ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia insieme e il valore dell’accoglienza - 3. Il fenomeno (im)migratorio e le sfide per l’ordinamento giuridico
di Domenico Carbonari
Sommario: 1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso. – 2. La disciplina normativa internazionale: il soccorso in mare. – 2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR. - 2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i navigli privati e lo Stato. - 2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco. – 3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie. – 4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso.
L’impatto del fenomeno migratorio ha posto la disciplina generale sull’immigrazione al c.d. stress test, che ne impone una valutazione in termini di coerenza e di efficacia. E’ pacifica la tendenza legislativa e amministrativa a restringere il campo delle esigenze di tutela, allorquando si verificano situazioni emergenziali o, quantomeno, ritenute tali.
L’approccio disarmonico adottato dall’ordinamento è, in realtà, la conseguenza di un’analisi in chiave prettamente emergenziale del fenomeno migratorio, che sembra quasi giustificare, in modo paradossale, gli interventi disorganici dell’ultimo periodo. La disciplina sugli sbarchi e sul controllo delle partenze ne è un chiaro esempio, perché incentrata sulla stipula di accordi internazionali con i paesi africani rivieraschi, tra questi la Libia, e sulla deroga amministrativa alle regole di assegnazione del c.d. place of safety (d’ora in poi POS), in evidente contrasto con le convenzioni internazionali.
Il sistema del diritto vigente e il contesto storico-sociale non sono sufficienti a conformare la volontà legislativa ad un determinato risultato, perché è necessario considerare e fronteggiare un fenomeno nella prospettiva della sua futura stabilizzazione[1]. Tuttavia, se difetta questa stabilità, il legislatore dovrebbe quantomeno abbandonare il criterio dell’emergenza e definire un assetto normativo flessibile, fondato su principi e regole generali ricavabili dal diritto internazionale generale e pattizio, oltre che dai principi elaborati dalla giurisprudenza, sia nazionale che internazionale.
2. La disciplina normativa internazionale.
Il tema delle ricerche e del soccorso in mare è stato oggetto di diversi interventi della comunità internazionale, al fine di disciplinare – in certa misura limitare - l’ambito di discrezionalità degli Stati[2]. Il risultato di tali sforzi dovrebbe essere l’armonizzazione delle prassi dei singoli Stati, tenuti all’adempimento degli obblighi primari cogenti in relazione alla tutela dei diritti fondamentali degli individui[3].
La rilevanza dei diritti, e in particolare la salvaguardia della vita in mare, è il presupposto teleologico di ogni intervento di soccorso in mare, a tal punto che le Convenzioni impongono agli Stati di intervenire anche nel caso di incidenti che si verificano «al di fuori della proprio regione (SAR) fino a quando l’RCC responsabile della regione o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso»[4]. La tutela dei diritti fondamentali assurge, quindi, a parametro necessario dell’azione di soccorso in mare, anche in una zona Search and rescue (da ora in poi SAR) rientrante nella competenza di altro Stato.
Non è un caso, infatti, che il legislatore internazionale ha avvertito l’esigenza di specificare, in seno alla Convezione SAR[5], che l’assistenza a chi è in pericolo in mare prescinde dalla nazionalità o dallo statuto della persona e, ancora, delle circostanze in cui si è trovata[6]. In altri termini, il sistema del soccorso in mare è informato all’esigenza di tutelare la persona fisica, statuendo obblighi che assurgono a principi generali non derogabili da norme nazionali finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare e/o alla repressione del traffico o della tratta di esseri umani.
La stessa direzione finalistica è impressa dalla definizione di “soccorso” fornita dalla Convenzione SAR[7], intesa come“un’operazione per recuperare persone in pericolo, per provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e portarle in un luogo sicuro”. In particolare, gli Stati devono garantire, specie se in supporto dei natanti privati, che i “sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che li ha assistiti e condotti in luogo sicuro”.
Dalla formulazione normativa se ne inferisce che le operazioni di soccorso hanno una struttura unitaria, senza che si possa distinguere la fase del salvataggio da quella dello sbarco presso un luogo sicuro[8]. L’esigenza di tutela dei diritti fondamentali spiega anche il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale «l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convezione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre ai naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. place of safety)»[9].
Pertanto, i principi che informano il diritto internazionale del mare possono essere considerati, ad un tempo, regole operative e parametri di legittimità rispetto alle normative nazionali che prevedano, animate dall’esigenza di tutelare la sovranità statale, norme derogatorie eccezionali rispetto ai suddetti obblighi di intervento. Nell’ordinamento giuridico italiano, in particolare, le regole del diritto del mare assurgono a principi generali, di rango superiore alla legge, in virtù del combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117 Cost.: le fonti subordinate alla Costituzione o alla legge primaria non condizionano la cogenza di queste regole[10].
Per una agevole comprensione del quadro normativo, reso complesso dalla quantità delle fonti, è opportuno scindere, idealmente, l’unitaria operazione di soccorso in mare in più fasi: 1) soccorso e recupero dei naufraghi; 2) consegna in luogo sicuro e sbarco dei sopravvissuti da una nave; 3) accoglienza e avvio delle fasi di identificazione. Quest’ultima fase attiene, in particolare, al momento successivo della collocazione dei migranti nei centri di accoglienza o negli hotspots.
2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR.
Il primo intervento in mare non pone particolari questioni interpretative.
Una volta ricevuta la richiesta di soccorso, le imbarcazioni degli Stati rivieraschi o i natanti privati hanno l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo. L’art. 98 della Convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (d’ora in poi Convenzione UNCLOS[11]), rubricato “obbligo di prestare soccorso”, statuisce che gli Stati parte devono “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”.
La Convenzione delinea, dunque, un obbligo positivo di tipo verticale e, al contempo, orizzontale. Nel primo senso, gli effetti si producono sul singolo Stato e si riverberano a cascata sul comandante del natante battente bandiera dello Stato interessato. In particolare, le autorità nazionali hanno il dovere di vigilare sullo svolgimento delle operazioni di soccorso e recupero, specie se poste in essere da soggetti privati[12].
Il suddetto obbligo ha anche carattere orizzontale e grava sul singolo comandante, il quale è tenuto ad intervenire quando, secondo ragionevolezza, l’intervento non mette a “repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri” o, comunque, quando la nave si trovi “nella posizione di essere in grado di prestare assistenza”[13].
La posizione del comandante della nave e degli Stati è stata consolidata, altresì, dagli emendamenti apposti dall’IMO, che all’obbligo di intervento del primo ha accompagnato il dovere di cooperazione in capo ai secondi. Ed infatti, gli Stati devono sollevare, nel minor tempo possibile, i privati dai relativi oneri e garantire ai soggetti soccorsi di essere trasferiti in luogo sicuro.
Il meccanismo di soccorso e salvataggio opera automaticamente quando i soccorsi vengono attivati nell’ambito delle acque territoriali dello Stato. Tuttavia, già dalla fine degli anni ’70 si è rilevato che la sovranità territoriale lasciava scoperti gli incidenti che si verificavano nelle acque internazionali. Per tal motivo, la comunità internazionale ha previsto che ogni Stato stabilisca, in accordo con gli Stati confinanti, le rispettive zone di ricerca e di salvataggio (cc.dd. SAR)[14], la cui ampiezza prescinde dai confini territoriali delineati.
2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i natanti privati e lo Stato.
Con la previsione delle zone SAR, il legislatore internazionale ha, ulteriormente, specificato il quadro degli obblighi dello Stato, perché tenuto al coordinamento delle operazioni di soccorso nella stessa zona[15]. Il criterio operativo impiegato consente, da un lato, la celere individuazione di un luogo sicuro “entro un termine ragionevole” e, dall’altro, la proficua cooperazione tra gli Stati confinanti.
Entro la propria zona SAR, gli Stati godono di flessibilità nell’adozione delle misure concrete per fronteggiare il pericolo, anche al fine di “assicurare che i comandanti delle navi che forniscono assistenza siano sollevati dalle loro responsabilità all’interno di un tempo ragionevole e con il minor impatto possibile sulla nave”[16].
Ulteriore criticità verificatasi nella prassi riguardava i casi in cui le autorità nazionali non assolvevano agli obblighi di soccorso nella propria zona SAR, talvolta a causa dell’inadeguatezza dei mezzi aereo-navali o dell’instabilità politica del Paese o, ancora, in ragione della categoria di soggetti da soccorrere. Per colmare il vulnus di tutela, il legislatore internazionale ha valorizzato il principio del c.d. centro di coordinamento del primo contatto, per il quale gli Stati hanno il dovere di adoperarsi per “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui fornita l’assistenza o un altro RRC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”.
Tale principio assurge anche a criterio di risoluzione delle questioni di coordinamento, perché si basa sulla considerazione che l’RRC responsabile della zona SAR dovrebbe assumere il coordinamento delle operazioni con le correlate responsabilità, tra cui l’indicazione del luogo sicuro. In assenza di intervento dell’RRC competente, il primo RRC è responsabile fino a quando il secondo non ne abbia assunto il controllo.
Deve ritenersi, inoltre, che lo Stato di primo contatto non sia, necessariamente, quello di bandiera della nave ausiliatrice, bensì lo Stato cui fa capo il primo RCC contattato. Questa soluzione è sicuramente la più conforme alla ratio di tutela dei soggetti in pericolo in mare, cui sono informate tutte le Convenzione e che non può subire elusioni (ciò potrebbe accadere nei casi nella prassi molto frequente in cui lo Stato di bandiera sia distante dal luogo del salvataggio)[17].
In particolare, nel caso del soccorso dei migranti nel mediterraneo centrale, va osservato che, sebbene si possa affermare un “dovere” di soccorso delle autorità libiche, queste non sempre vi hanno ottemperato, anche perché lo Stato non ha ratificato la Convezione SAR. Ciò ha comportato l’assunzione di un più gravoso onere di intervento in mare da parte delle autorità italiane e dell’UE, concretizzatosi anche nelle operazioni di soccorso collettivo Mare Nostrum, Sophia, Triton e Triton plus e, da ultimo, Eunavformed.
2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco.
Avvenuto il soccorso e il salvataggio, le autorità nazionali devono indicare il POS (place of safety) o posto sicuro: questo ulteriore passaggio costituisce il frammento finale dell’unitaria operazione di soccorso.
Quest’ultimo pone, invero, le questioni interpretative e operative più complesse. Basti pensare al tema delle caratteristiche che il POS deve possedere o, ancora, all’indicazione del POS al natante privato che soccorre i migranti in pericolo, specie quando l’operazione viene eseguita in assenza di coordinamento delle autorità marittime dello Stato cui viene inoltrata richiesta di indicazione del posto sicuro.
Sotto il profilo teleologico, dalla Risoluzione MSC 167-78 si evince che la ratio dell’indicazione del POS è la garanzia che, in ogni caso, un luogo sicuro venga fornito entro un termine ragionevole, perché è solo con lo sbarco che cessa lo stato di pericolo per le persone soccorse. La richiesta deve essere rivolta, in primo luogo, al responsabile della zona SAR in cui avviene il salvataggio[18]; nel caso di mancata risposta, il comandante della nave potrà rivolgersi ai centri di altri Stati.
Si dà atto che, talvolta, la disciplina in questione è stata applicata in modo non coerente e/o conforme ai principi del diritto internazionale del mare, come nel caso della mancata indicazione del POS ad un natante battente bandiera di uno Stato diverso per presunte ragioni organizzative o di sicurezza.
Per superare le incertezze applicative, la Risoluzione ha fornito una serie di elementi esplicativi, tra cui la stessa definizione di place of safety[19]: luogo in cui “la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui le primarie necessità umane possono essere soddisfatte”, essendo dallo stesso “possibile organizzare il trasporto per la destinazione successiva o finale dei sopravvissuti”. La precisazione si è resa necessaria a causa della prassi dei c.d. respingimenti in mare[20], posti in essere dagli Stati rivieraschi verso le coste di partenza o, comunque, oltre la propria zona SAR.
La questione è tornata oggetto di dibattito con riguardo all’indicazione di un porto libico quale posto sicuro. La dottrina e la giurisprudenza[21] hanno unanimemente fornito una risposta negativa, perché, per un verso, dalle fonti internazionali emerge che luogo sicuro non può essere quello di partenza o provenienza dei naufraghi, specie laddove questi abbiano il timore di subire pregiudizi. Per altro verso – come sostenuto anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa[22] - l’inadeguatezza dei porti libici è conseguenza delle detenzioni arbitrarie, torture, estorsioni, lavori forzati, violenze sessuali, ed altri trattamenti inumani e degradanti cui i migranti vengono continuamente sottoposti proprio in quel territorio.
Un secondo elemento chiarificatore attiene all’inadeguatezza e al carattere temporaneo della presenza sulla nave ausiliaria quale luogo sicuro: “non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”[23]. Il legislatore internazionale ha sopito ogni dubbio circa la possibilità che le autorità nazionali, nell’intento di impedire lo sbarco o in attesa di accordi di ridistribuzione dei migranti, ritengano la nave ausiliaria che ha prestato soccorso come posto sicuro ai sensi della Convenzione SAR.
Di recente, le autorità nazionali italiane hanno giustificato il divieto di sbarco anche in considerazione della (presunta) idoneità del natante e dell’equipaggio nel fronteggiare la situazione a bordo della nave, nel predisporre luoghi di accoglienza e nell’apprestare cure medico-assistenziali. E’ vero che, «in via provvisoria, fintantoché i naufraghi non siano stati sbarcati, anche la nave che presta soccorso può essere considerata un luogo sicuro», tuttavia la decisone statale non deve prescindere dal contesto di precarietà e dalla condizione di vulnerabilità in cui versano i migranti e dalla natura, appunto provvisoria ed emergenziale, del primo soccorso.
La Risoluzione specifica, altresì, che “la nave che assiste o un'altra nave deve essere in grado di trasportare i sopravvissuti in un luogo di sicurezza. Tuttavia, se svolgere questa funzione fosse un disagio per la nave, gli RCC dovrebbero farlo tentando di organizzare altre alternative ragionevoli per questo scopo”. L’impiego del termine “disagio” non è casuale, perché alle condizioni di precarietà dei migranti soccorsi si aggiunge la valutazione delle condizioni della nave che interviene.
Quanto detto si interseca con un’altra questione, priva di rilevanza, relativa alla (eventuale) sovrapposizione giuridica e terminologica tra porto sicuro e porto vicino. Ed infatti, premesso che il posto sicuro è quello in cui è possibile tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei migranti, si osserva che non sempre può definirsi tale un porto geograficamente vicino, come nel caso dei porti libici o tunisini.
Deve osservarsi, inoltre, che la suddetta distinzione non è avallata da alcuna Convenzione in materia di soccorso in mare[24], attesa la difficoltà di conciliare i diversi fattori che influiscono sullo svolgimento dell’attività di soccorso e salvataggio, tra cui il numero di persone da salvare, le condizioni metereologiche avverse, la rotta del natante e l’impossibilità di stabilire a priori la misura della distanza giuridica o materiale. Contesto reso più incerto, secondo la dottrina, dalla situazione di quei natanti che «non possiedono una rotta predefinita, come quelle delle ONG e i cui capitani si trovano a dover dare preminenza alla sicurezza e alla protezione dei naufraghi soccorsi in mare»[25].
3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie.
La normativa italiana è caratterizzata dalla eterogeneità delle fonti. La sedes materiae del soccorso e dello sbarco dei migranti si rinviene negli artt. 10 ss. T.U. Immigrazione, i quali sono informati al criterio del “fenomeno patologico”, per cui le autorità nazionali presumono l’esistenza di una condizione di irregolarità. La collocazione sistematica delle suddette disposizioni non pone alcun dubbio al riguardo: sono contenute nel Capo II relativo al controllo delle frontiere, del respingimento e dell’espulsione.
L’attenzione degli interpreti si è rivolta gli artt. 10 ter e 11 T.U. Immigrazione, il cui comma 1 ter [26] - oggi abrogato - prevedeva il potere del Ministro dell'interno di limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale al ricorrere di due presupposti: a) motivi di ordine e sicurezza pubblica; b) sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Alla violazione del suddetto provvedimento conseguivano effetti amministrativi e penali, quest’ultimi ove il comandante della nave avesse violato il divieto di transito.
Il legislatore ha tentato, implicitamente, di relazionare le due disposizioni in termini di specialità, per cui il comma 1 ter avrebbe trovato applicazione nell’ipotesi in cui l’ingresso o la sosta “apparivano” contrari all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica. Questa impostazione avrebbe comportato, quindi, una sorta di abrogazione tacita dell’art. 10 ter, tutte le volte in cui ad essere soccorsi in mare fossero stati migranti e l’intervento gestito da navi battenti bandiera straniera.
Della nuova norma, la dottrina[27] ha censurato l’incompatibilità con il diritto internazionale del mare, perché il presupposto legittimante della “chiusura dei porti” veniva individuato nella presenza a bordo di immigrati irregolari. Le conseguenze erano ovvie: l’eccessiva anticipazione della repressione penale, al punto da impedire lo sbarco ai migranti soccorsi, e, quantomeno sotto il profilo sociologico, la preventiva criminalizzazione dell’operato delle ONG[28]. Si è sostenuto, inoltre, che la scelta normativa in questione avrebbe inciso, in modo notevole, sulla instaurazione e sullo svolgimento dei processi amministrativi e penali, a causa del paventato incremento dei provvedimenti ministeriali di divieto[29].
Da non escludere, altresì, i rischi derivanti dalla eventuale “de-strutturazione” del giudizio penale, causata dalla surrogazione della valutazione incidentale sulla legittimità del provvedimento amministrativo con l’obbligo del giudice penale di esprimersi sugli atti discrezionali, presupposti della fattispecie criminosa, talvolta espressione di scelte politiche o di alta amministrazione di carattere opinabile[30].
Prima dell’abrogazione avvenuta con il D.L. n. 130/2020[31], della disposizione è stata offerta un’interpretazione conforme alle norme convenzionali, nella specie leggendo in combinato disposto il citato comma 1 ter con gli artt. 18 e 19, paragrafo 2, lettera g), Convenzione UNCLOS. Le norme pattizie identificano le nozioni di “passaggio pregiudizievole” e “passaggio inoffensivo”: il primo caso consiste nell’attività di “carico o scarico di […] persone in violazione delle leggi e dei regolamenti […] di immigrazione vigenti nello Stato costiero”; il secondo consente, invece, la “fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi […] sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo”.
Il principio di sovranità consente allo Stato di regolare, in senso limitativo, l’ingresso, il transito e la sosta nelle proprie acque territoriali, salvo le ipotesi in cui fatti di forza maggiore o esigenze di soccorso alle persone impongono di fornire riparo al natante privato. Il bilanciamento tra contrapposti interessi vede, dunque, la sovranità statale cedere di fronte alla necessità della salvaguardia della vita dei migranti naufraghi, a maggior ragione se la presenza o il trasporto delle persone sulle navi deve essere temporaneo (cfr. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13).
Conclusione, questa, corroborata sia sotto il profilo strutturale dell’unitarietà dell’operazione di soccorso e salvataggio, che termina con lo sbarco dei naufraghi presso il POS, sia sotto il profilo soggettivo: chiunque sia stato soccorso in mare vive una condizione di vulnerabilità, che non viene meno per la sola presenza o permanenza sul natante.
L’art. 11, comma 1 ter, T.U. Immigrazione, ha inoltre sollevato dubbi di compatibilità con il principio del non respingimento (c.d. non refoulement), nella specie sotto forma di respingimenti collettivi[32]. Invero, nel momento in cui un provvedimento interministeriale nega l’accesso o il transito ad un porto italiano, si configurerebbe una forma di respingimento indiretto - contrario agli artt. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della CEDU e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 – che impedisce ai migranti di accedere alla protezione internazionale. Ed infatti, per il giudice europeo non sono legittime misure che «possano produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate»[33].
Le suddette argomentazioni avrebbero escluso l’applicabilità dell’abrogato comma 1 ter dell’art. 11 alle fattispecie in cui l’ingresso o la sosta nelle acque territoriali avesse riguardato una nave soccorritrice di migranti in mare, perché non è legittima una presunzione di contrarietà all’ordine pubblico o alla sicurezza. Stessa conclusione se si considerano le altre norme dell’art. 11, il cui campo applicativo coincide con le attività di potenziamento e coordinamento delle frontiere, piuttosto che con le operazioni soccorso e successiva identificazione dei migranti.
È evidente, allora, che la fase della gestione del soccorso e dello sbarco va sussunta nell’art. 10 ter, il quale dispone l’identificazione dello straniero “giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare”. Non solo la disposizione non crea alcuna distinzione tra navi straniere e italiane, ma individua anche gli adempimenti successivi a carico delle autorità nazionali, tra cui lo sbarco – previa concessione del POS da parte dell’autorità competente - e l’accoglienza presso centri in cui è assicurata l’informazione sulla protezione internazionale.
4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
Più di recente, le autorità ministeriali hanno esercitato il potere di vietare il transito o la sosta nelle acque territoriali italiane ai natanti che trasportano migranti, nell’intento – almeno così dichiarato - di non favorire le pratiche di immigrazione clandestina e contestare il fenomeno criminale del traffico di esseri umani. Tuttavia, al di là dell’obiettivo programmatico, i contenuti e le conseguenze giuridiche dei suddetti decreti hanno riproposto il tema dell’obbligo di indicazione del POS e della gestione degli sbarchi.
Nella specie, l’ingresso delle navi delle ONG nelle acque territoriali è stato consentito – seppure dopo notevoli esitazioni e contraddizioni - al fine di trovare riparo in presenza di condizioni metereologiche avverse. Successivamente, è stato autorizzato lo sbarco dei soli minori e dei soggetti in condizioni di salute precarie, ordinando alle navi di riprendere il largo con a bordo i restanti migranti. La decisione politica è stata definita, dai primi commentatori, come una forma di “ammissione selettiva”, in aperto contrasto con la disciplina convenzionale e con il divieto di non respingimento collettivo.
In questa sede, è opportuno analizzare i possibili fattori di criticità dei suddetti decreti, seguendone la non corretta impostazione della scomposizione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio in due momenti. Ed infatti, le autorità italiane hanno riconosciuto la possibilità di apprestare immediata assistenza ai soli vulnerabili, negando però l’indicazione del POS, sul presupposto che l’obbligo gravasse in capo alle autorità dello Stato di bandiera del natante.
Il mancato accoglimento delle richieste dei natanti privati è stato giustificato dalla circostanza che le “operazioni in mare [sono] avvenute al di fuori dell’area SAR di responsabilità italiana, rilevando come tali operazioni siano state effettuate in mancanza di qualsivoglia istruzione e forma di coordinamento da parte della competente Autorità SAR”. Per ciò solo, “il transito e la sosta nel mare territoriale si configurano come pregiudizievoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.L. 130/2020”. La presunzione accolta dalle autorità ministeriali è distonica sia rispetto al mancato intervento delle autorità SAR di altri Stati (ad es. Malta, Libia o Tunisia) sia all’impossibilità di chiedere l’intervento delle autorità di paesi (ad esempio Libia) in cui le precarie condizioni geo-politiche e/o la complessiva instabilità politica della regione non lo consentivano.
La prima criticità si rinviene nella scelta di consentire l’accesso ai soli vulnerabili e di negarlo a coloro che non erano valutabili come tali, non assumendo così la responsabilità dello sbarco. Di contro, l’espressione “operazioni di soccorso e salvataggio” comprende anche l’indicazione del POS e il conseguente sbarco, per cui le autorità italiane hanno assunto, fittiziamente, la responsabilità della sola messa in sicurezza dei più fragili, rimettendo invece l’esecuzione dello sbarco dei restanti naufraghi alla competenza degli Stati della bandiera.
In secondo luogo, deve rilevarsi l’inosservanza del principio c.d. dello Stato di primo contatto. Sulla scorta delle norme convenzionali[34], è legittimo che un natante chieda l’intervento di un RCC diverso da quello della zona SAR in cui avviene il salvataggio, con obbligo del primo di “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione”. Lo Stato contattato per secondo, pur se non ha coordinato o partecipato alle operazioni, non può esimersi dal fornire un supporto in quanto geograficamente più vicino. Concludere in senso difforme condurrebbe all’elusione del principio del centro di coordinamento di “primo contatto” e ad un vuoto di tutela delle situazioni soggettive delle persone salvate[35].
Nel momento in cui si ordina alle navi di riprendere il largo, si innesca un ulteriore momento di crisi della disciplina in questione: viene perpetrata la violazione del principio di non discriminazione e, con esso, del divieto di respingimento collettivo. Non solo si crea una disparità di trattamento tra soggetti che sono da ritenersi tutti in pericolo, ma le autorità ministeriali adottano una nozione di vulnerabilità restrittiva, inclusiva solo delle categorie dei minori e di coloro in situazioni precarie di salute. Appare più coerente considerare vulnerabili, secondo una logica rimediale, tutti coloro che sono stati salvati in mare, a prescindere dalla sussistenza di specifiche condizioni[36] (cfr. punto 6.13 Risoluzione: “una nave ausiliaria non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”).
Alla medesima conclusione si perviene considerando il combinato disposto degli artt. 1 T.U. Immigrazione (diritti degli stranieri) e 92 Convezione UNCLOS secondo cui la nave è soggetta alla giurisdizione dello Stato della bandiera, “salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione”. In sintesi no n può escludersi la sottoposizione alla giurisdizione dello Stato costiero del natante privato che ha soccorso in mare i migranti, atteso che solo così è possibile svolgere pienamente tutte quelle attività necessarie e funzionali alla tutela dei diritti umani.
All’opposto, ai migranti “respinti” è stata di fatto negata la possibilità di attivare la procedura della protezione internazionale. Come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità, una nave in mare non è un luogo sicuro (o quantomeno lo è solo temporaneamente) e non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, tra cui quello di presentare domanda di protezione internazionale, «operazione che non può certamente essere effettuata sulla nave»[37]. A sostegno si può dedurre il già citato art. 10 ter del T.U. Immigrazione, il quale impone alle autorità nazionali di discernere la posizione dei richiedenti asilo da coloro per i quali difettano i presupposti di legge.
Anche a voler ammettere che i migranti possano attivare la procedura di protezione internazionale a bordo della nave, si osserva però che la condotta delle autorità italiane condurrebbe, ipso facto, alla creazione di una nuova regola internazionale. Invero, l’art. 13 del Regolamento di Dublino III verrebbe interpretato nel senso di radicare la competenza per l’accoglimento delle relative richieste sugli Stati di bandiera delle navi, perché queste sono considerate dal diritto internazionale “a tutti gli effetti territorio dello Stato”.
Questa prassi, tuttavia, non può essere avallata, perché la Corte EDU richiede agli Stati di applicare i Regolamenti di Dublino in modo conforme alla Convezione, risultando ingiustificato il respingimento sotto qualsiasi forma, anche c.d. indiretto[38]. Anche la Raccomandazione della Commissione europea (23 settembre 2020) ribadisce che le normative nazionali non possono alterare l’obbligo sulla ricerca e soccorso in mare, nonostante gli Stati di bandiera abbiano una responsabilità relativa al controllo dei requisiti per la registrazione della nave.
Invocare la competenza degli Stati di bandiera, nell’intento di porre sui comandanti delle navi l’onere di raggiungerne i relativi porti di attracco, contrasta con le regole generali in tema di obbligo di indicazione del POS contenute anche nella Risoluzione[39]. Può ritenersi, inoltre, concreto il rischio che gli Stati aggravino, eccessivamente, le condizioni del natante ausiliario, dovendo gli stessi organizzare in tal caso delle “alternative ragionevoli”.
[1] I fattori che connotano di complessità il fenomeno migratorio sono di due tipi, rispettivamente, spaziale-temporale e sociologico. Sul punto, D. G. Carbonari, Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato, in questa rivista, 22 marzo 2022.
[2] N. Parisi, I limiti posti dal diritto internazionale alle scelte di penalizzazione del legislatore interno in materia di immigrazione irregolare, in R. Sicurella (a cura di), Il controllo penale dell’immigrazione irregolare: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi garantistici, Torino, 2012, pp. 55 ss.
[3] In tal senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869.
[4] Linee guida contenute nella Risoluzione MSC 167-78, riportante gli emendamenti dell’Organizzazione Marittime Internazionale (IMO)al regolamento SOLAS V/33 (Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974) e all’allegato alla Convenzione SAR, paragrafo 3.1.9.
[5] Convezione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979, ratificata dall’Italia con legge del 3 aprile 1989, n. 147, punto 2.1.10.
[6] Si tratta di una regola generale intimamente connessa al principio di non discriminazione.
[7] Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimo cit., paragrafi 1.3.2 e 3.1.
[8] La scissione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio è una delle censura mosse al decreto interministeriale del 4 novembre 2022.
[9] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[10] Allo stesso risultato si perviene in considerazione della vincolatività dei c.d. pacta sunt servanda, presidiati a livello costituzionale dall’art. 117 Cost.
[11] Convenzione sottoscritta a Montego Bay nel 1982, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689.
[12] L’art. 98, comma 2, della Convenzione UNCLOS recita che “ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.
[13] In tal senso, il Capitolo R, del regolamento 33 relativo alla Convezione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS), ratificata con legge del 23 maggio 1980, n. 131.
[14] Convenzione SAR, capitolo 2.1.5
[15] Sempre la Convezione SAR prevede che “qualora vengano informati che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una Parte assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta Parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile”.
[16] Risoluzione MSC 167-78, emendamento 2.6
[17] Soluzione, questa, non condivisa da chi sostiene che, così ragionando, i comandanti delle navi delle ONG godrebbero della libertà o dell’arbitrio nella individuazione dell’autorità SAR da contattare.
[18] Per l'Italia, il place of safety è determinato dall'Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell'Interno (IMRCC).
[19] V. punto 6.12 Risoluzione MSC 167-78.
[20] I respingimenti in mare costituiscono violazione del divieto di ricondurre le persone verso luoghi nei quali la loro vita, la loro incolumità e la loro libertà sarebbero minacciate, oppure nei quali sarebbero sottoposte a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Rilevano gli artt. 3 e 14 CEDU, art. 33 della Convenzione di Ginevra, art. 19 CDFUE, art. 19, commi 1, 1 bis e 2 d.lgs. 286/98.
[21] Di recente, il GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021, ha sostenuto che, «al fine di sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo, è necessario affermare che la Libia non poteva e non può, allora come ora, essere considerata porto sicuro». Nello stesso senso, anche le sentenze del GUP del Tribunale di Messina, della Corte d’assise di Milano del 10 ottobre 2017 (caso Matammud), Cass., Sez. V, del 12 settembre 2019, n. 48250 e, infine, Cass., sez. III, del 16 gennaio 2020, n. 6626.
[22] V. Raccomandazione Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean, del 2019.
[23] V. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13. Nello stesso senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869, per la quale una nave «non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».
[24] Il concetto di porto sicuro è impiegato, invece, dal diritto internazionale marittimo nel caso di collisioni tra navi, limitazioni per definire un arcipelago o le acque territoriali, porti dove ormeggiare per riparare guasti che stanno causando danni ambientali e sversamenti in mare di sostanze tossiche o per definire la “più vicina rappresentanza diplomatica dello stato di bandiera”. Deve darsi conto dell’impiego, da parte della giurisprudenza internazionale, del concetto di “minima deviazione possibile”, cui si fa ricorso nell’intento di limitare i danni economici di mercantili e armatori e ridurre il lasso di tempo in cui un'imbarcazione inadeguata si trova a navigare sovraccarica di esseri umani.
[25] F. Floris, Porti sicuri e sbarchi incerti. I “buchi neri” del diritto internazionale del mare, in Redattore Sociale, 3 luglio 2019.
[26] Introdotto con il decreto legge del 14 giugno 2019, n. 53, convertito in legge n. 77/2019.
[27] S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), in www.questionegiustizia.it, 29 luglio 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza bis, in www.questionegiustizia.it, 20 giungo 2019. Inoltre, il comma 1 ter sanzionava penalmente condotte già stigmatizzate dall’art. 83 del codice della navigazione. Ulteriori profili di criticità, rilevati anche dal Capo dello Stato, attenevano alla indeterminatezza relativa alla tipologia delle navi da sanzionare, al contenuto della condotta di ingresso o sosta e ai motivi della presenza di soggetti soccorsi sulle navi.
[28] Si è discusso, infatti, di elevato uso simbolico della leva penale.
[29] Incideva sulla complessità del tema anche il discrimine tra le ipotesi in cui viene adottato il provvedimento ministeriale di divieto e quelle in cui non è fisiologicamente possibile adottarlo, come nel caso dei c.d. sbarchi autonomi o fantasma.
[30]Sul punto, L. Masera, La criminalizzazione delle ONG ed il valore della solidarietà in uno Stato democratico, in www.federalismi.it, del 25 marzo 2019; P. De Sena – F. De Vittori, La minaccia italiana di bloccare gli sbarchi dei migranti e il diritto internazionale, in Quaderni di SIDIBlog, 2017-2018.
[31] Non con poche perplessità manifestate dalla Cassazione, perché vengono riproposti alcuni aspetti problematici comuni alla precedente normativa del 2019.
[32] Tra tutti, S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), cit.
[33] Il non refoulement è un principio di diritto internazionale consuetudinario, nonché «norma di ius cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa». Corte EDU, Grande Camera, sentenza 26 febbraio 2008, Saadi c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2012, Hirsi ed altri c. Italia. Nella più recente giurisprudenza nazionale, Cass., Sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869 e GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021.
[34] Punto 6.7 della Risoluzione MSC 167-78.
[35] Nella specie, la mancanza di coordinamento o istruzione è stata considerata delle Autorità italiane, per ciò solo, quale violazione delle norme internazionali, in particolare dell’art. 19 Convezione UNCLOS, perché espressione della “intenzione reale di trasferire in Italia le persone a bordo piuttosto che assicurare loro la più tempestiva salvezza”. Le criticità sono conseguenza anche della mancata ratifica degli emendamenti da parte dello Stato maltese.
[36] Al riguardo, la Corte EDU esprime una nozione di vulnerabilità “per categorie”. Bisogna valutare i bisogni concreti e addivenire ad una classificazione dei soggetti. Se ne inferisce che la vulnerabilità è una “nozione relazionale”, nella quale ricondurre soggetti o gruppi che si esaminano in relazione al contesto in cui si trovano. Sul tema, F.R. Partipilo, Porti chiusi alle navi umanitarie: diritti e obblighi di Stati e capitani, in www.sistemapenale.it, 8.11.2022.
[37] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[38] In questo senso, depongono una serie di fonti internazionali che negano la responsabilità e la competenza del comandante della nave circa la determinazione dello status dei migranti. V. Guida sul salvataggio in mare, redatta congiuntamente da IMO, UNHCR e Camera di Commercio Internazionale.
[39] C. Favilli, La stagione dei porti semichiusi: ammissione selettiva, respingimenti collettivi e responsabilità dello Sato di bandiera, in www.questionegiustizia.it, 8 novembre 2022.
Tutta un’altra storia
Recensione di Dino Petralia
Si può decidere di scrivere per inseguire un sogno, per lanciare una protesta, un’accusa sociale, oppure per consacrare una confessione o togliersi uno scrupolo. Ma si può scrivere anche per omaggio, confezionando una storia dedicata, un dono al sentimento di riconoscenza. Ed è il caso di “Tutta un’altra storia”, racconto di verità intima di un figlio che ha perso il padre per mano mafiosa e che, con orgogliosa resistenza, ma senza salvifici velleitarismi, asseconda con la scrittura l’affettuosa presunzione di cambiare la tragica vicenda, ricostruendola a modo suo nel doloroso intento di riappropriarsi del genitore.
Per la cronaca Antonino Burrafato, sottufficiale degli Agenti di Custodia - così all’epoca si chiamava l’odierna Polizia Penitenziaria - matricolista in servizio al carcere dei Cavallacci di Termini Imerese, fu assassinato il 29 giugno 1982 da quattro sicari di Cosa Nostra perché considerato “colpevole” di avere tempestivamente effettuato la notifica di un provvedimento cautelare al detenuto Leoluca Bagarella, così di fatto impedendo l’esecuzione di un permesso di necessità che il boss avrebbe dovuto fruire per recarsi in visita al genitore morente. Per la mafia una sollecitudine ritenuta insolente e offensiva, tanto da avere innescato un verdetto di morte per lo scrupoloso brigadiere. Collaborazioni interne al sodalizio consentirono successivamente di svelare fatti e movente fino al definitivo giudizio penale.
Senza svelare nulla di un libro in bilico tra realtà e immaginazione, gradevole e commovente insieme, cadenzato in una scrittura graziosamente espressiva anche nel vezzo camilleriano di intercalare qua e là vocaboli dialettali siciliani così da radicarne efficacemente - ed orgogliosamente - la matrice isolana, può dirsi che appaiono sostanzialmente pagine dense di vita familiare, autobiografiche nel privato e nel pubblico, un libro organizzato come un girotondo intorno ad una figura amatissima e autorevolmente protettiva, quella di papà Nino, e ingegnosamente arricchito di un altro sé di famiglia, che il narratore fa debuttare come suo gemello, Nicola. Sfrontato ed estroso, attraente nei suoi slanci e trascinante, un fratello inventato in cui specchiarsi e interrogarsi, la sparizione del quale, ad un tratto della storia, acuisce la curiosità di approfondirne la conoscenza attraverso i suoi appunti che lui Totò freneticamente legge ricostruendo stati d’animo e scoprendone insondate e gratificanti virtù morali e sociali.
Una seconda figura compare poi nel solco del racconto ed è quella del Commissario Galvano, poliziotto ed investigatore verace in perfetto stile siculo, amico fedelissimo del padre, ben conscio del rischio corso da questi per l’affronto fatto in carcere al capomafia corleonese e latore in casa Burrafato della notizia che il solerte brigadiere era ormai nel mirino di Cosa Nostra. Dipinto caratterialmente crudo e di brusche maniere, l’alone del suo profilo è tuttavia quello di schietta e protettiva sincerità per l’amico Nino; è Galvano alla fine ad essere scelto dall’autore per fare da collante all’intera storia, dialogando con padre e figlio come un intimo familiare e raccontando col silenzio delle sue carte investigative, incustodite sul tavolo di casa Burrafato, la trama del delitto come fosse tutta un’altra storia, e non quella tragica dell’irreprensibile brigadiere.
Il delicato intento di Totò è dunque quello di ricostruire con la penna i fatti come se accaduti al suo cospetto, nell’illusione che un calore corale - quello che invece è mancato sulla strada del delitto - possa essere d’ausilio al passaggio; e così, dopo avere anticipato tra le pagine sanguinanti premonizioni, finisce per coagularle tutte nel finale, dove, senza tempo o meglio in un tempo contemporaneo del prima e del dopo, compaiono tutti come personaggi e interpreti di una tragedia accanto al papà in abito scuro, in una toccante composizione scenica in cui fa da sfondo l’istituto dei Cavallacci già intestato al V. Brig. Antonino Burrafato.
Pagine da leggere tutte d’un fiato, senza cedimenti ma con la fierezza della partecipazione, quella stessa fierezza di chi ha indossato una divisa grigio sbiadito, quasi un grigio topo con la mente e il cuore di fedele servitore dello Stato.
Introduzione a un dibattito sul tema dell’autonomia differenziata*
di Enrico Zampetti
Il tema di oggi è di stretta attualità considerato che, negli ultimi giorni dello scorso anno, il Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie ha trasmesso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il testo del disegno di legge recante l’attuazione dell’articolo 116 co. 3 Cost. Attualmente risulta presentato al Senato un disegno di legge dell’opposizione per l’attuazione del medesimo articolo 116 co. 3 Cost. e, presumibilmente, nel prossimo futuro ne saranno presentanti degli altri.
Non possono qui essere tratteggiate, neppure per cenni, le varie tappe che hanno sinora caratterizzato il processo di autonomia differenziata (che, ad oggi, non risulta perfezionato per nessuna Regione), ma un dato può essere evidenziato: rispetto al momento iniziale si è progressivamente allargata la platea delle Regioni interessate alla differenziazione, sicchè ad oggi l’autonomia differenziata assume la rilevanza di un fenomeno più generale, non esclusivamente circoscritto alle Regioni del Nord, ma esteso anche ad altre Regioni che, quantomeno in via astratta e potenziale, vedono nel regionalismo differenziato un possibile rilancio del sistema autonomistico, anche nell’ottica di un superamento degli squilibri esistenti.
Al contempo, all’aumento delle Regioni interessate è corrisposto un progressivo aumento delle materie coinvolte dal processo di differenziazione, sino a registrare iniziative riguardanti tutte e ventitré le materie indicate dalla norma costituzionale.
In questo contesto di più ampio interesse per l’autonomia differenziata, si avverte, dunque, l’esigenza di una legge quadro che garantisca una procedura unica e uniforme. Ciò non è affatto scontato perché, se è vero che anche in passato era stata avanzata la proposta di una legge quadro (si vedano, ad esempio, le iniziative del 2007 sotto il Governo Prodi e del 2019 sotto il governo Conte II), in altre occasioni il processo per ottenere l’autonomia differenziata si è avviato in diretta attuazione dell’articolo 116 co.3 (si pensi, ad esempio, alle preintese del febbraio 2018 a seguito dei referendum indetti da Lombardia e Veneto). Peraltro, anche in dottrina si registrano differenti orientamenti: accanto a posizioni che invocano la necessità di una legge quadro per ragioni di uniformità, altre la escludono sul presupposto che l’art. 116, co. 3, ponga soltanto un problema d’interpretazione ma non di attuazione costituzionale.
Ad ogni modo, tanto l’attuazione diretta dell’articolo 116 co. 3 Cost. quanto la sua attuazione attraverso una legge quadro devono misurarsi con una serie di questioni che variamente interessano il tema dell’autonomia differenziata e sulla base delle quali vanno esaminate e valutate anche le recenti proposte. Resta inteso - ma è forse superfluo sottolinearlo - che la questione più generale e rilevante richiede di inquadrare l’autonomia differenziata nell’ambito dei principi di unità e solidarietà sanciti a livello costituzionale, nell’ambizioso obiettivo di assicurare l’uguaglianza nella differenziazione. Al di là di questo aspetto centrale sul quale si concentra da sempre il dibattito sull’autonomia differenziata, più in dettaglio possono individuarsi alcuni profili problematici che passo sinteticamente ad esporre e che verranno in parte ripresi e approfonditi dalle successive relazioni.
Oggetto dell’autonomia differenziata.
L’autonomia differenziata riguarda tanto le competenze legislative quanto le competenze amministrative. Per quanto riguarda le prime, l’elemento di criticità concerne essenzialmente la quantità di materie che possono interessare il processo autonomistico. Se infatti il processo di differenziazione può coinvolgere astrattamente tutte le materie richiamate dall’articolo 116 Cost., è stato sottolineato che, ove la devoluzione dovesse interessarle tutte contestualmente, ciò rischierebbe di alterare le competenze legislative sancite a livello costituzionale, in deroga al procedimento di revisione previsto dall’art. 138 Cost.
Sotto un altro aspetto, si è espressa preoccupazione per la devoluzione di materie relative ad interessi (avvertiti come) unitari e difficilmente frazionabili (il riferimento è, ad esempio, alle materie coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, porti e aeroporti civili, istruzione, sanità, commercio con l’estero, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia). Anche nel tentativo di superare questa preoccupazione, si è talvolta sostenuto che, più che la materia nella sua astrattezza, la proposta regionale debba individuare gli obiettivi o le politiche che si intendono concretamente perseguire con l’autonomia differenziata, di modo che, in fase di intesa, si possano più agevolmente individuare le modalità di realizzazione di quegli obiettivi o di quelle politiche.
Per quanto riguarda le competenze amministrative, va precisato che il conferimento alle Regioni di funzioni amministrative non è esclusivo appannaggio dell’autonomia differenziata, ma si determina anche in base all’articolo 118 della Costituzione in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Si è così sottolineato che la Regione potrebbe risultare titolare di funzioni amministrative sia in applicazione dell’articolo 118 Cost. che dell’articolo 116, co.3, Cost., con la differenza che, in quest’ultimo caso, le competenze amministrative sarebbero modificabili soltanto mediante il procedimento previsto dalla relativa norma costituzionale.
Ruolo del Parlamento.
Un’ulteriore preoccupazione riguarda il ruolo del Parlamento nel processo di autonomia differenziata. Emerge, in particolare, il seguente interrogativo: la legge contemplata dall’articolo 116 Cost., che approva l’intesa a maggioranza assoluta, può emendare l’intesa o richiederne modifiche, ovvero deve approvarla o rifiutarla in blocco? L’orientamento maggioritario sembra configurare la legge in esame come una legge di mera ratifica, al pari delle leggi che approvano le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Al contempo, le varie proposte succedutesi nel tempo, tra cui anche le ultime, cercano di recuperare il ruolo del Parlamento attraverso il coinvolgimento delle competenti commissioni parlamentari, per lo più chiamandole ad esprimere pareri durante la fase di costruzione dell’intesa. Occorre verificare se e in che termini questo coinvolgimento possa ritenersi adeguato e sufficiente, ma di questo non possiamo occuparci in questa sede.
Il sistema di finanziamento.
Il sistema di finanziamento dell’autonomia differenziata dovrebbe essere coerente con quanto previsto dall’articolo 119 Cost., e in particolare con il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse secondo il quale le funzioni attribuite agli enti territoriali sono finanziate con tributi propri, compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al territorio regionale, fondi perequativi. Tuttavia, è noto come il federalismo fiscale non risulti ancora compiutamente attuato e come tale inattuazione sia stata ulteriormente determinata dalla crisi economica e dal contesto pandemico. Talvolta, si è così assistito ad un accentramento delle competenze e della gestione delle risorse, che anch’esso ha contribuito ad impedire il passaggio da un sistema a finanza derivata a un sistema effettivamente incentrato sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali. In estrema sintesi, (anche) il sistema di finanziamento dell’autonomia differenziata sconta e risente della mancata piena attuazione dell’articolo 119 Cost.
In ogni caso, si devono adeguatamente sottolineare le finalità perequative che pervadono l’articolo 119 Cost. e che vengono a tradursi nella necessaria redistribuzione del gettito raccolto a livello regionale. Sotto questo profilo, alcune criticità possono riguardare il c.d. residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto un territorio versa allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Proprio nell’ottica della perequazione, vanno così valutate eventuali rivendicazioni delle Regioni con più alto residuo fiscale a trattenere una maggiore percentuale del gettito prodotto nei rispettivi territori, considerato che siffatte rivendicazioni potrebbero sottrarre alla finanza pubblica risorse da redistribuire in ottica perequativa. Di questo aspetto si è occupata anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 118 del 2015.
I livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Un ulteriore elemento di criticità riguarda i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP).
Si tratta del profilo che più ha acceso il dibattito di questi ultimi giorni. Volendo semplificare al massimo, l’interrogativo di fondo è il seguente: si può procedere con l’autonomia differenziata anche se non siano stati previamente definiti i LEP oppure è necessario prima definire i LEP e soltanto dopo attivare il processo di differenziazione?
Va subito precisato, anche perché il dibattito odierno può fuorviare, che la definizione dei LEP è prevista dalla Costituzione a prescindere dall’autonomia differenziata, a presidio di quegli elementi unificanti con cui il principio autonomistico deve necessariamente convivere. In quest’ottica, come sancisce la legge 42 del 2009 sul c.d federalismo fiscale, la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni incide anche sui criteri di allocazione delle risorse perché implica il passaggio dal criterio della spesa storica al criterio incentrato sui fabbisogni e i costi standard. Come noto, attualmente i LEP non risultano ancora definiti in via generale, con una duplice implicazione: non si sa con esattezza quali siano i livelli essenziali delle prestazioni, salvo dedurli per alcuni settori dalla normazione positiva; si ostacola il passaggio dal criterio della spesa storica al criterio dei fabbisogni e costi standard.
Ma veniamo più da vicino al rapporto tra LEP e autonomia differenziata: ove anche si ritenga che, da un punto di vista formale, la (previa) definizione dei LEP non condizioni l’autonomia differenziata, è indubbio che la previa definizione dei LEP, e quindi la previa determinazione dei fabbisogni e costi standard, venga avvertita come presupposto necessario del processo di autonomia differenziata, proprio per evitare che si perpetui l’applicazione del criterio della spesa storica: ossia un criterio che, basandosi su quanto si è speso negli anni precedenti, non è affatto detto che assicuri le risorse necessarie per garantire l’erogazione dei servizi secondo predeterminati standard qualitativo-quantitativi. In sostanza, come emerge dal dibattito di questi giorni, se il processo di autonomia dovesse avviarsi e completarsi senza che siano stati previamente definiti i LEP, il divario già esistente tra le Regioni rischierebbe di restare tale e si sarebbe persa un’occasione nell’ottica dell’uniforme garanzia dei diritti civili e sociali.
Ebbene, l’ultima legge di bilancio, ai commi 791 e ss., ha previsto che i LEP debbano essere definiti entro un termine ben preciso e che “l'attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili, ai sensi del comma 793, lettera c), del presente articolo, ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP)”, subordinando così il processo di autonomia differenziata alla previa determinazione dei LEP. Resta inteso che, per garantire uniformemente i diritti civili e sociali, anche nella prospettiva dell’autonomia differenziata, non è sufficiente la preventiva definizione dei LEP, ma è altresì necessario lo stanziamento delle relative risorse e la previsione dei meccanismi attraverso cui assicurarne il concreto finanziamento. Una definizione dei LEP alla quale non si accompagni lo stanziamento delle risorse lascerebbe pressochè inalterata l’attuale situazione.
* * *
Questi, sia pur sommariamente indicati, sono alcuni degli aspetti che richiedono una rinnovata riflessione sull’autonomia differenziata nell’attuale contesto di riferimento e che ci hanno indotto ad organizzare questo incontro di approfondimento. Mi fermo qui per lasciare spazio ai nostri relatori che, da varie angolazioni tratteranno alcuni degli aspetti che ho cercato di sintetizzare in questa breve introduzione.
Interverranno subito i professori Francesco Manganaro e Fabrizio Tigano che dovranno lascarci a beve perché impegnati nel Consiglio direttivo dell’Associazione italiana professori di diritto amministrativo. In particolare, il prof. Francesco Manganaro ci illustrerà se e in che termini il regionalismo differenziato riesca a conciliare l’autonomia con il superamento dei divari regionali, mentre il prof. Fabrizio Tigano si concentrerà anche sui rapporti tra autonomia differenziata e autonomie speciali. Seguiranno, in ragione delle tematiche trattate, gli interventi del prof. Antonio Bartolini sul principio autonomistico, del prof. Alessandro Cioffi sui LEP, della prof.ssa Chiara Cacciavillani e del prof. Pier Luigi Portaluri sulle implicazioni dell’autonomia differenziata rispettivamente per la materia sanitaria e la materia governo del territorio. Al termine ascolteremo le conclusioni della prof.ssa Maria Alessandra Sandulli.
* Lo scritto riproduce l’introduzione al Seminario Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma, organizzato dal Comitato di redazione della sezione Diritto e Processo Amministrativo di questa Rivista e tenutosi il 9 gennaio 2023.
Gli approfondimenti della dottrina sulla riforma Cartabia - 4. La giustizia riparativa. L’impatto della riforma Cartabia sui Tribunali: criticità e possibili soluzioni
di Roberta Palmisano
Sommario: Premessa. - 1. Principi sovranazionali in materia di giustizia riparativa. - 2. Principi sovranazionali in materia di Probation e sanzioni di comunità. - 3. Legislazione interna e prospettiva carcerocentrica prima della riforma Cartabia. - 4. Novità introdotte dalla riforma Cartabia e limiti alla effettiva realizzazione di un sistema di pene in comunità. - 5. Esperienza del Tribunale di Roma.
Premessa
La Costituzione dedica l’art. 27 comma 3 alla funzione della pena affermando che essa deve “tendere alla rieducazione del condannato” e “non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. La norma, utilizzando il termine “condannato”, sembrava prendere in considerazione la fase esecutiva della pena[1].
Fin dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la Corte Costituzionale ha però chiarito che: “la necessità costituzionale che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (C. Cost., Sent. n. 313/1990).
Il principio di rieducazione e risocializzazione del reo, incentrato sul trattamento individualizzato, si affianca al diritto della società ad essere tutelata. Il percorso non può che essere progressivo e il risultato non può essere realizzato senza il concorso della società tutta, cui l’art. 27 è rivolto.
L’apporto di enti e istituzioni del territorio nel percorso di reinserimento è previsto dall’ordinamento penitenziario (art. 1 comma 6) e, in applicazione del principio di sussidiarietà sancito all’art. 18 della Costituzione, le norme del Regolamento n. 230/2000 si fondano sulla collaborazione della comunità sociale.
Di questo apporto la Magistratura di Sorveglianza fa applicazione quotidiana dal 1975 con la interazione degli Uffici di Esecuzione Penale esterna e la partecipazione attiva di enti e associazioni alla vita del carcere e, anche se in misura molto minore, nei percorsi di affidamento in prova e di detenzione domiciliare.
Molte volte non vi è ragione per riservare questa sinergia ad una fase successiva all’esecuzione della sentenza, che può essere tardiva.
Attuare strategie preventive di protezione sociale (negli ambiti dell’assistenza sociale e della tutela della salute) è fondamentale per arginare la recidiva perché la libertà dal bisogno non è solo un’esigenza personale ma è anche il presupposto necessario per un valido inserimento dell’individuo nella collettività. Attraverso la tutela del singolo si tende a realizzare un obiettivo di carattere collettivo.
Le possibilità di riuscita dipendono però dall’impegno finanziario e organizzativo investito nella creazione e nel funzionamento di strutture e servizi indispensabili e dal coinvolgimento delle comunità locali (scuola, imprese …).
Nel nostro Paese l’introduzione di benefici premiali e misure alternative alla detenzione è stata sempre motivata dalla necessità di sfollamento delle strutture penitenziarie ed è mancato un vero investimento nell’inclusione sociale, unione di principi teorici e misure concrete.
Il giudice della cognizione si interroga ogni giorno su cosa sia a lui demandato nella difficile sfida di “tendere” a reintegrare nella società le persone che entrano nel circuito penale, cerca di comprendere perché una vita deraglia e si chiede come offrire la possibilità di rivisitare le proprie scelte e farne di diverse.
Da questi interrogativi e dal timore che la più attenta e defatigante attività processuale possa risultare quasi vana, è nato il proposito di valorizzare gli strumenti che prevedono percorsi di responsabilizzazione nell’ambito della comunità.
Questi strumenti, nonostante Raccomandazioni e Risoluzioni adottate da organismi internazionali li indicassero già da tempo e l’Italia fosse stata già sanzionata con la sentenza Sulejmanovic c. Italia in data 16.7.2009 per la situazione di sovraffollamento grave[2], sono stati introdotti dal legislatore in adempimento dell’obbligo imposto dalla Corte EDU, con la sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Italia in data 4.12.2012, di introdurre nell’ordinamento italiano “un insieme appropriato di sanzioni o misure applicate nella comunità, graduate in termini di gravità”.
Il percorso ha portato il Tribunale di Roma a sottoscrivere prima l’Accordo di collaborazione in data 4 marzo 2020 e poi l’Accordo di Rete in data 5 maggio 2022 con i quali le istituzioni del territorio si impegnano ad assicurare continuità assistenziale e una più efficace e tempestiva presa in carico dei soggetti vulnerabili entrati nel circuito penale, al fine di arginare il rischio di recidiva, impegnandosi anche a curare la informazione e la formazione e ad accendere un riflettore sull’importanza delle risorse.
Questo modello, realizzato ben prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150[3], rappresenta anche un valido supporto a disposizione del giudice nell’affrontare le ricadute della riforma sull’attività giurisdizionale.
1. Principi sovranazionali in materia di giustizia riparativa
Le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, la cui elaborazione è curata da esperti nazionali e da esperti direttamente scelti dal Consiglio d’Europa, costituiscono una sorta di consolidamento degli standard più diffusi fra i 47 Stati membri. Ciò che viene raccomandato è condiviso come modello di riferimento cui conformare progressivamente gli ordinamenti statuali e costituisce un riferimento per la Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Circolarmente nella stesura delle Raccomandazioni si tengono in considerazione le massime consolidate della Corte EDU.
Quanto ai programmi di giustizia riparativa, basati sull’incontro, guidato da un mediatore, tra autore e vittima volto al superamento del conflitto e al raggiungimento di un accordo di riparazione, la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa n. R(85)11 concernente la “Posizione delle vittime nell'ambito del diritto penale e della procedura penale” raccomanda agli Stati di prevedere a livello legislativo ed operativo una serie di misure a tutela delle vittime, in tutte le fasi del procedimento e in particolare raccomanda di prendere atto dei vantaggi che possono presentare i sistemi di mediazione e di conciliazione e anche la Raccomandazione R(87)21 concernente “L’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione” incoraggia le esperienze di mediazione tra il reo e vittima con particolare attenzione agli interessi delle vittime.
Il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione n. (99)19, ha poi definito la mediazione in ambito penale come un “procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo indipendente” specificando che “ogni procedimento riparativo deve essere posto in atto soltanto con il libero e volontario consenso delle parti, consenso che le parti possono ritirare in ogni momento”.
Anche la Raccomandazione R(2010)1 concernente le Regole del Consiglio d’Europa in materia di Probation nella parte VI fa riferimento sia all’assistenza alle vittime che a prassi di giustizia riparativa.
La Risoluzione dell’Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 1998/23 sulla "Cooperazione internazionale tesa alla riduzione del sovraffollamento delle prigioni ed alla promozione di pene alternative" raccomanda agli Stati membri di ricorrere allo sviluppo di forme di pena non custodiali e - se possibile - a soluzioni amichevoli dei conflitti di minore gravità, attraverso l’uso della mediazione, l’accettazione di forme di riparazione civilistiche o accordi di reintegrazione economica in favore della vittima con parte del reddito del reo o compensazione con lavori espletati dal reo in favore della vittima stessa, la Risoluzione sullo “Sviluppo ed attuazione di interventi di mediazione e giustizia riparativa nell'ambito della giustizia penale” (Economic and social Council delle Nazioni Unite n. 1999/26) riafferma come la risoluzione di piccole dispute e reati può essere ricercata ricorrendo alla mediazione ed altre forme di giustizia riparativa, e la Risoluzione sui “Principi base circa l’applicazione di programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale” (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 15/2002) nel prendere atto del lavoro svolto dal Gruppo di esperti sulla giustizia riparativa, incoraggia gli Stati membri a sviluppare programmi in tal senso e a supportarsi a vicenda per avviare ricerche, valutazioni, scambi di esperienze.
La necessità di promuovere l’adozione di strumenti riparativi è stata affermata dalle Nazioni Unite anche con la Dichiarazione di Vienna, adottata a conclusione dei lavori del Decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Rei, svoltosi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000 che all’art. 28 recita "Incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparatrice, di procedure e di programmi rispettosi dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti".
La Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI del 15 marzo 2001) adottata nell’ambito del cosiddetto Terzo Pilastro dell’Unione europea, sulla scorta delle determinazioni assunte nel vertice di Tampère (15-16 ottobre 1999), chiarisce che la mediazione nelle cause penali è la ricerca – prima o durante lo svolgimento del procedimento penale – di una soluzione negoziata tra la vittima e l’autore del reato con la mediazione di una persona competente. Gli Stati si impegnano a realizzare servizi specializzati che rispondano ai bisogni della vittima in ogni fase del procedimento, adoperandosi affinché la stessa non abbia a subire pregiudizi ulteriori e inutili pressioni e si impegnano ad assicurare l’adeguata formazione professionale degli operatori. Gli Stati sono vincolati ad introdurre le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ai fini dell’attuazione della decisione quadro, entro scadenze vincolanti e precisamente: entro il 22 marzo 2002 la predisposizione delle necessarie disposizioni attuative, di ordine legislativo, regolamentare e amministrativo; entro il 22 marzo 2004 la definizione delle garanzie in materia di comunicazione e di assistenza specifica alla vittima; entro il 22 marzo 2006 la implementazione della mediazione nell’ambito dei procedimenti penali e l’indicazione dei reati ritenuti idonei per questo tipo di misure, nonché la garanzia che eventuali accordi raggiunti tra la vittima e l’autore del reato nel corso della mediazione vengano presi in considerazione nell’ambito dei procedimenti penali.
La Direttiva del Parlamento europeo 2012/29/UE, approvata dal Consiglio dell’Unione europea il 25 ottobre 2012, sostituendo la Decisione Quadro 2001/220/GAI impone agli Stati membri, entro il 16 novembre 2015, di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa, apprestando garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta e l’intimidazione. In particolare all’art. 12 riconosce diritti e garanzie nel contesto dei servizi di giustizia riparativa definendo quest'ultima come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale” alla quale ricorrere soltanto nell’interesse della vittima.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria approfondì il tema già nell’ambito della Commissione di studio "Mediazione penale e giustizia riparativa" istituita presso il Dap nel 2005 che concluse i suoi lavori adottando le “Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti di modelli di giustizia ripartiva che risultino conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa” istituendo il 21.1.2009 l’Osservatorio nazionale permanente presso la Direzione generale dell’Esecuzione Penale Esterna del Dap, per il coordinamento e il monitoraggio delle esperienze in ambito riparativo. Successivamente le Linee di indirizzo emanate il 17.5.2019 dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità definite dallo stesso Capo Dipartimento “un primo sforzo per definire le peculiarità e ordinare aggiornare e integrare le migliori esperienze maturate in materia nel settore degli adulti e in quello minorile”.
La richiesta di introduzioni di strumenti normativi nazionali rimase però inevasa e irrisolto rimase, oltre al problema delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa, quello della formazione dei mediatori, dell’istituzione di un albo dei mediatori e dei requisiti indispensabili per il loro accreditamento.
Soltanto la riforma Cartabia ha introdotto una disciplina organica della giustizia riparativa (cfr. Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150) prevedendo l’invio ai Centri di giustizia riparativa (art. 129-bis c.p.p.) in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, qualora sia “utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”.
È previsto in particolare lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa nell’ambito della Map (art. 464-bis comma 4 lett c c.p.p) e la remissione tacita della querela (art. 152 comma 2 c.p.) e la concessione della pena sospesa (art. 163 comma 4 c.p.) nei casi in cui il querelante ha partecipato al programma di giustizia riparativa con esito riparatorio.
La riparazione nel corso del procedimento penale, come accade in altri Paesi europei, è divenuta quindi completamento del percorso rieducativo.
2.Principi sovranazionali in materia di Probation e sanzioni di comunità
Fin dall’inizio degli anni ’90 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R(1992)16, “constatato il considerevole sviluppo all'interno degli Stati membri dei ricorso alle sanzioni e misure penati la cui esecuzione ha luogo nella comunità” e “considerato che tali sanzioni e misure costituiscono mezzi importanti di lotta alla criminalità e che le stesse evitano gli effetti negativi della carcerazione” raccomandava ai Governi degli Stati membri di ispirarsi alle Regole europee sulle sanzioni e misure alternative alla detenzione, la cui applicazione “deve mirare alla conservazione di un equilibrio necessario e auspicabile tra, da una parte, le esigenze di difesa della società, nel suo duplice aspetto di protezione dell'ordine pubblico e di applicazione di norme che tendano a riparare il danno causato alla vittima, e dall'altra, il tenere in debito conto le necessità del reo in termini di reinserimento sociale”.
L’ambizioso impianto della Raccomandazione risente molto della visione italiana anche perché alla sua elaborazione prese parte in modo fondamentale il direttore dell’epoca dell’Ufficio Studi del Dap, Luigi Daga.
Alla Raccomandazione sono allegate le Regole, il Glossario, e il Memorandum esplicativo, approvati congiuntamente.
La Raccomandazione R(1992)16 offre la definizione delle “sanzioni o misure che mantengono il reo nella comunità e comportano alcune restrizioni della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e obblighi, che sono messe in opera da organi indicati a tal fine dalla legge” specificando che le sanzioni pecuniarie non ricadono in questa definizione.
La definizione ricomprende una molteplicità di ipotesi e la Raccomandazione si occupa anche delle misure applicate prima della condanna. La loro applicazione deve essere basata sulla gestione di programmi personalizzati e lo sviluppo di un’appropriata relazione professionale fra il reo, il supervisore e le organizzazioni interne alla comunità (Regola 70).
Con l’espressione supervisione si intende sia l’attività di aiuto che mira a mantenere il reo nella comunità, sia l’azione che assicura il rispetto degli obblighi imposti al reo.
È poi seguita la Raccomandazione R(2000)22 sul Miglioramento delle Sanzioni e Misure di comunità e, nel 2010, la Raccomandazione R(2010)1 Regole del Consiglio d’Europa in materia di Probation che detta i principi sui quali deve essere improntato il lavoro degli Uffici di Probation. Essi “hanno lo scopo di ridurre la recidiva instaurando rapporti positivi con gli autori di reato, al fine di assicurare la loro presa in carico (anche con un controllo, se necessario), la loro guida e la loro assistenza per favorire la riuscita del loro reinserimento sociale. Il Probation in questo modo contribuisce alla sicurezza collettiva ed alla buona amministrazione della giustizia” (Regola n.1).
È descritto il rapporto con i servizi territoriali: “I servizi di Probation incoraggiano e facilitano i servizi sociali ad assumere le loro responsabilità per quanto riguarda l’assistenza da offrire agli autori di reato in quanto membri della società” (Regola 38) e con la magistratura “I servizi di Probation comunicano regolarmente con le autorità giudiziarie per determinare le situazioni in cui questo tipo di collaborazione può essere utile” (Regola 42) e tra le modalità di interazione si menziona la conclusione di Accordi (Regola 40).
Sono molto chiare le indicazioni riguardo la necessità di assicurare risorse adeguate:
“La struttura, lo status e le risorse dei servizi di Probation devono corrispondere al volume dei compiti e delle responsabilità che ad essi sono affidati e devono riflettere l’importanza del servizio pubblico che assicurano” (Regola 18)
“Gli operatori dei servizi di Probation devono essere in numero sufficiente per poter svolgere efficientemente la loro missione. Il numero di casi che ogni operatore deve trattare deve permettergli di sorvegliare, guidare e assistere efficacemente gli autori di reato in maniera umana e, se opportuno, di lavorare con le loro famiglie e, eventualmente, con le vittime. Se la domanda è eccessiva, è responsabilità della direzione cercare soluzioni ed indicare al personale i compiti prioritari” (Regola n. 29).
Tra i principi generali (Regola 16) vi è quello di incoraggiare la ricerca scientifica, i cui risultati devono orientare le politiche e le prassi in materia di Probation.
La Raccomandazione si occupa anche dell’importanza di un orientamento culturale:
“Le autorità competenti ed i servizi di Probation informano i media ed il grande pubblico in merito all’azione dei servizi di Probation, al fine di far meglio comprendere il loro ruolo ed il loro valore per la società” (Regola 17)
“I servizi di Probation devono agire in maniera tale da guadagnare la credibilità degli altri organi di giustizia e della società civile per lo status ed il lavoro svolto dal loro personale. Le autorità competenti si sforzano di agevolare il raggiungimento di tale scopo, fornendo risorse adeguate, facendo in modo che il personale sia selezionato e assunto in maniera mirata, correttamente remunerato e posto sotto l’autorità di una direzione competente” (Regola n. 21).
È previsto che l’imputato partecipi in modo attivo “I presunti autori di reato devono avere la possibilità di partecipare alla redazione del rapporto, nel quale si deve riflettere il loro parere; il contenuto del rapporto deve essere comunicato loro personalmente o per il tramite del loro avvocato” (Regola 44) e particolare rilievo è dato all’attività di Probation nei confronti degli autori di reato di nazionalità straniera.
La parte V è dedicata al processo di supervisione e le successive sezioni sono dedicate al lavoro con le vittime, alle prassi di giustizia riparativa e alle procedure di presentazione di reclami, ispezioni e controlli.
L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha poi adottato la Risoluzione 1938(2013), secondo la quale le sanzioni applicate in comunità dovrebbero rappresentare la pena di prima scelta, salvi i casi di reati gravi.
In accordo con questi principi gli altri Paesi Europei dedicano da tempo grande attenzione alle community sanctions, ovvero alle pene o misure che non sono eseguite con la segregazione intramuraria, considerata residuale e riservata agli autori di reato pericolosi (dangerous offenders)[4] e l’introduzione di dispositivi di controllo elettronico ha incentivato la previsione di misure in comunità anche per autori di reato ad alto rischio.
La legge sul Probation nasce nel Regno Unito nel 1907 sulla base di un modulo processuale che permette di separare l’accertamento della responsabilità dalla condanna. L’Inghilterra, il Galles, l’Irlanda, la Scozia e i Paesi Scandinavi prevedono già in fase di giudizio la supervisione per garantire la presenza al processo e per evitare la commissione di ulteriori reati, l’assegnazione di un Probation officer all’imputato come funzionario di contatto, l’assegnazione in un alloggio comune alle persone prive di fissa dimora e l’inizio di un trattamento terapeutico per tossicodipendenti ed alcolisti. La supervisione nella messa in prova permette al reo di evitare la sanzione penale e il giudice ha a disposizione una serie di pene da eseguire nella comunità mentre le pene detentive comminate per i reati ritenuti più gravi possono essere comunque sospese eccetto alcuni di essi per cui la pena deve essere obbligatoriamente scontata, almeno in parte, in carcere.
Previsioni analoghe anche in Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Irlanda, Svezia e Macedonia.
In Irlanda pochi reati sono esclusi dall’applicazione della Legge sul Probation e il giudice ha a disposizione una vasta gamma di sanzioni in comunità.
In Danimarca alternative al carcere sono previste in tutti i casi e per tutti i reati per i quali il giudice ritenga non necessaria la detenzione in carcere.
In Francia la pena fino a cinque anni è sospesa e il giudice dispone programmi e misure alternative.
In Catalogna tutte le sentenze di condanna a pena detentiva possono essere sospese o sostituite con misure in comunità, senza distinzione in termini di gravità del reato, anche se la maggior parte dei soggetti in Probation rispondono di condanne fino a cinque anni. Per i cd reati stradali e i reati minori collegati alla violenza di genere o familiare è previsto che il giudice irroghi direttamente una sanzione o misura nella comunità.
L’interesse al confronto fra esperienze europee nel settore è coltivato istituzionalmente dalla Confederation of European Probation (CEP)[5], un’associazione internazionale di cui fa parte anche l’Italia che collabora con le istituzioni europee per promuovere l’inclusione sociale degli autori di reato mediante le sanzioni penali in comunità. Per influenza della CEP molti Paesi hanno avviato progetti di riforma anche normativa in tema di Probation e nel corso della riunione del Board tenutasi a Roma nell’ottobre 2014 è stata assicurata anche all’Italia la cooperazione per una riforma secondo i più avanzati modelli europei.
Anche se i vari Stati hanno dedicato all’applicazione delle community sanctions modelli organizzativi non omologabili[6], da tempo in molti Paesi europei il giudice ha la possibilità di scegliere la sanzione ritenuta più efficace ed adeguata al caso concreto demandando ad enti appositi la redazione di una dettagliata relazione sulle condizioni di vita dell’imputato e la successiva supervisione.
Il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 15 dicembre 2011 sulle condizioni detentive nell’UE (2011/2897(RSP) ha ribadito “l’esigenza che gli Stati membri onorino gli impegni, assunti nelle sedi internazionali ed europee, di far maggior ricorso a misure e sanzioni che offrano un’alternativa alla incarcerazione” e ha invitato “la Commissione ad esaminare l’impatto delle disparità in materia di diritto penale e diritto procedurale sulle condizioni detentive negli Stati membri UE e ad avanzare raccomandazioni al riguardo, soprattutto in materia di ricorso a misure alternative” (punto 16)
La Decisione Quadro 2008/947GAI del Consiglio dell’Unione europea del 27 novembre 2008 sul reciproco riconoscimento delle decisioni di Probation prevede, per i cittadini europei condannati in uno stato europeo, la possibilità di beneficiare di alternative alla detenzione nel proprio Paese di origine, ove deve essere imposta la sorveglianza sulle misure adottate, al fine di favorire il reinserimento del condannato attraverso i legami familiari, linguistici, culturali e di lavoro. La decisione quadro, preso atto di una maggiore mobilità dei cittadini europei, si fonda sulla necessità che essi, se perseguiti per reati minori, possano beneficiare di sanzioni o misure alternative alla detenzione nel proprio Paese, attraverso lo strumento del riconoscimento reciproco delle decisioni di un giudice europeo.
3.Legislazione interna e prospettiva carcerocentrica prima della riforma Cartabia
Con decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38 l’Italia in attuazione della legge n. 114 del 2015 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea” , ha recepito la Decisione Quadro 2008/947GAI ben oltre il termine fissato al 6 dicembre 2011, precisando che dall’attuazione della decisione quadro non sarebbero dovuti derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni interessate avrebbero dovuto provvedere con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.In adesione al monito contenuto nella sentenza Torreggiani c. Italia sono stati adottati anche numerosi altri provvedimenti legislativi tra i quali l’ampliamento dell’operatività del meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione delle condanne a pena detentiva di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p.[7]; le disposizioni in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[8]; la modifica dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p. in materia di custodia cautelare[9]; le disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto[10]; la modifica dei presupposti per l'applicazione della misura cautelare e del relativo procedimento di impugnazione[11]; l’ampliamento dei casi di accesso alla misura dell’affidamento terapeutico per i detenuti tossicodipendenti[12], l’ampliamento della misura dell’affidamento in prova (il residuo pena che ne consente l’accesso è stato portato da tre a quattro anni) e la misura della detenzione domiciliare anche se quest’ultima non può certo definirsi misura di comunità non essendo previsto alcun intervento di natura trattamentale.
Va segnalata anche l’introduzione della sostituzione della pena detentiva con quella del lavoro di pubblica utilità per i reati commessi da tossicodipendenti[13]; l’estinzione del reato per condotte riparatorie[14] che rimanda a modalità alternative di definizione dei procedimenti penali secondo i canoni della cd “giustizia ripartiva” e la sospensione condizionale della pena subordinata a prestazioni di attività non retribuita[15] o a specifici percorsi di recupero per i condannati per delitti di violenza domestica o di genere[16].
Con il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 "Disposizioni in materia di abrogazioni di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili” esercitando la delega di cui all’art. 2, comma 3, l. 28 aprile 2014, n. 67 alcune norme incriminatrici (artt. 485, 486, 594, 627, 647, 635 comma 1 c.p.) sono state qualificate come illeciti civili sottoposti a sanzione pecuniaria.
Quanto alla organizzazione ministeriale, il Regolamento del Ministero della giustizia, approvato dal Consiglio del Ministri il 18 maggio 2015 ha soppresso la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e attribuito le relative funzioni ad una Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova presso il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità.
Il DPCM 84/2015 ha dato vita al nuovo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità in una “nuova prospettiva che implica senz’altro un’evoluzione del sistema della misure alternative alla detenzione nel senso del loro ampliamento e rafforzamento” dando atto che la modifica strutturale si indirizza “lungo la direttrice tracciata dalle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa in favore delle sanzioni di comunità”[17].
Nel progetto l’unificazione sul piano organizzativo del sistema minorile con quello dell’esecuzione penale esterna avrebbe dovuto facilitare l’integrazione di due contesti operativi che si fondano entrambi sull’azione coordinata di enti e associazioni sul territorio quale presupposto per il rientro dell’autore di reato nella legalità nel contesto di appartenenza.
In quest’ottica la riorganizzazione del Ministero ha assegnato alla Direzione generale della formazione presso il DAP, in raccordo con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, tutte le attività di formazione, affinchè sia assicurato un percorso formativo comune per le aree del trattamento inframurario, dell’esecuzione penale esterna e di messa alla prova.
La legge 28 aprile 2014, n. 67 Delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, ha poi introdotto l’art. 168-bis c.p. estendendo agli adulti, dopo circa trent’anni, l’istituto della messa alla prova del processo minorile (art. 28 del codice di procedura penale minorile disciplinato dal dpr 22 settembre 1988, n. 448) definito a suo tempo dalla Corte costituzionale “l’innovazione più significativa e coraggiosa”.
La norma del codice del processo minorile rappresentò una novità assoluta nel panorama giuridico minorile internazionale e venne riconosciuto come uno dei migliori progetti non solo in campo europeo. Prevede una forma di Probation processuale che consente di raggiungere la più veloce fuoriuscita del minore autore di reato dal processo penale e il suo reinserimento sociale attraverso un percorso che, dopo un accurato esame della sua personalità, con la sospensione del processo, prevede una serie di attività ritagliate su misura per i suoi bisogni educativi. Un percorso evolutivo e responsabilizzante sganciato da qualsiasi intento punitivo, il cui esito positivo comporta la cancellazione degli effetti penali del reato. Caratterizzato da una forte valenza educativa e da un profondo lavoro di conoscenza del minore e della sua condizione personale e familiare l’istituto favorisce da un lato un percorso di presa di consapevolezza da parte del ragazzo della propria condotta, e dall’altro dà valore alla vittima.
Anche per gli adulti la messa alla prova comporta l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare attività di rilievo sociale, l’osservanza di prescrizioni relative sia ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, sia alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali, la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato o comunque, ove possibile, il risarcimento del danno cagionato. La concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che consiste in una prestazione non retribuita (affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato), da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti e organizzazioni, anche internazionali di assistenza sociale e sanitaria.
Una delle principali differenze tra i due istituti, richiamate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 68 del 29 marzo 2019, è rappresentata dal fatto che per i minori il fallimento della prova non pregiudica la possibilità di adire nuovamente l’istituto anche in fasi successive del processo in presenza di una riscontrata, ancorché tardiva, maturazione dell’imputato, mentre per gli adulti vi è il divieto di accedere più di una volta al percorso e in caso di esito negativo della messa alla prova il processo riprende con eventuale condanna.
Il Legislatore del 2014, pur prevedendo nella fase di esecuzione (art. 47 comma 3-bis ord. pen.) di affidare in prova al servizio sociale chi deve espiare una pena detentiva fino a quattro anni, nel disciplinare la sospensione del processo con Messa alla Prova ne aveva limitato l’applicazione ai reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni e ai delitti indicati al previgente comma 2 dell’art. 550 c.p.p., escludendo così la possibilità di accedere al percorso in molti casi in cui la pena irrogata in concreto dal giudice sarebbe anche di molto inferiore ai quattro anni. Occorre infatti tenere conto che il riferimento alla pena edittale ricomprende reati per i quali più̀ spesso matura la prescrizione o comunque, in caso di condanna, la pena può essere sospesa senza prescrizioni o sostituita con una misura alternativa alla detenzione e questo può indurre l’imputato a non scegliere un percorso impegnativo quale quello della messa alla prova.
L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova ha dato buona prova e gli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna, pur in mancanza di mezzi e personale, hanno saputo rimodellare la propria professionalità rispetto al passato, come richiesto dalla interlocuzione con soggetti nuovi (imputati e magistratura di cognizione.
Le limitate possibilità di accedere al percorso e le scarse risorse investite[18] hanno però fatto sì che questo strumento non abbia avuto l’effetto deflattivo sperato, neppure considerato insieme agli altri strumenti messi in campo e in particolare l’assoluzione per tenuità del fatto.
Anche se le richieste sono in crescita e l’efficacia del lavoro svolto dagli UIEPE è testimoniato dalla diminuzione dei ricorsi, i numeri sono ancora assolutamente irrisori se paragonati alla mole degli affari minori che ingolfano le Procure (cd. affari semplici) e l’effetto deflattivo sui carichi dibattimentali monocratici è ancora modesto nonostante un impiego di energie forse sovradimensionato.
In sostanza la Messa alla Prova fino ad oggi ha avuto una applicazione residuale, non incidente sulla proporzione tra pene detentive e pene in comunità.
Come risulta da un’analisi avviata ad un anno dall’entrata in vigore dell’istituto, il 7 settembre 2015 su un totale di circa 30.140 detenuti definitivi puri, che non avevano cioè altri procedimenti non ancora definiti, quelli condannati per reati puniti con pena edittale pari o inferiore ai quattro anni, potenziali destinatari della misura, erano pari a 998.
La legge 28 aprile 2014, n. 67 conferiva anche una delega in materia di pene detentive non carcerarie[19]. La predetta delega è stata però esercitata soltanto in materia di declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto[20].
Con ordine del giorno 9/2803-A/168 il Governo, con parere favorevole espresso dalla Camera dei Deputati il 20 febbraio 2015, si era impegnato a valutare l’opportunità, anche con interventi di carattere emendativo o normativo, di prorogare il termine entro cui esercitare la delega per l’introduzione di pene edittali diverse da quelle detentive e la nota del Ministro della giustizia in data 21 maggio 2015, relativa all’attuazione del predetto ordine del giorno, era stata trasmessa alla Commissione giustizia della Camera dei Deputati.
La delega sul punto è però rimasta inattuata.
In quegli anni si è quindi rinunciato a costruire vere e proprie alternative sanzionatorie, pure avendo lavorato su queste ipotesi già diverse Commissioni ministeriali.
In particolare la Commissione presieduta da Giuliano Pisapia istituita nel 2006, aveva preso atto che “la previsione sistematica della pena edittale carceraria si è rilevata per molti versi ineffettiva e inefficace, anche in presenza di condotte particolarmente gravi”, che “le pene non detentive consentono di valorizzare l’esigenza che siano annullati i vantaggi derivanti dal reato” e che “l’introduzione di pene non detentive costituisce una modalità attuativa sostanziale dell’orientamento previsto dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, per cui le pene sono chiamate a favorire l’integrazione sociale del condannato e non a realizzare la sua espulsione dal contesto della società”, e aveva disegnato un sistema sanzionatorio fondato su un’ampia gamma di pene non detentive, tra cui pene pecuniarie, pene interdittive e pene prescrittive definite “importante strumento per delineare percorsi comportamentali conformi alle esigenze di salvaguardia dei beni fondamentali e per favorire condotte riparative o conciliative (anche attraverso il lavoro in favore della comunità, la messa alla prova o procedure di mediazione)”, inibendo il ricorso alla sospensione condizionale della pena nella sua forma “semplice” al fine di correggere i difetti di un sistema esecutivo definito surrettiziamente clemenziale.
4.Novità introdotte dalla riforma Cartabia e limiti alla effettiva realizzazione di un sistema di pene in comunità
La riforma Cartabia, oltre a riscrivere varie norme processuali e penali, per quello che qui interessa, ha esteso l’applicazione dell’istituto della Messa alla Prova, prevista ora per tutte le fattispecie di cui al riformato art. 550 comma 2 c.p.p. e quindi anche per reati con tetto di pena a sei anni, anche su proposta dal pubblico ministero (art. 464-ter c.p.p.; 168-bis c.p.), con innesto in caso di giudizio immediato (art. 456 c.p.p.), di rigetto/inammissibilità del giudizio abbreviato da immediato (art. 458 c.p.p.) e di mancato accoglimento del patteggiamento (art. 458-bis c.p.p.).
Ha inoltre coraggiosamente introdotto, per la prima volta, un sistema di sanzioni penali diverse dalla detenzione commisurate alla pena in concreto irrogata dal giudice incidendo oltre che sulla punibilità anche sulla penalità.
In particolare il giudice potrà fare applicazione delle pene sostitutive (artt. 545-bis, 20-bis c.p. e 53 l. 689/198) all’esito dell’udienza di comparizione predibattimentale, su richiesta concorde dell’imputato e del PM, (art. 554-ter comma 2 c.p.p.) e in tutti i casi in cui applica un pena in concreto non superiore a quattro anni di reclusione senza sospensione condizionale (art. 545-bis c.p.p.).
Il Pubblico ministero può avvalersi dell’UIEPE e il giudice può altresì chiedere alla polizia giudiziaria e all’UIEPE informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato, l’elaborazione del programma di trattamento e la disponibilità di un Ente per lavori di pubblica utilità, e alle ASL la certificazione di disturbo da uso di sostanze e il programma terapeutico (artt. 464-ter, 545-bis c.p.p.), anche ai fini della scelta della misura più adatta (art. 58 c. 4 l.689/81).
L’estensione ad una più ampia casistica dell’istituto della Messa alla prova e l’introduzione delle pene sostitutive, strumenti senz’altro appropriati ai fini della risocializzazione dell’imputato e del contenimento della recidiva, non sono stati però correlati alla disciplina della sospensione condizionale della pena nella sua forma “semplice” con la quale lo Stato rinuncia a prendersi carico dell’imputato. Fintantoché l’interessato potrà beneficiare della sospensione condizionale rischia di rimanere residuale la scelta di un percorso più impegnativo.
Non si è neppure ritenuto di intervenire sul limite previsto al comma 4 dell’art. 168-bis c.p. per cui la messa alla prova non può essere concessa più di una volta. Sarebbe stato auspicabile rimettere questa valutazione al giudice prevedendo piuttosto che dopo il fallimento della prova, in caso di condanna, l’imputato non possa accedere alla sospensione condizionale della pena.
Soprattutto però la riforma, pur prevedendo l’estensione di interlocuzioni e interventi dell’UIEPE e di altre istituzioni territoriali, non è stata preceduta o affiancata dalla costruzione di un vero e proprio Servizio di Probation.
Ci si è infatti limitati a richiamare la norma introdotta con la legge istitutiva della Map[21], pur verificato che a tutt’oggi, dopo otto anni, gli Uffici EPE fanno i conti con enormi carenze di personale che già comportano una inaccettabile dilatazione dei tempi (la Map copre circa un terzo dell’area di attività) Né si è inteso intervenire sulle risorse destinate alle attività di prevenzione sociale destinate agli enti locali.
La mancanza di risorse e canali di interlocuzione e la discrezionalità applicativa del giudice che con tali carenze dovrà fare i conti, faranno sì che difficilmente questi strumenti potranno divenire percorsi di elezione in grado di abbattere la recidiva e costruire sicurezza sociale fuori dalle mura del carcere.
Affinché le sanzioni e misure in comunità possano rappresentare alternative credibili alle pene detentive di breve durata, devono essere potenziate la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna e di messa alla prova e gli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna.
È sufficiente considerare che a marzo 2022 il Probation Service inglese disponeva di uno staff di circa 18.000 operatori mentre attualmente la pianta organica dell’intero Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità prevede 1.701 unità di personale.
In proposito la Regola n.10 della menzionata Raccomandazione R(2000)22 sulle regole di Probation è molto chiara: “I servizi di probation beneficiano di uno status e di un riconoscimento adeguato alla loro missione e sono dotati di risorse sufficienti”.
Anche se va segnalato il recente stanziamento per rafforzare la dotazione organica degli UEPE (1.092 unità di personale amministrativo non dirigenziale con assunzioni previste a decorrere dal 2023)[22], occorre fare molto di più.
In particolare assicurare un lavoro di equipe multidisciplinari con l’apporto negli UEPE di diverse professionalità e in particolare di educatori, cui affidare distinte responsabilità, prevedere forme di collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna da parte dei soggetti pubblici e privati operanti nel contesto territoriale di riferimento dell’imputato (nel campo del volontariato, della formazione, del lavoro e del welfare), affidare a Regioni e enti locali, cui la legge n. 328 del 2000 affida un ruolo di programmazione, coordinamento ed attuazione delle politiche sociali, il compito di individuare le “modalità per realizzare il coordinamento con gli organi periferici delle amministrazioni statali, con particolare riferimento all’amministrazione penitenziaria e della giustizia”, come previsto dai Piani di Zona.
Al fine di rendere effettiva la presa in carico congiunta e integrata potrebbe essere utile stabilire per legge la quota parte del bilancio degli enti territoriali destinata alla predisposizione di questa rete di interventi.
Occorre cioè non solo valorizzare e divulgare esperienze e buone prassi, ma realizzare un quadro legislativo chiaro ed unitario che superi le divisioni esistenti delimitando i campi d’azione dei vari organismi coinvolti(autorità̀ giudiziaria, imputato, servizi ministeriali, servizi territoriali, scuola, forze dell’ordine, centri per l’impiego…), assicurando nuove forme di comunicazione.
5.Esperienza del Tribunale di Roma
Tra le buone prassi va senz’altro menzionato quanto realizzato al Tribunale di Roma.
Partendo dai pilastri su cui credo debba fondarsi il lavoro di un presidente di sezione penale (senso del lavoro del giudice e della pena, adozione di pratiche organizzative efficienti, qualità del servizio), nell’esercitare la delega conferitami dal Presidente del Tribunale mi sono impegnata per realizzare interventi precoci e efficaci in favore delle vittime e degli autori di reato potenziando l’accesso e l’avvio in tempi brevi del percorso di Messa alla prova e ogni altro percorso di responsabilizzazione nell’ambito della comunità a disposizione del giudice della cognizione, in sinergia con le altre istituzioni operanti sul territorio.
La strada è stata lunga e, alla sottoscrizione di un primo Accordo di collaborazione in data 4 marzo 2020, è seguito l’Accordo di Rete in data 4 maggio 2022 con il quale i firmatari hanno concordato specifiche linee di azioni congiunte impegnandosi a realizzare specifici modelli organizzativi stabili all’interno dei propri uffici che durino nel tempo.
Conseguentemente l’Accordo di Rete tra Tribunale, Procura della Repubblica, Avvocatura, Regione Lazio, Comune di Roma, Ufficio di Esecuzione penale esterna, Garante regionale per i diritti dei detenuti e Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Sapienza, non ha efficacia per un periodo di tempo limitato.
Quanto alla messa alla prova è stato aggiornato il Protocollo operativo adottato fin dal dicembre 2014, prevedendo che i programmi siano integrati, laddove necessario, con percorsi di cura e assistenza con il coinvolgimento di ASL e servizi sociali del Comune di Roma. La somministrazione di una scheda di screening consente da un lato di intercettare nuovi bisogni, dall’altro di assicurare continuità assistenziale per coloro che sono già in carico. Molte delle richieste hanno infatti ad oggetto soggetti affetti da patologie psichiatriche o dipendenze e la collaborazione con gli operatori delle realtà territoriali nella valutazione della domanda e nella predisposizione di un programma, integrato con un piano terapeutico, garantisce una fruizione precoce del beneficio della cura e la presa in carico fin dal momento dell’impatto con la realtà penale.
Sono inoltre recepite le “Linee di indirizzo per la sperimentazione dei Protocolli tecnici d’indagine per l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova” redatte dal Direttore generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova e diramate il 30.8.2019 che, coniugano l’esiguità del personale alla qualità del servizio. Per la maggior parte dei soggetti interessati, autori “primari” di reato imputati di fatti i lieve entità, sono valorizzati i percorsi risarcitorio-riparativi. Nuovi modelli di indagine, con l’apporto professionale di psicologi ed educatori, sono riservati alle situazioni effettivamente più complesse in relazione alla prospettazione delle condizioni di rischio di recidiva e di bisogno dell’imputato.
Si è resa più fluida l’interazione tra gli uffici con la realizzazione di una piattaforma informatica tramite la quale è possibile inviare la domanda, prenotare il colloquio e ottenere automaticamente il rilascio dell’attestazione e sono state ampliate le funzioni dello Sportello istituito all’interno del Tribunale presso il quale gli interessati possono reperire informazioni e svolgere anche il colloquio prodromico alla redazione del programma.
È stata quindi ampliata la platea degli Enti Convenzionati in modo da rispondere alla esigenza di diversificazione delle attività di pubblica utilità e al un numero crescente di richieste. Dopo Torino e Venezia, attualmente il Tribunale di Roma è quello che ha stipulato il numero totale di convenzioni più alto e recentemente il Comune ha rinnovato la convenzione per 500 posti e la Regione ha sottoscritto una convenzione per 20 posti ogni anno.
Il Protocollo è divenuto uno strumento dinamico che i firmatari dell’Accorso di Rete, componenti dell’Osservatorio permanente istituito presso la Presidenza del Tribunale, possono concordemente modificare in relazione alle mutate esigenze.
Nell’Accordo di rete sono previsti però anche altri interventi.
È previsto in particolare che in occasione della presentazione per la convalida e il giudizio direttissimo, in caso di adesione degli interessati e previo contatto degli stessi con il loro difensore, siano raccolte informazioni (disponibilità di una dimora, anche temporanea, eventuale necessità di cura, intenzione di proseguire o avviare un percorso di sostegno e riabilitazione sociale o terapeutico) per consentire al giudice di adottare le misure più adeguate. La Regione Lazio, nell’ambito della programmazione avviata con il finanziamento della Cassa delle Ammende, si è impegnata anche ad individuare soluzioni abitative per i soggetti che ne sono privi, accompagnate da più ampi progetti di housing sociale comprensivi di programmi trattamentali e di inclusione.
Sono previsti inoltre interventi in favore delle vittime di reato e percorsi di giustizia riparativa.
Quanto alla individuazione di professionisti in possesso di specifica preparazione ed esperienza in tema di Restorative Justice sono valorizzate le azioni già intraprese dalla Regione Lazio per la ricognizione e la mappatura dei servizi realizzati nell’ambito dell’assistenza generale alle vittime di reato, della mediazione penale e delle altre prassi riparative, le buone prassi esistenti e la costruzione di un modello operativo condiviso funzionale a promuovere la omogeneità di intervento su tutto il territorio regionale.
Obiettivo dell’Accordo è anche quello di individuare un modello di intervento integrato, efficace e tempestivo per i soggetti accusati di violenza nelle relazioni affettive, al fine di contenere la recidiva e contribuire alla protezione della vittima del reato. Un intervento appropriato e precoce, ancor prima della definizione del procedimento, rappresenta la prima forma di tutela della persona offesa. Fondamentale è l’apporto della ASL perché il percorso, con il coinvolgimento anche delle associazioni private, deve fondarsi su trattamenti cognitivo-comportamentali che tengano conto in modo integrato di tre componenti egualmente essenziali: quella criminologica, quella psicoeducativa e quella clinica. Non ogni programma é idoneo ad arginare la violenza e per acquisire consapevolezza e evitare che le condotte si ripetano in futuro è fondamentale anche la tempestività e la motivazione che spinge a intraprendere il percorso. Avvocatura, Polizia e Procura destinatari delle prime informazioni, con una rete di informazioni che coinvolga anche strutture sanitarie e scuole, potranno sollecitare un intervento precoce.
Il Tribunale di Roma, tramite la piattaforma Jobsoul dell’Università La Sapienza di Roma, ospita infine le candidature per lo svolgimento di tirocini curriculari degli studenti iscritti a percorsi di studio conferenti, le cui attività sono svolte nell’ambito dello Sportello.
Per dare concretezza a tutto ciò è stato realizzato:
- uno Sportello, prezioso strumento organizzativo che segue la logica di prossimità al cittadino, al fine di facilitare l’accesso alle misure di comunità, ove avvocati, funzionari EPE e tirocinanti universitari oltre a svolgere un servizio di consulenza e di orientamento (anche per gli Enti che intendono stipulare le convenzioni) consentono la presentazione delle richieste e lo svolgimento dei colloqui propedeutici per la Map e il flusso di informazioni utili per il giudice della convalida;
- una piattaforma web (denominata “Messa alla Prova e giustizia di comunità” sul sito internet del Tribunale) ove mediante invio di apposito form è possibile presentare la domanda e prenotare il colloquio per la Map, consultare in tempo reale l’elenco degli Enti con le opportunità di lavoro di pubblica utilità e acquisire informazioni ulteriori. L’utilizzo della piattaforma consente un recupero di tempo per gli Uffici EPE il cui personale può essere più utilmente impiegato in attività a valenza trattamentale. La piattaforma consentirà anche lo scambio di informazioni e programmi tra autorità giudiziaria e UIEPE;
- un Osservatorio permanente per la giustizia di comunità, di cui fanno parte Avvocatura, Procura, UIEPE e rappresentanti di tutte le istituzioni coinvolte dove si garantisce il monitoraggio, si analizza ogni questione e si pianificano le iniziative necessarie;
- un Protocollo operativo il cui contenuto è concordato tra i componenti dell’Osservatorio e adattato in modo dinamico al mutare delle esigenze realtà.
Quanto è stato fatto fin qui ci rende consapevoli delle difficoltà che incontreremo nel dare attuazione a questa parte della riforma Cartabia, ma la realizzazione delle Rete e gli strumenti predisposti consentiranno di affrontare più agevolmente le nuove procedure e soprattutto di diffondere tra i giudici fiducia e interesse nei confronti di percorsi che, se ben gestiti, soddisfano istanze di prevenzione e risocializzazione con ricadute positive su tutte le istituzioni coinvolte.
È stata in proposito già avviata una discussione all’interno dell’Osservatorio per apportare le dovute modifiche al Protocollo operativo affinché siano disciplinate e facilitate nel modo più efficace anche le ulteriori interlocuzioni previste dalla riforma Cartabia tra uffici giudiziari e UIEPE.
In una parola potremmo dire che stiamo lavorando per rendere il Tribunale di Roma una città a misura d’uomo, terminologia propria dell’urbanista, perché “Attraversare una città permette di capire che tipo di uomo la governa e la abita e anche, più in generale, qual è la sua visione della società”[23].
[1] La Corte Costituzionale (Sent. n. 1023/1988) affermava: “fino a questo momento, per consolidata giurisprudenza di questa Corte i principi di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. non riguardano il processo di cognizione e l'applicazione della pena da parte del giudice del dibattimento. La Corte ha sempre ritenuto che quei principi si riferiscano, invece, all'esecuzione della pena, come sarebbe dimostrato dalla menzione del "trattamento" che è espressione tecnica della materia penitenziaria”.
[2] Anche il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) all’esito della visita effettuata dal 13 al 25 maggio 2012 aveva raccomandato “alle autorità italiane di compiere con determinazione ogni sforzo per combattere il sovraffollamento delle carceri, anche attraverso l’aumento dell'applicazione di misure non detentive durante il periodo che precede l’irrogazione di una pena” e il Presidente della Repubblica nel messaggio rivolto alle Camere l’8 ottobre 2013 aveva ricordato che “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale” e aveva posto l’accento sulla necessità di “ridurre il numero complessivo dei detenuti attraverso innovazioni di carattere strutturale” indicando tra queste al n. 1) “l’introduzione di meccanismi di Probation”.
[3] Slittata al 30.12.2022 in forza del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162
[4] La Raccomandazione (2014)3 adottata il 19 febbraio 2014 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dà la definizione di “delinquente pericoloso”: una persona che è stata condannata per un reato sessuale molto grave o per un reato violento di un’estrema gravità contro una o più persone e che presenta una probabilità molto elevata di commettere nuovamente un reato sessuale molto grave o un reato violento molto grave contro una o più persone. La Raccomandazione sottolinea che i delinquenti pericolosi costituiscono una piccola minoranza in seno alla popolazione totale degli autori di reato e che per individuarli non si dovrà fare riferimento soltanto a reati gravi violenti o reati sessuali commessi in precedenza, ma al rischio concreto e perdurante e soprattutto alle “prove dell’inadeguatezza di misure meno pesanti, come il fatto che, nel passato, il condannato non si sia conformato a tali misure e che abbia persistito nel suo agire delinquente, nonostante l’applicazione di misure più lievi” (punto 5).
Premesso che la gestione del rischio dei delinquenti pericolosi deve avere, nel lungo periodo, lo scopo di reinserirli in maniera sicura nella società e che la valutazione del rischio deve essere ordinata dall’autorità giudiziaria, gli artt. da 26 a 33 della Raccomandazione prescrivono che la valutazione del rischio sia “strutturata, fondata su prove e basata su strumenti appropriati”, comprenda “un’analisi dettagliata dei comportamenti precedenti e dei fattori storici, personali e circostanziali che lo hanno provocato e che ad esso hanno contribuito” e sia “oggetto periodicamente di un controllo che permetta una nuova valutazione dinamica del rischio”.
[5] http://cep-probation.org/
[6] http://cep-probation.org/knowledgebase/probation-in-europe-update/
[7] d.l. 1 luglio 2013, n. 78 convertito in legge n.94/2013
[8] decreto legge 31 marzo 2014, n. 52 convertito in legge 81/2014
[9] decreto legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito in legge n.117/2014
[10] decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28
[11] legge 16 aprile 2015, n. 47
[12] decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146 convertito con modificazioni in legge 21 febbraio 2014, n. 10
[13] art. 73 comma 5-bis e 5-ter dpr 309/90 introdotto con legge 16 maggio 2014, n. 79
[14] art. 162-ter c.p. introdotto con legge 23 giugno 2017, n. 103
[15] art. 165 comma 1 c.p. modificato con legge 11 giugno 2004, n. 1145
[16] art. 165 comma 5 c.p. introdotto con legge 19 luglio 2019, n. 69
[17] Cfr. Relazione illustrativa DPCM, Regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche.
[18] Anche in questo caso il legislatore (art. 7) non ha previsto investimenti rimandando a successivi interventi (“Qualora si renda necessario procedere all’adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, il Ministro della giustizia riferisce tempestivamente alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle modalità con cui si provvederà al predetto adeguamento, previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento legislativo”).
[19] La legge 28 aprile 2014, n. 67 all’art. 1 comma 1 prevedeva la detenzione e gli arresti domiciliari per i delitti puniti con la reclusione fino a cinque anni, in via esclusiva per i reati puniti fino a tre anni, e negli altri casi tenuto conto dei criteri ex art. 133 c.p. (lett. b e c ), con esclusione dei delinquenti abituali e per tendenza e sempre che risulti disponibile un domicilio idoneo (lett. e ed f) e prevedeva altresì la possibilità, nelle stesse ipotesi, di applicare la sanzione del lavoro di pubblica utilità non inferiore a dieci giorni consistente nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato (i e l).
[20] legge 28 aprile 2014, n. 67 all’art. 1 comma 1 lett. m.
[21] Art. 7 legge 28 aprile 2014, n. 67:
“Qualora si renda necessario procedere all’adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (ndr non si è neppure ritenuto di aggiornare l’attuale collocazione degli UIEPE!) del Ministero della giustizia. Il Ministro della giustizia riferisce tempestivamente alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle modalità con cui si provvederà al predetto adeguamento, previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento legislativo”.
[22] https://www.gnewsonline.it/giustizia-da-cdm-1-092-assunzioni-per-esecuzione-penale-esterna/
[23] Chiara Gabrielli Professoressa associata di diritto processuale penale Università di Urbino Carlo Bo da La presentazione e il programma del festival Parole di giustizia (Urbino, Pesaro, Fano, 21-23 ottobre 2022).
«In interpretatione non fit claritas»: sulla duplice (anzi triplice) esegesi pretoria in materia di silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 e parere paesaggistico soprintendentizio (nota a T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 13 ottobre 2022, n. 6303 e T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 02 novembre 2022, n. 2896)
di Gianluigi Delle Cave, dottorando di ricerca UNIBS
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Le questioni: caratteristiche del parere soprintendentizio e silenzio assenso tra P.A. – 3. Il primo orientamento pretorio: sulla inapplicabilità “assoluta” del silenzio assenso. – 3.1. (segue): il parere soprintendentizio alla prova (negativa) del silenzio assenso tra P.A. – 4. Il secondo orientamento: gli ostacoli “procedimentali” all’applicazione dell’art. 17 bis. – 5. Il terzo orientamento: applicabilità del silenzio assenso “senza lacci e lacciuoli”. – 6. Conclusioni.
1. La vicenda.
La querelle sull’annosa questione dell’applicabilità dell’istituto del c.d. “silenzio assenso” tra amministrazioni, di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990, al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica disciplinato dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”), non accenna a terminare.
Costituiscono espressione di tale - attualissima - disputa pretoria (ma anche dottrinale) pure alcune recenti pronunce, in commento, dei giudici amministrativi campani (i.e. T.A.R. Napoli[1] e T.A.R. Salerno[2]); sentenze che offrono al giurista-lettore diversi, interessanti, spunti di riflessione, non solo quanto agli effettivi (diversi) orientamenti giurisprudenziali articolatisi sul punto ad oggi, ma anche quanto alle ricadute “pratiche” che dette pronunce portano con sé.
Ed infatti, fermo restando quanto meglio si dirà nel seguito, in merito all’applicabilità del meccanismo del silenzio assenso[3] - di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990 - all’autorizzazione paesaggistica disciplinata dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, ciò che emerge de plano dalle due sentenze in commento è la presenza di un articolato contrasto nella giurisprudenza amministrativa, laddove sono riscontrabili due, se non addirittura tre, orientamenti.
Comune punto di partenza delle opposte opinioni è che l’art. 17 bis si attaglia ai soli procedimenti c.d. “orizzontali”, ossia con fase decisoria pluristrutturata. La disposizione richiede, cioè, che le due amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di un potere decisorio sostanziale. Al contrario, nel caso in cui un’amministrazione abbia un ruolo meramente formale, nel senso che raccoglie e trasmette l’istanza all’altra amministrazione, unica decidente, la decisione risulta mono-strutturata e il beneficiario del provvedimento va individuato nel solo soggetto privato (procedimento c.d. “orizzontale”).
Si discute, invece, ex aliis, sulla concreta applicabilità del meccanismo stesso del silenzio assenso tra amministrazioni alla fattispecie in commento, che, come noto - e a seguire l’orientamento pretorio “prevalente” sul punto - si inserisce all’interno del procedimento di “co-gestione” dell’istruttoria ed è applicabile esclusivamente nei rapporti che intercorrono tra amministrazione “procedente” all’adozione di un provvedimento definitivo e quelle competenti a rendere “assensi, concerti o nulla osta” al fine dell’adozione di provvedimenti normativi o amministrativi nei confronti di una terza amministrazione, come l’atto di autorizzazione paesaggistica rilasciato dalla Regione e dalla Soprintendenza di cui al succitato art. 146.
2. Le questioni: caratteristiche del parere soprintendentizio e silenzio assenso tra P.A.
L’attuale formulazione dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 rende centrale il ruolo della Soprintendenza, muovendo dalla considerazione della “supremazia” del paesaggio, in particolar modo qualora venga in conflitto con altri valori. In particolare, l’oggetto e l’ampiezza dell’intervento del Soprintendente si deduce dal tenore del comma 8 dell'art. 146: si tratta di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale[4]. Il Soprintendente si esprime circa la compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo insieme nonché sulla conformità di tale intervento con le previsioni del piano paesaggistico e/o con quelle dell’art. 140 del codice, entro il termine di 45 giorni decorrente dalla ricezione degli atti. Più nel dettaglio, nell’ipotesi di cui al comma 8, il parere del Soprintendente assume la natura di atto decisorio o meglio di “atto di codecisione”[5] e ha natura vincolante, pertanto l’amministrazione procedente non potrà disattenderlo, salva l’ipotesi in cui risulti che il parere sia stato reso sulla base di atti o fatti palesemente erronei o travisati[6]. Nonostante i plurimi interventi del legislatore sulla normativa de qua – con il decreto c.d. “Sblocca Italia” e con la c.d. “legge Madia”[7] – restano, tutt’oggi, irrisolte alcune questioni fondamentali relative alle funzioni della Soprintendenza, vale a dire (i) l’effetto dell’inerzia del Soprintendente e (ii) la possibilità di prescindere dal relativo parere[8].
Orbene, secondo una prima ricostruzione interpretativa, la Soprintendenza conserverebbe il potere consultivo; pertanto, il parere tardivo avrebbe comunque natura vincolante, se intervenuto prima della conclusione del procedimento (risultando altrimenti legittimo ma inutiliter dato). L’inerzia della Soprintendenza, quindi, avrebbe il solo effetto di consentire all’amministrazione competente di concludere il procedimento senza dover attendere il parere[9]. In base ad un secondo orientamento, il parere tardivo perderebbe il carattere vincolante, diventando autonomamente valutabile tra i materiali istruttori dall’amministrazione competente sull’autorizzazione; il silenzio avrebbe quindi un effetto devolutivo, comportando l’assunzione del pieno potere decisorio sulla istanza di autorizzazione in capo alla regione o all'ente delegato[10]. Infine, in base ad una terza opzione, il decorso dei 45 giorni determinerebbe la consumazione del potere consultivo e l’eventuale parere tardivo sarebbe nullo per carenza di potere[11].
L’opinione prevalente in giurisprudenza è la seconda[12], in base alla quale, scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza, è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante, statuendosi peraltro che la decorrenza del termine non ne impedisce comunque tout court l’espressione[13]. Sul punto, pare opportuno rilevare, però, che l’art. 16 della l. n. 241/1990 – nel dettare una disciplina generale di semplificazione dei pareri e nel prevedere una forma di semplificazione, in caso di pareri obbligatori non resi nel termine previsto[14] – esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione quelli resi da amministrazioni preposte, tra l’altro, alla tutela paesaggistica[15]. La ratio dell’eccezione alla regola generale della “prescindibilità” risiede nel fatto che si tratta di valori di assoluta preminenza, la cui tutela costituisce un limite alla piena applicazione degli istituti di semplificazione amministrativa[16].
In tale contesto, dunque, si inserisce la disposizione di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990. Il dibattito si sposta, quindi, sulla portata generale della previsione del silenzio assenso tra amministrazioni, sancito dalla norma sopra richiamata, che coinvolgerebbe, altresì, il parere della Soprintendenza nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica[17]. Applicabilità, si badi, comunque in controtendenza rispetto: (i) alla giurisprudenza della Corte costituzionale[18], che ha ripetutamente affermato che per il profilo paesaggistico opera il principio fondamentale della necessità di pronuncia esplicita, non potendo avere il silenzio della P.A. valore di assenso; (ii) del Consiglio di Stato, che ha rilevato più volte l’«indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall’essere iscritta dall’art. 9 Cost. tra i principi fondamentali della repubblica, il che comporta che la sua cura faccia eccezione, se in conflitto con gli obiettivi di semplificazione e accelerazione amministrative»[19].
Ebbene, come detto in premessa, proprio su detta applicabilità del meccanismo del silenzio assenso sussiste un articolato contrasto nella giurisprudenza amministrativa, laddove sono riscontrabili due, se non addirittura tre, orientamenti, di seguito succintamente esaminati.
3. Il primo orientamento pretorio: sulla inapplicabilità “assoluta” del silenzio assenso.
Giova premettere, in sintesi, che il filone negativo all’operatività del silenzio assenso in materia di autorizzazione paesaggistica muove dal fatto che essa costituisce un provvedimento “mono-strutturato”, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza della parte privata interessata e non della P.A. procedente.
In sostanza, secondo il primo orientamento giurisprudenziale (a cui aderisce la Sezione II del T.A.R. Campania, Salerno, con la sentenza in commento)[20], il rapporto tra Regione/Ente locale e Soprintendenza, all’interno del procedimento di autorizzazione paesaggistica, è meramente interno, ossia finalizzato a “co-gestire” non la fase decisoria, ma quella istruttoria. Viene rimarcata, inoltre, l’estraneità alla funzione di tutela del paesaggio di ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, atteso che il parere è «atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica», in cui il giudizio di compatibilità paesaggistica «deve essere […] tecnico e proprio del caso concreto». Pertanto, il parere reso tardivamente non è inefficace. Esso però non vincola la P.A. procedente, alla quale «tocca tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici»; ciò pure in virtù del disposto di cui al comma 9 dell’art. 146 cit., norma che istituisce una forma di silenzio devolutivo, per definizione incompatibile con il silenzio assenso[21].
In sostanza, secondo tale esegesi pretoria, non può ritenersi mai formato il silenzio assenso ex art. 17 bis, comma 2, della l. n. 241/1990 da parte della Soprintendenza, poiché tale meccanismo vale esclusivamente nei rapporti fra l’amministrazione “procedente” e quelle chiamate a rendere “assensi, concerti o nulla osta”, e non anche nel rapporto “interno” fra le amministrazioni chiamate a co-gestire l’istruttoria e la decisione in ordine al rilascio di tali assensi (nel caso di specie, Regione e Soprintendenza)[22]. Ed infatti, i giudici amministrativi enfatizzano il fatto che l’istituto del silenzio assenso di cui sopra non riguarda la fase istruttoria del procedimento amministrativo, che rimane regolata dalla pertinente disciplina positiva, influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium, con la conseguenza che l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, ad elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente.
In merito, pare doveroso premettere che l’art. 17 bis l. n. 241/90, inserito nella legge generale sul procedimento amministrativo dalla l. n. 07 agosto 2015 n. 124 (c.d. “legge Madia”), ha generalizzato il silenzio assenso[23] tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti diretti all’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi che prevedano atti di assenso, concerto o nulla osta comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche. La disposizione prevede che tali atti di assenso debbano intendersi implicitamente acquisiti qualora siano decorsi vanamente trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato dalla relativa documentazione da parte dell’amministrazione procedente[24]. Il previsto termine è suscettibile di una unica interruzione nei casi in cui vengano rappresentate nel termine stesso esigenze istruttorie o motivate e puntuali richieste di modifica. In caso di mancato accordo tra le amministrazioni statali coinvolte nel procedimento, la decisione sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento è assunto dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Ai sensi del comma 3, dell’art 17 bis cit., detto silenzio trova espressa applicazione anche nel caso in cui l’atto di assenso sia richiesto ad una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini[25]. In tali casi l’unica mitigazione è rappresentata dalla previsione di un termine maggiore, pari a novanta giorni, salvi i termini diversi previsti da disposizioni di legge o dai provvedimenti di cui all'art. 2 della l. n. 241/1990.
L’articolo in esame, nella sostanza, stabilisce che, se una pubblica amministrazione deve acquisire “assensi, concerti o nulla osta” da parte di altra amministrazione, quest’ultima dispone di un termine di trenta giorni per formulare la propria risposta, decorso il quale la richiesta viene considerata accolta (e quindi “assensi, concerti o nulla osta” considerati acquisiti). Il tenore letterale della norma induce a ritenere che essa si applichi esclusivamente alle ipotesi in cui tali “assensi, concerti o nulla osta” siano prescritti per legge o regolamento; in altri termini, la disposizione è certamente rivolta ai procedimenti finalizzati all'adozione di provvedimenti c.d. “pluristrutturati”, intendendo con questa espressione tutti quei provvedimenti che sono espressione di più volontà espresse da diverse amministrazioni.
L’articolo in commento attiene, poi, esclusivamente al silenzio assenso tra P.A. mentre il silenzio dell’amministrazione procedente nei procedimenti ad istanza di parte continua ad essere regolato dall'art. 20 della l. n. 241/1990, il cui comma 4, come noto, esclude dalla generalizzazione del silenzio significativo gli atti ed i procedimenti riguardanti, tra gli altri interessi sensibili menzionati, il patrimonio culturale e l’ambiente[26].
Una delle questioni più discusse, connesse con tale istituto, concerne l’operatività del meccanismo di silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni nei casi in cui vengano in rilievo proprio interessi pubblici primari[27].
Sul tema si sono confrontate in dottrina due posizioni opposte[28]: da un lato vi è chi ha denunciato i gravi rischi connessi alla disciplina dell'art. 17 bis che avrebbe gravemente indebolito la tutela di beni ed interessi primari (quali, l'ambiente, i beni culturali, la salute) senza peraltro prevedere alcun adeguato intervento compensativo[29]; dall'altro lato, vi è chi ha invece salutato con favore la disciplina ed escluso i paventati rischi per la tutela effettiva degli interessi sensibili[30].
In merito, la giurisprudenza costituzionale ed europea si è più volte espressa sulla necessità che, qualora vengano in gioco interessi pubblici primari, l’Amministrazione preposta all'emanazione del provvedimento finale, compia una completa istruttoria, al fine di garantire la tutela dell'interesse pubblico sotteso al provvedimento[31]. In particolare, in ambito paesaggistico, muovendo proprio dalla considerazione che la tutela dell’ambiente e della salute trovino un esplicito riferimento nel testo costituzionale e che questo implichi che «sono indispensabili per il rilascio dell'autorizzazione accurate indagini ed accertamenti tecnici, nonché controlli specifici per la determinazione delle misure e degli accorgimenti da osservarsi e per evitare danni facilmente possibili per la natura tossica e nociva dei rifiuti accumulati»[32], la Corte ha costantemente affermato che «opera il principio fondamentale, risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità di pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell'Amministrazione non può avere valore di assenso»[33].
Diversamente da tale indirizzo, con riferimento all’applicabilità del silenzio de quo anche in materie sensibili, si è espresso l’indirizzo giurisprudenziale qui esaminato[34]. Innanzitutto, secondo tale orientamento, il silenzio assenso in esame introduce un “nuovo paradigma” nei rapporti tra amministrazioni pubbliche, operando in una duplice prospettiva di semplificazione[35]. Da un lato, la norma incide sui tempi del procedimento amministrativo (fissando il termine in trenta giorni, salva l’ipotesi degli interessi primari); dall'altro, equipara l’inerzia ad un atto di assenso, che consente all’amministrazione procedente di assumere la decisione finale. Tale istituto si basa su di una contrarietà di fondo del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, che viene stigmatizza «al punto tale da ricollegare al silenzio dell'amministrazione il più efficace dei rimedi, che si traduce, nell'equiparazione del silenzio della P.A. ad un provvedimento di accoglimento»[36]. In ragion di ciò, il silenzio assenso si sostanzia, per le pubbliche amministrazioni, nella perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Sull’ambito applicativo (soggettivo e oggettivo) di tale silenzio, si è poi affermato: (i) con riferimento al piano soggettivo, l’applicabilità del nuovo istituto anche a Regioni ed enti locali, oltre che agli organi politici sia quando essi adottano atti amministrativi o normativi, sia quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta comunque denominati nell’ambito di procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza di altre Amministrazioni, rilevando, in buona sostanza, la natura dell’atto da adottare (amministrativo o normativo), non la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare della competenza “interna” nell’ambito della pubblica Amministrazione che di volta in volta viene in considerazione; (ii) con riferimento all’ambito applicativo oggettivo della norma, esso sarebbe applicabile a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra Amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso. Ed infatti, «il silenzio assenso “orizzontale” previsto dall’art. 17-bis opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto»[37]. Con riferimento all’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili, secondo i giudici amministrativi, dovrà quindi essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto, in tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale per cui troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili).
In sintesi, il silenzio assenso “inter-amministrativo” si inserisce in una fase procedimentale anteriore rispetto a quella tipica del silenzio assenso ex art. 20: l’istituto dell’art. 17 bis inerisce, infatti, alla fase finale dell’istruttoria procedimentale e, per questo, rappresenta una forma di silenzio endoprocedimentale non destinato a produrre effetti esteriori diretti. Gli interessi sensibili, quindi, restano pienamente tutelati nella fase istruttoria, non potendo la decisione finale essere assunta senza che tali interessi siano stati ritualmente acquisiti al procedimento, tramite l’obbligatorio parere o l’obbligatoria valutazione tecnica di competenza dell’Amministrazione preposta alla loro cura. Quanto alla successiva fase decisoria, anche nei casi in cui opera il silenzio assenso, l’interesse sensibile dovrà comunque essere oggetto di valutazione, comparazione e bilanciamento da parte dell’amministrazione procedente.
3.1. (segue): il parere soprintendentizio alla prova (negativa) del silenzio assenso tra P.A.
Ebbene, con riferimento all’effettiva applicabilità dell’istituto sopra descritto all’autorizzazione paesaggistica, quest’ultima è il frutto di quella che viene definita dalla dottrina in termini di “cogestione del vincolo paesaggistico”, affidata ai poteri concorrenti di Stato e Regioni (e, per esse, alle amministrazioni eventualmente delegate), il cui esercizio porta ad una fattispecie co-decisoria che, sulla base di una proposta motivata di accoglimento, viene in essere con il concorso di due atti distinti, il parere vincolante della Soprintendenza ed il consenso espresso dall’autorità competente al rilascio del provvedimento. A tal proposito, si ribadisce ancora una volta come, ab origine, non sia stata accolta con favore l’operatività del silenzio ex art. 17 bis cit. nel caso in cui l’atto di assenso fosse richiesto ad un’amministrazione preposta alla tutela ambientale e paesaggistico-territoriale; ciò con particolare riferimento al silenzio serbato dalla Soprintendenza chiamata a rendere il parere sulla proposta di provvedimento predisposta dalla Regione (o dall’ente da questa delegato). Come rilevato dalla dottrina, infatti, l’applicabilità dell’istituto in esame «appare sicuramente più proporzionata e ragionevole se rapportata alle fattispecie di lieve entità individuate dal regolamento [il riferimento è al d.P.R. n. 31/2017[38]], piuttosto che con riguardo alle fattispecie assoggettate ad autorizzazione paesaggistica c.d. ordinaria»[39].
Ebbene, muovendo dalle conclusioni di tale indirizzo giurisprudenziale, vale la pena evidenziare come l’art. 146, ai commi 8, 9 e 10, stabilisce che se la Soprintendenza non rende entro sessanta giorni il proprio parere, può prescindersi dallo stesso e l’autorità procedente è tenuta ugualmente a concludere il procedimento nei successivi venti giorni, decorsi inutilmente i quali l’interessato può richiedere alla Regione o ad altro ente competente il rilascio dell'autorizzazione in via sostitutiva.
Pertanto, rispetto al meccanismo di superamento degli arresti procedimentali, l’attribuzione del valore di assenso all’inerzia della Soprintendenza, ex se non ostativa alla conclusione del procedimento, non presenta alcuna attitudine acceleratoria ulteriore. Nel sistema delineato dall’art. 146, in buona sostanza, l’inadempimento della Soprintendenza non possiede alcun significato sostanziale ma, al più, un effetto procedimentale-devolutivo: ed infatti, «da un lato, l’onere istruttorio ricade interamente sull’autorità procedente, chiamata ad adottare, con congrua motivazione, il provvedimento conclusivo; dall'altro, il parere tardivamente rilasciato non è privo di rilevanza giuridica, potendosi al più discutere sul carattere vincolante o meno dello stesso»[40]. Con l'applicazione dell’art. 17 bis, invece, il silenzio della Soprintendenza sarebbe assimilato tout court a un parere favorevole sulla proposta di provvedimento, sganciato quindi da una effettiva istruttoria o valutazione dell’impatto paesaggistico del progetto[41] e rimovibile solo in autotutela, ove ne ricorrano i presupposti e nel rispetto dei limiti evidenziati dal Consiglio di Stato nel parere n. 1640/2016[42].
Inoltre, l’attribuzione di un valore legale tipico di assenso a un evento di per sé neutro, quale il decorso di un intervallo di tempo, «rischia di causare una indebita commistione tra durata del procedimento e contenuto del provvedimento»[43]. Infatti, più che l’interesse alla certezza e celerità dei tempi, le conseguenze applicative dell’istituto appaiono volte a soddisfare l’interesse sostanziale del richiedente all’ottenimento del titolo autorizzatorio, con conseguenze faticosamente ammissibili sul piano della tutela paesaggistica: se da un lato, alla luce delle diverse complessità organizzative, la probabilità che diversi sub-procedimenti di competenza ministeriale si definiscano per silenzio non è remota, dall’altro, il favor per l’assenso diminuisce considerevolmente il livello di “restrittività” della tutela, ponendosi in netto contrasto con la logica precauzionale a essa sottesa.
Ebbene, i giudici amministrativi, pure nella sentenza in commento (n. 2896/2022), pur non smentendo in maniera tranchant l’orientamento secondo cui il meccanismo del silenzio assenso operi anche nel caso di rilascio di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004[44], ne specificano e delimitano la portata: il silenzio assenso di cui all’articolo 17 bis influisce, quindi, solo sulla fase decisoria del procedimento, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium a seguito del quale l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito di detta istruttoria, a elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente. Le esigenze di completezza dell’istruttoria, dunque, in quanto non incise dalla formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis cit., non potrebbero essere invocate per limitare l’applicazione del relativo istituto.
In sostanza, il silenzio assenso ex art. 17 bis della l. n. 241/90: (i) non riguarderebbe la fase istruttoria del procedimento amministrativo (che resta regolata dalla pertinente disciplina positiva), influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium; (ii) non potrebbe comunque essere inteso come un sacrificio (necessitato, in ragione delle esigenze di tempestivo esercizio del pubblico potere) in danno dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’Amministrazione silente.
In altri termini, il silenzio assenso nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, proprio perché ispirato ai principi di efficienza e, quindi, di buon andamento amministrativo, solleciterebbe una migliore organizzazione delle risorse amministrative, garantendo al contempo l’effettiva protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti in sede procedimentale. In particolare, una volta conclusa l’istruttoria e definito lo schema di provvedimento da porre a base della successiva fase decisoria, occorre che: da un lato, l’Amministrazione interpellata agisca tempestivamente, manifestando prontamente le proprie perplessità sullo schema di provvedimento ricevuto, rappresentando eventuali esigenze istruttorie o adottando espressamente il proprio avviso su quanto richiesto; dall’altro, l’Amministrazione procedente valuti comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’Amministrazione interpellata in ipotesi rimasta inerte, assumendo, all’esito della formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis, una decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso implicitamente acquisito.
In tale maniera si assicura non soltanto la tempestiva adozione della decisione finale, ma anche un’adeguata protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio del potere, pure in assenza di una determinazione espressa dell’Amministrazione interpellata.
4. Il secondo orientamento: gli ostacoli “procedimentali” all’applicazione dell’art. 17 bis.
Un originale orientamento di segno contrario, ma in realtà dotato di ricadute pratiche alquanto simili all’art. 17 bis, è stato assunto in via pretoria più recentemente (si veda, su tutte, Cons. Stato, sez. VI, 24 maggio 2022, n. 4098)[45].
In particolare, tale “via” pretoria nega che esistano ragioni di natura sostanziale per respingere il fatto che, sul parere soprintendentizio, si possa formare il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, non inferendosi ciò dal mero fatto che il procedimento “principale” sia avviato ad istanza di un privato ed anzi evidenziando «che la disciplina del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, disegnata dall’art. 146 del D.lgs. 42/2004, per vari aspetti rispecchia quella del silenzio assenso ex art. 17 bis».
Secondo l’orientamento giurisprudenziale in commento, l’ostacolo all’applicazione della norma semplificatoria è, viceversa, costituito dalla scansione procedimentale indicata dal comma 9 dell’art. 146, secondo cui l’amministrazione competente”, cioè la regione o l’ente delegato, “provvede comunque”: dal che si desume che in tal caso l’amministrazione procedente è tenuta a adottare il provvedimento finale in maniera espressa, ma non necessariamente nel senso precedentemente prefigurato[46].
Ora, secondo tale orientamento, se presupposto all’art. 146, comma 9, cit. vi fosse la formazione di un silenzio assenso ai sensi dell’art. 17 bis, la norma avrebbe dovuto prevedere, per coerenza, che anche il tal caso l’amministrazione procedente adottasse il provvedimento finale “in conformità”: in tal caso, “in conformità” alla proposta iniziale, sulla quale la Soprintendenza non ha espresso motivi ostativi.
Tanto, induce a ritenere che «il legislatore non ha voluto che si producesse tale effetto, quale conseguenza del comportamento silente della Soprintendenza, come è reso evidente dal fatto che in tal caso l’amministrazione procedente è tenuta a provvedere “comunque” e non “in conformità”».
Ciò nondimeno, i giudici amministrativi hanno osservato che, dal punto di vista pratico, cambia poco rispetto alla fattispecie del silenzio assenso ex art. 17 bis, perché è evidente che il provvedimento finale, anche in tal caso, deve rispecchiare la proposta originaria trasmessa alla Soprintendenza: diversamente il provvedimento adottato risulterebbe illegittimo in quanto emesso su una proposta non precedentemente sottoposta al parere della Soprintendenza[47].
Tuttavia, l’amministrazione procedente, non essendosi formato un silenzio assenso da parte della Soprintendenza, potrebbe avere un “ripensamento” e, quindi, potrebbe decidere di riformulare la proposta originaria, senza perciò incorrere in un provvedimento in autotutela, non essendosi ancora formato un provvedimento definitivo. Pertanto, l’atto finale dell’amministrazione procedente, a meno di un “ripensamento” circa la propria posizione originaria, non potrà che essere favorevole al privato, pena l’illegittimità di un diniego, che sarebbe emesso in assenza di una precedente proposta in tal senso sottoposta al parere della Soprintendenza.
L’orientamento in questione esprime, poi, pure ulteriori considerazioni quanto alle fattispecie di silenzio assenso per le opere minori, di cui all’art. 11, comma 9, del d.P.R. n. 31/2017[48]. In tale ipotesi, in sintesi, la formazione del silenzio assenso “endoprocedimentale” si verificherebbe solo nel caso in cui la Soprintendenza, ricevuta la proposta dalla “amministrazione procedente”, rimanga assolutamente silente, omettendo di esprimersi in qualsiasi modo. Di conseguenza, il silenzio assenso di cui all’art. 11, comma 9, del d.P.R. cit. deve ritenersi impedito dal fatto che la Soprintendenza, prima che si formi il silenzio assenso (e quindi, prima che sia decorso il termine di 20 giorni dal ricevimento della proposta di accoglimento, da parte della Soprintendenza), notifichi motivi ostativi all’accoglimento ai sensi dell’art. 11, comma 7. Subentrerà, a quel punto, l’obbligo per il Soprintendente di emettere il provvedimento di conferma del diniego entro il termine indicato al medesimo comma 7 (venti giorni dal ricevimento delle osservazioni o dalla scadenza del termine a tal fine assegnato), termine dal cui rispetto dipende la natura vincolante, o meno, del parere reso dal Soprintendente.
Pertanto, in sintesi:
(i) se il parere negativo definitivo del Soprintendente pervenga entro il termine indicato dall’art. 11, comma 7, sarà vincolante per l’amministrazione procedente;
(ii) se il parere negativo non sarà più emesso, o sarà emesso tardivamente, l’amministrazione procedente provvederà come ritiene, senza essere vincolata da alcun silenzio assenso, e quindi all’occorrenza anche potendo tenere conto dei rilievi ostativi della Soprintendenza, e a maggior ragione di un parere negativo tardivamente giunto;
(iii) il parere tardivo emesso dalla Soprintendenza, ai sensi dell’art. 11, comma 7, del D.P.R. n. 31/2017, non sarà illegittimo per contrasto con un silenzio assenso già formatosi, quando sia stato preceduto dalla notifica dei motivi ostativi all’accoglimento, i quali - come detto - impediscono la formazione del silenzio assenso di cui all’art. 11, comma 9, sempre che intervengano prima del termine indicato, dal combinato disposto dell’art. 11, comma 5 e 9, per la formazione del silenzio assenso;
(iv) il termine indicato dall’art. 11, comma 7, per la trasmissione dei motivi ostativi all’accoglimento (10 giorni dal ricevimento della proposta) deve intendersi meramente sollecitatorio, consumandosi il potere del Soprintendente di notificare i motivi ostativi solo nel momento in cui si forma il silenzio assenso ex art. 17 bis.
5. Il terzo orientamento: applicabilità del silenzio assenso “senza lacci e lacciuoli”.
Esiste, infine, un terzo orientamento pretorio (richiamato pure dalla Sezione VII del T.A.R. Campania, Napoli, nella seconda sentenza in commento[49]), di segno positivo “senza condizioni” all’applicabilità dell’istituto del silenzio assenso al parere della Soprintendenza[50], che muove dalla considerazione per cui tutti i pareri vincolanti partecipano alla formazione di un provvedimento finale pluristrutturato, in quanto la decisione dell’amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra amministrazione.
A tali pareri, si applicherebbe pertanto l’art. 17 bis della legge n. 241/1990, diversamente che ai pareri consultivi (non vincolanti), che restano assoggettati alla disciplina di cui agli artt. 16 e 17. Dunque, la formulazione testuale del comma 3 dell’art. 17 bis consente di estendere il meccanismo del silenzio assenso anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini, di modo che, scaduto il termine fissato dalla normativa di settore, vale la regola generale del silenzio assenso[51].
Ed infatti, si chiarisce nella seconda sentenza in commento che - sul piano generale - qualora la richiesta di assenso non promani dal privato, bensì afferisca ai rapporti orizzontali tra pubbliche amministrazioni, «il legislatore ha tracciato un istituto molto semplificato che consente espressamente la formazione del silenzio assenso, entro il termine definito dalla normativa di settore, ovvero, in mancanza di diversa previsione, in novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente; decorso siffatto termine senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito». In buona sostanza, secondo tale orientamento giurisprudenziale, la formazione di atti di assenso per silentium costituisce istituto in “diretta funzione” dell’efficiente esercizio del pubblico potere[52], con il precipuo scopo di evitare che, ove il procedimento debba concludersi con l’adozione di una decisione pluristrutturata implicante un accordo tra più Amministrazioni codecidenti, la condotta inerte dell’Amministrazione interpellata possa produrre un arresto del procedimento, impedendo la tempestiva adozione della determinazione conclusiva[53].
Muovendo dal dato normativo applicabile, in particolare, l’orientamento pretorio in esame evidenzia che, il parere in esame costituisce espressione di “cogestione attiva” del vincolo paesaggistico, nel quale l’apprezzamento di merito correlato alla tutela del valore paesaggistico è rimesso alla Soprintendenza. Se così è, ad esso ben si attaglierebbero le argomentazioni espresse dal Consiglio di Stato, in sede consultiva, col parere n. 1640/2016 cit., secondo cui:
(i) l’art. 17 bis opera in tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a concludersi con una decisione pluristrutturata (nel senso che la decisione finale da parte dell’amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra amministrazione), per i quali il silenzio dell’amministrazione interpellata, che rimanga inerte non esternando alcuna volontà, non ha più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma è, al contrario, equiparato ope legis a un atto di assenso e consente all’amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo;
(ii) l’art. 17 bis è, quindi, destinato ad applicarsi solo ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza codecisoria. In base a tali considerazioni, deve, allora, ritenersi che la disposizione sia applicabile anche ai pareri vincolanti, e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della l. n. 241 del 1990. Gli interessi sensibili, quindi, restano pienamente tutelati nella fase istruttoria, non potendo la decisione finale essere assunta senza che tali interessi siano stati ritualmente acquisiti al procedimento, tramite l’obbligatorio parere o l’obbligatoria valutazione tecnica di competenza dell’amministrazione preposta alla loro cura;
(iii) l’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili dev’essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto.
Orbene, configurandosi come ipotesi di “cogestione attiva” del vincolo paesaggistico, il procedimento di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 rientrerebbe a pieno titolo tra le decisioni pluristrutturate, nelle quali, per poter emanare il provvedimento conclusivo, l’amministrazione procedente deve, per obbligo di legge, acquisire l’assenso vincolante di un’altra amministrazione.
Esso è dunque reso nell’ambito di un rapporto intersoggettivo di tipo orizzontale, intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, l’una proponente e l’altra deliberante. Inoltre, l’espressa qualificazione in termini provvedimentali, data dal legislatore al parere (“in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241”)[54], rende concepibile che su di esso possa formarsi il silenzio assenso[55].
L’indicato rapporto pubblico intersoggettivo, poi, non va confuso col diverso rapporto, di tipo verticale, intercorrente tra amministrazione procedente (Regione o ente delegato) e privato, culminante nel provvedimento di rilascio o diniego dell’autorizzazione paesaggistica e riguardo al quale il silenzio assenso non può evidentemente operare[56]. Né va confuso con la decisione “monostrutturata” - rinvenibile, ad esempio, nei casi di gestione di pratiche tramite SUAP -, dove l’amministrazione procedente assume un ruolo meramente formale (raccoglie e trasmette l’istanza all’amministrazione unica decidente). In questo caso, infatti, non essendoci un’amministrazione co-decidente, il vero beneficiario del silenzio assenso sarebbe il privato, avendosi, quindi, un’ipotesi silenzio assenso nei rapporti (non endoprocedimentali, ma) con i privati.
Infine, verso l’applicabilità dell’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 al parere ex art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, deporrebbe anche l’art. 11, comma 9, del d.P.R. n. 31 del 2017, in tema di procedura autorizzativa paesaggistica semplificata, che recita: “in caso di mancata espressione del parere vincolante del soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell’art. 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e l’amministrazione procedente provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”. È evidente come la suddetta norma, di rango regolamentare, non può certo essere in contrasto con la disciplina primaria, così da trasformare, sia pur nell’ambito di un regime semplificato, un rapporto verticale concepito dalla legge come “monostrutturato” (cui non è applicabile l’art. 17 bis) in un rapporto orizzontale “pluristrutturato” (cui è applicabile l’art. 17 bis)[57].
6. Conclusioni.
Alla luce di quanto sopra esposto, è doveroso evidenziare, in primissima battuta, come le esigenze di accelerazione dell’azione amministrativa (favorite e incentivate anche attraverso l’applicazione di istituti come quello del silenzio assenso tra P.A.) non possono frustrare, tout court, alcune garanzie minime a tutela di interessi particolarmente sensibili, come quelli inerenti alla salvaguardia del paesaggio[58]. Proprio con riferimento a questi ultimi, poi, è lo stesso legislatore ad aver individuato un equo punto di stabilità fra la tutela di un valore di rilievo costituzionale (la tutela del paesaggio) e l’esigenza – ugualmente rilevante anche ai fini costituzionali – di assicurare la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, imponendo che i poteri della Soprintendenza debbano essere esercitati entro un termine sicuramente congruo ma allo stesso tempo certo e non superabile[59].
Ancora, circa l’applicabilità degli strumenti di semplificazione amministrativa – tra cui certamente rientra l’istituto del silenzio tra amministrazioni ex art. 17 bis della l. n. 241/1990 – alla fattispecie qui esaminata, pare doveroso evidenziare come il concetto stesso di “semplificazione” implica ex se lo snellimento e l’alleggerimento delle forme di esercizio del potere, eliminando superflue duplicazioni o sovrapposizioni delle fasi procedimentali attribuite a sfere di competenza differenti (o ad amministrazioni diverse) per la soluzione del c.d. “problema amministrativo” . Se è vero, quindi, che la semplificazione si traduce in uno strumento atto alla realizzazione di quel cristallino principio di buon andamento della P.A. (ai sensi dell’art. 97 Cost.) e dei connessi valori di efficacia ed efficienza dell’azione pubblica, ciò non implica, tuttavia, che sia possibile prevedere aprioristicamente tutti i casi in cui detta semplificazione possa ritenersi adeguata e soddisfacente[60].
Nella prospettiva dell’art. 17 bis cit., il ragionamento da applicarsi deve contemperare due considerazioni di natura divergente: da un lato, la generale estensione del silenzio assenso alle P.A. anche nelle materie sensibili (come il paesaggio) rappresenta certamente un passaggio importante, dal momento che è proprio in tali settori che l’inerzia amministrativa sembrerebbe avere un maggiore impatto (nonostante la palese delicatezza degli interessi in gioco); dall’altro, la supremazia di alcuni interessi pubblici rende quantomeno doveroso un effettivo bilanciamento e una certosina ponderazione con altri interessi rilevanti[61].
A ciò si aggiunga che la recente riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.[62] - checché relativa all’introduzione della tutela dell’ambiente come principio fondamentale della Repubblica - pare proprio rimarcare, in chiave ermeneutica, che l’ambiente, così come il paesaggio stesso, non possano essere considerati come una mera res quanto, piuttosto, come valori primari costituzionalmente protetti (rectius, “tutelati”)[63]; valori, quindi, che non possono essere salvaguardati mediante il semplice silenzio, ma devono trovare sempre un meccanismo normativo che preveda un soggetto istituzionalmente preposto che valuti se vi siano o meno conseguenze pregiudizievoli (si veda, non a caso, anche la “nuova” gerarchia dei valori all’interno delle restrizioni apponibili alla libertà di impresa ex art. 41 Cost., ove i limiti di “ambiente” e “salute” sono chiaramente anteposti a quelli già vigenti[64]). Se da un lato, quindi, la ricaduta della suddetta novella sulla sfera dell’attività amministrativa è certamente l’ineluttabilità di un confronto - paritario, puntuale e nel merito (“contesto fisico per contesto”[65]) - degli e sugli interessi sensibili in gioco, dall’altro pare comunque che i “rimarcati” principi fondamentali di tutela dell’ambiente (e del paesaggio) non possano essere sacrificati sull’altare dei meccanismi di silenzio assenso, a maggior ragione se ci si basa sul mero tenore delle disposizioni normative in sé considerate e non sulle conseguenze che possono derivare dalla loro applicazione (i.e. l’effetto “pratico” contrastante con i principi costituzionali[66]).
Orbene, alla luce di quanto sopra detto, una possibile soluzione al problema applicativo (e interpretativo) dell’istituto del silenzio assenso al procedimento di autorizzazione paesaggistica potrebbe essere quella di riaffermare il valore di “inadempimento” collegato al silenzio della Soprintendenza, superando l’infelice coordinamento con le previsioni di cui all’art. 17 bis cit. Ciò in aggiunta ad una più puntuale definizione del perimetro di efficacia del parere tardivamente rilasciato, attraverso il riconoscimento esplicito allo stesso di una - certamente circoscritta e delimitata - valenza, così sottraendolo, peraltro, all’applicazione della scure dell’inefficacia sancita dal neo comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990[67]. In tal caso, però, il silenzio assumerebbe un carattere quasi “devolutivo”[68], con conseguente responsabilizzazione dell’autorità procedente nell’assunzione della decisione finale e incentivazione della stessa all’utilizzo del parere adottato tardivamente, soprattutto se di segno contrario al progetto autorizzando o recante prescrizioni[69].
In definitiva, date le perimetrate remore di cui sopra (in particolare quelle riferite al contesto costituzionale), non parrebbe applicabile tout court il disposto di cui all’art. 17 bis al procedimento disciplinato dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, nemmeno se “limitato” alla sola pronuncia del parere della Soprintendenza[70]; diversamente, in caso di inerzia del Comune e l’inutile decorso del termine finale di conclusione del procedimento, e dunque del rapporto “verticale” verso il privato, ben si potrebbe configurare un’ipotesi di silenzio inadempimento, ricorribile ex art. 117 c.p.a.
Soluzione, quest’ultima, che sembrerebbe tutelare sia le esigenze di accelerazione procedimentale che di tutela del bene paesaggistico, sia la certezza del diritto e la sua uniforme applicazione.
[1] Ossia T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 13 ottobre 2022, n. 6303, in giustizia-amministrativa.it. In sintesi, la vicenda trae origine dall’impugnazione, da parte del proprietario di un’area sita nel Comune di Lettere, del complesso procedimento di approvazione, previa variante urbanistica semplificata, dei lavori per la realizzazione di opere di completamento e adeguamento dello spazio antistante l’impianto sportivo comunale e di un parcheggio scambiatore a servizio del campo sportivo in Località Fuscoli. Per quanto qui di interesse, il ricorrente, con due ricorsi distinti (r.g. n. 674/2021 e r.g. n. 3819/2021), ha censurato, ex aliis: (i) l’adozione della variante urbanistica comunale, evocando plurimi vizi di violazione delle norme di pianificazione; (ii) l’approvazione definitiva del progetto (ed approvazione della variante semplificata), prospettando altrettanti vizi di violazione di legge; (iii) la mancanza di verifica di conformità con il PUT dell’Area Sorrentino Amalfitana, per violazione dell’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 in tema di formazione del silenzio assenso e per contrasto con la zonizzazione prevista in luogo di quella necessaria; (iv) la mancanza del titolo paesaggistico (non essendosi formato il provvedimento silenzioso). Anticipando quanto meglio si dirà nel seguito, il TAR ha accolto le doglianze del ricorrente proprio con specifico riferimento alla mancata formazione del silenzio assenso tra P.A. (considerato comunque applicabile alla materia in esame), in quanto l’Amministrazione non ha efficacemente provato il rispetto delle condizioni per la configurazione della decisione silenziosa.
[2] Si tratta di T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 02 novembre 2022, n. 2896, in giustizia-amministrativa.it. In breve, la vicenda trae origine dall’impugnazione: (i) di un diniego di autorizzazione paesaggistica, adottato dal Comune di Castellabate, sull’istanza depositata dal ricorrente, ai fini della realizzazione di un intervento di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione ed ampliamento volumetrico del 35%; (ii) del presupposto parere contrario reso dalla Soprintendenza ai beni paesaggistici delle Province di Salerno ed Avellino. Nel caso di specie, in particolare, il parere della Soprintendenza risultava emesso dopo il decorso dei 45 giorni previsti dall’art. 146, comma 8, del D.lgs. n. 42/2004. Questa, infatti, comunicava i motivi ostativi trascorsi ormai 55 giorni dal ricevimento della detta documentazione. Il ricorrente, quindi, evidenziava in sede di gravame che, a tale ritardo, sarebbe conseguita la formazione del silenzio assenso, di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990. Il TAR, in particolare, ritenendo inapplicabile l’art. 17 bis al parere paesaggistico, ha evidenziato che il parere impugnato, in quanto reso tardivamente, «è da ritenere non già inefficace, ma semplicemente non vincolante per la P.A. procedente, alla quale spetta tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici». Nel decidere sulle mende formulate in primo grado, il TAR ha, quindi, stabilito che da tale paradigma discendono due conseguenze: (a) l’impugnativa del parere contrario tardivo è manifestamente inammissibile, stante la sua natura non vincolante e, quindi, meramente endoprocedimentale; (b) l’impugnativa del diniego comunale è manifestamente fondata, stante la carenza, nella motivazione dell’atto, di un’autonoma valutazione sugli aspetti paesaggistici, la quale, in mancanza di un presupposto parere vincolante, si palesa doverosa.
[3] Sull’istituto del silenzio assenso la dottrina è sterminata. Sia sufficiente, in questa sede, il richiamo a P.G. Lignani, v. Silenzio (dir. amm.), in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 561 ss.; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, passim; F.G. Scoca, M. D’Orsogna, Silenzio, clamori di novità, in Dir. proc. amm., 1995, 2, 397 ss.; M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, passim; V. Parisio, I silenzi della pubblica amministrazione, Milano, 1996, passim; B.E. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., XIV, Torino, 1999, 179 ss.; B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, Milano, 2003, 894 ss.; L. Giani, Articolo 20. Silenzio assenso, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla l. n. 241/1990 riformata dalle ll. n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2005, 123 ss.; V. Parisio, Silenzio della pubblica amministrazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 234 ss.; M. D’Orsogna, R. Lombardi, Silenzio assenso, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 321 ss.; R. Caponigro, I comportamenti taciti della p.a., in C. Contessa, R. Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole (a trent'anni dalla l. n. 241/1990), Piacenza, 2020, 322 ss.; G. Palliggiano, L'inerzia (significativa e non significativa) della P.A. alla luce del decreto semplificazioni, in Libro della Giustizia Amministrativa, Torino, 2021, 278 ss. Sui rapporti tra art. 20 e art. 17 bis l. n. 241/1990, sia consentito il rinvio pure a G. Delle Cave, Il silenzio assenso, in V. Italia, S. D’Ancona, P. Pantalone, G. Ruggeri, A. Zucchetti (a cura di), L'attività amministrativa, Milano, 2020, 716 ss.
[4] T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 giugno 2015 n. 1261, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 2 febbraio 2011, n. 224, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 marzo 2011 n. 440 e T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 20 giugno 2009 n. 448, in giustizia-amministrativa.it., in cui si afferma che le valutazioni di compatibilità ambientale «concretano un apprezzamento tecnico discrezionale rispetto al quale il sindacato del giudice è circoscritto alle situazioni connotate da evidenti illegittimità e da incongruenze manifeste, mentre non può tradursi nella formulazione di giudizi che spettano solo all'autorità competente». Secondo poi T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, 24 dicembre 2007 n. 398, in giustizia-amministrativa.it, non è ammissibile la surrogazione delle valutazioni tecniche spettanti alle amministrazioni preposte alla tutela dell'ambiente, paesaggistico territoriale e della salute dei cittadini.
[5] Secondo la giurisprudenza, la funzione esercitata dalla Soprintendenza, benché consultiva «assume valenza, in sostanza, di tipo co-decisionale rispetto alla determinazione di autorizzazione paesaggistica» (Cons. Stato, sez. VI, 04 giugno 2015, n. 2751, in Riv. giur. ed., 2015, 4, 768 ss.). Con l’entrata in vigore nel 2010 dell’art. 146 cit., «la Soprintendenza esercita, non più un sindacato di legittimità ex post […] sulla autorizzazione già rilasciata dalla regione o dall'ente delegato, con il correlativo potere di annullamento, ma un potere che consente di effettuare ex ante valutazioni di merito amministrativo, con poteri di cogestione del vincolo paesaggistico» (inter alia, Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2019, n. 3870, in giustizia-amministrativa.it).
[6] A. Berlucchi, op. cit., 130 ss. Secondo l’A., «l’atto autorizzatorio, in buona sostanza, viene deciso sostanzialmente nel suo contenuto dalla Soprintendenza ma formalmente imputato all’ente subdelegato, solitamente il Comune».
[7] Prima della riforma de qua (l. n. 124 del 2015), secondo quanto stabilito dall’art. 146 del Codice del paesaggio, l’autorità competente alla gestione del vincolo - di regola il Comune, delegato dalla Regione - doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del Soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o adeguamento della strumentazione urbanistica alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Si parlava, allora, di “silenzio devolutivo”, nel senso che, decorso inutilmente il termine senza che la Soprintendenza avesse comunicato il parere, il Comune aveva il dovere funzionale di decidere da solo e doveva provvedere sulla domanda (cfr. art. 146, comma 9: “Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”).
In caso di inerzia del Comune e di inutile decorso di questo termine, non essendo tale fattispecie tipizzata e resa significativa in alcun senso - né positivo, né negativo – dalla legge, e non potendosi, come si è visto, fare applicazione dell'articolo 20 della legge n. 241 del 1990, si aveva a che fare con una normale ipotesi di inerzia non significativa della p.a. di silenzio-inadempimento, ricorribile dinanzi al Tar ex articolo 117 c.p.a. cfr. Contributo di Piero Carpentieri, Consigliere di Stato, 11.04.2022.
[8] Sull’attività consultiva e pareri in generale si vedano ex plurimis: A. Amorth, La funzione consultiva e i suoi organi, in Amm. civ., 1961, 397 ss.; F. Trimarchi, Funzione consultiva e amministrazione democratica, 1974, Milano, 35 ss.; C. Barbati, L'attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002, 132 ss.; V. Parisio, Novità e conferme nella discplina degli atti consultivi prevista nella l. 15 maggio 1997 n. 127, in Aa.Vv., Semplificazione dell'azione amministrativa e procedimento amministrativo alla luce della l. 15 maggio 1997 n. 127, 1998, Milano, 68 ss.; G. Ghetti, La consulenza amministrativa, 1974, Padova, 198 ss.; F. Franchini, Il parere nel diritto amministrativo, 1945, Milano, 44 ss.; V. Parisio, L’attività consultiva, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, 2011, Milano, 324 ss.; M. Nicosia, Il procedimento amministrativo: principi e materiali. Commento alla l. 241/1990 e alla sua attuazione con i d.p.r. 300 e 352/1992, 1992, Napoli, 138 ss.
[9] Si segnalano T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 21 settembre 2006, n. 669; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 aprile 2012, n. 382; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 24 febbraio 2014 n. 459, tutte in giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. VI, 04 ottobre 2013, n. 4914, in Urb e app., 2013, 12, 1344 ss.
[10] Si vedano, Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1561, in giustizia-amministrativa.it; Id., sez. VI, 27 aprile 2015 n. 2136, in Riv. giur. ed., 2015, 775 ss.; Id., sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 4927, in giustizia-amministrativa.it; Id., sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1935, in Foro amm.-T.A.R., 2016, 3, 1204 ss.; Id., sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3179, in giustizia-amministrativa.it.
[11] T.A.R. Veneto, sez. II, 14 novembre 2013 n. 1295, in giustizia-amministrativa.it. Secondo altra giurisprudenza la mancanza del parere vincolante avrebbe imposto all’amministrazione competente di concludere il procedimento dichiarando l’improcedibilità (con conseguente possibilità dell'interessato di ricorrere avverso l’inerzia e di chiedere il risarcimento del danno da ritardo: in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 30 luglio 2013, n. 4914, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 4, 322 ss.).
[12] Ex plurimis, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 24 luglio 2013, n. 1739; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2267, 2015; T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 20 gennaio 2016, n. 41; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 20 settembre 2016 n. 1446, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[13] In sintesi, da un lato v'è chi sostiene che il parere trasmesso o formulato oltre il termine «deve essere considerato privo dell'efficacia attribuitagli dalla legge, dunque privo di valenza obbligatoria e vincolante» (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 24 maggio 2021, n. 3431; Id., sez. III, 14 gennaio 2021, n. 271; Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2020, n. 388, tutte in giustizia-amministrativa.it). In termini ancora più netti T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 29 novembre 2021, n. 2589, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui il parere deve dichiararsi inefficace e non semplicemente privo di “carattere vincolante”. Un contrario orientamento di una parte della giurisprudenza afferma, invece, che il decorso del termine di 45 giorni non precluderebbe «alla Soprintendenza stessa di provvedere e neppure sottrae al parere tardivo la sua ordinaria attitudine conformativa; non vi è, infatti, nell'invocato art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall'esercizio del relativo potere, una volta decorso il termine ivi previsto». Più di recente, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 07 febbraio 2022, n. 169, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui l'effetto della trasmissione tardiva del parere della Soprintendenza non è la consumazione del potere o la trasformazione del valore del parere da vincolante in non vincolante, «ma da un lato “l'esigibilità” dell'obbligo di concludere la fase del procedimento con possibile ricorribilità al g.a. da parte del privato con il ricorso per silenzio e dall'altro lato la prescindibilità dello stesso parere da parte dell'Autorità procedente, con la conseguenza che la decisione viene rimessa alla sua esclusiva responsabilità».
[14] Con riguardo a tale articolo, autorevole dottrina (Parisio) ha chiarito come i poteri vincolanti vadano esclusi dal relativo ambito di applicazione altrimenti ricorrendo l’interprete in «un insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito dalla legge come vincolante finirebbe di fatto col perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all'amministrazione attiva la possibilità di prescinderne»; V. Parisio, Art. 16, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2011, Milano, 715 ss.
[15] Sulla non applicabilità del silenzio assenso al parere della soprintendenza ex art. 16, 17 e 20 l. n. 241/1990, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 9 febbraio 2012, n. 685; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 aprile 2012, n. 382; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 03 settembre 2015, n. 11030, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[16] Merita una riflessione, sul punto, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria 27 luglio 2016, n. 17, in giustizia-amministrativa.it, la quale ha precisato che il silenzio assenso previsto dalla l. n. 394/1991 (legge quadro sulle aree protette) non è stato implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 80/2005, che nell’innovare l'art. 20 l. n. 241/90, ha escluso che l'istituto del silenzio assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica. Pur riferendosi la pronuncia ad altro contesto normativo, si può ritenere che gli interessi coinvolti e la materia specifica siano simili e che quindi i rilievi della pronuncia possano risultare qui di interesse. Le ragioni per cui il giudice amministrativo giunge a tali conclusioni sono le seguenti: a) non si rinviene un’indicazione della giurisprudenza costituzionale in senso preclusivo alla possibilità per il legislatore ordinario statale di dotarsi dello strumento di semplificazione procedimentale rappresentato dal silenzio assenso anche in materia ambientale, laddove si tratti di valutazione con tasso di discrezionalità non elevatissimo; b) neppure la giurisprudenza comunitaria ha fornito indicazioni precise in tal senso: la Corte di giustizia europea (ex aliis, 28 febbraio 1991, causa C-360/87; 10 giugno 2004, causa C-87/02; 26 febbraio 2011, causa C-400/08) ha ritenuto non compatibile la definizione tacita del procedimento solo quando però, per garantire effettività agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse necessario un’espressa valutazione amministrativa quale un accertamento tecnico o una verifica. In questi casi, la previsione del silenzio assenso darebbe adito al rischio che l’amministrazione non svolga quella attività istruttoria imposta a livello comunitario per la tutela di particolari valori e interessi. In dottrina, A. Berlucchi, op. cit.; G. Sciullo, Gli interessi sensibili in recenti prese di posizione del Consiglio di Stato, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 56 ss.
[17] L’art. 17 bis riguarda, infatti, anche i pareri vincolanti (da ritenere inclusi nell’ampia nozione di “assensi comunque denominati”) resi in uno schema di provvedimento, non ponendo eccezioni per gli interessi sensibili.
[18] Corte cost., 17 dicembre 1997, n. 404, in Foro amm., 1998, 1321 ss.; Id., 10 marzo 1998, n. 302, in Giust. civ., 1998, 1390 ss.; Id., 01 luglio 1992, n. 307, in Giur. it., 1998, 1, 505 ss.
[19] Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1306 ss. Ed ancora, «la semplificazione procedimentale può sì perseguire l'obiettivo di speditezza del procedimento ma non surrettiziamente invertire il rapporto sostanziale tra interessi e sottrarre effettività a un principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale qual è la tutela del paesaggio» (Cons. Stato, sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3039, in Riv. giur. ed., 2012, 4, 707 ss.).
[20] Secondo il TAR Salerno, in particolare, «il meccanismo del silenzio assenso tra amministrazioni, di cui all’art. 17 bis della l. n. 241/1990, non si applica al parere paesaggistico soprintendentizio previsto nell’ambito dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. 42/2004, n. 42; ne consegue che detto parere, se reso tardivamente, è da ritenere non già inefficace, ma semplicemente non vincolante per la P.A. procedente, alla quale spetta tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici».
[21] Si vedano, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 07 aprile 2022, n. 2584, in Riv. giur. ed., 2022, 3, 821 ss.; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 07 febbraio 2022, n. 169, in giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640, in Foro amm., 2021, 3, 480 ss.; Id., Sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765, in giustizia-amministrativa.it.
[22] Sul punto, in particolare quanto all’analisi dei profili evidenziati dall’indirizzo pretorio in commento, sia consentito il rinvio a G. Delle Cave, Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990 (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640), in Giustizia Insieme, 2021.
[23] In generale sull'istituto del silenzio assenso, vedasi F.G. Scoca, Modello tradizionale e trasformazioni del processo amministrativo dopo il primo decennio di attività dei tribunali amministrativi regionali, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, 1985, Rimini, 236 ss.; Id., Il silenzio della pubblica amministrazione: la ricostruzione dell'istituto in una prospettiva evolutiva, in V. Parisio (a cura di), Inerzia della pubblica amministrazione e tutela giurisdizionale: una prospettiva comparata, Milano, 2002, 3 ss.; V. Parisio, Silenzio della pubblica amministrazione, in M. Clarich , G. Fonderico (a cura di), Dizionario del diritto amministrativo, Milano, 2006, 1022 ss.; Id., Silenzio della pubblica amministrazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, VI, Milano, 2006, 5550 ss.; A. Travi, La semplificazione amministrativa come strumento per far fronte alla crisi economica, in giustamm.it, 2016; M. P. Chiti, Semplificazione delle regole e semplificazione dei procedimenti: avversari o alleati?, in Foro it., 2006, 1057 ss.; G. Morbidelli, Il silenzio assenso, in V. Cerulli Irelli (a cura di), La disciplina generale dell'azione amministrativa, 2006, Napoli, 265 ss.
[24] In dottrina, si veda, ex plurimis, M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a. silenzio assenso e autotutela, in federalismi.it, 2015, 17 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento orizzontale all'interno della nuova amministrazione disegnato dal Consiglio di Stato, in federalismi.it, 2016; Id., Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni: l'art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 dopo l'intervento del Consiglio di Stato. Rilevanza dell'istituto nella gestione dell'interesse paesaggistico e rapporti con la conferenza di servizi, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 10 ss.; G. Mari, Autorizzazioni preliminari e titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell'edilizi, la conferenza di servizi e il silenzio assenso id cui agli artt. 17-bis e 20 l. n. 241/1990, in Aa.Vv., Semplificazione e trasparenza amministrativa: esperienze italiane ed europee a confronto, atti dei convegni Strategie di contrasto alla corruzione: l. 06/11/2012 n. 190 e s.m.i. e Titoli abilitativi edilizi, Sblocca Italia e Decreti del Fare, Napoli, 2016, 39 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2017.
[25] Sul punto, peraltro, giova evidenziare come il pluridecennale dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sul tema si è, da tempo, indirizzato verso posizioni diametralmente opposte – o comunque parzialmente diverse e “temperate” – all’applicazione tout court degli istituti di semplificazione (tra cui il silenzio assenso) nell’ambito della tutela di interessi sensibili, rilevando, in buona sostanza, come detti istituti non debbano trovare applicazione (o comunque un’applicazione limitata a pochi circostanziati casi) quando è in gioco la protezione dell'ambiente. Sulla scia di tale consolidata impostazione ed indirizzo, si veda, da ultimo, R. Leonardi, op. cit., 354 ss.
[26] Stando poi al tenore letterale, il silenzio assenso procedimentale attiene ai soli casi in cui una amministrazione è tenuta ad acquisire l’assenso di una altra amministrazione su uno schema di provvedimento già predisposto dalla prima. In base a tale interpretazione, l’art.17 bis non trova invece applicazione nel caso in cui le diverse amministrazioni coinvolte siano chiamate a compiere valutazioni nell'ambito di un procedimento a struttura complessa (nel corso della cui istruttoria sia necessario acquisire pareri e valutazioni con il coinvolgimento di una pluralità di amministrazioni), in tal caso trovando applicazione gli artt. 16 e 17 della l. n. 241/90 (articoli che escludono il silenzio assenso e, in termini più generali, forme di semplificazione quali anche il silenzio devolutivo in caso di interessi sensibili coinvolti). Parimenti la norma «non sarebbe applicabile nei procedimenti collegati relativi ad autonomi atti di assenso funzionali a consentire lo svolgimento di un’attività e che risultano essere l’esito di distinte valutazioni delle amministrazioni» (G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso, in Riv. giur. ed., 2016, 3, 61 ss.).
[27] Sulle criticità in merito all'applicazione dell'art. 17 bis alle materie sensibili si veda, in particolare, G. Corso, La riorganizzazione della P.A. nella legge Madia: a survay, in federalismi.it, 2015; F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, in Urb. e app., 2016, 1, 11 ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni, in A. Romano (a cura di), L'azione amministrativa, 2016, Torino, 566 ss.
[28] Per un’analisi approfondita, F. Martines, La “non decisione” sugli interessi pubblici sensibili: il silenzio assenso fra amministrazioni pubbliche introdotto dall'art. 17 bis della l. 241/1990, in Dir. amm., 2018, 3, 747 ss.
[29] Si vedano le considerazioni di F. De Leonardis che (nel citato scritto Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17 bis introdotto dalla cd. riforma Madia) osserva come «appare chiaro che norma costituisce una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre più parificati a quelli ordinari». L’A., a sostegno dell’opportunità di mantenere in vita la previgente esclusione del regime semplificatorio per le materie sensibili, mette in evidenza per un verso l’incoerenza della nuova disciplina rispetto a quella prevista per il silenzio assenso dell’art. 20 L. 241/1990 e, per altro verso, afferma (richiamando E. Casetta) che «non tutti gli interessi tollerano una disciplina procedimentale che comporti una semplificazione in grado di sacrificare la corretta ponderazione di alcuni valori».
[30] F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, op. cit., il quale osserva che, in realtà, «la norma non introduce nulla di nuovo quanto al profilo della intensità della tutela degli interessi sensibili ed anzi, letta insieme alla norma di delega legislativa in materia di silenzio assenso, contenuta nella stessa L. n. 124/2015 (art. 5), può rappresentare l'occasione per ricondurre in un ambito di coerenza costituzionale la normativa già vigente in tema di silenzio in materie sensibili».
[31] Corte Cost., 01 luglio 1992, n. 307, ove si evidenzia che i principi fondamentali da osservarsi in tema di smaltimento dei rifiuti, stante la necessità di tutelare la salute e l'ambiente, escludono la possibilità del ricorso al silenzio assenso. Per la Corte tale esclusione è motivata «proprio perché si impone la tutela della salute e dell'ambiente che sono beni costituzionalmente garantiti e protetti».
[32] Ex plurimis, Corte cost., 10 ottobre 1992, n. 393.
[33] Corte cost., 12 febbraio 1996, n. 26, in Giur. it., 1996, I, 271 ss. In particolare, secondo questa giurisprudenza costituzionale, l’istituto del silenzio assenso non può ritenersi compatibile con i principi di buon andamento della P.A., in presenza di procedimenti complessi, caratterizzati da un alto tasso di discrezionalità.
[34] Ci si riferisce al parere Cons. Stato, Ad. speciale, 23 giugno 2016, n. 1640, in giustizia-amministrativa.it.
[35] Sul tema, V. Parisio, Interessi forti e interessi deboli: la natura degli interessi come limite alla semplificazione del procedimento amministrativo nella l. 7 agosto 1990, n. 241, in Dir. proc. amm., 2014, 839 ss.; F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell'attività amministrativa. I. Profili critici e principi ricostruttivi, Milano, 2000; A. Police, Riflessioni sui tortuosi itinerari della semplificazione nell'amministrazione della complessità, in apertacontrada.it, 2013.
[36] A. Del Prete, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: profili critici e problematici, in Riv. giur. ed., 2018, 3, 75 ss.
[37] Cons. Stato, Ad. speciale, 23 giugno 2016, n. 1640.
[38] Ed infatti, l’art. 11, comma 9, del d.p.r. n. 31/2017, relativo ad interventi sottoposti a procedura autorizzativa paesaggistica semplificata, stabilisce che «in caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell'articolo 17-bis della l. 7 agosto 1990 n. 241, e successive modificazioni e l'amministrazione procedente provvede al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica». Sul punto, si richiamano anche le circolari MIBACT del 10 novembre 2015 e del 20 luglio 2016, ove si distingue tra procedimenti ad istanza di parte privata e quelli in cui la domanda provenga dalla P.A.: per i primi resta applicabile l’art. 20 della l. n. 241/1990 e quindi l’inclusa esclusione degli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico; «trova invece applicazione il nuovo art. 17 bis in tutti i casi in cui la domanda provenga da una p.a. anche ove il destinatario finale dell'atto titolare della posizione soggettiva condizionata al previo atto di assenso sia un privato e la sua domanda sia intermediata e vincolata dallo sportello unico comunale». Secondo quanto chiarito nella circolare, l’art. 17 bis trova poi applicazione «qualora l’inerzia concerna pareri vincolanti in quanto atti aventi natura di codecisione» (rientrando invece i pareri non vincolanti nell’ambito della disciplina di cui all’art. 17 della l. n. 241/1990).
[39] P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, op. cit. Ciò pur a fronte delle perplessità espresse in relazione all'operatività dell'art. 17 bis della l. n. 241/1990, che l’A. definisce «espressione di un generale e preoccupante processo di dequotazione della tutela garantita agli interessi sensibili che caratterizza in modo sempre più netto il nostro sistema, specie all'esito della c.d. riforma Madia».
[40] F. D’Angelo, L'autorizzazione paesaggistica: inapplicabilità del silenzio assenso “endoprocedimentale”, in Dir. Amm., 2021, 2, 231 ss.
[41] Si pensi, poi, alla riduzione dell'incisività del ruolo attribuito alla Soprintendenza dal Codice (nelle ipotesi in cui si formi il silenzio assenso, il procedimento sarebbe reso privo di un contributo istruttorio qualificato che, storicamente, le regioni o i comuni non sono apparse in grado di offrire per ragioni politiche o organizzative; inoltre, l'istruttoria eventualmente avviata dagli organi ministeriali diverrebbe inutile e ininfluente rispetto alla determinazione finale, con vanificazione delle risorse impiegate) e al rischio di deresponsabilizzare, oltre i funzionari ministeriali, le amministrazioni procedenti.
[42] Tale conclusione sembrerebbe confermata dall'introduzione del comma 8 bis nell'art. 2 della l. n. 241/1990 ad opera del D.L. n. 76/2020, convertito dalla L. n. 120/2020, che sancisce l'inefficacia, fra gli altri, dei pareri di cui all'art. 17 bis adottati «dopo la scadenza dei termini previsti [...] fermo restando quanto previsto dall'articolo 21- nonies».
[43] F. D’Angelo, op. cit.
[44] Ex aliis, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VI, 07 giugno 2019, n. 3099; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 08 giugno 2017, n. 394; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 10 maggio 2018, n. 153, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[45] Per un approfondimento sulla sentenza in oggetto, cfr. S. Speranza, Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022), in Giustizia Insieme, 2022. In giurisprudenza, si vedano i riferimenti contenuti in Cons. Stato, Sez. VI, 08 gennaio 2020, n. 129; Id., sez. VI, 18 settembre 2017, n. 4369; Id., sez. VI, 12 settembre 2017, n. 4315 e Id., sez. VI, 18 luglio 2017, n. 352, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[46] Cfr. M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in federalismi.it, 2020, 10.
[47] Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2017, n. 5799, in giustizia-amministrativa.it.
[48] In particolare, ai sensi dell’art. 11 cit., l’amministrazione procedente, ricevuta l’istanza, verifica preliminarmente se l’intervento non rientri nelle fattispecie escluse dall’autorizzazione paesaggistica di cui all’Allegato A, ovvero all’articolo 149 del Codice del paesaggio, oppure se sia assoggettato al regime autorizzatorio ordinario, di cui all'articolo 146 del d.lgs. n. 42/2004. Il comma 9 richiamato, poi, espressamente specifica che “in caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell'articolo 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e l'amministrazione procedente provvede al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica”.
[49] Trattasi di T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 13 ottobre 2022, n. 6303. Si evidenzia che altre sentenze, pur non affrontando il tema dell’operatività dell’art. 17 bis, definiscono il parere della Soprintendenza «espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; Id., sez. VI, 18 marzo 2021, n. 2358, in giustizia-amministartiva.it), «nel quale l’apprezzamento di merito correlato alla tutela del valore paesaggistico è rimesso alla Soprintendenza».
[50] Cfr., in particolare, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 30 novembre 2020, n. 1811, in giustizia-amministrativa.it.
[51] Cfr. Cons. Stato, comm. spec., 23 giugno 2016, n. 1640, reso su uno specifico quesito posto dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione; Id., sez. VI, 01 ottobre 2019, n. 6556; Id., sez. IV, 14 luglio 2020, n. 4559; Id., sez. V, 14 gennaio 2022, n. 255, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[52] Si veda Cons. Stato, sez. VI, 19 agosto 2022, n. 7293, in giustizia-amministrativa.it.
[53] È evidente, però, che un “tacito assenso” può formarsi solo alla tassativa condizione che l’Amministrazione coinvolta abbia piena e completa cognizione del tipo di provvedimento che si intende assumere; si veda Cons. Stato, sez. VI, 27 luglio 2020, n. 4765; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 29 marzo 2021, n. 821, in giustizia-amministrativa.it.
[54] Tutto ciò determina l’operatività, quindi, del silenzio assenso, che «si applica ad ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda al suo interno una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso» (cfr. parere n. 1640/2016 cit.).
[55] Secondo l’orientamento pretorio in esame non deve sfuggire, peraltro, il parallelismo procedurale esistente tra le disposizioni di cui: (a) ai commi 7 e 8 dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, in base ai quali “l’amministrazione […] trasmette al soprintendente la documentazione presentata dall’interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa, nonché con una proposta di provvedimento. Il soprintendente rende il parere […] entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti”; (b) al comma 1 dell’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990, in base al quale “le amministrazioni o i gestori competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta, entro trenta giorni [novanta, nelle ipotesi di cui al comma 3] dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente”.
[56] Non è infatti possibile sostenere che, nella fattispecie, la Regione svolga un compito puramente servente rispetto all’amministrazione realmente munita del potere di decidere (attraverso il parere vincolante): vuoi perché la legge dispone che “sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la Regione”, vuoi perché quest’ultima, oltre ad essere titolare del potere di decidere in via esclusiva sugli aspetti urbanistico-edilizi, è tenuta ad esprimersi direttamente sugli aspetti paesaggistici, attraverso le valutazioni della commissione per il paesaggio ed il conseguente potere di proposta.
[57] In questo senso, peraltro, si era pronunciato l’Ufficio legislativo del Ministero dei beni culturali all’indomani dell’introduzione dell’art. 17 bis (si veda il parere 0021892/20 del 20 luglio 2016, precisazioni alla nota circolare prot. 27158 del 10 novembre 2016, e parere 002323 del 20 settembre 2018).
[58] D’altra parte, vi è una tendenza dell’ordinamento ad attribuire carattere sempre più generale all’istituto del silenzio assenso, come evidenziato anche dalle più recenti riforme, in particolare i d.l. “Semplificazione” n. 76/2020 e n. 77/2021. Peraltro, la modifica legislativa dell’art.17 bis (ora rubricato “Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici”, che ha sostituito le parole “silenzio assenso” con le parole “effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti”), ha reso sicuramente più problematica la figura generale del silenzio assenso.
[59] Si vedano pure le conclusioni già enucleate in G. Delle Cave, Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A., Op. cit.
[60] Come evidenziato in dottrina (A. Del Prete, op. cit.), «se da un lato si possono tendenzialmente ritenere compatibili con la tutela di interessi sensibili […] moduli di semplificazione consistenti nel coordinamento ed unificazione di procedimenti connessi, più delicato è il discorso in relazione a quei sistemi che consentano di prescindere dal pronunciamento dell'amministrazione. E ciò sia per il valore costituzionale dell'interesse tutelato, che impone un'adeguata istruttoria e ponderazione, sia anche per le peculiari caratteristiche che connotano le autorizzazioni in materia ambientale, come quelle relative al paesaggio e ai beni culturali».
[61] In tal senso, è stato suggerito da parte della dottrina di escludere i procedimenti ad elevato contenuto discrezionale, applicando il criterio della differenziazione dei livelli e delle modalità procedimentali, sulla scorta di quanto già avviene per i rapporti tra P.A. e privati.
[62] In dottrina, si veda A. Morrone, La modifica dell'art. 9 della Costituzione, in La riforma costituzionale in materia di tutela dell'ambiente, 2022; A. Romano, A. Cioffi, Un primo sguardo sulle questioni aperte, introduzione all'incontro Art. 9 e Costituzione: interessi e territorio, alla ricerca di un equilibrio, in apertacontrada.it, con relazioni di S. Amorosino, F. De Leonardis, Paesaggio e ambiente, art. 9 e art. 41 Cost., una lettura attuale; G. Rossi, La riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione tra continuità e innovazione, Università di Pisa e Riv. quadr. dir. amb., 2022; I. Nicotra, L'ingresso dell'ambiente in Costituzione, un segnale importante dopo il Covid, in federalismi.it, 2021; T.E. Frosini, La Costituzione in senso ambientale. Una critica, in federalismi.it, 2021, 16. In senso critico, G. Severini, P. Carpentieri, Sull'inutile, anzi dannosa, modifica dell'art. 9 della Costituzione, in Giustizia Insieme, 2021; F. Rescigno, Quale riforma per l'articolo 9, in federalismi.it, 2021, che criticamente osserva come «l'elenco formulato sia fuorviante, poco chiaro e foriero di numerosi possibili conflitti in merito ad una possibile interpretazione costituzionalmente orientata. Il problema è che spesso quando si dice troppo, in realtà non si dice nulla». Cfr. pure A.L. De Cesaris, Ambiente e Costituzione, in federalismi.it, 2021.
[63] Ed infatti l’art. 9 della Costituzione prevede, letteralmente, che la Repubblica “tutela” il paesaggio (comma 2) e l’ambiente (comma 3). Non si fa, quindi, riferimento a concetti - se si vuole, più “soft” - come “vigilanza” (esemplificativo di atteggiamenti passivi) e/o “protezione” (es. di difesa puntuale estemporanea a seguito di un attacco): lo Stato, con riferimento a detti beni, “tutela”, laddove quest’ultimo concetto non racchiude una protezione emergenziale, ma sistematica e preventiva, apparentemente incompatibile, dunque, con i risvolti di un silenzio.
[64] Si veda, in dottrina, C. Sartoretti, La riforma costituzionale “dell'ambiente”: un profilo critico, in Riv. giur. ed., 2022, 2, 119 ss.
[65] Cfr. S. Amorosino, La “dialettica” tra tutela del paesaggio e produzione di energia da fonti rinnovabili a tutela dell'ambiente atmosferico, in Riv. giur. ed., 2022, 4, 261 ss.
[66] Nel caso in commento, la violazione del dettame costituzionale avverrebbe «in modo subdolo ma palese, posto che il silenzio assenso in realtà sostituisce l’oggetto dell’autorizzazione paesaggista, dall’impatto sul paesaggio […] alla mera attività che lo procede»; A. Di Blasi, Beni ambientali. Gli effetti del silenzio assenso e tutela dell’art. 9 Cost, i limiti della discrezionalità del legislatore, in lexambiente.it, 2019; M.A. Sandulli, Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2012, Milano, 3 ss.
[67] In particolare, il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, introdotto dal d. l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), sancisce, in estrema sintesi, l’inefficacia del provvedimento emanato oltre i termini procedimentali in tutti i casi in cui operi il regime del silenzio assenso, nonché nelle ipotesi di SCIA. Per una approfondita analisi, si veda M. Calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in giustiziainsieme.it, 2020. Anche sulla base di questa disposizione, si è giunti a considerare irrilevante, in quanto privo di effetti nei confronti dell’autorità competente, il parere tardivo della Soprintendenza.
[68] Si evidenzia che la differenza sostanziale tra silenzio “devolutivo” e silenzio “assenso” sta nel fatto che, nel primo caso, l’autorizzazione paesaggistica è imputata esclusivamente all'ente territoriale che l’ha rilasciata, mentre - nel secondo caso - essa si intesta in “co-decisione” a entrambe le amministrazioni.
[69] F. D’Angelo, op. cit.
[70] L’art. 17 bis in commento, insomma, si potrà applicare al procedimento di cui all'art. 146 cit. limitatamente, come detto, al rapporto “orizzontale” tra Soprintendenza e Comune, solo fin quando il parere della soprintendenza conserverà il suo effetto vincolante, ma non più quando il suddetto parere cesserà di essere vincolante e resterà solo obbligatorio. Come pure evidenziato in dottrina, venuta meno, infatti, in tal caso, la sua natura decisoria, «esso ricadrà nell'ambito applicativo della diversa previsione di cui all'art. 17, comma 2, della l. n. 241 del 1990, in quanto mero parere consultivo tecnico reso da un'amministrazione preposta alla tutela paesaggistico-territoriale (neppure, dunque, surrogabile mediante le valutazioni tecniche di altri organi dell'amministrazione pubblica o di enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero di istituti universitari, trattandosi — giusta la disposizione del comma 2 del citato art. 17 — di valutazioni che devono essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini)». Si veda, recentemente, P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all'autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l'inesauribilità del potere amministrativo?, in Riv. giur. ed., 2022, 2, 77 ss.
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