’avvio del c.d. “Green Deal”, l’Unione si è infatti impegnata ad attuare una nuova strategia globale per la protezione e il miglioramento dello stato dell’ambiente ed ha predisposto un ampio ventaglio di misure, volte a rafforzare la tutela degli ecosistemi e della biodiversità[1]. Al contempo, nell’ambito della Strategia dell’UE per contrastare la criminalità organizzata 2021-2025, la lotta alla criminalità ambientale è stata indicata come un obiettivo prioritario da perseguire, anche attraverso una revisione sia della normativa in materia di spedizione di rifiuti e di traffico di specie selvatiche, sia della direttiva 2008/99/CE sui reati ambientali[2].
Oltre che per effetto del mutato contesto politico ed internazionale, il processo in corso di revisione della direttiva si è poi reso necessario in ragione del fatto che l’adozione di tale atto era avvenuta prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e cioè, sotto la vigenza di un quadro normativo molto diverso da quello attuale che invece assegna all’UE competenze penali più chiare e più ampie.
Il rapporto finale di valutazione del livello di implementazione della Direttiva vigente (Direttiva 99/2008/CE) esitato dalla Commissione UE ha riportato un quadro davvero sconfortante rispetto al conseguimento dell’obiettivo in origine prefissato dall’UE di realizzare un livello almeno sufficiente di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali in materia ambientale. L’implementazione del testo è avvenuta in modo alquanto eterogeneo, a causa dell’ampio margine di discrezionalità con cui gli Stati hanno potuto interpretare il contenuto delle relative disposizioni. L’estrema vaghezza dei termini utilizzati dal legislatore europeo per la descrizione delle condotte penalmente rilevanti ha infatti resto elastico il significato degli obblighi di incriminazione imposti a monte, generando a valle una notevole varietà delle soluzioni normative adottate dai singoli ordinamenti nazionali.
Approcci differenti sono stati seguiti tanto sul versante della ricezione della clausola di illiceità speciale, quanto sotto il profilo della definizione dei contrassegni dell’offese tipiche.
Con riguardo al profilo del carattere illecito delle condotte sanzionate, l’art. 2 della Direttiva 2008/99/CE stabilisce, com’è noto, un requisito di specifica illiceità delle condotte punite, consistente nella violazione normativa europea adottata ai sensi del trattato CE o EURATOM ed allegata alla direttiva; di un atto legislativo, un regolamento amministrativo o una decisione, adottati da uno Stato membro o da una sua autorità competente in attuazione della legislazione comunitaria di settore. Si tratta, cioè, di un rinvio tassativo alla legislazione europea, elencata in coda al testo ed alla normativa interna, nonché ai provvedimenti amministrativi dei singoli Stati, attuativi della disciplina di cui agli allegati alla direttiva e che riguardano in prevalenza la materia ambientale, ma non anche ambiti affini; come la tutela della salute, del paesaggio, della sicurezza sul lavoro etc.
Ebbene, la Commissione ha constatato come molti ordinamenti statali abbiano trasposto tale clausola, a volte richiamando genericamente la contrarietà a norme giuridiche, ad una disposizione di legge o ad una decisione della pubblica autorità; in altri casi invece, si richiede la violazione di norme di legge. L’impiego di formule onnicomprensive ha comportato l’automatica inclusione nello spettro applicativo delle norme penali di qualunque futura modifica o aggiornamento tanto della legislazione nazionale di recepimento della normativa europea a tutela dell’ambiente, quanto di quest’ultima[3]. Ciò ha senza dubbio complicato l’esegesi delle normative penali interne, vista la notevole frammentazione degli atti giuridici di attuazione della disciplina ambientale di fonte europea. Tra gli ordinamenti statali esaminati dalla Commissione, soltanto quello maltese ha implementato in modo letterale la definizione di cui all’art. 2 della Direttiva, facendo riferimento alla disciplina elencata in allegato alla stessa. Al guadagno così ottenuto in termini di maggiore precisione nella descrizione del fatto tipico si è però affiancato il contro-effetto della eccessiva fissità della clausola di illiceità speciale, incapace di adattarsi ai mutamenti che hanno nel tempo investito la normativa extra-penale oggetto del rinvio.
Risultati altrettanto insoddisfacenti si registrano sul versante dell’implementazione dei requisiti offensivi del fatto, ove la disomogeneità delle soluzioni adottate a livello nazionale ha nella sostanza impedito l’armonizzazione degli ambiti applicativi delle rispettive fattispecie di reato. Nella maggior parte dei casi si è scelto di ricorrere ad una trasposizione quasi pedissequa della nozione di "danno sostanziale" utilizzata nel testo della Direttiva. La vaghezza di tale definizione ha però finito con l’affidare al formante giurisprudenziale il compito di definire gli effettivi contorni dell’offesa penalmente rilevante.
Fra le legislazioni statali che hanno utilizzato formule più precise si è invece riscontrata una non trascurabile eterogeneità rispetto al modo di intendere il disvalore di evento. Alcuni Stati hanno definito la soglia di rilevanza penale dell’evento lesivo attraverso parametri di carattere economico, quantificando il danno in termini monetari secondo schemi in genere impiegati in ambito civilistico. In altri invece, il danno rilevante è stato connotato in termini di durata, reversibilità e di impatto sull’ambiente.
La normativa austriaca richiede per esempio un “deterioramento duraturo dello stato dell'acqua, del suolo e dell'aria”. L’ordinamento portoghese stabilisce invece criteri di tipo qualitativo, mentre la giurisprudenza polacca intende il danno significativo come danno irreparabile che colpisce la vegetazione o un gran numero di animali. Nozioni altrettanto vaghe sono - com’è noto - presenti nel nostro ordinamento ove l’evento del delitto di inquinamento è definito come “compromissione e deterioramento significativo e misurabile” e il disastro ambientale consiste nell’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o nell’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente gravosa.
La Commissione segnala infine analoghi problemi di non uniforme implementazione della direttiva sul versante della trasposizione della nozione di “quantità non trascurabile di rifiuti” oggetto del traffico illecito. Anche in tal caso, talvolta, si è scelto di riprendere letteralmente l’espressione usata dal legislatore europeo, altre volte invece, si è preferito ricorrere all’indicazione di soglie di carattere quantitativo.
Non trascurabili paiono le differenze intercorrenti tra le legislazioni penali nazionali sul fronte della tipizzazione delle condotte e delle offese. Il fatto che il profilo delle sanzioni sia rimasto fuori dal campo applicativo della Direttiva 2008/99/CE perché già regolato dalla quasi coeva decisione quadro sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale[4], ha consentito agli Stati membri di procedere in ordine sparso rispetto alla scelta del tipo e delle misure di pene da applicare agli illeciti contro l’ambiente. Ne è derivato un quadro composito, contrassegnato da una forte discontinuità dei regimi applicativi (soprattutto in materia di sanzioni pecuniarie), talmente variegato da rendere impossibile la comparazione tra i rispettivi sistemi nazionali[5].
2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422)
Tra le principali novità della Proposta di direttiva si segnalano, sul fronte della tipizzazione delle condotte penalmente rilevanti, l’ampliamento e l’aggiornamento delle attività punibili; ora comprensivo anche dei casi di immissione nel mercato di prodotti pericolosi; di fabbricazione e immissione nel mercato o di uso di sostanze pericolose; delle violazioni delle normative in materia di AIA; degli scarichi inquinanti da navi; dell’installazione, esercizio o smantellamento di impianto in cui si svolge attività pericolosa o si immagazzinano o utilizzano sostanze pericolose; dell’estrazione di acque superficiali o sotterranee etc. (art. 3 della Proposta).
L’area della protezione penale dell’ambiente fagocita dunque fattispecie di diversa natura, normalmente annoverate tra quelle a tutela della salute individuale o collettiva; come taluni reati in materia di danni da prodotto. Si tratta di una scelta dogmaticamente discutibile, che potrebbe peraltro generare seri ostacoli nel processo di implementazione della futura direttiva.
Da annotare il fatto che la Commissione ha fortemente voluto l’inserimento tra le condotte punibili dell’estrazione illecita di acque superficiali e sotterranee, considerata la loro considerevole incidenza e diffusione anche nel territorio UE. Stupisce il dato criminologico. Esso smentisce l’idea che questo tipo di attività illegali riguardi soprattutto i Paesi in via di sviluppo, ed in misura minore i Paesi più ricchi.
Sotto il profilo della tipizzazione delle offese, la nuova direttiva - come la precedente - circoscrive l’area delle incriminazioni alle condotte che cagionano un danno o un pericolo concreto rilevanti alla vita o all’incolumità delle persone; oppure, alla qualità delle matrici ambientali, ma si preoccupa di meglio definire i contrassegni dell’accadimento lesivo, attraverso la tipizzazione di una serie di indicatori sintomatici della rilevanza della lesione. Con riguardo all’evento di danno, si fa riferimento: 1) alle condizioni originarie dell’ambiente colpito; 2) alla durata del danno; 3) alla gravità del danno; 4) alla diffusione del danno; 5) alla reversibilità del danno (art. 3 par. 3 della Proposta).
Rispetto al pericolo rilevante, si tiene invece conto dei seguenti elementi a) se l’attività è ritenuta rischiosa o pericolosa e richiede un’autorizzazione che non è stata ottenuta o rispettata; b) in quale misura sono superati i valori soglia legislativi definiti o contenuti nell’autorizzazione; c) se il materiale o la sostanza è classificato come pericoloso o altrimenti elencato come nocivo per l’ambiente o la salute umana (art. 3 par.4 della Proposta).
Non è tuttavia ben chiara la natura giuridica dei suddetti indici. La direttiva non precisa infatti, se si tratta di indici meramente probatori o sintomatici della dannosità del fatto, o di elementi costitutivi della fattispecie tipica. La questione non è di rilievo puramente teorico. Se gli indicatori fossero ritenuti di natura esclusivamente processuale/probatoria, essi verrebbero in rilievo alternativamente. Ai fini dell’accertamento del reato, non sarebbe, cioè, necessario che fossero presenti nella loro totalità; così come, il reato potrebbe ritenersi integrato, anche in loro assenza. Ove invece si trattasse di elementi del fatto tipico, in assenza di uno o più di tali contrassegni, il reato non si realizzerebbe.
La Proposta stabilisce parametri standard per la determinazione della non trascurabile quantità di rifiuti, oggetto delle condotte di traffico illecito. Si prevede infatti che la legislazione degli Stati membri specifichi che, nel valutare tale requisito quantitativo, ai fini delle indagini, dell'azione penale e delle decisioni giudiziarie riguardo ai reati di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere e), f), l), m) e n) della proposta di direttiva, si debba tenere conto, secondo il caso, dei seguenti elementi (Art. 3 par. 5): a) il numero di elementi oggetto del reato; b) in quale misura è superato il valore, la soglia regolamentare o un altro parametro obbligatorio; c) lo stato di conservazione della specie animale o vegetale in questione; d) il costo di ripristino dei danni ambientali.
Si tenta altresì di incrementare lo standard di tassatività della clausola di illiceità speciale, restringendone la portata alla violazione della disciplina extra-penale europea e a quella nazionale interna di attuazione, riguardante esclusivamente la materia ambientale; e non anche altri ambiti di tutela (salute, sicurezza sul lavoro etc.).
Significativo è il dato che l’assenza di autorizzazione o di altro titolo abilitativo non rilevi come requisito di illiceità speciale delle condotte, bensì come indice sintomatico della loro pericolosità; mentre soltanto l’autorizzazione illecitamente o fraudolentemente ottenuta connota il fatto di un ulteriore profilo di illiceità.
Sul versante sanzionatorio, la Proposta obbliga gli Stati a prevedere sanzioni detentive massime di almeno 10 anni in caso di morte o lesioni gravi alle persone; sanzioni detentive massime di almeno 4 anni per gli illeciti-base e sanzioni accessorie, interdittive, ripristinatorie etc. (art. 5 della proposta).
3. I profili critici
Rimane ancora sostanzialmente indeterminata la nozione di danno penalmente rilevante, nonostante il richiamo alla nozione di peggioramento qualitativo delle matrici ambientali, faccia di queste ultime, e non degli ecosistemi, l’oggetto materiale del reato. Ciò certamente agevola l’accertamento del fatto, circoscrivendone l’incidenza del risultato lesivo ai singoli corpi recettori (acqua, aria, suolo etc.). Inspiegabilmente però, l’ecosistema riappare nelle ipotesi aggravate che puniscono più severamente gli illeciti ambientali da cui derivino o da cui possono derivare la distruzione o i danni irreversibili e duraturi ad un ecosistema (art. 8 della Proposta di direttiva).
Sanzioni più elevate vengono poi previste se dal fatto derivano il decesso o le lesioni gravi ad una o più persone. Come per le ipotesi delle lesioni ambientali irreversibili o durature, anche per i casi di conseguente morte o lesione, la struttura dell’incriminazione richiama lo schema dei reati aggravati dell’evento. L’implementazione di tale modello nell’ordinamento italiano implicherebbe l’abbandono della distinzione attualmente tracciata dal codice fra il reato di inquinamento ambientale ed il reato di disastro ambientale. Quest’ultimo dovrebbe infatti assumere la forma di un’ipotesi aggravata di inquinamento ambientale, tanto rispetto alle ipotesi di maggiore offesa all’ambiente, quanto per l’ulteriore offesa ai beni della vita o dell’incolumità personale.
Appare infine criticabile la scelta di restringere la portata della clausola di illiceità speciale alle sole violazioni della disciplina extra-penale a tutela dell’ambiente in quanto si rischia così di lasciare prive di copertura penale condotte contrassegnate dall’inosservanza di prescrizioni amministrative e legislative orientate alla tutela di interessi diversi dall’ambiente, ma in concreto lesive di quest’ultimo[6].
[1] La Comunicazione della Commissione UE sul Green Deal dell’Unione Europea è consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?qid=1670924725082&uri=CELEX:52019DC0640.
[2] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Strategia dell’UE per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025 (COM/2021/170 final), in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52021DC0170.
[3] V. Documento di lavoro dei servizi della Commissione - Valutazione della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell'ambiente, cit., p. 26.
[4] Decisione quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, Bruxelles, 4 ottobre 2002, annullata dalla Corte di Giustizia il 13 settembre 2005 (causa: C-176/03).
[5] La pena detentiva massima prevista per il delitto di inquinamento oscilla per esempio dai 20 anni previsti dalla legislazione austriaca ai tre della normativa francese.
[6] Sul punto, sia consentito rinviare al nostro, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, p. 202 e ss.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.