ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Abusi edilizi e criterio della vicinitas. L’interesse al ricorso del terzo avverso provvedimenti edilizi tra prerogative proprietarie e tutela dell’interesse legittimo (Cons. St., Sez. II, 17 ottobre 2022 n. 8841)
di Maria Grazia Della Scala
Sommario: 1. La vicenda. L’abuso edilizio e il controverso interesse al ricorso del terzo. – 2. Il requisito della vicinitas tra legittimazione al ricorso e interesse ad agire. – 3. La rinunzia all’azione. – 4. L’azione di annullamento come azione risarcitoria. – 5 La pretesa compensatio lucri cum damnocome criterio di determinazione delle condizioni dell’azione. – 6. La dimensione sostanziale dell’interesse legittimo.
1. La vicenda. L’abuso edilizio e il controverso interesse al ricorso del terzo.
La recente pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 8841/2022, torna ad occuparsi dell’annoso tema dell’interesse al ricorso in capo al terzo avverso decisioni dell’amministrazione in materia urbanistico-edilizia, riguardando il caso, apparentemente semplice nell’ambito delle teorizzazioni sul requisito della vicinitas, di ricorso proposto dal proprietario confinante, oltre che comproprietario della parte comune interessata dall’intervento edilizio. Nega tuttavia tale interesse, con riflessioni dense d’interesse.
La vicenda in esame prende le mosse dalla realizzazione da parte di un proprietario - condomino di un intervento edilizio in una porzione di sottotetto di proprietà comune, consistente in un bagno, un disbrigo, due ripostigli e una scala di collegamento interna con il suo appartamento sottostante; tale intervento in parte sovrastava l’appartamento di altra condomina, la quale segnalava al Comune l’abusività delle opere, sollecitando l’esercizio dei relativi poteri sanzionatori.
Il Comune ordinava all’autore la rimessione in pristino dei luoghi stante l’assenza di titolo abilitativo per l’intervento realizzato; successivamente, gli negava la concessione in sanatoria, per carenza di un idoneo titolo di proprietà (con decisione non censurata dal TRGA di Trento: sent. n. 361/2014). A seguito di ulteriori due provvedimenti di diniego di concessione in sanatoria, il Comune ordinava nuovamente, a distanza di circa nove anni dalla precedente ordinanza, la rimozione delle opere realizzate qualificandole come “consistenti in occupazione con cambio di destinazione d’uso di una porzione di sottotetto condominiale…”. Tale provvedimento, diversamente dal precedente, richiamando un parere della Commissione edilizia che non ravvisava contrasto con rilevanti interessi urbanistici, consentiva, in alternativa alla rimessione in pristino, la fiscalizzazione dell’abuso.
Tale ultimo atto veniva impugnato dall’interessata, deducendosi violazione dell’art.129, commi 1, 3 e 5 della legge provinciale n. 1/2008, la quale, a fronte di nuove opere realizzate in assenza di titolo abilitativo, non consentono l’applicazione della sanzione pecuniaria[1].
Il giudice di prime cure respingeva l’eccezione di inammissibilità avanzata dal Comune resistente e dal controinteressato per la carenza di legittimazione e/o di interesse al ricorso, motivando ampiamente in relazione alla sussistenza delle condizioni dell’azione.
Riconosceva pacifica la legittimazione al ricorso in ragione della vicinitas, non reputandosi revocabile in dubbio la sussistenza di quella posizione particolarmente “qualificata e differenziata (avente consistenza di interesse legittimo), correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato” (richiamando Cons. St., ad plen. n.3/2022). D’altra parte, aderendo alla teorica distinzione tra legittimazione e interesse al ricorso, ammetteva che la situazione di fatto idonea a radicare la legittimazione consentisse, nel caso di specie, di ricavarvi parimenti quel vulnus che fonda l’interesse all’azione.
L’individuazione dell’attualità e concretezza della lesione della situazione giuridica soggettiva non veniva considerata, nel caso di specie, esclusa dal risarcimento già ottenuto dalla ricorrente in sede civile. Osservava il giudice di primo grado, anzitutto, come si fosse trattato di una soddisfazione solo parziale, commisurata alla diminuzione di valore di mercato dell’immobile di proprietà dell’interessata in ragione dell’abuso, oltre al riconoscimento di una esigua somma per crepe e fessurazioni determinate dal maggior carico edilizio. Nessun ristoro – che sarebbe stato di ben altra consistenza – la medesima aveva ottenuto quale comproprietaria dell’area occupata dalle nuove opere. Il giudice civile non aveva invero deciso sulla domanda di ordine di rimessione in pristino stante la proprietà condominiale, e non sua esclusiva, delle porzioni di sottotetto interessate dall’intervento.
Rileva soprattutto come il TAR abbia riconosciuto l’interesse ad agire della ricorrente per la rimozione dell’atto amministrativo altresì considerando quest’ultima eterogenea rispetto ai rapporti civilistici conosciuti dal giudice ordinario. Il ricorso veniva quindi ritenuto fondato nel merito.
La decisione di appello ribalta la sentenza di primo grado, accogliendo il motivo dedotto di erroneità della pronuncia in ordine all’ammissibilità del ricorso. Comune al giudice di prime cure è l’idea della necessaria distinzione tra le condizioni dell’azione, ammettendosi in ragione della vicinitas l’immediatezza del riconoscimento della legittimazione ad agire in capo al proprietario confinante, laddove l’interesse al ricorso è identificato con lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento e di cui il terzo invocava la rimozione attraverso gli effetti ripristinatori e conformativi del giudicato di annullamento.
Nel caso in esame il Consiglio di Stato ritiene non configurarsi tale interesse, osservando che la ricorrente in primo grado avrebbe già ottenuto il risarcimento del danno derivante dalle opere realizzate; che tale risarcimento avrebbe conseguito sul presupposto della conservazione delle opere, implicitamente consentendola per il fatto stesso di aver accettato il risarcimento; che il risultato ultimo cui aspirerebbe l’interessata sarebbe dunque il cumulo tra “il già conseguito risarcimento per equivalente e il risarcimento in forma specifica mediante riduzione in pristino”, da negare al fine di scongiurare che il dualismo delle giurisdizioni si risolva in uno “strumento di locupletazione” volto a ottenere ciò che è precluso in un’unica azione, ovvero appunto la sommatoria di risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente.
Si osserva che il giudice di primo grado avrebbe pretermesso la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo, comune al diritto soggettivo, e non riducibile a interesse alla legittimità dell’azione amministrativa.
2. Il requisito della vicinitas tra legittimazione al ricorso e interesse ad agire.
Nessuna questione problematica pone anzitutto la considerazione, condivisa dai giudici dei due gradi, circa la sussistenza in capo all’interessata della legittimazione al ricorso in ragione della titolarità di un di un interesse legittimo asseritamente leso, stante il requisito della vicinitas; soluzione che appare anzi lapalissiana a fronte non solo della contiguità spaziale - anzi adiacenza - tra opere abusive e proprietà dell’interessata, ma anche della comproprietà dell’area riguardata dall’intervento. E’ noto come la vicinitas, quale criterio di individuazione di una situazione giuridica soggettiva idonea a legittimare l’azione davanti al giudice amministrativo, sia andata nel tempo dilatandosi, incrementando le possibilità di tutela avverso atti amministrativi, in genere ampliativi, destinati a produrre i propri effetti tipici nella sfera giuridica altrui[2]. La negazione della legittimazione del terzo[3] appariva invero inadeguata sia a frenare la deturpazione del territorio dovuta a illegittimità diffusa, sia a proteggere interessi che, per la relativa consistenza, non pareva potessero essere ritenuti estranei alla considerazione da parte dell’ordinamento. La successiva estensione a una platea progressivamente più ampia di individui - in ragione della “prossimità del sito” prescelto per la realizzazione dell’intervento o dello “stabile o significativo collegamento con l’insediamento abitativo”, con il contesto territoriale nel quale si realizzava l’intervento - era la risposta più immediata all’audace previsione del legislatore del 1967 che con la l. n. 765 (art. 10), di modifica dell’art.31 della L.U. n. 1150/1942, aveva attribuito a “chiunque” la possibilità di ricorrere avverso titoli edilizi illegittimi. Tale soluzione interpretativa[4], volta a scongiurare l’affermarsi di quell’azione popolare[5] che sarebbe stata idonea a far lievitare il contenzioso e che era percepita come incoerente con la giurisdizione di tipo soggettivo propria del giudice amministrativo, non era tuttavia condivisa da unanime dottrina[6]. Voci autorevoli intendevano la norma di legge piuttosto in modo aderente alla sua lettera, sia pur circoscrivendone la portata secondo ragionevolezza[7], come manifesta e aspirata intenzione di reprimere efficacemente, appunto, il dilagante abusivismo e le non rare illegittimità amministrative[8].
La legittimazione comunque così conformata dal giudice amministrativo quale dilatazione dell’interesse legittimo, tende ad assorbire interessi una volta considerati diffusi[9], in tendenziale corrispondenza con il progressivo incremento degli interessi individuali protetti dall’ordinamento[10]. Si produce così il suo sviluppo: dalle impugnazioni di titoli edilizi a quelle di strumenti urbanistici[11], di atti di localizzazione di opere pubbliche, discariche di rifiuti, stazioni radio, ecc., infine di autorizzazioni commerciali e abilitanti l’esercizio di attività economiche, traducendosi la vicinitas nell’appartenenza al “bacino di utenza”, ovvero nel riferimento alla zona in cui l’impresa trae il proprio profitto[12].
Si è dunque finito per affidare alla vicinitas il ruolo di criterio generale di selezione delle situazioni soggettive tutelate in ogni caso in cui appaiono assumere rilievo, ai fini della differenziazione dell’interesse individuale, profili geografico-spaziali[13]; il che trova particolare conferma nella indifferenza palesata dalla giurisprudenza all’avvenuta abrogazione dell’art. 31 L.U. da parte del TUEL, d.p.r. n. 380/2001[14].
Tralasciando la menzione delle tesi per le quali legittimazione al ricorso e interesse ad agire finirebbero per confluire e confondersi[15], può dirsi senz’altro accolta nel nostro ordinamento positivo la loro teorica distinzione e insieme concorrenza nel connotare anche il processo amministrativo come giurisdizione di tipo soggettivo[16], chiamato a offrire al ricorrente un risultato utile, un vantaggio effettivo dalla pronuncia di accoglimento per l’interesse sostanziale individuale[17]. Accanto alla legittimazione “ordinaria”[18] che “collega la posizione di chi presenta ricorso all’ordinamento giuridico” – l’interesse a ricorrere sposta, dunque l’attenzione “sul rapporto fra l’azione giudiziaria esercitata e lo scopo perseguito in concreto dal soggetto agente”[19]; è “lo stato di fatto” in cui versa la situazione giuridica soggettiva fatta valere[20].
Comunemente l’interesse è riconosciuto in re ipsa laddove il ricorrente che impugni un atto dell’amministrazione incidente sul territorio sia il proprietario confinante[21] del terreno oggetto dell’intervento, ma tendenzialmente è parimente rinvenuto secondo una vicinitas latamente intesa, quale più elastico criterio selettivo[22], finendo per radicarsi nella medesima situazione di fatto da cui scaturisce la legittimazione.
Con l’estendersi della legittimazione sembra essere però progressivamente più sentita la necessità di una puntuale indagine sull’interesse al ricorso, affermandosi posizioni diverse, favorevoli a una sua rigorosa individuazione, in via non solo teorica ma in concreto[23]. Si afferma, in alcuni indirizzi della giurisprudenza, la necessaria dimostrazione del “vulnus specifico” “inferto dagli atti impugnati”[24]. In ulteriori posizioni, si specifica che il criterio della vicinitas sintetizza, con riguardo all’interesse ad agire, situazioni in cui “nella normalità dei casi” “secondo il comune apprezzamento” il pregiudizio proveniente dal titolo impugnato sussiste “senza bisogno di speciali motivazioni”; andrebbe tuttavia allegato, essendovi necessità di dimostrazione solo in caso di specifica contestazione[25].
Se la necessaria allegazione o almeno l’agevole rilevabilità dell’interesse al ricorso riguarda ancora principalmente le ipotesi in cui la vicinitas non coincida, in linea di principio, con l’immediata “contiguità”, una volta affermatosi in via astratta e generale l’onere del ricorrente di provare l’interesse, non vi è invero controversia nella quale il duplice apprezzamento delle condizioni dell’azione possa dal giudice essere a priori omesso.
Al di là di astratti criteri, in ipotesi idonei a introdurre indebiti confini alle ipotesi di ammissibilità dei ricorsi[26], l’interesse all’azione discende dalla peculiarità delle situazioni fattuali e corrisponde a una indagine in negativo: la sua verifica non dovrebbe muovere dalla ricerca dei vantaggi della sentenza di accoglimento, ma registrare “i casi in cui è certo che nessun vantaggio può essere tratto dalla sentenza” alla situazione giuridica soggettiva azionata[27].
Questa utilità non deve poi corrispondere al bene individuale in ipotesi protetto dalle norme di esercizio della funzione violate, invece preordinate al miglior perseguimento dell’interesse generale”, ma a quell’interesse materiale che è presupposto della legittimazione[28]. L’accertamento dell’effettività del pregiudizio, poi, non è condizione di accesso al giudizio, attenendo al merito della controversia[29].
Nel caso in esame, peraltro, l’interesse è stato considerato insussistente, non perché non allegato o dimostrato il pregiudizio a un interesse individuale giuridicamente protetto ma perché ritenuto estinto dalla condanna al risarcimento, anche considerata l’accettazione del risarcimento come implicita rinuncia a coltivare l’azione.
3. La rinunzia all’azione.
Un breve riflessione merita così, anzitutto, proprio l’argomento della rinuncia all’azione implicita nell’accettazione del risarcimento[30]. In linea di principio, nulla pare impedire la rinuncia all’azione per il ristoro del diritto soggettivo leso[31], né al diritto stesso, pur nei modi che saranno in seguito chiariti.
Secondo parte della dottrina, diverso discorso varrebbe per l’interesse legittimo. La soluzione è influenzata dalla particolarità della situazione giuridica soggettiva legittimante il ricorso al giudice amministrativo[32], sede in cui la distinzione tra titolarità della situazione giuridica sostanziale e titolarità del diritto di azione, conquista della riflessione processualcivilistica[33], appare piuttosto necessaria e immanente. Ove si controverta dell’esercizio/mancato esercizio del potere, sembra invero di ostacolo all’abdicazione della situazione giuridica individuale l’intimo legame con l’interesse pubblico[34].
È indiscussa in ogni caso la disponibilità dell’azione giurisdizionale, essendo ammessa la rinuncia che colpisca, appunto, il solo strumento processuale[35].
In ogni caso, la rinuncia all’azione, per poter essere effettivamente rilevata in sede giurisdizionale, deve esprimersi in forma esplicita, sia pur non richiedente formule sacramentali, ovvero per facta concludentia, rinvenibili tuttavia quando vi sia assoluta incompatibilità tra il comportamento dell’attore e la volontà di proseguire nella domanda. La rinuncia implicita presuppone comunque il sostanziale riconoscimento dell’infondatezza dell’azione da parte dell’attore/ricorrente e l’emersione della volontà di non voler proseguire nella richiesta di tutela giurisdizionale[36]. In tal senso è limpido l’art.84 co.3 c.p.a. secondo cui: “Anche in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti, il giudice può desumere dall’intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti di prova della sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa”[37].
Non pare che l’accettazione di un risarcimento, in forma diversa e in misura inferiore al preteso, integri una condotta univoca idonea a integrare rinuncia al residuo risarcimento ottenibile in veste di condomino, tantomeno a un’azione d’impugnazione di un provvedimento amministrativo che peraltro investe interessi ulteriori rispetto a quello meramente economico-proprietario.
Tanto basta per osservare come il Consiglio di Stato abbia voluto far dire troppo alla semplice percezione di un risarcimento. Non ha considerato, oltre il mancato pieno appagamento del diritto, l’eterogeneità delle situazioni giuridiche soggettive tutelate, coerente con la diversa natura delle norme che si assumono violate, e l’alterità soggettiva della parte resistente nel giudizio amministrativo rispetto al convenuto davanti al giudice civile; non ha tenuto conto, dunque, che trattavasi di un’azione nettamente diversa[38].
4. La pretesa compensatio lucri cum damno come criterio di determinazione delle condizioni dell’azione.
La pronuncia in esame nega poi l’interesse al ricorso facendo sostanziale applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, istituto dalle origini risalenti[39], privo di autonomia dogmatica ma accolto come espressione descrittiva di una delle possibili modalità d’impiego del meccanismo causale nella fase di produzione dei pregiudizi, modellando la pretesa risarcitoria in ragione del danno effettivo emergente, tenuto conto “di tutte le conseguenze dell’illecito, ivi comprese quelle eventualmente vantaggiose per il danneggiato”[40]. La compensatio riposa anzitutto sull’assunto che l’istituto della responsabilità civile risponde alla primaria finalità compensativa, di reintegrare il patrimonio del danneggiato nella misura idonea a eliminare le conseguenze pregiudizievoli prodottesi nella sua sfera giuridica, trasferendo il danno derivante dalla condotta illecita dal suo patrimonio a quello del danneggiante. Se la funzione preventiva appare secondaria, quella sanzionatorio-punitiva, che potrebbe giustificare sacrifici maggiori per il danneggiante, si assume che possa essere solo eccezionalmente disposta dalla legge[41].
Pur non trattandosi di un istituto tipizzato, la giurisprudenza, a fronte di posizioni più articolate nella dottrina, ha sempre convenuto che nell’apprezzamento delle conseguenze economiche negative-dirette e immediate – dell’illecito, si debbano considerare anche i vantaggi percepiti, che contribuiscono a ridurre “l’area dei danni effettivamente cagionati dalla condotta del responsabile”, anche laddove abbiano natura non patrimoniale[42] quale espressione di un principio generale dell’ordinamento[43] e corollario logico dell’art.1223 c.c.[44]. Nelle più recenti posizioni della giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, laddove la condotta illecita non produca sia danni che vantaggi ma una pluralità di voci di danno, la formula si risolve nell’esigenza di evitare un cumulo di voci compensativo-risarcitorie[45], costringendo il pluriobbligato a corrispondere più di quanto necessario a ristorare il patrimonio del danneggiato, il quale si avvantaggerebbe così di un indebito arricchimento (c.d. principio dell’indifferenza)[46]. L’indebito arricchimento peraltro potrebbe prodursi anche nell’ipotesi di rapporti trilaterali, come nei casi in cui, in ragione dell’illecito, sia percepita una indennità da obbligato diverso rispetto al soggetto tenuto al risarcimento del danno[47]. Deve quindi considerarsi vantaggio quanto il danneggiato abbia nell’insieme ottenuto in conseguenza del fatto illecito.
È vero poi che la compensatio è ormai comunemente intesa dalla giurisprudenza sia ordinaria che amministrativa quale eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio, come d’ufficio la ha in effetti applicata la II Sezione, oltre che proponibile per la prima volta in appello[48], rappresentando piuttosto un’attività difensiva rientrante nel disposto dell’art.1223 c.c.[49].
Tra i presupposti per la sua operatività, secondo le posizioni più recenti, vi sono tuttavia l’unicità della condotta da cui origina il pregiudizio e che giustifica l’attribuzione di vantaggi al soggetto leso[50], che l’eventuale vantaggio derivi direttamente dall’illecito, sia pur ex lege o ex contractu[51], che quest’ultimo sia di natura omogenea rispetto all’interesse sostanziale leso. Il primo requisito nel caso in esame non pare in effetti ricorrere, avversando l’interessata due diverse condotte: quella illecita del condomino e quella illegittima dell’amministrazione; nemmeno il secondo, nella misura in cui l’eventuale vantaggio deriverebbe qui non direttamente dall’illecito bensì dall’esecuzione di un ordine di demolizione[52], emanato in ragione degli effetti conformativi della sentenza di annullamento di un provvedimento illegittimo. Né il terzo, laddove il fine dell’annullamento del provvedimento e i suoi effetti non si risolvono nella compensazione di un pregiudizio patrimoniale[53]. A voler risalire in ogni caso, con sommo sforzo, alla condotta illecita dell’autore dell’abuso, sembra dunque mancare nel caso di specie anzitutto il rischio di sovracompensazione dovuta a una duplice attribuzione patrimoniale, se non in via del tutto remota e indiretta.
Infine, pur considerando applicabile l’istituto in esame, rileggendo l’annullamento come risarcimento in forma specifica, è di tutta evidenza che il giudice avrebbe dovuto farne uso non ai fini di una decisione in rito, negando l’interesse al ricorso, quanto di una decisione sul merito, in sede di quantificazione del danno, essendo pacificamente la compensatio una tecnica liquidatoria.
Infine, va considerato come nella normalità dei casi il principio comporti che dalla somma riconosciuta a titolo risarcitorio siano sottratte le utilità o le forme compensative altrimenti percepite (usualmente a titolo indennitario). Ove le ultime fossero state già corrisposte il relativo obbligato – si osserva - potrebbe agire per ripetere l’importo corrisposto al danneggiato[54].
5. L’azione di annullamento come azione risarcitoria.
La qualificazione della domanda di annullamento come domanda di risarcimento in forma specifica comporta in realtà una mutatio libelli che, malgrado alcune esitazioni della giurisprudenza[55], è estranea ai poteri del giudice in sistemi improntati al principio dispositivo; azione di annullamento e azione risarcitoria non sono invero pianamente assimilabili[56]. Lo ha ben chiarito l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2015 rimarcando la diversità, nei due casi, degli elementi della domanda. Nella domanda di annullamento la causa petendi sarebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato; nella domanda risarcitoria, invece, l’illiceità del fatto. Diverso appare poi il petitum: nell’azione costitutiva, appunto l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati; nell’azione risarcitoria, la condanna al risarcimento in forma generica o specifica, eterogenea rispetto all’eliminazione dell’atto dal mondo giuridico. Differenti ancora appaiono gli accertamenti richiesti al giudice[57] e l’incidenza della sua pronuncia: il risarcimento – si sottolinea - è infatti disposto su ordine del giudice ed è diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, onde ricostruire una situazione quanto più possibile analoga a quella che precedeva la commissione dell’illecito; “l’annullamento, invece, è restaurazione dell’ordine violato ad opera del giudice”[58]. Tali puntualizzazioni sottendono in definitiva la diversa natura delle norme violate nei due casi; nell’un caso, vi è un equilibrio economico definito da norme intersoggettive da ripristinare concretamente attraverso un’attività esecutiva della pronuncia giurisdizionale, con l’effettiva reintegrazione del diritto leso del danneggiato; nel secondo caso, la tutela dell’interesse pubblico pregiudicato attraverso la violazione della norma sull’esercizio del potere, unitamente a quella della situazione soggettiva connessa a tale esercizio, si realizza per effetto della sentenza costitutiva, salvi i suoi effetti conformativi e la possibilità che l’interesse materiale substrato dell’interesse legittimo risulti o meno integralmente soddisfatto[59].
È proprio l’invocata natura di giurisdizione soggettiva del giudice amministrativo a imporre il rispetto del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato[60], violato ogni qual volta “il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell’azione” ovvero ponga a fondamento della propria decisione fatti o situazioni avulsi dalla materia del contendere[61].
Ben aveva deciso, pertanto, il giudice di prime cure, riconoscendo come l’interesse della ricorrente consistesse nell’avversare un atto amministrativo, ritenuto illegittimo e lesivo, il quale “va scrutinato da un giudice amministrativo”; ciò che contesta la ricorrente – si osservava – “infatti, non attiene alla dimensione civilistica dei rapporti tra soggetti privati dell’ordinamento, bensì concerne la sfera dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione e, più precisamente, l’operato di quest’ultima giacché produttivo di effetti pregiudizievoli a danni della ricorrente stessa”. Tali danni la medesima ha in effetti subito – si osservava - benché non destinataria del provvedimento, considerando anzitutto il mancato godimento della sua comproprietà su cui insisteva un’opera “realizzata in spregio ai principi sulla comunione dei beni”.
Né in senso contrario depone l’art. 34, co. 3 del c.p.a. secondo il quale “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. La norma non giustifica una riqualificazione della domanda originaria, imponendo, invece una sua rigorosa interpretazione, alla stregua del contenuto effettivo della pretesa (art.32, co.2, c.p.a.)[62].
È, dunque, bensì possibile una variazione in senso riduttivo del petitum originario, al fine di renderlo adeguato alle sopraggiunte necessità di soddisfacimento del bisogno di tutela. La conversione non potrebbe però mai operare in virtù di pretesi automatismi[63] e non risulta che l’interessata abbia manifestato, in sede di giudizio amministrativo, alcun interesse alla prestazione risarcitoria[64].
Nessun utile argomento offre poi la rilevanza accordata dall’art. 30, co.3 c.p.a.[65], alla mancata impugnazione del provvedimento come elemento che contribuisce alla determinazione del danno risarcibile ex art.1227 c.c.[66]. La norma riguarda invero l’ipotesi inversa a quella in esame, ovvero il caso in cui sia presentata la domanda risarcitoria e solo quella. Se è ammissibile l’apprezzamento dell’annullamento “alla stregua” di un risarcimento in forma specifica, guardando agli effetti sostanziali della pronuncia e, in particolare, a quelli conformativi, ancora una volta, per valutare l’eventuale danno residuante in capo all’interessato e nella prospettiva della più piena soddisfazione dell’interesse sostanziale vantato, ciò non vale ad escludere la stessa ammissibilità di richiesta di una sentenza costitutiva[67].
Quanto all’accenno, contenuto nella pronuncia, al possibile utilizzo del doppio giudizio come strumento di “locupletazione” o di abuso del processo, a parte i profili problematici di tale incerta nozione[68] e della necessità o meno di rilevare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa[69], è evidente come il discorso sia assorbito dalla rilevata persistenza dell’interesse al ricorso. Già l’elemento oggettivo della condotta pretestuosa non appare nel caso individuabile, dovendo comunque l’avvenuto conseguimento di quanto aspirato essere apprezzato nella relazione con l’amministrazione e risolversi nella soddisfazione dell’interesse vantato rispetto alla sua azione[70].
6. La dimensione sostanziale dell’interesse legittimo.
Come ultimo argomento la pronuncia in esame invoca la medesima dimensione sostanziale dell’interesso legittimo e del diritto soggettivo, tema che coinvolge gli aspetti più controversi e il cuore stesso del diritto amministrativo[71], su cui è possibile in questa sede fare solo alcune brevi e sommarie considerazioni.
Il giudice usa una formula densa di ambiguità. Sottesa sembra l’idea che anche l’interesse legittimo sia un interesse individuale che ha come substrato un bene materiale, e questo non sembra discutibile[72]. Ma tale assunto è ben lontano dal consentire un’assimilazione, o almeno un diretto confronto tra le due nozioni. Di esse, appaiono più forti i tratti distintivi, il collocarsi a due diversi livelli dell’ordinamento giuridico[73]. Il diritto soggettivo situazione legittimante e al tempo stesso oggetto del giudizio che si svolge di regola davanti al giudice civile; diversamente, l’interesse legittimo è la più evanescente situazione legittimante l’avvio di un processo che ha tutt’ora come oggetto la legittimità dell’azione amministrativa. L’affermazione non sembra tener conto, poi, dell’attuale complessa articolazione interna dell’interesse legittimo, della pluralità delle sue figure, variamente connesse all’interesse materiale del titolare: da un più, quando l’interesse legittimo sia un diritto soggettivo nella relazione con il potere dell’amministrazione, come in effetti nel caso in esame, a un meno, quando tale connessione tra le due situazioni appare più sbiadita[74].
Sotto quest’ultimo profilo, può osservarsi come, pur nell’ambito delle posizioni che ritengono irrinunciabile il carattere qualificato, oltre che differenziato dell’interesse, per essere qualificato “legittimo”, quindi il suo carattere normativo[75], acquistano sempre maggior terreno gli orientamenti secondo cui il medesimo, in particolare quale situazione legittimante del terzo in relazione ad abusi edilizi, non si esaurisca con riferimento “a un singolo bene fisico di proprietà”, risultando da una “pluralità di fattori ordinati a un assetto finale ritenuto meritevole di tutela da un corpus normativo di protezione”; tale, ad esempio, il mantenimento della qualità dell’assetto urbanistico dell’area in cui quale il soggetto vive o svolge stabilmente la propria attività[76]. Si tratta di un percorso volto a valorizzare interessi che, sebbene comuni, potrebbero essere altresì ascritti alla sfera individuale[77].
Tali profili possono apprezzati come ulteriori e non dirimenti ai fini della decisione della questione in esame ma utili ad avvalorare l’idea che se il superamento della pregiudizialità si pone certamente in linea con tratti più marcatamente soggettivi della tutela offerta davanti al giudice amministrativo, - potendo l’annullamento dell’atto non essere affatto richiesto o essere convertito in azione risarcitoria in ragione di una rilevata carenza d’interesse alla pronuncia costitutiva - , sembra talora perdersi di vista che il giudice amministrativo non può esaurire il suo ruolo in quello di giudice del risarcimento del danno.
Esiti come quello qui in esame appaiono invero ultimi approdi di quella linea di tendenza che, sopravvalutando l’interesse individuale rispetto a quello generale[78], enfatizzando la costruzione del processo amministrativo in termini di giudizio sulla fondatezza della pretesa vantata dal ricorrente, sulla spettanza del bene della vita[79] e alimentando l’ibridazione tra processo amministrativo giudizio civile è idonea a produrre, quasi per paradosso, una deminutio di tutela delle situazioni individuali di fronte al potere dell’amministrazione[80].
[1] Il Comune avrebbe invero qualificato erroneamente l’opera come semplice “mutamento della destinazione d’uso”; si lamentava poi eccesso di potere per contraddittorietà di tale provvedimento rispetto alla precedente ingiunzione, oltre che con i successivi dinieghi di sanatoria, nonché per aver l’amministrazione acriticamente aderito a uno tra due pareri discordanti resi dalla Commissione edilizia; eccesso di potere per erroneità dei presupposti ovvero, ancora, per la qualificazione dell’intervento come mero “cambio di destinazione d’uso”; difetto di motivazione e illogicità manifesta per non essere il provvedimento, come preteso dalla legge, motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti per la fiscalizzazione (che siano realizzate variazioni essenziali; che queste non contrastino con rilevanti interessi urbanistici e “comunque” che la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio per la parte eseguita in conformità: art.129, co. 5, l.p. n. 1/2008).
[2] Cfr. Cons. St., V, n. 418/1956, in Giur. it., 1957, III, 23; Id., V, n. 245/1958, in Foro amm., 1958, I, 2, 476, Id., V, n. 260/1960, in Foro it., 1960, III, 61; Id., V, n. 189/1960, in Foro amm., 1960, I, 963; Id., V, ord. n. 381/1962, in Riv. giur. edilizia, 1962, I, 681; Id., ad. plen., n. 14/1962, in Giust. civ., 1963, II, 38; contra: Cass civ., Sez. Un., n. 1746/1961, in Foro it., 1961, I, 1672. Cfr. A. Scognamiglio, Profili della legittimazione a ricorrere avverso gli atti delle autorità amministrative indipendenti, in Foro Amm. - CdS, 2002, 9, 2245 ss.
[3] V. Cons. St., ad. plen., n.1/1966.
[4] V. anzitutto Cons. St., V, n. 523/1970.
[5] Ammessa, tuttavia, da Cons. St., V, n. 1314/1968.
[6] F. Trimarchi Banfi, L’interesse legittimo attraverso il filtro dell’interesse a ricorrere: il caso della vicinitas, in Dir. proc. amm., 2017, 3, 771 ss.
[7] A. M. Sandulli, L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Riv. Giur. Edil., 1968, II, 3 ss.
[8] Già A. M. Sandulli, Più legalità per le licenze edilizie, più severità per le costruzioni senza licenza, in Riv. Giur. Edil., 1962, II, 68 ss. Cfr. V. Spagnuolo Vigorita, Interesse pubblico e azione popolare nella “legge-ponte” per l’urbanistica, in Riv. Giur. Edil., 1967, II, 387 ss. e altri riferimenti in F. Saitta, C’era una volta un’azione popolare …mai nata, in Riv. Giur. Edil., 2021, 6, 239 ss. Cfr., di recente: M. Magri, Il Consiglio di Stato nega la legittimazione del promissario acquirente all’impugnazione dei titoli edilizi (nota a Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768), in Giustiziainiseme, 2022.
[9] Lo ipotizzava già Alb. Romano, Il giudice amministrativo di fronte al problema della tutela degli interessi diffusi, in Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività (Atti del XXIII Convegno di Studi di Scienza dell'Amministrazione, Varenna, 22-24 Settembre 1977), Milano, 1978, 33 ss., osservando come, tuttavia, il prezzo di un simile ampliamento sarebbe stato la crescita delle difficoltà di definire in modo logicamente corretto l’interesse legittimo. Rileva l’aleatorietà del concetto di “insediamento abitativo” ai fini della relazione della legittimazione: F. Saitta, C’era una volta, cit.
[10] Cfr. L. Perfetti, Legittimazione e interesse a ricorrere nel processo amministrativo: il problema delle pretese partecipative, Dir. proc. amm., 3, 2009, 688, che evidenzia come la legittimazione “sia stata estesa fino a ipotesi molto discutibili e contrastanti con la nozione stessa”, senza opposizioni della dottrina e, anzi, pressioni, per un suo ampliamento a posizioni soggettive “tra i quali gli interessi senza struttura o diffusi” privi delle caratteristiche che tradizionalmente si associano alla legittimazione.
[11] V., ad es., Cons. St., IV, n. 6619/2007.
[12] Cfr. di recente: Cons. St., IV, n. 5353/2022. - Con la definizione di bacino d'utenza si intende, in linea generica, l'area raggiungibile a partire da un punto prefissato su una cartina, ovvero il c.d. "baricentro" individuato seguendo gli assi stradali; pertanto, ai fini dell'identificazione del bacino d'utenza, è necessario applicare criteri specialistici e metodi di calcolo non surrogabili attraverso la comune esperienza o la scienza privata del giudice, dovendo ritenere insufficiente, per fornire la prova della c.d. vicinitas commerciale, la mera affermazione di parte della sussistenza di un comune "bacino d'utenza" fra la struttura commerciale erigenda e quella che agisce in giudizio a tutela del suo interesse commerciale leso-.
[13] Per l’eccessiva genericità del criterio già E. Guicciardi, La decisione del “chiunque”, in Giur.it., 1970, III, 193, anche ricordato da F. Saitta, C’era una volta, cit.
[14] Cons. Giust. Amm. Sic., n. 759/2021, di rimessione all’adunanza plenaria n. 22/2021.
[15] E. Guicciardi, La giustizia nell’amministrazione, 1954, 181 ss.; con argomenti diversi: S. Cassarino, Le situazioni giuridiche soggettive e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, 330 ss.
[16] Cfr., ampiamente, TAR Toscana, III, Firenze, n. 592/2020.
[17] Corte cost. n. 271/2019.
[18] Sulle legittimazioni straordinarie, cfr. M. Delsignore, L’amministrazione ricorrente. Considerazioni in tema di legittimazione nel giudizio amministrativo, Torino. 2020.
[19] Cons. Giust. Amm. Sic., n. 759/2021 cit.
[20] Cfr. R. Villata, Legittimazione processuale (II Diritto processuale amministrativo), in Enc. Giur., XVII, 1988.
[21] V. ad es. Cons. St., VI, n. 2100/2019, Cons. St., VI, n. 3386/2019, Cons. St., IV, n. 3489/2021. Nel senso che anche in questo in caso debba essere allegato ed eventualmente provato il pregiudizio che fonda l’interesse al ricorso: Cons. St., IV, n. 5908/2017, TAR Puglia, III, Bari, n. 374/2020. Precisa che anche in caso di proprietà confinanti l’interesse al ricorso debba essere almeno prospettato in relazione al pregiudizio subito, “quanto meno in tutti i casi in cui la modifica del preesistente assetto edilizio non si dimostri icto oculi, ovvero sulla base di sicure basi statistiche, tratte dall’esperienza”: TAR Veneto, II, Venezia, n. 986/2019.
[22] Cass. Civ., Sez. Un., n. 18493/2021, Cass. Civ., Sez. Un., n. 21740/2019.
[23] Sottolineano come, con l’estensione della legittimazione la giurisprudenza amministrativa abbia finito molte volte per affidare al solo interesse al ricorso il ruolo di vero filtro per l’accesso alla tutela davanti al g.a. L. Perfetti, Legittimazione e interesse ricorrere, cit., G. Tropea, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo: una rassegna critica della letteratura recente, in Dir. proc. amm., 2, 2021, 447.
[24] Nel senso che dovrebbe dimostrarsi il pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati in termini di deprezzamento del valore del bene o della concreta compromissione del diritto alla salute o all’ambiente: Cons. St., IV, n. 908/2017, Cons. St., IV, n. 3843/2018, Cons. St., II, n. 4375/2021, Cons. St., IV, n. 4557/2021, Cons. St., V, n. 4830/2017, Cons. St., IV, n. 383/2016, Cons. St., IV, n. 362/2015, Cons. St., IV, n. 4924/2012.
[25] Cons. St., V, n. 3247/2021, Cons. St., IV, n. 4557/2021, Cons. Giust. Amm. Sic., n. 759/2021.
[26] F. Trimarchi Banfi, L’interesse legittimo attraverso il filtro dell’interesse a ricorrere: il caso della vicinitas, cit.
[27] A. Travi, Giustizia amministrativa, 2019, 200, M. Clarich, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna, 2021, 169. Osserva che la giurisprudenza non dovrebbe ricercare la lesione di beni altri rispetto a quello corrispondente alla situazione azionata: F. Trimarchi Banfi, Op. cit.
[28] Cfr. Cons. St., ad plen., n. 22/2021, in cui si è affermato che “Nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere con l’annullamento del titolo edilizio un effetto di ripristino concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo”.
[29] Cons. St., ad. plen., n.1/2018.
[30] Ex multis: Cons. St., II, n. 6663/2021, Cons. St., VI, n. 675/2022, Cons. St., II, n. 4664/2022, Cons. St., II, n. 6185/2022.
[31] A. Salietti, T. Salvioni, Estinzione del processo (dir. proc. civ.), in Treccani, Diritto on line, 2015 e ivi ulteriori riferimenti.
[32] Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 511 ss., V. Cerulli Irelli, Legittimazione "soggettiva" e legittimazione "oggettiva" ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 341 ss.
[33] G. Mannucci, Legittimazione e interesse a ricorrere, in Treccani, Diritto online (dir. amm.), 2018.
[34] In termini generali: E. Cannada Bartoli, Il diritto soggettivo come presupposto dell'interesse legittimo, Milano, 1953.
[35] A. Bozzi, Rinunzia (diritto pubblico e privato), in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, 1144, L. V. Moscarini, Rinunzia (I, dir. civ.), in Enc. Giur., XXVII, 1991.
[36] Cass. civ., II, n.19845/2019, Cass. civ., VI, n.15712/2021, Tribunale Bari, sez. lav., n.2908/2020, Trib. Roma, XIII, n. 5429/2020.
[37] Cfr. Cons. St., VI, n. 281/2020. Nel senso che anche in assenza di rinuncia formale debba essere acquisita la dichiarazione di non avere interesse alla coltivazione, sotto ogni profilo, del ricorso: Cons. St., V, n. 2475/2020. L’univocità appare pacifica, ad esempio, laddove vi sia stato un atto di rinuncia irrituale perché non notificato alle controparti: TAR Milano (Lombardia), II, n.1627/2022.
[38] Sulle norme in materie di distanze poste dal codice civile e dalla disciplina urbanistico-edilizia, ex multis: Cass. Civ., II, n. 7954/2022, Cass. Civ., II, n. 22054/2018, Cass. Civ., VI, n. 3854/2014; già Cass. Sez. Un., n.11023/2004. Nella giurisprudenza amministrativa, v., ad es.: Cons. St., IV, n. 4337/2017; Id., n. 3093/2017; Id., n. 2086/2017; Id., n. 3510/2016; Id., n. 856/2016; Cass. civ., II, n. 23136/2016, Cons. St., VI, n. 5071/2018, Cons. giust. Amm. Sic., n. 759/2021. Nella giurisprudenza costituzionale, v. ad es., le pronunce n. 120/1996, n. 124/2021.
[39] R. Scognamiglio, In tema di “compensatio lucri cum damno, in Foro it., 1952, I, 635; più di recente: M. Ferrari, La compensatio lucri cum damno come utile strumento di equa riparazione del danno, Milano, 2008, G. De Nova, Intorno alla compensatio lucri cum damno, in Jus civile, 2018, p. 56, A. Vetro, La compensatio lucri cum damno in diritto privato: applicazione del principio della compensazione nei giudizi amministrativi e contabili, in Lexitalia, 2018, 3.
[40] Cons. St., IV, ord. n. 2791/2017, Cons. St., ad plen. n.1/2018.
[41] Cons. St., ad plen. n. 1/2018, cit. Nel senso della natura multifunzionale della responsabilità civile, v. però Cass. Sez. Un., 16601/2017, R. Pardolesi, Risarcimento, indennizzo e arricchimento della vittima dell’illecito, osservazioni a Cass., ord. 22.6.2017 n. 15534, in Foro it., 2017, I, 2256.
[42] Cons. St., ad. plen. n.1/2018, cit.
[43] A. Vetro, La compensatio lucri cum damno in diritto privato: applicazione del principio della compensazione nei giudizi amministrativi e contabili, cit.
[44] Cons. St., IV, ord. n. 2919/2017.
[45] Cons. St., ibidem.
[46] Cass. Sez. Un. Civ., n. 584/2008, Cass. Civ., III, n. 26152/2014. Il maggior contrasto interpretativo ha riguardato la questione della cumulabilità tra risarcimento del danno e indennità o indennizzi a vario titolo percepiti.
[47] Tra i commenti alle ultime posizioni della Corte di cassazione: G. Ponzanelli, Dopo San Martino, la Cassazione ci riprova a varare uno statuto del danno alla persona, in Il Foro italiano, 2019, 3, pp. 791 ss., G. Ponzanelli, Risarcimento del danno alla persona: San Martino 2019 si allontana da San Martino 2008 e conferma gli equilibri risarcitori del 2018, in Danno e responsabilità, 2020 fasc. 1, pp. 69 ss., M. Franzoni, Spigolature sulle sentenze di san Martino, in Danno e responsabilità, 2020, 1, 7 ss. R. Simone, Ombre e nebbie di San Martino: la causalità materiale nel contenzioso sanitario, in Il Foro italiano, 2020, 1, 218 ss., F. Molinaro, San Martino 2.0: Ritorno al passato o evoluzione del danno non patrimoniale?, in Responsabilità civile e previdenza, 2020, 6, 1903 ss., A. Montanari, Il risarcimento in forma specifica e la rilevanza giuridica dell’attività di compensazione del danno, in Europa e diritto privato, 2013 fasc. 2, pp. 505 ss.
[48] M. Ferrari, La compensatio lucri cum damno come eccezione rilevabile d’ufficio, in Resp. civ. e prev., 2015, 666, U. Izzo, La compensatio lucri cum damno come “latinismo di ritorno” in Resp. civ. e prev., 2012, 1738 ss. e ampiamente Id., La «giustizia» del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Napoli, 2018.
Di recente: Cass civ., n. 15534/2017 e Id., n. 15535/2017, Cass. civ., III, n. 24177/2020, Corte app. Firenze, n. 696/2015. Per un’interessante applicazione da parte del giudice amministrativo, cfr., ad es., TAR Sardegna n. 15/2014, secondo cui “a seguito dell’annullamento degli atti di una procedura espropriativa, la diminuzione di valore del bene (nella specie per la creazione di una servitù pubblica di acquedotto) deve essere compensata con i vantaggi derivanti al privato dall’opera comunque realizzata”. Più in generale, sulla finalità compensative ancor più della responsabilità da attività lecita: E. Scotti, Liceità, Legittimità e responsabilità dell’amministrazione, Napoli, 2012.
[49] Cfr. Cass. Civ., n. 20111/2014, Cass. Civ., III, n. 533/2014, Cass. Civ., III, n. 24177/2020. Di recente: Corte d’appello di Campobasso, n. 242/2022. V. tuttavia Cassazione civ., VI, n. 27736/2022: “La natura di eccezione in senso lato della compensatio lucri cum damno non esime chi la invoca di dimostrarne il fondamento; in caso di giudizio di rinvio a seguito di cassazione del provvedimento la lacuna probatoria non può essere colmata perché trattasi di un giudizio a istruzione chiusa”.
[50] Cass. Civ., III, n. 15534/2017, Cons. St., ad plen., n. 1/2018.
[51] Cons. St., IV, ord. n. 2719/2017, Cass. Civ., Sez. Un., n. 12565/2018, Cass. Civ., sez. III, n.30188/2022, Cass. Civ. sez. lav., n. 32130/2022. Si ritiene che la compensatio operi anche quando i vantaggi dipendono sotto il profilo giuridico formale da una fattispecie diversa dall’illecito, di cui l’illecito rappresenta un elemento costitutivo. Il risarcimento ed il vantaggio patrimoniale dovrebbero quindi avere la stessa ragione giustificatrice o appartenere a classi omogenee.
[52] Cfr. Tar Puglia III, Bari, n. 41/2016, che chiarisce come, in un caso di abusivismo edilizio, la richiesta di risarcimento in forma specifica avanzata dalla parte ricorrente, vittoriosa in sede di impugnazione, integrava in realtà una richiesta di ottemperanza del giudicato, avendo il Comune omesso di emanare prontamente l’ordine di demolizione in esecuzione del giudicato.
[53] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un. 12564/2018, in cui si è negata l’operatività della compensatio tra valore capitale della pensione di reversibilità accordata al familiare superstite e il risarcimento del danno, essendo la prima caratterizzata da un fondamento solidaristico e non strutturalmente rispondente finalità di rimuovere le conseguente prodottesi nel patrimonio del danneggiato in esito all’illecito del terzo; diversamente in caso di liquidazione dell’indennizzo da parte dell’assicurazione in ragione del fatto illecito causa dell’azione risarcitoria: Cass. Civ., Sez. Un., n. 12565 del 2018; o ancora nell’ipotesi di indennizzo per inabilità permanente corrisposto dall’INAIL per l’infortunio occorso al lavoratore, questo si assume dover essere detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto: Cass. Sez. Un., n. 12566/2018.
[54] Cons. St., IV, ord. n. 2719/2017, cit. Nel senso che la compensatio potrebbe operare solo se il danneggiante rimane esposto all’azione di recupero del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale: F. Caringella, Manuale ragionato di diritto civile, II ed., Roma, 2020, 153 ss., ricordato da J. Barraco, Compensatio lucri cum damno: la giurisprudenza recente, in Giuricivile, 2021, 2.
[55] V. ad es. l’ordinanza Cons. St., V, n. 284/2015, di rimessione all’ad. plen. n. 4/2015.
[56] Ciò emerge chiaramente, ad es., da quelle pronunce in cui si chiarisce come vada “considerata di valore indeterminabile la controversia introdotta davanti al giudice amministrativo per l’annullamento di un atto, poiché la causa petendi della domanda è l’illegittimità dell’atto stesso, mentre il petitum è la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda”: Cass. civ., II, n. 8599/2022. La non assimilabilità si ricava ancora, ad es., dell’applicazione dei termini dimidiati per la riassunzione del giudizio davanti al giudice amministrativo ex. 119 c.p.a. alle azioni di annullamento e non alle controversie meramente risarcitorie, anche ove volte al risarcimento in forma specifica. La deroga ai termini processuali ordinari risponde infatti alla ratio di realizzare “una più rapida tutela di interessi pubblici in ambiti individuati”: Tar Campania, V, n. 4184/2017, e già Cons. St., ad. pl., n. 9/2007, Id., IV, n. 1605/2014, Id., IV, n. 5551/2016.
[57] Ai fini del risarcimento il giudice deve valutare invero la sussistenza di tutti gli elementi della responsabilità, ivi compreso l’elemento soggettivo: Cons. St., IV, n. 3464/2016, Cons. St., V, n. 125/2016.
[58] Cons. St., ad plen. n. 4/2015.
[59] A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in Giust. amm., 2001, P. Lazzara, Annullabilità e annullamento, in Treccani online (dir. amm.), 2012. Diversamente, il giudice potrebbe non pronunciarsi sull’annullamento laddove questo fosse stato domandato unitamente al risarcimento del danno ma fosse ad esempio sopravvenuta la carenza d’interesse alla sentenza costitutiva (…) o, ancora laddove parimenti, sopravvenuta tale carenza d’interesse, il ricorrente potrebbe mantenere interesse a una semplice pronuncia dichiarativa, ai fini di una successiva domanda risarcitoria. Più rigorosamente, si afferma in alcune pronunce che tale conversione potrebbe operare solo laddove la domanda risarcitoria sia stata effettivamente formulata e comunque non presenti caratteri di mera ipoteticità: TAR Trieste, I, n. 221/2022.
[60] Pur con “aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo”: Cons. St., ad plen., n.4/2015.
[61] Cons. St., ad plen. n. 5/2015, Cons. St., ad. plen., n. 7/ 2013, cit., Cons. St., VI, n. 5854/2018.
[62] Cons. St., VI, n. 3299/2020.
[63] Cons. St., V, n. 2195/2017, Cons. St., VI, n. 3299/2020; Cass. Civ., n. 991/2014.
[64] Cons. St., ad. plen., n. 4/2015, in cui si nega la possibilità del g.a. di convertire la domanda di annullamento di una graduatoria di concorso, convertendola in domanda di risarcimento del danno, pur a distanza di molti anni dall’emanazione del provvedimento e pur a fronte dell’impatto sulle posizioni dei controinteressati.
[65] V. il secondo alinea: “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
[66] Su cui v. ad es. Cons. St., ad. plen., n. 3/2011, secondo cui “La scelta di non avvalersi della tutela impugnatoria che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale avrebbe probabilmente evitato in tutto o in parte il danno, integra violazione del canone di buona fede e dell'obbligo di cooperazione, spezza il nesso causale fra provvedimento e pregiudizio e, per l'effetto, in forza del principio di auto-responsabilità codificato dall'art. 1227, comma 2, c.c., comporta la non risarcibilità del danno evitabile; di conseguenza è legittima la sentenza del giudice di primo grado che, nel dichiarare irricevibile il ricorso proposto a distanza di molto tempo dalla data di comunicazione del provvedimento di cui si chiedeva l'annullamento, ha anche respinto anche la domanda di risarcimento dei danni sotto il profilo che i danni lamentati sarebbero stati in toto evitati se l’impresa si fosse tempestivamente avvalsa degli strumenti di tutela predisposti dall'ordinamento. Cfr. M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, Ad plen., 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell'azione risarcitoria e di Cass., Sez. un, 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti favorevoli), in Riv. giur. edil., 2010, 6, 479 ss.
[67] Così, ad esempio, nel caso di subentro nel contratto di appalto del ricorrente vittorioso, retroattivamente privato di efficacia a seguito dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione ella gara: TAR Lazio, I, n. 7786/2021, Tar Campania, III, n. 3259/2020, TAR Campania, V, Napoli, n. 4802/2016, Id., II, n. 1669/2016, Cons. St., V, n. 633/2016, o in caso di proroga dell’efficacia di un’autorizzazione paesaggistica rilasciata alla ricorrente, per un periodo equivalente a quello in cui la Soprintendenza l’aveva privata di effetti con atti annullati dal giudice amministrativo, quale effetto conformativo della sua pronuncia: Cons. St., VI, n. 3887/2017; Cons. St., VI, n. 3867/2017. Nel senso di cui nel testo milita anche la negazione che la stessa domanda di risarcimento in forma specifica, nelle controversie in materia di contratti pubblici, determini improcedibilità della domanda di annullamento degli atti della procedura ad evidenza pubblica, potendo rilevare ai soli fini dell’eventuale risarcibilità del danno subito: TAR Veneto, I, Venezia, n. 471/2017.
[68] V., ampiamente, G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015.
[69] G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 4, 2015, 1262 ss.
[70] Cons. St., IV, n.10439/2022, TRGA Trentino Alto Adige, Trento, I, n. 171/2022.
[71] Cfr. per tutti, l’ampia analisi di F. tenG. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017.
[72] Alb. Romano, La situazione legittimante al processo amministrativo, cit., 511 ss.
[73] A. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. Amm., 1999, 111-142, A. Cioffi, Il problema della legittimità nell’ordinamento amministrativo, Napoli, 2012.
[74] F. G. Scoca, Op. cit., 309. Per tale distinzione, unitamente all’osservazione dell’incremento delle ipotesi in cui gli interessi legittimi sono divenuti protetti dall’ordinamento generale come diritti soggettivi, quindi risarcibili: Alb. Romano, Sono risarcibili: ma perché devono essere interessi legittimi? (Nota a Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500/ Com. Fiesole c. Vitali), in Foro it., 1999, III, 3222-3225 e Id., Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir. Amm.1998, 1, 1.
[75] P. G. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 127 ss.
[76] P. G. Portaluri, Ibidem. In tale senso anche F. Trimarchi Banfi, Op. cit. Affermano che il pregiudizio derivante a terzi da abusi edilizi, non si risolve in riduzione della visuale, potendo più in generale derivare dall’alterazione dell'equilibrio urbanistico del contesto e dell’armonico e ordinato sviluppo del territorio: Cons. Stato, VI, 19 luglio 2021, n. 5400/2021; TRGA Trentino Alto adige, Trento, n. 95/2021; TAR Lazio, Roma, II quater, 2019, n. 14960/2019, TRGA Trentino Alto Adige, Trento, n. 50/2022. Cfr. M. Nigro, L’art.32 della legge urbanistica e l’individuazione degli interessi legittimi, in Foro it., 1962, I, 83 ss., che osservava come ogni attribuzione di poteri alla amministrazione vada inteso come attribuzione di compiti e di responsabilità ed implichi una situazione di dovere. Il potere quindi, per quanto ampia possa essere la discrezionalità, non esclude mai di per sé il sorgere di situazioni protette in altri soggetti.
[77] V. alcune riflessioni in V. Caputi Jambrenghi, Beni pubblici (uso dei), in Dig. disc. pubbl., vol. II, 303 ss. Cfr. V. Cerulli Irelli, Uso pubblico, in Enc. dir., vol. XLV, 961, V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, inPolitica del diritto, 2014, 1, 3 ss. Con particolare riguardo alle posizioni assunte dalla giurisprudenza europea con riferimento agli interessi protetti dal diritto sovranazionale: M. C. Romano, Situazioni legittimanti ed effettività della tutela giurisdizionale, Napoli, 2013.
[78] Alb. Romano, La situazione legittimante, cit.
[79] G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2001, 318 ss.
[80] F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, inGiustiziainsieme, 2021.
L’eccesso di potere giurisdizionale - Convegno 6 marzo 2023 - Università degli Studi Roma Tre
Il prossimo 6 marzo 2023, presso l’Aula del Consiglio del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” si terrà la Lezione Inaugurale aperta del Corso di Giustizia amministrativa tenuto dalla prof.ssa Maria Alessandra Sandulli.
La lezione verterà sull’annoso tema del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, con particolare riferimento al vizio dell’eccesso di potere giurisdizionale alla luce della recente ordinanza SS.UU. n. 2370/2023.
L’incontro sarà introdotto dalla prof.ssa Maria Alessandra Sandulli e interverranno il Presidente Claudio Contessa, il Consigliere Antonio Lamorgese, il Prof. Aristide Police e il prof. Romano Vaccarella. Concluderà la discussione il prof. Antonio Carratta.
Le sentenze di Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia dell’U.E.
di Franco De Stefano, Presidente di sezione della Corte di cassazione[1]
Si propone una panoramica sulle conseguenze delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea a partire dal 17 maggio 2022 in materia di effettività della tutela del consumatore; si tratta, infatti, di sentenze di grande portata, che investono istituti tradizionali del nostro processo: se non un vero e proprio terremoto per alcune tradizioni costituzionali nazionali finora reputate consustanziali al nostro ordinamento, quali il giudicato implicito e la ricostruzione quasi centenaria del ricorso per decreto ingiuntivo, esse inducono la necessità di un loro ripensamento, anche radicale, sicché l’adeguamento è complesso e difficile, ma soprattutto esige la piena consapevolezza del significato e dei costi in tema di certezza del diritto a vantaggio dell’effettività della tutela del consumatore e, poi, di ogni normativa eurounitaria munita di pari rilevanza cogente.
Sommario: 1. Lo stato dell’arte: la definitività del decreto ingiuntivo non opposto. - 2. Approdi già raggiunti in tema di estensione degli effetti della definitività al dedotto e al deducibile. - 3. Approdi già raggiunti in tema di preclusione, anche in sede esecutiva, dei fatti anteriori alla definitività.- 4. Il sovvertimento di tali approdi a seguito delle pronunce della Corte di giustizia dal maggio 2022 per la tutela del consumatore. - 5. I principi di diritto ricavabili. - 6. Gli effetti su principi consolidati del processo civile italiano. - 7. I precedenti casi di riconosciuta cedevolezza del giudicato nazionale. - 8. Una scelta di campo. - 9. Il dissenso o la contestazione, nei limiti del possibile. - 10. L’adeguamento, nei limiti del possibile. - 11. Un metodo per l’analisi. - 12. Una possibile soluzione adeguatrice de futuro senza interventi normativi o equiparati. - 13. Il rito monitorio consumeristico indotto dalla CGUE. - 14. Le possibili opzioni adeguatrici de praeteritu senza interventi normativi o equiparati. - 15. Gli scenari. - 16. Appendice: sulla necessaria separazione tra cognizione ed esecuzione.
1. Lo stato dell’arte: la definitività del decreto ingiuntivo non opposto.
Può giovare prendere le mosse del discorso dallo stato dell’arte, come già dieci anni fa si ricostruiva e - come si vedrà subito dopo - è stato poi acquisito come consolidato[2].
È interessante notare quanti sforzi siano stati profusi in dottrina per la ricostruzione della situazione giuridica processuale e sostanziale che deriva dalla definitività del decreto ingiuntivo.
Il provvedimento che, ai sensi dell’art. 647 c.p.c., conferisce la definitiva esecutività è ricostruito generalmente come provvedimento con contenuto dichiarativo-costitutivo[3]; con esso si dà atto che l’unico modo per revocare in dubbio l’accertamento, che fino a quel momento era ancora provvisorio, dei fatti costitutivi avutosi col decreto ingiuntivo, non è più suscettibile di essere attivato. I fatti medesimi, quindi, sono oramai incontestabili[4] ed il provvedimento stesso è riconosciuto necessario per il giudicato formale, ma non per quello sostanziale.
Al riguardo, taluno parla di definitività soltanto formale, perché il decreto non potrebbe mai essere equiparato ad una sentenza e darebbe luogo soltanto ad una preclusione processuale, con effetti limitati al piano esecutivo[5] e quindi inidonea al giudicato, soprattutto dal punto di vista sostanziale.
La considerazione decisiva è data in contrario, peraltro, dalla normativa equiparazione del decreto definitivamente esecutivo alle sentenze, operata dall’art. 656 c.p.c. anche nel momento in cui ammette il rimedio della revocazione per evitare il contrasto di giudicati. E, a tacer d’altro, l’irretrattabilità, benché derivante in via immediata dalla consumazione del termine per proporre opposizione, comporterebbe comunque una situazione processuale del tutto equiparabile al giudicato[6], che non può non estendersi appunto ai fatti connessi e quindi ai deducibili.
È doveroso annotare che la tesi della pienezza dell’estensione del c.d. giudicato[7] del monitorio[8] è ben più contrastata in dottrina, essendo ivi corrente l’affermazione per la quale esso non va al di là del semplice comando contenuto nell’ingiunzione, sicché l’intimato non può più contestare di dovere pagare la somma o consegnare la cosa, ma può, a differenza della parte, cui fa riferimento l’art. 2909 c.c., contestare ad ogni altro effetto il rapporto invocato dal ricorrente[9].
Tale ultima opinione non pare condivisibile: la definitività del monitorio non opposto deriva dall’inerzia processuale dell’ingiunto e quindi deve potersi estendere a tutte le questioni in fatto e in diritto che questi avrebbe potuto - e dovuto - proporre per paralizzare od inficiare la pretesa avversa. Del resto, a parte i dubbi sulla possibilità di fondare tale tesi solo sulla definizione della parte (rilevante appunto ai fini dell’art. 2909 c.c.), pure potrebbe obiettarsi che anche nel decreto ingiuntivo non opposto l’ingiunto è stato parte, se non altro fin dal momento della rituale notifica del decreto, secondo quanto specifica l’art. 643 c.p.c.: ma una parte che ha scelto, con la sua libera condotta, di non far luogo alla fase a cognizione piena del processo.
2. Approdi già raggiunti in tema di estensione degli effetti della definitività al dedotto e al deducibile
Può quindi concordarsi con la giurisprudenza prevalente e riaffermarsi il principio, pure con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto nel termine di legge, secondo cui gli effetti del giudicato sostanziale si estendono non solo alla decisione relativa al bene della vita chiesto dall’attore, ma anche a quella, implicita, inerente alla esistenza e validità del rapporto sul quale si fonda lo specifico effetto giuridico dedotto[10].
In particolare, il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata al pari di una sentenza di condanna, in quanto il procedimento monitorio dà luogo ad un accertamento che, benché sommario ed eventuale (in quanto soggetto a verifica in caso di opposizione), è idoneo, per il caso della mancata opposizione, a riguardare innanzitutto l’esistenza e la validità del rapporto giuridico presupposto della pronuncia finale[11]. Quindi, il “giudicato sostanziale” conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del petitum ovvero della causa petendi in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo[12].
In buona sostanza, è proprio la finalizzazione del giudizio all’accertamento del rapporto sostanziale complessivamente inteso ed azionato dal creditore procedente che consente di estendere l’efficacia di giudicato anche al dedotto e al deducibile[13] e, in generale, ad ogni indispensabile antecedente logico-giuridico della decisione[14]: e la statuizione non può limitarsi al mero accertamento del credito[15], ma comprende anche la sussistenza del titolo azionato con il procedimento monitorio[16] e si estende all’insussistenza di fatti impeditivi[17] o comunque di quelli da eccepirsi o addursi dal debitore per contestare l’insorgenza o la sussistenza del credito.
Naturalmente, il giudicato copre solo i capi accolti o le pretese specificamente dedotte[18] e non si estende a rapporti in parte differenti[19] o a frazioni del rapporto basate su presupposti di fatto autonomi[20] o – meno che mai – a fatti successivi al giudicato stesso[21].
In tal senso interessanti applicazioni si rinvengono con riferimento all’eccezione de soluto, normalmente preclusa se riferita a fatti anteriori[22], ovvero - in tema ad esempio di decreti ingiuntivi emessi in conseguenza di una convalida di sfratto per morosità ex art. 664 c.p.c. - sull’esistenza del rapporto e l’identità delle parti[23], ovvero ancora sui rapporti tra una domanda di pagamento del trattamento di fine rapporto ad un lavoratore licenziato e quella di accertamento dell’illegittimità del licenziamento[24].
Si tratta inoltre di un giudicato che può essere rilevato dallo stesso giudice nel giudizio di opposizione, anche di ufficio, in quanto integrante un giudicato c.d. interno per essersi verificato nell’ambito del medesimo procedimento in corso; sicché, a maggior ragione, la relativa eccezione di giudicato può essere utilmente dispiegata per la prima volta in appello[25].
Una volta pronunziata l’esecutività del decreto ingiuntivo opposto, insomma, in applicazione dei principi generali in tema di giudicato, diviene indiscutibile tra le parti e i loro aventi causa il rapporto giuridico dedotto in giudizio. Il processo è poi formalmente definito, tanto da non determinare nemmeno più pregiudizialità con altri giudizi[26].
3. Approdi già raggiunti in tema di preclusione, anche in sede esecutiva, dei fatti anteriori alla definitività
Ma vi è anche un’altra importantissima applicazione dei principi generali in tema di giudicato.
Infatti, se è preclusa oramai l’eccezione basata su fatti impeditivi, modificativi o estintivi anteriori alla definitività del decreto[27], pure il rapporto medesimo bene potrebbe essere influenzato, dopo tale data, da nuovi fatti giuridici, non sussistenti anteriormente allo spirare del termine per la proposizione dell’opposizione e in grado di estinguere o modificare il rapporto in parola[28].
Di conseguenza, una volta iniziata un’esecuzione forzata sulla base del decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, non sarà più ammessa, quale motivo di contestazione del diritto del creditore ad agire in executivis, alcuna eccezione che andava fatta valere esclusivamente in un eventuale giudizio di opposizione, prima (ed al fine di impedire) che sul fatto dedotto in giudizio si formasse il giudicato[29].
In applicazione corretta dei principi in tema di rapporti tra esecuzione e giudicato, allora, si esclude l’ammissibilità di un’opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., basata su fatti che avrebbero potuto o dovuto portarsi alla cognizione del giudice dell’opposizione ad ingiunzione, una volta che il decreto, non opposto, sia divenuto definitivo[30].
In sostanza, in linea con generalissimi principi in tema di rapporti tra il processo di cognizione e l’esecuzione fondata su titoli giudiziali, è inammissibile in sede di opposizione ex art. 615 c.p.c. qualunque contestazione dei fatti coperti dal giudicato: i fatti estintivi, successivi o meno all’emanazione del decreto, ma comunque anteriori alla sua definitività non possono essere fatti valere con opposizione all’esecuzione, ma soltanto nel processo in cui il titolo è ancora suscettibile di essere modificato. Ove il titolo sia irretrattabile, anche le circostanze in esso consacrate non possono essere revocate in dubbio, tanto meno con una opposizione ad esecuzione: e al debitore non rimarrà altro che uno dei rimedi straordinari per eliminare, in sede di cognizione, la definitività del titolo e sempre che ne ricorrano i requisiti[31].
Più in generale, del resto, qualora il titolo posto a base di una qualunque azione esecutiva sia un titolo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo esecutivo giudiziario, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni che andavano dedotte nel giudizio definito con il titolo medesimo, dovendosi egli soltanto limitarsi a controllare l’eventuale validità ed esistenza del titolo stesso, così da potere stabilire se esso stia effettivamente a base dell’esecuzione o sia venuto meno per fatti posteriori alla sua formazione[32].
Ed a chiare lettere si ribadisce che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo controllare soltanto la persistenza della validità di quest’ultimo e quindi attribuire rilevanza solamente a fatti posteriori alla sua formazione o, se successiva, al conseguimento della definitività (salvo il caso dell’incolpevole impossibilità, per il debitore, di farli valere in quella unica competente sede)[33].
Ancora, dinanzi ad un decreto ingiuntivo definitivo non si ammette neppure, se non nei casi di vera e propria inesistenza della pronunzia, un’autonoma actio nullitatis per far valere eventuali vizi attinenti al contenuto ed al merito del provvedimento monitorio, ancorché emesso al di fuori dei casi previsti dalla legge; una consimile azione è limitata alle sole ipotesi propriamente sussumibili nel concetto di inesistenza, nelle quali difetti persino alcuno dei requisiti essenziali per la riconoscibilità del decreto come provvedimento giurisdizionale[34].
Infine, la conseguita definitività comporta la radicale inammissibilità di un’azione di indebito arricchimento nei confronti di colui che, conseguito un decreto ingiuntivo, lo abbia visto diventare definitivo e abbia ottenuto il pagamento della somma da quello recata: può, invero, in primo luogo dubitarsi della stessa astratta ammissibilità dell’azione, visto che la sussidiarietà, rilevante ai fini della norma in esame, va riferita ad un’azione da intendersi principale, ma non ad uno strumento o rimedio processuale quale l’opposizione; più radicalmente, peraltro, non può certo ritenersi senza causa un pagamento che ha fatto seguito ad un titolo giudiziale ormai coperto da giudicato.
Proprio in coerenza con l’affermata forza equiparabile al giudicato, del resto, l’art. 656 c.p.c. ammette, a determinate condizioni e ricorrendo particolari presupposti, alcune forme di impugnazione straordinaria[35].
4. Il sovvertimento di tali approdi a seguito delle pronunce della Corte di giustizia dal maggio 2022 per la tutela del consumatore.
È necessario riprodurre almeno i dispositivi delle quattro, importanti, sentenze in esame, depositate al Kirchberg il 17 maggio 2022, che hanno impattato in modo deciso su alcuni istituti del processo nazionale, quasi provocandone un terremoto, se non proprio un effetto assimilabile all’asteroide di Chicxulub[36] almeno nel mondo del diritto.
A) causa C-600/19 Ibercaja banco (Grande Sezione):
1) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che, a causa degli effetti dell’autorità di cosa giudicata e della decadenza, non consente né al giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito del procedimento di esecuzione ipotecaria, né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nel procedimento in parola o in un successivo procedimento dichiarativo, quando dette clausole siano già state oggetto, al momento dell’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria, di un esame d’ufficio da parte del giudice quanto al loro eventuale carattere abusivo, ma la decisione giurisdizionale che autorizza l’esecuzione ipotecaria non comporti alcun punto della motivazione, nemmeno sommario, che dia atto della sussistenza dell’esame in parola né indichi che la valutazione effettuata dal giudice di cui trattasi in esito a tale esame non potrà più essere rimessa in discussione in assenza di opposizione nel termine citato.
2) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo, al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive.
B) Cause riunite C 693/19 (SPV Project 1503 Srl e a. c/ YB) e C 831/19 (Banco di Desio e della Brianza SpA e aa. c/ YZ) (Grande Sezione):
L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo.
C) causa C-725/19 Impuls Leasing România (Grande Sezione):
L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione di un credito, investito di un’opposizione a tale esecuzione, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista che costituisce titolo esecutivo, dal momento che il giudice di merito, che può essere investito di un’azione distinta di diritto comune al fine di fare esaminare il carattere eventualmente abusivo delle clausole di un siffatto contratto, può sospendere il procedimento di esecuzione fino a che si pronunci sul merito solo dietro versamento di una cauzione di un’entità che è idonea a scoraggiare il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso.
D) causa C-869/19 Unicaja Banco (Grande Sezione):
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali il giudice nazionale, adito in appello avverso una sentenza che limita nel tempo la restituzione delle somme indebitamente corrisposte dal consumatore in base a una clausola dichiarata abusiva, non può sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione della disposizione in parola e disporre la restituzione integrale di dette somme, laddove la mancata contestazione di tale limitazione nel tempo da parte del consumatore interessato non possa essere imputata a una completa passività di quest’ultimo.
Non minore importanza, nel quadro che si va delineando, rivestono le successive:
E) sentenza 8 settembre 2022 della nona sezione, nelle cause riunite da C‑80/21 a C‑82/21, E.K. e S.K. e altri (Nona Sezione):
1) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che:
essi ostano a una giurisprudenza nazionale, secondo la quale il giudice nazionale può accertare il carattere abusivo non dell’integralità della clausola di un contratto concluso tra un consumatore e un professionista, bensì solo degli elementi di quest’ultima che le conferiscono carattere abusivo, di modo che detta clausola rimane parzialmente efficace dopo l’eliminazione di siffatti elementi, qualora una simile eliminazione equivalga a modificare il contenuto della clausola in parola, incidendo sulla sua sostanza, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
2) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che:
essi ostano a una giurisprudenza nazionale secondo la quale il giudice nazionale può, dopo aver accertato la nullità di una clausola abusiva contenuta in un contratto concluso tra un consumatore e un professionista che non determini la nullità di tale contratto nel suo complesso, sostituire tale clausola con una disposizione suppletiva di diritto nazionale.
3) L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che:
essi ostano a una giurisprudenza nazionale secondo la quale il giudice nazionale può, dopo aver accertato la nullità di una clausola abusiva contenuta in un contratto concluso tra un consumatore e un professionista che determini la nullità di tale contratto nel suo complesso, sostituire la clausola dichiarata nulla vuoi con un’interpretazione della volontà delle parti, al fine di evitare la dichiarazione di nullità di detto contratto, vuoi con una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, anche qualora il consumatore sia stato informato delle conseguenze della nullità del medesimo contratto e le abbia accettate.
4) La direttiva 93/13, letta alla luce del principio di effettività, deve essere interpretata nel senso che:
essa osta a una giurisprudenza nazionale secondo la quale il termine di prescrizione decennale, relativo all’azione del consumatore diretta a ottenere la restituzione di somme indebitamente corrisposte a un professionista in adempimento di una clausola abusiva contenuta in un contratto di mutuo, inizia a decorrere dalla data di esecuzione di ciascuna prestazione da parte del consumatore, anche nel caso in cui quest’ultimo non fosse in grado, a tale data, di valutare lui stesso il carattere abusivo della clausola contrattuale o non avesse conoscenza del carattere abusivo di detta clausola, e senza tener conto della circostanza che tale contratto prevedesse un periodo di rimborso, pari nel caso di specie a trent’anni, ampiamente superiore al termine di prescrizione decennale, fissato dalla legge.
5. I principi di diritto ricavabili.
In linea di prima approssimazione, può anticiparsi la conclusione che tutte le sentenze del 17 maggio 2022, dopo l’esordio di un formale tributo di riconoscimento della valenza del giudicato anche in materia consumeristica (per tutte, vedi punti 57 e 58 di BancoDesio, ma anche i corrispondenti passaggi delle altre; e comunque occorrendo ribadire il punto anche in base ad altre pronunce della stessa CGUE), giungono alla conclusione che il giudicato non si forma sull’assenza di carattere abusivo di una clausola, se, in un procedimento sommario, non vi sia una anche solo sintetica motivazione e manchi l’indicazione al consumatore della definitività di tale conclusione in caso di mancata contestazione: con la conseguenza, specificamente indicata per l’ordinamento italiano, che il giudice dell’esecuzione (venendo da chiedersi con quale grado di rispetto dell’autonomia processuale del singolo Stato) possa rilevare l’abusività della clausola, non essendogli tanto precluso dalla definitività del decreto ingiuntivo non opposto.
Per il momento limitandocisi, quanto all’ordinamento italiano, al concreto caso sottoposto al suo esame, l’approdo della giurisprudenza della Corte di giustizia potrebbe sintetizzarsi nella formula che il giudicato - o l’analoga figura della preclusione pro iudicato pure avanzata in dottrina - derivante da mancata opposizione del decreto ingiuntivo copre quanto espressamente dedotto ed il deducibile, ma, quanto a quest’ultimo, non anche le questioni in tema di tutela del consumatore assicurata dalla disciplina eurounitaria.
L’attenta considerazione del tenore delle altre tre decisioni, relative ad ordinamenti diversi da quello italiano, consente fin d’ora di concludere in senso ben più ampio: il giudicato si estende alle questioni in tema di tutela del consumatore, in quanto assicurata come inderogabile dalla disciplina eurounitaria, solo se sono state espressamente dedotte e, sia pur anche solo sommariamente, esaminate o esplicitamente indicate al consumatore.
Pertanto, tali questioni non sono suscettibili di giudicato implicito: se non risulti che vi sia stata una delibazione anche sommaria ed il chiaro avviso all’ingiunto che in mancanza di opposizione (o, deve ritenersi, di altra adeguata forma di reazione) esse non potrebbero rimettersi in discussione, tali questioni NON sono coperte dal giudicato o comprese in esse.
Ulteriore conseguenza è che il titolo esecutivo giudiziale, nella specie il decreto ingiuntivo non opposto (ma si vedrà che la conclusione è pericolosamente suscettibile di riferirsi a qualunque titolo giudiziale), non copre tale questione, che quindi resta aperta e rilevabile anche successivamente, sia pure con modalità, forme e termini tutti da ricostruire. Al contrario, solamente se sulla questione vi è una anche solo sommaria motivazione e se vi è stato un monito sull’irretrattabilità della conclusione sul punto in mancanza di opposizione nel termine[37], sicché la mancata reazione del consumatore non si ascriva ad incolpevole sua passività, non vi è più spazio per successive contestazioni.
A tanto si aggiunga che non è più possibile, in materia consumeristica, una limitazione sic et simpliciter della pronuncia di nullità alla sola clausola abusiva, né una sua automatica inserzione di clausole in base alla normativa nazionale, né un’interpretazione complessiva delle volontà delle parti in qualche modo adeguatrice e che prescinda da un finale effetto di travolgimento dell’intero assetto negoziale intercorso tra quelle.
6. Gli effetti su principi consolidati del processo civile italiano.
Deve premettersi con la massima chiarezza e decisione possibili che va salutato con profonda soddisfazione ogni passo verso l’effettività della tutela dei diritti fondamentali e, tra questi, di quelli per i quali è previsto un regime di particolare attenzione a salvaguardia della posizione di una delle parti, ope legis qualificata svantaggiata o debilior: in estrema analisi, si è dinanzi appunto ad una più incisiva e compiuta forma di garanzia; e, sotto questo aspetto, è un approdo senz’altro positivo.
E tuttavia, se al risultato ed al fine occorre plaudire senza riserve, lo strumento adottato coinvolge principi fondamentali del processo e ne mette in seria crisi alcuni approdi finora ritenuti consolidati, raggiunti indistintamente nell’interesse di tutti i soggetti dell’ordinamento, tra i quali si annoverano le stesse parti più deboli che la normativa eurounitaria, interpretata dalla Corte di giustizia, meritoriamente intende tutelare con ulteriore incisività.
Occorre quindi attrezzarsi per valutare le conseguenze dell’applicazione dei principi di diritto proclamati dalle quattro sentenze del maggio 2022 sulla tenuta dei singoli sistemi processuali nazionali, risultando un’attenta considerazione delle conseguenze un imperativo categorico per tutti gli operatori del diritto, da qualsiasi angolo visuale: affinché l’indiscutibile obiettivo dell’effettività della tutela del consumatore non sia conseguito al caro prezzo del sacrificio di principi altrettanto fondamentali dell’elaborazione processualistica, stavolta a tutela di tutti i consociati e, così, dell’intero ordinamento, cioè considerato nel suo complesso.
Infatti, così ricostruito il risultato concreto del dictum della Corte di Lussemburgo, per il processualcivilista i problemi sono considerevoli sia de futuro che de praeteritu: e tanto anche solo a rimanere ancorati alla questione in concreto decisa nella sentenza che riguarda il caso italiano, cioè la sorte del decreto ingiuntivo definitivo che coinvolga quale debitore ingiunto un soggetto cui sia applicabile, anche ex post (come nel caso del fideiussore di impresa, cui l’estensione si è avuta a chiare lettere solo dal 2015), la specifica normativa eurounitaria a tutela del consumatore.
Infatti, le quattro sentenze della Grande Camera del 17 maggio 2022 hanno un impatto incalcolabile su consolidati principi del processo civile italiano, quali:
- La funzionalità alla certezza del diritto ed alla stabilità delle decisioni e quindi dei rapporti giuridici della definitività delle decisioni giudiziarie[38];
- La preclusione, ad opera del giudicato, non solo di quanto sia stato dedotto, ma pure di quanto sarebbe stato deducibile[39] e quindi anche su questioni implicitamente trattate, solo talvolta esigendo la consapevolezza sul punto delle parti interessate;
- La natura giudiziale del decreto ingiuntivo, come strutturato nel rito civile italiano, che non può degradarsi ad un semplice titolo stragiudiziale[40];
- La tradizionale ricostruzione del decreto ingiuntivo definitivo (anche perché non opposto) in termini di giudicato formale e sostanziale o in quelli della - in tutto equivalente - preclusione pro iudicato[41];
- La conseguente combinazione dei due ultimi principi in quello che il decreto ingiuntivo definitivo, anche perché non opposto, copre il dedotto e il deducibile[42];
- La separazione netta e necessaria tra cognizione ed esecuzione, con conseguente carenza, in capo al giudice dell’esecuzione in quanto tale, di qualunque potestà cognitiva di sindacare il merito del titolo esecutivo, a maggior ragione se giudiziale e comunque se definitivo: con intangibilità assoluta, da parte del giudice dell’esecuzione quale giudice dell’opposizione, del titolo esecutivo giudiziale per fatti anteriori alla sua definitività, da farsi valere esclusivamente davanti al giudice delle impugnazioni del titolo medesimo[43].
7. I precedenti casi di riconosciuta cedevolezza del giudicato nazionale.
Si affaccia con inusuale vigore nel nostro ordinamento - pur avendo da tempo a lungo interagito con altri, pure vicini al nostro, come quello spagnolo[44], che ha tentato con frequenti innovazioni legislative di adeguarsi ai dicta di Lussemburgo, spesso reputate inidonee - il tema della c.d. cedevolezza del giudicato nazionale dinanzi alla normativa eurounitaria qualificata inderogabile dal Kirchberg.
Il sistema processuale italiano era già stato investito, nel passato e forse meno di altri ordinamenti nazionali, dagli interventi della Corte di giustizia dell’Unione europea quanto a cedevolezza del giudicato nazionale dinanzi alla normativa eurounitaria[45].
Non è questa la sede per un adeguato approfondimento della tematica, lasciato ai numerosissimi interventi sul punto ed agli specialisti di diritto eurounitario; tuttavia, giova qui rammentare che, in linea di grande approssimazione, i casi di cedevolezza conclamata del giudicato potevano definirsi, finora, come rimasti ancorati alla peculiarità della fattispecie:
- la sentenza della CGUE in causa Lucchini (del 18 luglio 2008, causa C-119/2005), la più categorica, fonda il travolgimento del giudicato nazionale sulla intollerabilità della violazione delle competenze interne degli organi dell’Unione: tanto che ben poteva ricondursi al concetto di sentenza inutiliter data da organo privo di qualunque potestà giurisdizionale sulla questione, che avesse straripato dai suoi poteri istituzionali: a volere istituire un sia pure improprio – e a fini meramente descrittivi – parallelo con istituti nazionali, una cassazione per eccesso di giurisdizione come quella ammessa dall’art. 111, comma ottavo, della nostra Costituzione per le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti;
- differente è stato il caso della sentenza Olimpiclub (del 3 settembre 2009, causa C-2/2008), concluso con la negazione dell’effetto espansivo esterno di un precedente giudicato a diversi periodi di imposta: a ben vedere, in base ad un’opzione comunque offerta dalla procedura civile nazionale, quale quella di reputare limitato il giudicato al singolo periodo di imposta (effettivamente in senso divergente da quanto da poco affermato, ma appunto in via di interpretazione, da Cass., S.U., 16 giugno 2006, n. 13916), onde consentire per ognuno di questi la valutazione di merito quanto ad applicazione della disciplina comunitaria o eurounitaria;
- ancora diverso dal caso Lucchini è stato il caso Pizzarotti (sentenza del 10 luglio 2014, causa C-213/2013), in cui al giudice amministrativo, adito dall’impresa vittoriosa per conseguire la stipula del contratto di locazione contrariamente alla norma eurounitaria che avrebbe imposto quello di appalto pubblico di lavori, la Corte di giustizia ha imposto di scegliere altra opzione, pure possibile in base alla procedura (ora amministrativa) nazionale, in sede appunto di completamento del giudicato, qualificabile a formazione progressiva e suscettibile di essere rimeditato o comunque adeguato in tal senso[46] proprio in sede di attuazione.
Si poteva quindi dire che, almeno finora e con riferimento al processo italiano, il Kirchberg aveva recepito l’istituzionale resistenza del giudicato anche alle violazioni della normativa eurounitaria, con la sola eccezione dello straripamento di potere mediante invasione di competenza riservata agli organi dell’Unione, ma imponendo, tutte le volte che la procedura nazionale lo consentiva, una sua interpretazione che permettesse di non dare corso, nel caso concreto, ad una sua applicazione che avesse il suo esito in una violazione della disciplina eurounitaria[47].
8. Una scelta di campo.
Occorre valutare quali siano le ipotesi possibili offerte all’interprete e soprattutto al processualcivilista nazionale: ognuna delle quali esige uno sforzo particolare di adattamento, anche a prezzo di una riconsiderazione profonda degli istituti fondamentali del processo civile italiano. È necessario valutarne le possibili conseguenze: auspicabilmente senza sovvertire ogni approdo raggiunto sugli istituti che si sono visti coinvolti; e rifuggendo da un acritico ossequio ad interventi esterni, benché assolutamente legittimi, oppure dalla tentazione di eleganti ma singolari o ardite ricostruzioni teoretiche idonee a travolgere principi ormai stabili dopo decenni di elaborazione e, per quel che qui conta, accettati in modo sostanzialmente pacifico dalla generalità degli operatori.
9. Il dissenso o la contestazione, nei limiti del possibile.
La prima delle alternative percorribili muove dalla considerazione che almeno alcuni dei principi nazionali del processo sopra ricordati – tra cui la definitività del giudicato – possono essere ricostruiti come di ordine pubblico o perfino idonei a connotare la tradizione giuridica nazionale[48], sicché, in quanto tali, atti a contrapporsi al diritto eurounitario.
E si porrebbe poi l’alternativa tra la rimessione della questione di legittimità costituzionale alla Consulta per la valutazione della compatibilità della soluzione eurounitaria coi principi fondanti dell’ordinamento costituzionale nazionale ed una nuova rimessione della questione alla Corte di giustizia, stavolta prospettando con più attenzione la centralità nel nostro ordinamento del valore della definitività delle decisioni giudiziarie e del correlato giudicato implicito, sia pure “consapevole”.
Si tratterebbe, in sostanza, di una meditata attivazione dei controlimiti interni, che potrebbero considerare irrinunciabile – per la stessa identità nazionale – la certezza del diritto derivante dal regime di definitività dei titoli giudiziali: sotto l’angolo visuale, quanto meno, del necessario ripudio di un regime di instabilità perenne dei provvedimenti conseguiti in sede giurisdizionale, primo elemento di entropia incontrollabile e di insicurezza nei rapporti giuridici, economici e sociali; e, per di più, in un ordinamento, quale quello italiano, in cui, per le sue note caratteristiche strutturali, è già di per sé arduo conseguire in tempi utili un titolo giudiziale: ordinamento al quale la stessa Unione europea, sia pure al ben identificato scopo del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, ha – per altri versi comunque in modo condivisibile – imposto il recupero dell’efficienza del sistema della giustizia civile.
Ciascuno degli approdi ricostruttivi di istituti processuali fondamentali sopra indicati viene sottoposto, infatti, dalle sentenze di Lussemburgo ad una tensione tale da dovere essere riscritto, rimeditato, rivisto, talvolta anche fin dalle fondamenta:
- il decreto ingiuntivo nazionale, la cui natura è indiscutibilmente giudiziale e che si articola comunque su di un contraddittorio eventuale e differito a determinate condizioni, verrebbe equiparato, quanto alle sole questioni consumeristiche, ad un semplice titolo stragiudiziale, liberamente ridiscutibile in ogni contesto successivo ed anche a partire soltanto dalla sua esecuzione: sicché ne resterebbe esclusa, almeno per le relative questioni potenziali, qualsiasi sua stabilità ed ogni sua sussunzione od equiparazione al giudicato formale e sostanziale; anzi, sarebbe questa l’occasione per ricondurre il decreto ingiuntivo nazionale alla sua struttura e funzione originaria di accertamento con prevalente funzione esecutiva, intrinsecamente inidoneo al giudicato, con un radicale suo ridimensionamento e la sua riduzione ad un monitorio puro, connotato da caducità intrinseca per contestabilità ad nutum da parte dell’ingiunto; in alternativa, il monitorio nazionale dovrebbe subire una mutazione e, per di più, limitata all’ambito consumeristico, introducendosi penetranti poteri istruttori del giudice della fase monitoria, quando ancora il contraddittorio non è instaurato, di ampiezza e con rischi di instabilità tali da rendere perfino non più conveniente tale agile strumento di conseguimento di un titolo giudiziale, che ottima prova ha dato di sé dalla sua introduzione oltre un secolo fa;
- la definitività delle decisioni giudiziarie sarebbe intrinsecamente limitata alle questioni diverse da quelle consumeristiche, a meno che queste non siano state sempre e comunque espressamente affrontate, semmai perfino con rilievo di ufficio da parte del giudice: la decisione resterebbe quindi caduca, o relativa ai soli fatti costitutivi del diritto ivi riconosciuto o dell’inidoneità dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi diversi da quelli in materia consumeristica; la certezza del diritto e la stabilità delle decisioni in quest’ambito si raggiunge quindi soltanto se la questione sia stata espressamente presa in considerazione, altrimenti questa è sempre, in qualunque altro momento (salva solo, auspicabilmente, la maturazione della prescrizione o il caso del coinvolgimento di terzi estranei, come nell’ipotesi di vendita giudiziale del bene oggetto di garanzia);
- a ciascun giudice dell’esecuzione dovrebbe attribuirsi un rivoluzionario potere cognitivo pieno, nuovo e perfino ufficioso, contrario alla sistematica separazione tra cognizione ed esecuzione, a sua volta funzionale all’ordinato sviluppo del contenzioso e, soprattutto, al raggiungimento della stabilità delle decisioni quale presupposto dell’efficienza della indispensabile giurisdizione esecutiva, l’una e l’altra pietre angolari dell’effettività della tutela dei diritti[49]: con l’ulteriore conseguenza di una polverizzazione dell’esercizio della giurisdizione ed un numero potenzialmente indefinito ed infinito di occasioni di rimessione in discussione di una decisione giudiziale non di rado raggiunta a prezzo dell’impiego di ingenti risorse ad opera di almeno una delle parti e, in ogni caso, dell’ordinamento.
La vanificazione della tutela giurisdizionale che deriverebbe dal travolgimento della certezza del diritto in materia consumeristica, conseguita all’esito dell’adeguato coinvolgimento dell’interessato, potrebbe essere prospettata come un elemento di sovversione della stabilità dell’ordinamento nazionale, sebbene si tratti della tutela del consumatore: come a dire che la seconda non può conseguirsi comunque ad ogni costo e, in particolare, a prezzo dello sconvolgimento del primo.
La reazione al dictum di Lussemburgo sarebbe allora giustificata, come nel notissimo precedente Taricco[50] (e seguenti), con l’idonea prospettazione della non tollerabilità, per l’ordinamento nazionale, delle conseguenze di un’applicazione della normativa eurounitaria nella rigorosa, quasi intransigente, sua declinazione come specificamente interpretata dal Kirchberg, ignara delle peculiarità del nostro ordinamento e della struttura del monitorio quale ausilio indispensabile all’agilità ed alla speditezza della tutela giurisdizionale, incardinato sull’eventualizzazione della reazione giurisdizionale del convenuto in situazioni che meritano particolare tutela operativa al diritto del creditore e conforme alle esigenze di una definizione in tempi ragionevoli e con caratteristiche idonee a scongiurare l’indefinita instabilità del rapporto giuridico dedotto.
Non ci si può nascondere che si tratta di una scelta ardua.
10. L’adeguamento, nei limiti del possibile.
Una seconda opzione muove invece dall’accettazione, per intima convinzione o per valutazione di impraticabilità di alternative de iure condito, dei dicta di Lussemburgo, idonei ad introdurre un nuovo concetto di giudicato o di decreto ingiuntivo, che non coprirebbero mai, se non espressamente trattate o almeno segnalate al potenziale consumatore, le questioni sull’abusività di clausole per il consumatore.
È l’alternativa alla reazione di dissenso, che ha però una sua intrinseca aporia, cioè quella di indurre la necessità (e la tentazione …) di riscrivere ciascuno degli approdi sopra descritti: e qui l’ansia ricostruttiva, sia pure animata dal nobile intento non solo e non tanto di adeguarsi all’Europa, quanto di apprestare infine questa tutela effettiva alla pars debililior, deve però guardarsi dai rischi di fantasiose operazioni laceranti, prive non solo di qualsiasi continuità con gli approdi raggiunti (ciò che, in fondo, si potrebbe ammettere, visto il carattere dirompente delle pronunce del Kirchberg), ma pure di coerenza con gli altri capisaldi del sistema nazionale non necessariamente e non immediatamente investiti dal terremoto del 17 maggio 2022.
Infatti, nessuno degli strumenti a disposizione dell’operatore del diritto consente di recepire sic et simpliciter i dicta perentori di Lussemburgo, neppure del tutto in regola col principio di autonomia processuale degli Stati membri: e ogni adeguamento del nostro sistema processuale sarà complesso ed articolato, qualunque sia lo strumento che si voglia [im]piegare a tale nobile scopo e che sia già a disposizione, quali quelli previsti dagli artt. 650 o 654 o 656-395 o 615 c.p.c., ovvero un’ordinaria azione di nullità del titolo originario.
Anche tale esito, che avrebbe il pregio dell’approccio più elastico con le nozioni coinvolte e si fonderebbe sull’ovvio rilievo che il diritto non è come si vorrebbe che sia ma come è in concreto disegnato dalla realtà, non sarebbe però agevole: prima di ogni altra cosa, perché implicherebbe un’altra valutazione preliminare e cioè la scelta se vada rimessa ad un intervento erga omnes del legislatore (come è accaduto in Spagna, sebbene, come accennato, con esito non propriamente fausto), o almeno della Consulta, mercé un suo intervento manipolativo sulle relative norme processuali, oppure ancora se sia utile ed opportuno che vi provveda – se non altro nel frattempo e coi limiti della sua intrinseca varietà di accenti, ancor più pericolosa per la serialità e la diffusione del relativo contenzioso – la giurisprudenza, almeno di legittimità, in via di adeguamento interpretativo necessitato dalla pervasività dell’intervento della Corte di giustizia.
11. Un metodo per l’analisi.
Non è ozioso sottolineare che ognuna delle suesposte articolate opzioni è nelle mani di ciascuno degli operatori del diritto, a partire dai singoli giudici della Repubblica, a tanto potendo indursi appunto ognuno di loro con la rimessione degli atti alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Verosimilmente, onde valutare la concreta praticabilità dell’una o dell’altra e pertanto senza prendere partito, può essere utile un approfondimento delle alternative concretamente offerte dalla seconda: riguardo alla quale è fin d’ora necessario ammonire che ogni adeguamento, in via di mera interpretazione, del sistema esistente è sicuramente impervio.
Per di più, la tematica è sensibilmente diversa tra il numero potenzialmente indefinito di situazioni già esistenti e relative ai giudicati o ai decreti ingiuntivi definitivi posti in esecuzione e perfino già del tutto eseguiti (nei limiti della prescrizione decennale) e quello di tutte le fattispecie che si possono porre per l’avvenire: sicché la tematica de futuro va esaminata separatamente da quella de praeteritu, perché nella prima si può forse ancora pensare ad un adeguamento che contemperi le diverse esigenze e non dia luogo a problemi applicativi nella fase dell’esecuzione e quindi della realizzazione concreta del bene della vita cui il singolo giustiziabile legittimamente aspira, mentre nella seconda occorre solo valutare come ricombinare la varia interazione delle posizioni contrapposte, salvaguardandole entrambe alla stregua dei principi fondamentali del nostro ordinamento, come incisi dalle pronunce della Corte di giustizia.
Pure, le soluzioni che si esamineranno de praeteritu varranno anche per l’ipotesi in cui non si ritenga – e si è certi che tanto non avverrà per pericolosa incoscienza – di adottare alcun adeguamento nelle fattispecie future, continuando a comportarsi come se le sentenze del Kirchberg in commento non ci siano mai state.
12. Una possibile soluzione adeguatrice de futuro senza interventi normativi o equiparati.
De futuro il problema appare risolubile con l’imposizione – o il riconoscimento dell’esistenza – di un onere per il creditore ingiungente di chiedere (allegando e provando) e di un corrispondente obbligo per il giudice del monitorio – derivanti direttamente l’uno e l’altro dalla normativa eurounitaria, ma di ardua recepibilità in difetto di una norma espressa in tal senso o di una autorevole pronuncia quanto meno della Corte di cassazione – di inserire tale duplice clausola nel decreto ingiuntivo: che le clausole del contratto dedotto non sono vessatorie e che le relative questioni diverranno irretrattabile se non proposte dal destinatario dell’ingiunzione con l’opposizione prevista dagli artt. 645 ss. c.p.c..
Del resto, il giudice del monitorio ha sempre la possibilità di invitare il creditore istante ad integrare la sua produzione ex art. 640 c.p.c.[51]; significativamente e per la verità da tempo, anche per l’ingiunzione europea la stessa Corte di giustizia predica la necessità di un’accurata indagine in tal senso: infatti, l’articolo 7, paragrafo 2, lettere d) ed e), del regolamento (CE) n. 1896/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, nonché l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, quali interpretati dalla Corte e letti alla luce dell’articolo 38 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che consentono a un «giudice», ai sensi di detto regolamento, adito nel contesto di un procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, di chiedere al creditore informazioni complementari relative alle clausole del contratto invocate a fondamento del credito in questione, al fine di effettuare il controllo d’ufficio del carattere eventualmente abusivo di dette clausole e, di conseguenza, nel senso che ostano a una normativa nazionale che dichiara irricevibili i documenti complementari forniti a tal fine[52].
Proprio perché non si vuole eludere il dictum di Lussemburgo, non può più emettersi un decreto ingiuntivo che non affronti questo specifico tema, cioè la tutela del consumatore: se non a prezzo di emettere un decreto che in sé sarebbe caduco, scazonte, infermo o instabile, non coprendo – in assenza di espressa menzione della questione – la sua definitività (comunque la si voglia ricostruire) la questione delle conseguenze di una eventuale violazione della ricca ed articolata normativa a tutela del consumatore.
È bene, allora, che il ricorrente per decreto ingiuntivo esamini la questione e la sottoponga al giudice adito per chiederne l’emissione: ad esempio, allegando le ragioni per le quali non si applica la disciplina a tutela del consumatore o, nel caso questa possa trovare in astratto applicazione, quelle per le quali essa non è violata e, così, per le quali non è abusiva alcuna delle clausole del contratto presupposto; producendo al riguardo tutta la documentazione necessaria o dichiarandosi pronto a farlo a richiesta, auspicabilmente specifica, del giudice; e così via dicendo, prevenendo, con una sorta di esasperazione del principio di eventualità, tutte le possibili obiezioni. Inoltre, il ricorrente avrà l’onere – in senso tecnico – di instare affinché il decreto ingiuntivo sia emesso con esplicita menzione della trattazione (anche sommaria) di tali questioni e con espresso avvertimento che, in mancanza di opposizione pure sul punto, esse rimarrebbero precluse[53].
Dal canto suo, il giudice adito col ricorso per decreto ingiuntivo non potrà più ignorare la questione, né limitarsi a trattarla con formule stereotipe, a maggior ragione tutte le volte che le circostanze del caso rendano plausibile che la normativa a tutela del consumatore possa venire in rilievo sotto uno qualsiasi dei suoi angoli prospettici (a cominciare dalla competenza territoriale, ma per valutare poi, alla stregua degli atti che in un primo momento il creditore gli sottoporrà e poi di quelli che dovrà chiedergli, la conformità di tutte le clausole contrattuali alla disciplina a tutela della parte debole del rapporto).
In carenza di allegazione – e, ovviamente, prova – di tali elementi, spetterà al giudice richiesto di emettere il decreto ingiuntivo il provvedimento interlocutorio disciplinato dall’art. 640 c.p.c.[54], invitando appunto il ricorrente ad integrare la documentazione già prodotta, auspicabilmente indicandola con sufficiente precisione; in mancanza di tanto, il ricorso non potrebbe che essere rigettato, ma è noto che tanto, in linea di principio, non impedisce mai la riproposizione della domanda, neppure nelle stesse forme.
Tanto amplia notevolmente la potestà istruttoria del giudice del monitorio, in una fase ancora caratterizzata dalla carenza di contraddittorio; ma l’ufficiosità dell’intervento del giudicante è un punto qualificante della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di tutela del consumatore, ad evidente compensazione della sua inferiorità contrattuale e col solo limite di una sua inerzia qualificata.
Non sembra praticabile altra strada, come l’instaurazione di una sorta di subprocedimento a contraddittorio pieno per la verifica delle questioni consumeristiche: si tratterebbe di una procedura completamente praeter legem, che sarebbe priva di qualunque base normativa e snaturerebbe la procedura monitoria, caratterizzata fin dalla sua introduzione dall’unilateralità, in quanto a sua volta istituzionalmente finalizzata al celere conseguimento di un titolo esecutivo giudiziale e con forme tali da avere superato più e più volte il vaglio di costituzionalità. Imporre al creditore un contraddittorio anticipato equivarrebbe ad una non prevista e non consentita trasformazione del rito da monitorio ad ordinario: e tanto varrebbe allora che il creditore, che tema tale epilogo, agisca direttamente in ordinario, semmai col rito più opportuno.
Ancora meno praticabile è l’assunzione di ingenti mezzi istruttori, o perfino lo stesso espletamento di una consulenza tecnica di ufficio, in assenza di contraddittorio, sul presupposto che questo è istituzionalmente mancante nel procedimento per decreto ingiuntivo: perfino negli atti di istruzione preventiva quello costituisce un elemento imprescindibile e, comunque, parrebbe ripugnare a principi generali del processo che qualsiasi complessa attività di preparazione della decisione possa aver luogo senza il dovuto coinvolgimento della controparte. La stessa fase monitoria, come attualmente disegnata in conformità alle previsioni originarie, è connotata pur sempre dalla presenza di elementi istruttori comunque provenienti dalla controparte: ed è solo questo che giustifica la momentanea inversione della sequenza domanda-contraddittorio-decisione in domanda-decisione-contraddittorio e ad impulso dell’ingiunto.
C’è poi da chiedersi quanto in concreto debba spingersi l’indagine ufficiosa del giudice della fase monitoria: e, cioè, quanto in concreto quest’ultimo, senza perdere in terzietà, possa supplire con le sue attività ufficiose alle carenze dell’atto introduttivo. Il parallelo con i poteri istruttori ufficiosi del giudice, soprattutto del lavoro, non convince, perché si tratta di casi in cui il contraddittorio è stato comunque già instaurato e il thema decidendum è stato definito col concorso di tutte le parti. Un tempo, solo il pretore civile aveva poteri istruttori ancora più ampi, mentre quello penale perfino cumulava in sé il compito di propulsore e decisore del procedimento: non a caso l’evoluzione del sistema ha imposto il superamento di tali improprie contaminazioni. La posizione di pars debilior del consumatore non può trasformare il giudice in un inquisitore al suo fianco, perché in tal modo i rapporti di prevalenza o prepotenza sarebbero non già vanificati, ma semplicemente ribaltati: ciò che l’ordinamento non dovrebbe poter mai consentire.
Il potere istruttorio ufficioso va coordinato anche con la parzialità per unilateralità delle produzioni e delle allegazioni del ricorrente: che potrebbe, in base alla vigente normativa, chiedere l’emissione del monitorio in base a documenti da cui nessun benché minimo dubbio della qualità di consumatore dell’ingiunto potrebbe ritrarsi.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia può ritrarsi qualche spunto, nella parte in cui impone tale dovere di istruzione ufficiosa quando dagli atti a sua disposizione risultino elementi tali da consentirgli quanto meno di dubitare che possa trovare applicazione la normativa di tutela del consumatore[55]: pertanto, potrebbe darsi il caso della non necessità di tale attivazione, benché il rischio di un decreto ingiuntivo caduco sul punto possa sussistere.
13. Il rito monitorio consumeristico indotto dalla CGUE.
Dovrebbe quindi ritenersi che in ogni caso al giudice del monitorio sia richiesto, in forza della riscrittura della disciplina codicistica imposta dalle sentenze del Kirchberg:
A) di verificare se vi siano elementi tali da indurre il dubbio che possa trovare applicazione la normativa a tutela del consumatore:
B) in caso tale dubbio sia certamente escluso, di non limitarsi ad una pronuncia allo stato degli atti, poiché la domanda priva di prova non dà luogo ad un non liquet ma al rigetto e, in ogni caso, è onere delle parti attivarsi per conseguire una pronuncia sul punto: pertanto, il giudice del monitorio dovrà dare comunque atto, nella motivazione del provvedimento, che “in mancanza di elementi sull’applicabilità della normativa a tutela del consumatore, questa non trova applicazione nel caso di specie”, con il consueto avvertimento all’ingiunto che “quanto all’applicazione della disciplina a tutela del consumatore, è onere dell’ingiunto proporre opposizione entro il termine appresso indicato [normalmente, i quaranta giorni canonici o l’altro in concreto stabilito], in mancanza della quale non sarà più possibile invocare l’applicazione della disciplina stessa”;
C) in caso invece quel dubbio sussista, di valutare la documentazione ed ogni altro elemento in atti al fine di apprezzare il carattere abusivo o illecito delle relative clausole, nei limiti in cui queste incidono sulla domanda;
C.1) ove la documentazione sia idonea, di valutarla in concreto e:
C.1.1) di rigettare la domanda di decreto ingiuntivo nel caso in cui sia evidente già ad un primo esame il carattere abusivo o illecito delle clausole connesse all’oggetto della domanda;
C.1.2) in caso invece gli elementi a disposizione già consentano di escludere l’abusività o illiceità, infine di concedere il monitorio, munendolo di formule del tipo: “poiché, sulla base degli elementi acquisiti, la normativa a tutela del consumatore non trova applicazione nel caso di specie, in quanto …”, con il consueto avvertimento all’ingiunto che “quanto all’applicazione della disciplina a tutela del consumatore, è onere dell’ingiunto proporre opposizione entro il termine appresso indicato [normalmente, i quaranta giorni canonici o l’altro in concreto stabilito], in mancanza della quale non sarà più possibile invocare l’applicazione della disciplina stessa”;
C.2) nel caso, infine, in cui gli elementi a disposizione non consentano di escludere l’abusività o illiceità delle clausole contrattuali pertinenti all’oggetto della domanda, di invitare il creditore, con provvedimento de plano riconducibile all’art. 640 c.p.c., ad integrare allegazioni e prove (queste ultime nel senso peculiare normalmente inteso per la fase monitoria del procedimento per decreto ingiuntivo), entro un termine ordinatorio, ma in grado di condurre in concreto alla definizione infausta in caso di sua violazione:
C.2.1) ove, all’esito di tale termine e dell’eventuale ottemperanza al relativo invito, gli elementi a disposizione consentano di concludere per l’abusività o illiceità delle clausole connesse all’oggetto della domanda, di rigettare la domanda di decreto ingiuntivo secondo quanto previsto sopra sub C.1.1);
C.2.2) ove, all’esito di tale termine e dell’eventuale ottemperanza al relativo invito, gli elementi a disposizione siano in grado di fare escludere l’abusività o illiceità, infine di concedere il monitorio, secondo quanto previsto sub C.1.2).
La conclusione è che tutta da scrivere risulta quindi la disciplina del monitorio nei confronti di un potenziale consumatore.
Un così notevole aggravio delle condotte richieste al giudice adito col ricorso potrà difficilmente accettarsi in via di mera interpretazione, sia pure imposta e necessitata dalla secchezza del dictum di Lussemburgo e suggellata dall’esito di un decreto ingiuntivo che, su quei punti, non acquista alcuna stabilità, né alcuna efficacia equiparabile a quella del giudicato. Un monitorio di tale contenuto sarebbe infatti di instabilità permanente: le questioni consumeristiche non sono più coperte dall’ordinaria definitività, di norma e finora equiparata al giudicato, del decreto ingiuntivo non opposto e sarebbero quindi sempre riproponibili; per di più, per effetto della sentenza del Kirchberg, perfino in sede di esecuzione e davanti al giudice dell’esecuzione: tanto che al debitore potrebbe perfino “convenire” di non opporsi subito, ma di attendere che il monitorio, divenuto solo in apparenza definitivo per mancata opposizione, sia posto in esecuzione per far valere il suo vizio genetico.
Il risultato concreto potrebbe essere allora la vanificazione dello stesso decreto ingiuntivo … con travolgimento della pratica utilità di uno strumento che ha, in quasi un secolo, dato di sé prova tutto sommato soddisfacente: e questa non pare davvero una soluzione conforme al buon senso.
La sorte del monitorio nazionale e la sua funzione di sollecito strumento di garanzia per la parte adempiente è rimessa allora alla concreta risposta degli operatori pratici alla rivoluzionaria quaterna di sentenze del 17 maggio 2022, sempreché – beninteso – non ritenga di intervenire il legislatore o, se ritualmente investita, la Consulta.
14. Le possibili opzioni adeguatrici de praeteritu senza interventi normativi o equiparati.
E però, ove nulla in tal senso sia fatto in tal senso anche dopo il 17 maggio 2022, si riproporrà per il futuro la tematica che si propone già da ora per il passato, in relazione ad un numero indeterminato di decreti ingiuntivi definitivi e semmai ancora posti in esecuzione per recuperare il credito in essi riconosciuto.
Infatti, il più urgente problema è dato dal fatto che, de praeteritu (o, de futuro, se il giudice del monitorio non adeguerà la sua condotta ai dicta del Kirchberg), la C-693/19 (SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a.) conclude espressamente nel senso che su di un decreto ingiuntivo che non abbia affrontato la questione dell’abusività delle clausole in danno del consumatore il giudice dell’esecuzione (nominatim indicato, in stridente disapplicazione del principio di autonomia procedurale riconosciuto da sempre ai singoli Stati membri) debba potere valutare, anche per la prima volta, appunto in sede esecutiva il carattere abusivo, ove – deve ritenersi coordinando i principi espressi – ne sia mancato un anche solo sommario esame nel giudizio del merito con menzione dell’onere di tempestiva opposizione sull’esclusione dell’abusività; e tanto col solo limite che il bene sia stato già trasferito a terzi, nel qual caso residua solo una tutela risarcitoria in altra sede[56].
Inoltre, non ci si può nascondere che l’intera normativa postula che un tale potere sia esercitato perfino di ufficio: beninteso, ove tanto appaia dagli atti che legittimamente il giudice ha a sua disposizione.
L’applicazione leale e fedele, vale a dire non elusiva, del principio devolve al giudice dell’esecuzione la potestà (e quindi il potere-dovere) di esaminare per la prima volta l’abusività delle clausole (fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene sicché in tali casi residuerebbe soltanto una tutela risarcitoria); le sentenze della Corte di giustizia parlano di giudice dell’esecuzione, ma al contempo il principio di autonomia processuale[57] dovrebbe autorizzare il mantenimento dell’irrinunciabile principio della necessaria separazione tra esecuzione e cognizione e, quindi, consente una articolazione dei rimedi processuali all’ordinamento del singolo Stato membro.
Tale potestà rivoluziona le conclusioni finora reputate pacifiche, stratificate, generalmente condivise, sul ruolo del giudice dell’esecuzione[58].
Per raggiungere tale risultato dovrebbero coordinarsi:
- la natura giudiziale del titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo non opposto, sia pure menomata o limitata, per il dictum di Lussemburgo, alle questioni diverse da quelle consumeristiche sulle quali non vi sia stata menzione all’ingiunto dell’onere di opporsi;
- la necessità imprescindibile di mantenere la ferma distinzione tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione dinanzi ad un titolo esecutivo giudiziale, che può dirsi di ordine pubblico processuale;
- i principi generali di scissione tra allegazione, rilievo ed avvio dell’azione di cognizione indispensabile per vanificare il titolo esecutivo giudiziale.
La prima, spontanea riflessione che viene da fare è che, per garantire la sottrazione al giudice dell’esecuzione di ogni ingerenza, anche a titolo di giudice di opposizione ad esecuzione, sul titolo giudiziale, dovrebbe escludersi intanto la proponibilità di un’opposizione ex art. 615 (o, a maggior ragione, 617) c.p.c.; di incidenti di cognizione del giudice dell’esecuzione innominati o atipici, che si risolverebbero in un tipo processuale absque legibus e nel risultato di una nomopoiesi normalmente vietata ad ogni interprete, in un sistema processuale connotato da un sistema chiuso di rimedi, non sembra possibile predicare l’introduzione in via di interpretazione, nemmeno se necessitata dalle pronunce del Kirchberg.
Si potrebbe ipotizzare, fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene[59], un rilievo, da parte del giudice dell’esecuzione in sede esecutiva, d’ufficio o su sollecitazione anche non formale (semplice ricorso, non necessariamente opposizione) del debitore, del mancato esame dell’abusività delle clausole con la devoluzione ad altra sede della rimessione in discussione del titolo stesso con l’adduzione dei fatti impeditivi lasciati impregiudicati dalla CGUE in tema di abusività, ma davanti allo stesso giudice che lo ha pronunciato.
In tal modo il giudice dell’esecuzione potrebbe, su impulso pure informale del debitore ad evitare di caricare il primo di compiti impropri poiché relativi al merito del titolo esecutivo giudiziale, rilevare la questione, indicando quale rimedio a carico del debitore (e se del caso sospeso ex art. 623 c.p.c. il processo esecutivo in attesa della prova del suo dispiegamento):
- un’ipotesi riconducibile all’art. 656 c.p.c. e quindi di revocazione extra ordinem: qui le perplessità derivano dalla finora conclamata insostituibilità, ai fini dell’ampliamento di quel catalogo, di interventi legislativi (si veda la riforma ex lege 206/21 sulla nuova ipotesi di revocazione per contrarietà a sentenza CEDU, di cui all’art. 391-quater c.p.c.) o almeno additivi da parte della Consulta (sentenze nn. 17/86, 36/91, 51/95, 558/99; questi ultimi resi però oggi impervi da diverse scelte della Corte costituzionale, come reso evidente sulla questione rimessa dal Consiglio di Stato e decisa dalla sentenza n. 123/17;
- un’ipotesi di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 650 c.p.c., del pari extra ordinem, in cui il termine decorra quanto meno dal rilievo da parte del g.e. e non sia ostacolato dalla preclusione dell’inizio dell’esecuzione da oltre dieci giorni; e qui le perplessità sono nel superamento dei detti termini, conseguibile con la creativa configurazione quale causa di forza maggiore - predeterminata! - del rilievo del giudice e la sostanziale mobilità (ed incertezza) del relativo dies a quo;
- un’ipotesi di decreto di esecutività ai sensi dell’art. 654 c.p.c. pure questa extra ordinem, in cui si onera di fatto il creditore di munirsi di un ulteriore accertamento per fare conseguire, definitivamente, l’esecutorietà al d.i., avverso il quale sarebbe però poi almeno riattivata la possibilità per l’ingiunto di dispiegare opposizione, stavolta ordinaria; e qui le perplessità derivano dalla natura meramente formale del controllo in genere esercitato in quella sede e dalla sua non azionabilità nei casi in cui il provvedimento di ugual tenore sia già stato reso in applicazione della normativa come pacificamente interpretata;
- ancora, un’ordinaria azione di accertamento, che inizi dal primo grado e davanti al giudice ordinariamente competente per territorio, materia e valore (ricordato che in materia consumeristica sussistono specifiche regole anche in materia di competenza), nel cui corso si accerti, siccome non coperto dal giudicato, il carattere abusivo di una o più clausole a danno del consumatore (la tradizionale actio o querela nullitatis, ammessa per ossequio al dictum della CGUE), con l’effetto finale prospettato di vanificare o neutralizzare o rettificare quanto risultante dal giudicato (da reputarsi allora meramente apparente): e nella quale la sospensione (esterna) del titolo giudiziale potrebbe conseguirsi almeno ai sensi dell’art. 700 c.p.c. in separata sede[60];
- infine, una variante di questa soluzione potrebbe rinvenirsi, ma soltanto per le imperative esigenze di coordinamento del rilievo anche in sede esecutiva con la riserva della cognizione del merito del titolo giudiziale al giudice che lo ha emesso, nella proposizione della fase sommaria di un’opposizione alla esecuzione davanti al g.e. che sta procedendo (in via del tutto eccezionale facendosi valere un fatto anteriore al giudicato da titolo giudiziale, reso però deducibile per il factum principis della sopravvenuta giurisprudenza eurounitaria) e, poi, sospesa o meno la procedura esecutiva, la rimessione al giudice del merito, da individuarsi appunto in quello che sarebbe competente, in base pure alle norme speciali della disciplina consumeristica, in primo grado a verificare che effettivamente il titolo esecutivo azionato non copra le questioni consumeristiche agitate dall’esecutato e ne possa quindi se del caso essere modificato[61].
15. Gli scenari.
A tutto questo si aggiunga, doverosamente, la considerazione della prospettiva che ogni ipotesi di mancato rilievo ufficioso da parte del giudice nazionale, sia nella fase della pronuncia del titolo giudiziale che in quella della sua esecuzione, del carattere abusivo delle clausole in danno del consumatore potrà dar luogo ad una duplice azione risarcitoria: in generale, contro lo Stato italiano, per mancata applicazione, ad opera dei suoi organi anche giurisdizionali (sebbene, normalmente di ultima istanza), della normativa eurounitaria[62]; in particolare, nel caso in cui la relativa esecuzione sia giunta già al momento della vendita del bene o si sia già conclusa, contro il creditore per recuperare quanto da lui conseguito in modo che si accerti essere stato indebito.
Ora, dovrebbe essere evidente che ognuna delle soluzioni di possibile adeguamento offre il destro a critiche e coinvolge inveterati principi del diritto processuale civile nazionale: e tale analisi è utile pure per valutare se la rimessione alla Consulta sia effettivamente imposta dalla non percorribilità di soluzioni alternative conseguibili in via meramente ermeneutica.
Per orientarsi per l’una o per l’altra delle opzioni ipotizzate sarà utile notare come si aprano comunque scenari vastissimi, tutti caratterizzati dalla torsione, più o meno accentuata, dei principi generali dell’ordinamento nazionale, investito dall’intransigente imposizione dell’effettività della tutela del consumatore da parte di Lussemburgo.
Evidentemente pure a seguito di una proprio adeguata rappresentazione delle sicure peculiarità di quell’istituto, i giudici di Lussemburgo hanno avuto buon gioco ad equiparare il decreto ingiuntivo ad un titolo stragiudiziale, suscettibile quindi di essere sempre e comunque rimesso in discussione appena la parte interessata e tutelata ne abbia la possibilità e l’interesse, fosse anche soltanto in sede esecutiva e per la prima volta, per di più invadendo la sfera dell’autonomia processuale dei singoli Stati membri.
Ma, come dimostrano i casi all’esame delle altre tre sentenze del 17 maggio 2022 del Kirchberg e la stessa esperienza di altri Paesi dell’Unione (in passato più direttamente interessati dalla pervasiva giurisprudenza di Lussemburgo), le conclusioni non si prospettano certo limitate al decreto ingiuntivo definitivo ed alla disciplina consumeristica: ben potendo estendersi a tutti i casi di giudicato implicito ed in relazione ad ogni ipotesi di normativa armonizzata.
Con quali effetti sulla stabilità dei titoli giudiziali, qualunque ne sia la denominazione, è agevole comprendere; e con quale coerenza con la conclusione tradizionale dell’indefettibilità della tutela esecutiva, è forse un po’ meno evidente, ma egualmente preoccupante: soprattutto dinanzi all’attribuzione, del tutto incongrua per il nostro sistema, al singolo giudice dell’esecuzione – che fino ad oggi, per solidi principi di ordine pubblico processuale, non avrebbe giammai potuto rimettere in discussione un titolo esecutivo giudiziale, soprattutto dopo le risorse impiegate dalle parti e dallo stesso ordinamento per conseguirlo – del potere di un rilievo, forse perfino ufficioso, delle violazioni di quelle discipline non adeguatamente portate a conoscenza dell’ingiunto.
L’entropia del sistema, sia pure al nobilissimo e del tutto condivisibile fine della massima tutela possibile per i titolari di diritti riconosciuti come fondamentali, sarebbe così eccitata ed estesa all’estremo, a vantaggio di una aleatorietà talmente spinta da minare in radice la certezza, la prevedibilità e l’affidabilità del diritto e dei provvedimenti che vogliono attuarlo e riconoscerlo[63]: restando rimesso tutto all’estro ed alla disposizione di una serie potenzialmente indefinita ed infinita di giudici, finché non se ne trovi uno che ritenga infine di restaurare il diritto calpestato a dispetto del rituale sviluppo dei mezzi previsti dall’ordinamento.
E c’è da chiedersi se uno Stato di diritto in una moderna democrazia occidentale non possa perseguire la tutela di una parte debole non già moltiplicando a dismisura strumenti di garanzia tutti caduchi ed inefficienti, anziché facendo funzionare al meglio quelli che ci sono.
16. Appendice: sulla necessaria separazione tra cognizione ed esecuzione.
Dalla motivazione di Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850:
“... il titolo esecutivo giudiziale non può essere rimesso in discussione dinanzi al giudice dell’esecuzione ed a quello dell’opposizione per fatti anteriori alla sua definitività, in virtù dell’intrinseca riserva di ogni questione di merito al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto o sta avendo pieno sviluppo ed è stata od è tuttora in via di esame ex professo o comunque in via principale.
6. Il principio può dirsi al riguardo consolidato:
6.1. in sostanza, il debitore può fare valere fatti impeditivi o modificativi o estintivi del diritto azionato, che siano successivi alla formazione del titolo esecutivo giudiziale o alla conclusione del processo in cui esso si è formato e avrebbe potuto essere modificato: ma non anche quei fatti che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del titolo giudiziale (sul punto, v. per tutte: Cass. 25 maggio 2007, Cass. 19 dicembre 2006 n. 27159, Cass. 25 settembre 2000 n. 12664, Cass. 28 agosto 1999 n. 9061, Cass. 25 febbraio 1994 n. 1935) e salvo il solo caso dell’impossibilità incolpevole di farli constare ritualmente nel giudizio “di merito” (come puntualizza Cass. 31 maggio 2005 n. 11581); e, sul punto, è appena il caso di rilevare che la gravata sentenza evidenzia come neppure sia stato allegato – e tanto meno provato – dal debitore che il preteso fatto estintivo sia intervenuto in tempo tale da escluderne l’utile deducibilità nel processo di cognizione in cui il titolo esecutivo giudiziale è poi divenuto definitivo;
6.2. tanto si ricava, tradizionalmente, dall’applicazione dei principi della preclusione da giudicato (tra le tante, v. Cass. 28 gennaio 1988 n. 766, Cass. 22 novembre 1988 n. 6278, Cass. 28 agosto 1999 n. 9061, Cass. 30 novembre 2005 n. 26089) – in ipotesi di titolo esecutivo giudiziale definitivo – o – in ipotesi di titolo esecutivo giudiziale provvisorio – della litispendenza (Cass. 25 febbraio 1994 n. 1935); ma si desume anche dai rapporti tra processo di cognizione e processo esecutivo relativi alla stessa pretesa;
6.3. le cause di opposizione ad esecuzione hanno invero una sicura autonomia strutturale (in quanto incidenti cognitivi all’interno o in occasione di quello), ma non funzionale, rispetto al processo esecutivo, sicché esse non possono avere finalità o scopo diversi dal processo cui accedono;
6.4. infatti, il processo esecutivo è teso a garantire in pratica ed in concreto al creditore consacrato nel titolo il bene della vita ivi descritto ed integra il complemento operativo indefettibile della tutela giurisdizionale in senso stretto o cognitiva, relativa ad affermare quale sia il diritto nel caso concreto ovvero al c.d. ius dicere; insomma, esso è totalmente funzionale all’attuazione forzata del diritto come consacrato nel titolo esecutivo, in cui tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione (e tutti gli atti delle parti e dei soggetti operanti sotto il suo controllo) tendono alla realizzazione coattiva di quanto - vincolativamente per quel medesimo giudice - è statuito nel titolo (Corte cost. 12.11.02 n. 444);
6.5. l’immedesimazione funzionale delle due tutele, cognitiva ed esecutiva, è del resto ben chiara anche nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ormai in grado di orientare, come interprete autentica della normativa della Convenzione, a sua volta da qualificarsi interposta ai fini del giudizio di conformità della normativa interna a quella costituzionale, anche l’interpretazione concreta che gli interpreti sono chiamati a dare del diritto nazionale: la detta Corte infatti riconosce la “continuità funzionale” tra cognizione ed esecuzione, per esaltare il necessario livello di effettiva tutela dei diritti e quindi di efficienza del sistema non soltanto con riguardo alla tutela cognitiva e quindi degli strumenti di formazione dei titoli esecutivi giudiziali, ma pure ai mezzi di concreta attuazione di questi ultimi, anche contro la volontà del soggetto obbligato: la Corte ha sottolineato, sia pure al fine di verificarne la durata nell’ambito della durata ragionevole del giusto processo, che l’esecuzione è la seconda fase della procedura di merito e che il diritto rivendicato non trova la sua realizzazione effettiva che al momento dell’esecuzione (v. sentenza 27.11.08 in causa n. 30922/05, Stadnyuk c/ Ucraina, § 21; sentenza 12.3.09, sez. 5, in causa n. 39874/05, Voskoboynyk c/ Ucraina), o perfino che si tratta di due fasi del “corso totale dei procedimenti” (Corte Eur. Dir. Uomo, sez. 5, sent. 29.3.07, in causa n. 18368/03, Pobegaylo c/ Ucraina; in causa Estima Jorge c/ Portogallo, sent. 21.4.98, Repertorio di Sentenze e Decisioni 1998-II, § 35; in causa Sika c/ Slovacchia, sent. 13.6.06 in causa n. 2132/02, §§ 24-27);
6.6. tale continuità funzionale del processo esecutivo rispetto a quello di cognizione si estrinseca in una tendenziale subordinazione del primo al secondo, resa evidente dalla necessità che a base di quello sia sempre ed indefettibilmente, per tutta la sua durata, un titolo, che ne fonda la legittimità, accertando in modo vincolante l’esistenza del diritto del creditore di agire in via esecutiva, ma al contempo ne delimita in modo insuperabile l’ambito;
6.7. va solo rilevato che, per imponenti esigenze pratiche, il carattere complementare della tutela giurisdizionale di esecuzione rispetto a quella di cognizione può comportare, a determinate condizioni e con riferimento a determinate categorie di titoli, che la prima preceda – quasi anticipandola o prevenendola, ove le parti del rapporto consacrato nel titolo si acquietino al suo contenuto ed alla sua attivazione – oppure al contrario segua l’altra, dando così luogo ai titoli esecutivi stragiudiziali ed a quelli giudiziali: con il titolo esecutivo giudiziale la tutela giurisdizionale di cognizione è già stata dispiegata (e si è esaurita, se il titolo è divenuto definitivo, oppure è ancora suscettibile di estrinsecazione, se il titolo non è ancora definitivo), mentre con quello stragiudiziale essa è di norma ancora solo eventuale;
6.8. da tanto deriva che la diversa tipologia dei titoli, giudiziale o stragiudiziale, determina l’ambito e la sede delle contestazioni ai fatti accertati da quelli: restando siffatte contestazioni ancora possibili soltanto nell’ipotesi in cui non vi sia o non vi sia stato già un processo di cognizione a ciò istituzionalmente deputato;
6.9. di conseguenza, mentre per un titolo esecutivo stragiudiziale la sede cognitiva – ed anche o spesso la prima sede cognitiva utile, a ben vedere – può adeguatamente individuarsi proprio nell’opposizione all’esecuzione intentata sulla base di quello, per un titolo esecutivo giudiziale tale sede c’è o c’era già istituzionalmente, visto che in quella il titolo è stato formato: in tale seconda ipotesi, allora, la vista continuità funzionale tra i due processi e la genesi del titolo nel primo di quelli impongono una rigorosa scansione delle corrispondenti fasi in cui la tutela giurisdizionale è attuata e quindi una rigida separazione degli ambiti e degli oggetti di quelli e, quanto al processo esecutivo, anche delle cosiddette parentesi cognitive in cui si risolvono gli incidenti oppositivi;
6.10. pertanto, in ipotesi di titolo esecutivo giudiziale, è assolutamente irretrattabile nel processo esecutivo e nei connessi incidenti oppositivi qualsiasi accertamento che sia istituzionalmente riservato al processo di cognizione in cui il titolo si è formato, in quanto idoneo ad essere valutato in un provvedimento suscettibile di acquistare l’autorità di cosa giudicata e di essere coperto e precluso dalla relativa forza: vi può essere una ed una sola sede di cognizione in cui fare valere una questione e questa è già in corso o si è già conclusa;
6.11. tanto comporta che anche nelle cosiddette parentesi cognitive del processo esecutivo e cioè nelle cause di opposizione ad esecuzione in ipotesi – si ripete – di titoli esecutivi di formazione giudiziale non possono giammai dedursi motivi analoghi o identici a quelli dedotti o astrattamente deducibili nello stesso processo che ha dato luogo al provvedimento giudiziale su cui si fonda l’esecuzione (salvo il caso – che però con tutta evidenza qui non ricorre – di vizi del provvedimento che ne inficino la giuridica esistenza, come in ipotesi di sentenza mai pubblicata – Cass. 9/77 – o priva di sottoscrizione del giudice – Cass. 6483/86 – o resa nei confronti di un soggetto deceduto prima della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio – Cass. 12292/01);
6.12. in caso di titolo giudiziale, quindi, con l’opposizione all’esecuzione è possibile fare valere unicamente fatti, che integrino una causa estintiva o impeditiva del diritto (ad es., il pagamento anche parziale, la novazione del debito, la sua remissione, la compensazione, l’avvenuta prescrizione, la transazione: Cass. 27159/06, Cass. 26089/05, Cass. 17866/05, Cass. 27160/06), purché però siano successivi al momento in cui si è formato il giudicato sostanziale sul provvedimento che costituisce il titolo posto alla base dell’esecuzione (o, a tutto concedere, al momento in cui essi potevano essere utilmente dedotti nel processo in cui il provvedimento doveva divenire definitivo);
6.13. può così ribadirsi che, qualora a base di una qualunque azione esecutiva sia posto un titolo esecutivo giudiziale, il giudice dell’esecuzione non può effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, diretto cioè ad invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni o difese che andavano dedotte nel giudizio nel cui corso è stato pronunziato il titolo medesimo, potendo controllare soltanto la persistenza della validità di quest’ultimo e quindi attribuire rilevanza solamente a fatti posteriori alla sua formazione o, se successiva, al conseguimento della definitività (salvo il caso dell’incolpevole impossibilità, per il debitore, di farli valere in quella unica competente sede)”.
[1] Relazione tenuta al Corso P23008 organizzato dal 6 all’8 febbraio 2023 in Napoli dalla Scuola Superiore della Magistratura su «il procedimento monitorio e l’opposizione a decreto ingiuntivo alla luce della riforma del processo di primo grado». Il riferimento del titolo è al cratere di Chicxulub, che è ormai accettato come la prova dell’impatto con un corpo celeste di grandi dimensioni, a base del cataclisma che ha sconvolto la Terra 65 milioni di anni fa e causato l’estinzione dei dinosauri. Sul punto, v. www.treccani.it, voce "Gli ambienti planetari e l’origine della vita" di C.F. Chyba, G.D. McDonald, Frontiere della Vita (1998): “Ci si può fare un’idea della durezza dell’ambiente terrestre primordiale, caratterizzato dagli impatti, considerando quello avvenuto 65 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo; poiché il periodo geologico immediatamente successivo al Cretaceo è il Terziario, l’impatto è anche chiamato K/T o Cretaceous- Tertiary. La collisione, che determinò la formazione del cratere di Chicxulub, nella penisola dello Yucatan, in Messico, con un diametro di circa 200 km (Sharpton et al., 1992), fu provocata da un oggetto di dimensioni simili a quelle del nucleo della cometa di Halley, ovvero di circa 10 km di diametro. Oggi sembra verosimile che l’impatto K/T abbia avuto una profonda influenza sulla storia della vita terrestre. Le estinzioni di massa avvenute nel passaggio dal Cretaceo al Terziario, e la successiva comparsa dei mammiferi, potrebbero esser state causate in buona parte da questo impatto”. In sostanza, gli effetti sul mondo del diritto processuale civile italiano di queste sentenze sono equiparabili a quelli dell’impatto del meteorite che provocò il cataclisma dell’estinzione dei dinosauri.
[2] Ci si permette un rinvio a A. Valitutti, F. De Stefano, Il decreto ingiuntivo e l’opposizione, Padova 2013, pp. 234 ss., ove riferimenti bibliografici.
[3] In generale, sulla natura del provvedimento, cfr.: G. Franco, Guida al procedimento di ingiunzione, Milano, 1998, p. 205 (ove anche ulteriori specifiche critiche alla tradizionale impostazione impugnatoria del Garbagnati); S. Satta – C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 909; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, p. 616; Monteleone, op. loc. ult. cit.; F.P. Luiso, op. loc. ult. cit.; C. Mandrioli, op. cit., p. 50; G. Tomei, Procedimento di ingiunzione, in Digesto (disc.priv.), XIV, Torino 1996, pp. 562 e 577 (che insiste sulla natura costitutiva del provvedimento); P. Leanza - E. Paratore, Il procedimento per decreto ingiuntivo, II ed., Torino, 2008, p. 116; C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, III, Torino, 2008, p. 19; C. Consolo - F.P. Luiso, op. cit., p. 4532; G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, 2a ed., vol. X, Le tutele sommarie, p. 150.
[4] F.P. Luiso, op. cit., p. 211.
[5] È la tesi rigorosamente restrittiva che si rifà comunque all’autorità di E. Redenti, Diritto processuale civile, Milano 1954, III, p. 26, ripresa da ultimo da G. Tomei, op. cit., p. 563.
[6] C. Balbi, Ingiunzione (procedimento di), in Enc. giur., Roma, 1989, ora nel volume di aggiornamento VI, p. 15 (che definisce la conseguenza della mancata opposizione come una situazione processuale sostanzialmente analoga al giudicato); S. Satta – C. Punzi, op. cit., p. 894 (ove si legge che il decreto ingiuntivo non opposto acquista il valore di una sentenza passata in giudicato) e p. 909 (ove però la tesi è invece criticata); A. Proto Pisani, op. cit., p. 616; C. Mandrioli, op. cit., p. 51 (dove l’intenzione del legislatore di attribuire al monitorio non opposto gli effetti propri del giudicato si ricostruisce sulla base dell’assoggettamento del medesimo ai rimedi straordinari, ovvero ad alcuni mezzi straordinari di impugnazione, secondo quanto prevede l’art. 656 c.p.c.); F.P. Luiso, op. cit., p. 112 (che acutamente osserva come l’effetto equiparato al giudicato consegue sì ad un provvedimento emesso al termine di un procedimento sommario, ma che tale è rimasto per libera scelta delle parti onerate). Cfr. pure P. Leanza - E. Paratore, op. cit., p. 120, nonché C. Consolo - F.P. Luiso, op. cit., p. 4540, ove ulteriori riferimenti.
[7] Sui limiti oggettivi e soggettivi del giudicato ci si permette di rinviare a A. Valitutti - F. De Stefano, Le impugnazioni nel processo civile, vol. I, Padova 1996, pp. 19 ss.; si noti che, in applicazione dei medesimi, ove il decreto sia stato pronunciato nei confronti di più debitori e solo alcuni di essi si siano opposti, gli effetti eventualmente favorevoli dell’opposizione non si estendono a coloro che non si sono opposti (Trib. Salerno 8 maggio 2003, n. 1676, in Arch. Civ. 2004, p. 70).
[8] Estensione che le Sezioni Unite della Suprema Corte di recente presuppongono per negare l’ammissibilità del regolamento di giurisdizione con l’opposizione tardiva: per Cass., S.U., 16 novembre 1998, n. 11549, il principio secondo cui gli effetti del giudicato sostanziale si estendono non solo alla decisione relativa al bene della vita che formi oggetto della domanda, ma anche a quella, implicita, inerente sia all’esistenza e alla validità del rapporto sul quale si fonda lo specifico effetto giuridico dedotto, sia in particolare, alla giurisdizione del giudice che quella decisione ha emesso, trova applicazione anche con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto nel termine di legge.
[9] Per tutti, v. C. Balbi, op. cit., p. 15, nonché già L. Montesano, Luci ed ombre in leggi e proposte di ‘tutela differenziata’ nei processi civili, in Riv. dir. proc. 1979, pp. 593 ss.
[10] Ne consegue che, qualora non opposto sia un decreto ingiuntivo nei confronti della P.A., vi è spazio persino per un giudizio di ottemperanza: Cons. Stato, ad. plen., 24 giugno 1998, n. 4, in Foro it. 1998, III, p. 480, con ampia nota di richiami e riferimenti; Cons. Stato, 16 febbraio 2001, n. 807.
[11] Cfr., in tali esatti termini, Cass. 20 aprile 1996, n. 3757 (la quale ha anche affermato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità delle norme relative, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sulla considerazione che al debitore, dopo l’emanazione di un provvedimento immediato a seguito di una sommaria cognizione, è consentita la difesa più completa mediante l’atto di opposizione, che instaura il normale giudizio di cognizione), in Foro it. 1998, I, p. 1980.
[12] Cass. 11 maggio 2010, n. 11360.
[13] Cass. 3 maggio 1991, n. 4833, espressamente riconduce tale risultato - descrittivamente indicato come “passaggio in giudicato” del monitorio - alla devoluzione della cognizione del merito della pretesa azionata con il ricorso al solo giudizio di opposizione.
[14] Tra le molte, v. Cass. 28 agosto 2009, n. 18791, secondo la quale il decreto ingiuntivo non opposto acquista efficacia di giudicato tanto in ordine all’oggetto che ai soggetti del rapporto giuridico; e, impedendo che lo stesso possa essere nuovamente posto in discussione in altro successivo giudizio, l’efficacia di detto giudicato si estende agli accertamenti che costituiscono i necessari e inscindibili antecedenti o presupposti logico-giuridici della pronunzia d’ingiunzione.
[15] Cass., ord. 29 ottobre 2001, n. 13443.
[16] Da ultimo, v. Cass. 6 settembre 2007, n. 18725, la quale ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’esecuzione di un decreto ingiuntivo, fondata sull’asserita falsità della sottoscrizione apposta sul titolo azionato nel procedimento monitorio, senza che il debitore avesse proposto opposizione al decreto ingiuntivo.
[17] Cass. 12 maggio 2003, n. 7272.
[18] Pertanto, esso non si estende anche ai capi non accolti od alle pretese non specificamente dedotte: Cass. 16 novembre 2006, n. 24373 (in Nuova giur. Civ. comm. 2007, p. 1026, con nota di Volpino, Rigetto parziale della domanda monitoria e limiti oggettivi del giudicato); Cass. Sez. Un., 1 marzo 2006, n. 4510.
[19] Ad esempio, a causa dell’intervenuto mutamento della normativa: Cass. 14 luglio 2000, n. 9335.
[20] Per il caso di corrispettivi di prestazioni diverse rese in tempi differenti esclude l’estensione del giudicato Cass. 13 febbraio 2002, n. 2083.
[21] Cass. 24 novembre 2000, n. 15178.
[22] Fin da Cass. 26 giugno 1978, n. 3163. A questa regola non può sottrarsi neppure l’exceptio de soluto, totale o parziale. In senso analogo, v. anche Cass. 274/78; Cass. 6 giugno 1977, n. 2320; Cass. 7 ottobre 1967, n. 2326 e Cass. 3 maggio 1974, n. 2144.
[23] Per Cass. 11 giugno 1998, n. 5801 il giudicato di accoglimento formatosi a seguito della mancata opposizione avverso un decreto ingiuntivo recante intimazione di pagamento di canoni arretrati in relazione ad un rapporto di locazione, non si limita a fare stato, tra le stesse parti (ed i loro creditori o aventi causa), circa l’esistenza e validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso, ma anche circa l’inesistenza di tutti i fatti impeditivi o estintivi, anche non dedotti, ma deducibili nel giudizio d’opposizione, quali quelli atti a prospettare l’insussistenza totale o parziale, del credito azionato in sede monitoria dal locatore a titolo di canoni insoluti, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte in ragione di maggiorazioni contra legem del canone. Di recente Cass. 2 aprile 2009, n. 8013, ribadisce che sia la convalida di sfratto per morosità, sia il decreto ingiuntivo concesso per il pagamento di canoni locatizi insoluti, una volta divenuti inoppugnabili, acquistano l’efficacia del giudicato sull’esistenza del contratto di locazione, su quella del credito per il pagamento dei canoni e sull’inesistenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi dell’uno o dell’altro che non siano stati dedotti nel corso del giudizio: detti provvedimenti non possono, invece, fare stato sulla qualificazione del contratto, ed in particolare sulla sua assoggettabilità o meno alla disciplina di cui alla legge 27 luglio 1978, n. 392, che non abbia formato oggetto di accertamento, nemmeno sommario, da parte del giudice.
Ancora, il giudicato sull’entità dell’indennità di occupazione dopo la scadenza non si estende, per diversità della causa petendi, alla misura del canone legalmente dovuto (Cass. 29 maggio 2012, n. 8565).
Osserva Cass. 6 marzo 2012, n. 3453, che: da un lato, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (Cass. Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass. 22 aprile 2009, n. 9512; Cass. 29 luglio 2011, n. 16675); dall’altro, il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre, non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione, mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del petitum, ovvero della causa petendi in seno alla domanda rispetto al ricorso esaminato dal decreto esecutivo (Cass. 28 agosto 2009, n. 18791; Cass. 11 maggio 2010, n. 11360).
[24] Cass. 19 novembre 2002, n. 16306. Simmetricamente (Cass. 2 dicembre 2010, n. 24433), in tema di licenziamento illegittimo, il passaggio in giudicato dei decreti ingiuntivi ottenuti per il pagamento del trattamento di fine rapporto non comporta l’improponibilità della domanda di reintegra, posto che la mera accettazione della somma a titolo di trattamento di fine rapporto, ancorché non accompagnata da alcuna riserva, non può essere interpretata come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento, per assoluto difetto di concludenza.
[25] Cass. 22 marzo 1991, n. 3107.
[26] Cass., ord. 4 settembre 2004, n. 17915.
[27] Per tutte, si pensi all’eccezione di estinzione del credito mediante pagamento: Cass. 6 aprile 1981, n. 1928.
[28] Cass. 22 maggio 1987, n. 4647 e, più di recente, Cass. 28 agosto 1999.
[29] Con espresso riferimento all’eccezione de soluto, totale o parziale, cfr. ancora Cass. 6 giugno 1977, n. 2320 o Cass. 26 giugno 1978, n. 3163.
[30] Cass. 25 febbraio 1994, n. 1935 stabilisce testualmente che “in sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale, quale un decreto ingiuntivo, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su ragioni attinenti ai vizi di formazione del provvedimento fatto valere come titolo esecutivo solo quando questi ne determinino l’inesistenza giuridica, dovendo gli altri vizi del provvedimento e le ragioni di ingiustizia della decisione che ne costituiscano il contenuto essere fatte valere, se ancora possibile, nel corso del processo in cui il provvedimento è stato emesso. Pertanto la parte che, minacciata, con il precetto, di esecuzione forzata in base a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ha promosso giudizio di opposizione tardiva alla ingiunzione, sostenendo che questa non è stata validamente notificata, non può proporre anche opposizione all’esecuzione per la medesima ragione, perché non è consentito al giudice di quest’ultimo giudizio di conoscere, neppure incidentalmente, l’anzidetta nullità della notificazione del detto provvedimento, che, anche ai fini della sospensione della efficacia esecutiva, può e deve essere fatta valere nel giudizio di opposizione tardiva all’ingiunzione.”.
[31] Tra cui l’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c..
[32] Sul punto, la giurisprudenza è a dir poco fermissima: v., per tutte; Cass. 18 giugno 1991, n. 6893; Cass. 20 maggio 1987, n. 4617; Cass. 22 aprile 1981, n. 2385; Cass. 23 novembre 1978, n. 5496. Sulla possibilità, per l’opponente, di fare valere, in sede di opposizione ad esecuzione, soltanto i fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto azionato da controparte che siano successivi alla formazione del giudicato stesso (e non anche quei fatti che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del titolo giudiziale), v. per tutte Cass. 5 dicembre 1988, nn. 6605-6608; Cass. 15 ottobre 1985, n. 5062. Ancora di recente precludono il dispiegamento, con l’opposizione ex art. 615 c.p.c., di motivi attinenti al merito del titolo esecutivo giudiziale Cass. 25 maggio 2007, e Cass. 19 dicembre 2006, n. 27159 (che ribadisce però l’esperibilità dell’opposizione ad esecuzione in caso di fatti sopravvenuti a quelli che l’opponente avrebbe potuto o dovuto fare valere con l’opposizione a decreto ingiuntivo). Conseguentemente, la mancata notifica del decreto ingiuntivo non può fondare legittimamente una opposizione ad esecuzione (Cass. 20 dicembre 2000, n. 15977); la quale ultima è peraltro eccezionalmente ammessa se la notifica, nonostante l’apparenza, debba essere qualificata inesistente (Cass. 1 giugno 2004, n. 10495, che specifica pure che, in caso la notifica sia solo viziata, residuerebbe per l’ingiunto solo il rimedio dell’art. 650 c.p.c., ma pur sempre a condizione che ne risultino i presupposti e cioè che il vizio abbia determinato l’inevitabile impossibilità di proporre tempestivamente l’opposizione ex art. 645 c.p.c.).
[33] Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4505.
[34] Cass. 3 maggio 1991, n. 4833.
[35] Ci si permette di rinviare ad A. Valitutti- F. De Stefano, Le impugnazioni etc., cit., vol. I, cap. IV, nn. 1 e seguenti.
[36] V. sopra, nota 1.
[37] CGUE 17 maggio 2022, C-600/19, Ibercaja, punti 51 e 56, nonché prima massima: Per contro, si deve ritenere che tale tutela sarebbe garantita se, nell’ipotesi di cui ai punti 49 e 50 della presente sentenza, il giudice nazionale indicasse esplicitamente, nella sua decisione di autorizzazione dell’esecuzione ipotecaria, di aver proceduto a un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine del procedimento di esecuzione ipotecaria, che detto esame, motivato almeno sommariamente, non ha rivelato la sussistenza di nessuna clausola abusiva e che, in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole.
[38] Per limitarsi alla giurisprudenza, vista la vastissima elaborazione teoretica, il principio della certezza del diritto, cui tende il sistema imperniato sul giudicato e la limitazione dei mezzi di impugnazione, è riconosciuto, oltre che nelle pronunce richiamate dalle stesse sentenze di Lussemburgo del 17 maggio 2022 quale premessa, anche dalla giurisprudenza nazionale di legittimità, su cui, per tutte, v. Cass., S.U., 30 settembre 2020, n. 20866: in tale sede si ricorda - tra molte - Cass., S.U., (ord.) 17 dicembre 2018, n. 32622, punto 12 delle ragioni della decisione, con riconoscimento del principio di certezza del diritto quale cardine dell’ordinamento giuridico nazionale ed eurounitario, siccome teso a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia: Cass., S.U., 27 dicembre 2017, n. 30994; Cass., S.U., (ord.) 11 aprile 2018, n. 8984.
[39] Anche in questo caso dando per acquisita la vastissima elaborazione dottrinale sul punto, quanto a quella della giurisprudenza di legittimità deve essere sufficiente un richiamo a Cass. 30 settembre 2022, n. 28478: “si parla, in tal caso, di preclusione del dedotto e del deducibile: “l’autorità della cosa giudicata ostacola l’ulteriore deduzione dei fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto sostanziale imperativamente accertato, siano essi stati fatti valere oppure no nel corso del giudizio anteriore”, a nulla rilevando che la parte ne sia venuta a conoscenza in un momento successivo alla formazione del giudicato. L’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto azionato (petitum), così come identificato in relazione ai soggetti (personae) ed al fatto costitutivo (causa petendi), una volta che sia coperto dall’autorità del giudicato, non può, quindi, essere messo in discussione (con domanda giudiziale di accertamento della sua inesistenza o, rispettivamente, della sua esistenza) in altro processo, tra le stesse parti o i loro eredi o aventi causa, mediante la deduzione di fatti, giuridicamente rilevanti per la sua esistenza e/o inesistenza, non allegati nel primo processo (anteriori, ovviamente, alle corrispondenti preclusioni deduttive e, come tali, appunto, deducibili nel processo in cui si è formato il giudicato: Cass. n. 11360 del 2010; Cass. n. 19113 del 2018), pur se, in ipotesi, ignorati (Cass. n. 8784 del 1993)”. Ma può valere un richiamo anche a Cass., S.U., 23 aprile 2019, n. 11161, per la quale “per il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, respinta con sentenza passata in giudicato la domanda, è improponibile per il divieto del ne bis in idem la riproposizione della medesima domanda sul diverso - ma in precedenza deducibile - fondamento afferente all’identica causa petendi”.
[40] In dottrina, per tutti si veda, se si vuole, A. Valitutti A., F. De Stefano, Il decreto ingiuntivo e l’opposizione, Padova 2013, pp. 229 ss., ove riferimenti alle tesi contrapposte (ed alla presupposta questione della natura dell’opposizione quale ordinario giudizio di cognizione a contraddittorio eventuale e differito, su cui v., da ultimo, Cass., S.U., 13 gennaio 2022, n. 927, ove amplissimi riferimenti).
[41] Anche in questo caso, ci si permette un rinvio a A. Valitutti A., F. De Stefano, op. cit., pp. 237 ss., ove riferimenti a dottrina e giurisprudenza; per una più agevole lettura, se ne riporta in appendice un estratto, privato delle note. Tra i più recenti arresti della Corte di cassazione si vedano:
Cass. 6 ottobre 2005, n. 19429: l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto non viene meno di per sé a seguito dell’opposizione tardivamente proposta, così come il passaggio in giudicato dello stesso non è impedito - o revocato - dalla sua impugnazione con la revocazione straordinaria o l’opposizione di terzo (art. 656 c.p.c.), rimedi straordinari per loro natura proponibili avverso sentenze passate in giudicato, l’assoggettamento ai quali del decreto ingiuntivo in tanto ha ragione di esistere in quanto l’esaurimento della esperibilità di quelli ordinari ha già dato luogo al giudicato, che non è inciso, in definitiva, dalla mera opposizione tardiva, nonché, “a fortiori”, dalla sola proponibilità di essa.
Cass. 27 gennaio 2014, n. 1650: in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c.; tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. c.p.c. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione.
Cass. (ord.) 24 marzo 2021, n. 8299: l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto non viene meno di per sé a seguito dell’opposizione tardivamente proposta, così come il passaggio in giudicato dello stesso non è impedito - o revocato - dalla sua impugnazione con la revocazione straordinaria o l’opposizione di terzo (art. 656 c.p.c.), rimedi straordinari per loro natura proponibili avverso sentenze passate in giudicato, l’assoggettamento ai quali del decreto ingiuntivo in tanto ha ragione di esistere in quanto l’esaurimento della esperibilità di quelli ordinari ha già dato luogo al giudicato, che non è inciso, in definitiva, dalla mera opposizione tardiva.
[42] Tra le più recenti pronunce di legittimità si segnalano:
Cass. 4 novembre 2021, n. 31636, a mente della quale il decreto ingiuntivo divenuto inoppugnabile, che abbia ad oggetto la condanna al pagamento di prestazioni fondate su un contratto a monte, preclude all’intimato la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del contratto o di specifiche sue clausole, atteso che il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, si estende anche all’insussistenza di cause di invalidità (c.d. giudicato per implicazione discendente), ancorché diverse da quelle fatte valere nel processo definito con sentenza irrevocabile;
Cass. (ord.) 14 febbraio 2022, n. 4717, che statuisce che il giudizio sulla insussistenza di una causa di nullità del contratto preclude la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del medesimo contratto sotto altro profilo, atteso che la domanda di nullità contrattuale è pertinente ad un diritto autodeterminato, individuato indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio, ed il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, si estende anche all’insussistenza di cause di invalidità diverse da quelle fatte valere nel processo definito con sentenza irrevocabile (c.d. giudicato per implicazione discendente);
Cass. (ord.) 9 novembre 2022, n. 33021, per la quale l’ambito di operatività del giudicato, in virtù del principio secondo il quale esso copre il dedotto e il deducibile, è correlato all’oggetto del processo e colpisce, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, incidendo, da un punto di vista sostanziale, non soltanto sull’esistenza del diritto azionato, ma anche sull’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi, ancorché non dedotti, senza estendersi a fatti ad esso successivi e a quelli comportanti un mutamento del “petitum” e della “causa petendi”, fermo restando il requisito dell’identità delle persone.
In precedenza, tra le moltissime: Cass. (ord.) 30 ottobre 2017, n. 25745; Cass. 23 febbraio 2016, n. 3488.
[43] Da Cass., S.U., 23 luglio 2019, n. 19889: “Nel caso di titolo esecutivo giudiziale, infatti, con l’opposizione (al pari di quella all’esecuzione già iniziata sulla base di quello) non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello (per tutte: Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850; Cass. 25 febbraio 2016, n. 3712; Cass., S.U., 23 gennaio 2015, n. 1238; Cass. (ord.) 21 settembre 2017, n. 21954), mentre quelle per fatti posteriori alla definitività o alla maturazione delle preclusioni per farli in quella sede valere non integrano, a stretto rigore, un’impugnazione del titolo, ma appunto l’articolazione di fatti di cui quello non ha legittimamente potuto tener conto e per la cui omessa considerazione non potrebbe mai considerarsi inficiato: ed in entrambi i casi non può tecnicamente impugnarsi un titolo per un vizio non suo proprio”.
Può peraltro parlarsi di principio consolidato, se non altro nella giurisprudenza di legittimità. Tra le moltissime, basti un cenno a: Cass. (ord.) 21 settembre 2017, n. 21954; Cass. 25 febbraio 2016, n. 3712; Cass., S.U., 23 gennaio 2015, n. 1238; Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850, alla cui motivazione, riportata in appendice, basti qui un rinvio.
[44] B. Sánchez López, Preclusione, cosa giudicata e clausole abusive. Prospettiva spagnola, intervento all’incontro di studi organizzato il 28 settembre 2022 dall’Università di Foggia sul tema “La tutela del consumatore esecutato in prospettiva europea”, atti in corso di pubblicazione. L’Autrice conclude icasticamente che, in caso di squilibrio significativo tra i diritti e gli obblighi di consumatore e professionista, l’obiettivo dell’art. 6 D. 93/13, cioè che le clausole abusive non vincolino i consumatori anche se ignorano i loro diritti, prevale oltre le disposizioni e i limiti del diritto nazionale ed anche nell’ambito dei procedimenti d’ingiunzione e di esecuzione. E ricorda la successione di interventi legislativi, seguiti da pronunce demolitrici del Kirchberg.
[45] La produzione dei commenti può dirsi amplissima.
Il solo sito dell’Unione ne riporta i principali alla prima delle qui menzionate, rinvenibili all’URL
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:62005CJ0119, tra cui: R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, cit., pp. 361 e segg.; C. Consolo, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc. 2008 pp. 225-238; E. D’Alessandro, La Corte di giustizia si esprime di nuovo sul rapporto tra giudicato nazionale e aiuti di Stato, in Foro it. 2016, IV, col. 43-48; F.P. Luiso, La cedevolezza del giudicato, in Riv. dir. proc., 2016, pp. 17 e segg.; E. Scoditti, Giudicato nazionale e diritto comunitario, in Foro It., 2007, 11, pp. 534 e segg.
[46] Si veda, sul punto, la recentissima Cass., S.U., 25 gennaio 2023, n. 2332, in tema di poteri del giudice dell’ottemperanza amministrativa nella modulazione dell’applicazione del giudicato.
[47] In tal senso, v. R. Rugiu Santoni, Il giudicato nazionale in violazione di norme comunitarie: resistenza o cedevolezza?, in www.questionegiustizia.it, on line dal 18/05/2016.
[48] Sia consentito un rinvio a F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti, in www.giustiziainsieme.it dal 26 maggio 2020.
Le «tradizioni costituzionali» nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - non menzionate, se non presupposte nel preambolo, nella Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 04/11/1950 - degli Stati membri vengono in considerazione come sostrato materiale del diritto fondamentale dell’Unione europea da un duplice punto di vista:
- quando sono condivise dagli Stati membri, esse assurgono a fonte del contenuto di quelli che sono qualificati principi generali del diritto dell’Unione, cioè i diritti fondamentali garantiti da questo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali;
- quando sono peculiari e proprie di uno Stato membro, esse sono erette a limite individualizzante per l’elaborazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione, poiché questo non può prescinderne, ma è chiamato a riconoscerle per quanto possibile.
Quanto al primo profilo, la nozione di «tradizioni costituzionali» assume l’attributo di «comuni» ed è generalmente ricondotta ad una clausola generale, di creazione pretoria – come si vedrà – ma infine oggetto di codificazione. Al riguardo, le fonti normative sono, ad oggi, almeno:
a) l’art. 6 del TUE, a norma del terzo comma del quale:
«I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali»;
b) l’art. 52, co. 4, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dopo una espressa menzione nel suo preambolo, a mente del quarto comma del quale: «Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni».
Quanto al secondo profilo, ai fini che qui interessano meritano menzione altri testi normativi di rango eguale ai precedenti:
a) l’art. 4 del TUE, per il secondo comma del quale «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali»;
b) l’art. 67 del TFUE (ex articolo 61 del TCE ed ex articolo 29 del TUE), il cui primo comma recita «L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri»;
c) lo stesso art. 52 della CDFUE (dopo l’esordio nel suo Preambolo), ove proclama (al co. 6) che «si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta».
È evidente come le due accezioni siano in reciproca tensione dialettica. Pur potendosi riferire a quella che, in prima approssimazione, può definirsi la «costituzione materiale» degli Stati membri (secondo quanto si evince dallo stesso art. 4, co. 2, TUE, che si riferisce alla loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali), esse rilevano diversamente a seconda che siano comuni o peculiari e proprie di un singolo Stato: nel primo caso rappresentano un elemento di convergenza idoneo a contribuire a fondare il diritto eurounitario e quindi lo stesso sistema ordinamentale sovranazionale; nel secondo fungono invece da elemento di preservazione, anche contro tale sistema, delle peculiarità dei singoli Stati membri e quindi in funzione antitetica alla tendenziale pervasiva supremazia del primo.
[49] È innegabile che i limitati poteri cognitivi oggi attribuiti al giudice dell’esecuzione attengono esclusivamente allo sviluppo del processo esecutivo e che pure i suoi accertamenti lato sensu cognitivi producono effetti solo quanto alla definizione del processo dinanzi a lui (o, nel caso dell’ordinanza di assegnazione, di quello in base ad essa instaurato): in sostanza, di poteri di delibazione di quelle questioni di diritto la cui soluzione è indispensabile per l’ordinato e proficuo sviluppo della procedura (in tale ultimo senso, tra le altre, Cass. 28 marzo 2022, n. 9877).
[50] La dottrina può dirsi sterminata sul punto; per un’indicazione bibliografica v. già F. Donati, La tutela dei diritti tra ordinamento interno ed ordinamento dell’Unione europea, in DUE 2019, fasc. 2, pp. 261 ss.; per una ricostruzione molto accurata, v. E. Lupo, La «vicenda Taricco» impone di riconsiderare gli effetti del decorso del tempo nella giustizia penale sostanziale?, in www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2019/02/Lupo-Vicenda-pdf.pdf. A conclusione della “saga”, può forse osservarsi che l’arma finale dei cc.dd. controlimiti è stata disinnescata dalla Corte di Lussemburgo mediante un’accorta riconduzione del contenuto dei principi fondamentali o di «identità costituzionale», rivendicati come propri dell’ordinamento italiano e tali da giustificare perfino una disapplicazione della norma che autorizza l’adesione alla UE, ad un’accezione di quei principi sussunta entro le «tradizioni costituzionali comuni» ai singoli Stati: il principio di legalità, come rivendicato in Italia, rientra anch’esso fra queste ultime e giustifica un’interpretazione del diritto dell’Unione che ne tenga conto, nella specie consentendo la … «non disapplicazione» della normativa interna perfino nel senso codificato dalla stessa Corte di giustizia. È un accorto meccanismo di bilanciamento degli interessi di ordinamenti a pluralità di livello: fermo il primato del diritto dell’Unione (dogma che anche nell’ord. 24 del 2017 la nostra Consulta proclama di rispettare, sia pure adeguatamente finalizzandolo agli obiettivi del Trattato e, quindi, per così dire contestualizzandolo ed esigendo che quello stesso diritto rispetti le identità giuridiche nazionali), il giudice nazionale, primo e diretto operatore del diritto dell’Unione, deve applicarlo anche disapplicando la normativa nazionale che con quello contrasti; ma, ove tale disapplicazione contrasti a sua volta con principi fondanti – tali cioè da definire la stessa «identità costituzionale» e, quindi, le «tradizioni costituzionali» – dello Stato cui appartiene, egli potrebbe avere la facoltà di non disapplicare la normativa nazionale e di prestare ossequio prevalente alla tradizione costituzionale del proprio Stato. La Consulta, in quest’occasione, ha icasticamente puntualizzato: «il principio del primato del diritto dell’Unione … riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri».
[51] Ci si permette un rinvio ad A. Valitutti – F. De Stefano, Il decreto ingiuntivo etc., cit., pp. 183 ss.
[52] CGUE, prima sezione, 19 dicembre 2019, nelle cause riunite C‑453/18 e C‑494/18, Bondora AS).
[53] In virtù dell’ordinaria soluzione applicativa della motivazione per relationem alle ragioni del ricorso (fin dalla remota Cass. 16 giugno 1987, n. 5310, ribadita, più di recente, da Cass. 20 agosto 2004, n. 16455), dovrebbe essere sufficiente che tanto sia chiesto e che il monitorio, se redatto effettivamente dal giudicante ed apposto pedissequamente o di seguito al ricorso, rinvii alle richieste ivi formulate.
[54] Sul punto v. A. Valitutti – F. De Stefano, Il decreto ingiuntivo etc., cit., pp. 183 ss.: va rilevato che l’art. 640 co. 1° c.p.c., in deroga al principio dell’onere della prova in senso sostanziale, ha concesso al giudice la possibilità di invitare il ricorrente ad integrare la documentazione esibita, ogni qual volta la domanda appaia insufficientemente ingiustificata ma, evidentemente, non già ictu oculi infondata. Il che può accadere, a titolo meramente indicativo, quando il ricorrente ometta di allegare tutti gli effetti cambiari elencati nel ricorso, o produca documenti redatti in lingua straniera, o richieda gli interessi in misura superiore a quella legale soltanto enunciando nella domanda, ma non producendo in giudizio, la relativa convenzione derogativa. Ebbene, la ratio del regime speciale in parola risiede, senza dubbio, nell’esigenza di economia dei giudizi, onde evitare, cioè, la riproposizione di ricorsi conseguenti a precedenti rigetti per carenze probatorie. Ad ogni buon conto, va subito precisato che la suddetta deroga al principio dispositivo va limitata al solo caso in cui il ricorso, ai sensi dell’art. 640 co. 1° c.p.c., sia insufficientemente provato, dovendo, per converso, escludersi la possibilità di integrazione, laddove ci si trovi in presenza di una domanda di ingiunzione totalmente sfornita di prova, che, pertanto, non potrà che essere rigettata dal giudicante. Va da sé, inoltre, che le uniche integrazioni istruttorie compatibili con il rito monitorio attengono alla sola prova documentale, mentre è da ritenersi inibito al giudicante il compimento di attività istruttorie diverse.
Certo, per effetto della peculiare disposizione in esame viene a crearsi un contatto privilegiato tra il giudice ed il ricorrente che, seppure limitato allo specifico tema dell’integrazione della prova documentale addotta dal creditore, non trova riscontro in altre disposizioni del codice di rito. Proprio in tale prospettiva si è, pertanto, ritenuta inconciliabile, con la natura del procedimento di ingiunzione, la presentazione di una memoria difensiva da parte del difensore del ricorrente, al fine di illustrare le ragioni fatte valere con la domanda di provvedimento monitorio. L’opinione suscita, peraltro, ragionevoli perplessità, ove si consideri che l’art. 640 c.p.c. non vincola in alcun modo il ricorrente, per quanto concerne la risposta da dare a seguito dell’invito rivoltogli dal giudice. E ciò non può che indurre a ritenere ammissibile la produzione di una memoria riassuntiva ed illustrativa delle ulteriori questioni, che il ricorrente intenda proporre, a seguito dell’invito del giudice, anche in ordine alle prove documentali già prodotte.
D’altro canto, se è vero che tale possibilità può apparire come un rafforzamento dei poteri di impulso del creditore istante, va, però, considerato che la documentazione del “dialogo” tra quest’ultimo ed il giudice, consentendo all’ingiunto di riscontrare in atti una traccia dell’attività istruttoria svolta nella fase sommaria, non può che giocare un ruolo essenziale a favore del diritto di difesa del debitore che intenda proporre opposizione al provvedimento monitorio emesso nei suoi confronti.
[55] CGUE, 17 maggio 2022, Ibercaja, cit., punto 37: “laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine (sentenze del 14 marzo 2013, Aziz, C‑415/11, EU:C:2013:164, punto 46 e giurisprudenza ivi citata, del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15, EU:C:2016:980, punto 58, nonché del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 43)”; analogamente, CGUE 17 maggio 2022, Banco Desio, cit., punto 53, nonché CGUE 17 maggio 2022, IO contro Impuls Leasing România IFN SA, cit., punto 41.
[56] Vedi CGUE 17 maggio 2022, C-600/19 Ibercaja, punto 59: … si deve rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive.
[57] CGUE 17 maggio 2022, Banco di Desio, cit., punto 55: Se è vero che la Corte ha pertanto già inquadrato, in più occasioni e tenendo conto dei requisiti di cui all’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela dei diritti che i consumatori traggono dalla direttiva in parola, ciò non toglie che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che tali procedure rientrano dunque nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C 407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata).
[58] Si veda in appendice Cass. 17 febbraio 2011, n. 3850.
[59] Come più volte ricordato: CGUE Ibercaja, cit., punto 59, poiché in tali casi residuerebbe soltanto una tutela risarcitoria. Per coordinare il principio con quello di prioritaria tutela dell’aggiudicatario (Cass., S.U., 30 novembre 2006, n. 25507, in relazione all’art. 187-bis disp. att. c.p.c.), il cui acquisto resiste perfino all’estinzione della procedura, il momento preclusivo dovrebbe anticiparsi appunto all’aggiudicazione.
[60] Opta per tale soluzione la Procura generale della Corte di cassazione, all’esito di una approfondita e pregevole disamina di un caso analogo (calendarizzato in un primo momento per un’udienza pubblica del luglio 2022 presso la Sezione semplice e poi rimesso alle Sezioni Unite, per l’udienza del 7 febbraio 2023) nella sua requisitoria sulla questione, reperibile integralmente all’URL https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/24533_2021_CGUE_Nardecchia.pdf.
La soluzione pare la più coerente con la ricostruzione del sistema, poiché conferma la natura di titolo esecutivo giudiziale al decreto ingiuntivo non opposto: il decreto ingiuntivo integra, infatti, pur sempre un provvedimento giurisdizionale a cognizione piena ed esauriente a contraddittorio - potenzialmente - pieno, la mancata concreta estrinsecazione del quale ultimo è dipesa da una consapevole scelta abdicativa della parte contro il quale quello è stato emesso.
In coerenza con tale premessa, essa consente di ribadire l’intangibilità, da parte del giudice dell’esecuzione, del titolo esecutivo giudiziale per fatti anteriori alla sua definitività ed infine rimette correttamente in toto all’iniziativa della parte interessata, al fine di non premiare le ingiustificabili inerzie, l’attivazione del controllo che si assume ingiustamente mancato sul carattere abusivo di una o più clausole. Ancora, l’actio nullitatis del titolo lo travolgerebbe, ma all’esito di un giudizio che avrebbe ad oggetto appunto la sua caducità in quanto reso senza avere esaminato la questione sulla quale la Corte di giustizia esige un effettivo vaglio giurisdizionale, cioè il carattere abusivo o meno delle clausole in danno del consumatore. Si è, tra gli interpreti, però obiettato non solo che il raccordo con gli sviluppi del processo esecutivo potrebbe rivelarsi complesso ed impervio, ma pure che la stessa esecuzione è articolata pur sempre su di un sistema chiuso di rimedi.
[61] Tale finale opzione non rinnegherebbe la natura di titolo esecutivo giudiziale definitivo del decreto ingiuntivo non opposto ed avrebbe il pregio di garantire al g.e., nella fase sommaria di avvio dell’opposizione, l’esclusiva potestà di delibazione della fondatezza delle doglianze ai fini della sospensione del processo esecutivo, il quale, com’è noto, può essere sospeso esclusivamente da lui, una volta iniziato.
[62] Giurisprudenza consolidata: tra innumerevoli, v. Cass., S.U., 7 maggio 2010, n. 11092 (ord.). Come sul punto ricorda Cass., S.U., 6 febbraio 2015, n. 2245, “a partire dalla sentenza Francovich la Corte di giustizia ha iniziato a delineare il regime giuridico della responsabilità degli Stati membri per i danni cagionati ai singoli (Corte giust. UE, 19.11.1991, C-6 e C- 9/90), benché già in precedenza abbia a più riprese richiamato questo obbligo risarcitorio (Corte giust. UE, 16.12.1960, C- 6/60, Humblet c. Stato belga; 22.1.1976, C- 60/75, Russo c. Aima). La sentenza Francovich ha posto l’accento sul fatto che ‘sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro’. La successiva sentenza Brasserie du Pecheur e Factortame (5.3.1996, C- 46/93 e C-48/93) è quella che ha meglio individuato i presupposti sui quali si fonda la responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto comunitario, fissando, inoltre, il principio dell’unità dello Stato (poi costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte) e della conseguente indifferenza (o irrilevanza) dell’organo che abbia cagionato il danno, in base al concetto secondo cui è lo Stato membro l’unico soggetto al quale è imputabile la responsabilità dei danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione, a prescindere dall’organo nazionale che abbia commesso la violazione (cfr. anche Corte giust. 4.7.2000, C-424/97, Haim), realizzandosi così una scissione tra il piano materiale della condotta, riconducibile a ciascun potere dello Stato, ed il piano giuridico della responsabilità, che grava esclusivamente ed unitariamente sullo Stato”.
[63] Di grandissima attualità il tema della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, a tutela di principi fondamentali quali quello di eguaglianza, che meriterebbe una trattazione monografica a parte, non solo quanto all’elaborazione nazionale, ma pure quanto a quella della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Per brevi cenni introduttivi v., tra molti, A. Carleo A. (a cura di), Calcolabilità giuridica, 2017, passim, oppure, se si vuole, F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in www.giustiziainsieme.it dal 3 marzo 2021.
Il silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire tra esigenze di certezza giuridica e tutela dell’interesse pubblico (nota a Cons. St., sez. IV, 7 settembre 2022, n. 7631)
di Saul Monzani
Sommario: 1. Richiesta di permesso di costruire e silenzio della pubblica amministrazione: inquadramento normativo. –2. I requisiti di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire: orientamenti giurisprudenziali a confronto. – 3. La tesi della formazione del silenzio-assenso per effetto del solo decorso del termine di conclusione del procedimento in una prospettiva sistematica. – 4. Conclusioni: silenzio-assenso ed annullamento d’ufficio dei titoli edilizi.
1. Richiesta di permesso di costruire e silenzio della pubblica amministrazione: inquadramento normativo.
La sentenza oggetto del presente commento si colloca nel dibattito giurisprudenziale avente ad oggetto l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali si possa ritenere formato il silenzio-assenso sulla richiesta di permesso di costruire non riscontrata espressamente dalla pubblica amministrazione.
Come è noto, la fattispecie in questione è regolata attualmente dal comma 8 dell’art. 20 del d.P.R. 65 giugno 2001 s.m.i. (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale, capovolgendo la prospettiva di cui all’originario comma 9, il quale ricollegava la formazione del silenzio diniego all’inutile decorso del termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, dispone che, in tale ultimo caso, “ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali”.
Ma vi è di più: tramite l’art. 10, comma 1, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. nella l. 11 settembre 2020, n. 120 (c.d. decreto semplificazioni 2020), proprio al fine di “semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese”, si è introdotto, sempre al comma 8 dell’art. 20 cit., un’ulteriore specificazione per cui “Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l'edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell'interessato, un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all'interessato che tali atti sono intervenuti”.
Tale ultimo intervento legislativo è apparso funzionale a fornire all’interessato un elemento di certezza documentale rispetto alla fictio juris rappresentata dal silenzio assenso, in modo da consentire l’avvio dei lavori senza esporre a rischi i soggetti a vario titolo coinvolti nonché allo scopo di offrire un adeguato livello di sicurezza giuridica nei contratti di compravendita immobiliare o ai fini dell’accesso al credito[1].
2. I requisiti di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire: orientamenti giurisprudenziali a confronto.
A fronte di un apparente, per non dire evidente, favor legislativo verso la prospettiva della formazione del silenzio-assenso in virtù del mero decorso del termine di conclusione del procedimento, fatta eccezione per le situazioni in cui sussistano particolari vincoli afferenti ad interessi pubblici particolarmente rilevanti[2], il panorama giurisprudenziale, entro cui si inserisce anche la sentenza oggetto del presente commento, continua a fornire un’interpretazione più rigorosa di quanto sembra emergere dal quadro normativo. In tale ottica, permane l’interpretazione per cui la formazione del silenzio-assenso nei confronti di una domanda di permesso di costruire richiede, non solo il decorso del termine previsto dalla legge senza l’avvenuta emissione di un provvedimento espresso, bensì anche la sussistenza della c.d. conformità urbanistica, ossia la contestuale presenza di tutti i requisiti e i presupposti per conseguire il bene della vita richiesto, consistente, nel caso, nel rilascio del titolo edilizio richiesto[3].
La giurisprudenza che si è espressa nel senso indicato ha assunto quale presupposto il principio per cui “non si possa ottenere per silentium quel che non sarebbe altrimenti possibile mediante l’esercizio espresso del potere da parte della pubblica amministrazione”[4] o, in altri termini, che, se così non fosse, il richiedente, sulla base dell'inerzia della pubblica amministrazione, verrebbe ad ottenere un ampliamento della propria sfera giuridica, in termini di assenso all'esercizio dello ius aedificandi, che non avrebbe potuto conseguire mediante l'ordinario procedimento espresso, il che significherebbe rimettere a un dato casuale (l’inerzia o l’attività della pubblica amministrazione) la formazione del titolo edilizio, in contrasto con il fondamentale principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.[5]
Per tale via, si ammette che la pubblica amministrazione conservi il potere di adottare, anche dopo la scadenza del termine di conclusione del procedimento, un provvedimento di diniego in modo da intervenire senza limiti di tempo a reprimere un’attività avviata in carenza dei presupposti di legge. In sostanza, la prospettazione appena illustrata poggia sulla considerazione dell’inerzia come un mero fatto giuridicamente rilevante, a cui l’ordinamento fa discendere la produzione di effetti equivalenti a quelli del provvedimento di accoglimento dell’istanza, con la conseguenza che, in quanto fatto, esso sarebbe qualificabile come esistente o inesistente in base alla conformità a legge sia della domanda che dell’attività da svolgere, quale requisito per la formazione del silenzio-assenso[6].
La fin qui riferita posizione giurisprudenziale, sebbene tenda a prevalere numericamente nelle pronunce più recenti, non appare incontrastata: anzi, si possono rinvenire, anche negli ultimi tempi, prese di posizione di segno opposto secondo le quali, viceversa, il silenzio-assenso si forma per effetto del vano decorso del termine di conclusione del procedimento, a prescindere dall’effettiva sussistenza dei requisiti e presupposti sostanziali richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo[7].
Quest’ultima interpretazione si è basata sulla considerazione generale per cui il silenzio-assenso costituisce un istituto che risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia equivale a provvedimento di accoglimento, con il naturale corollario per cui, ove sussistano i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può formarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme alla legge. Sempre secondo la interpretazione ora in commento, ritenere diversamente, ovvero che il silenzio-assenso sia produttivo di effetti solo in presenza dei requisiti posti dalla disciplina sostanziale, significherebbe vanificare in radice le finalità di semplificazione proprie di tale istituto: in tale ottica, il privato non trarrebbe alcun vantaggio ove la pubblica amministrazione fosse posta in grado, senza oneri e vincoli procedimentali ed in qualunque tempo, di disconoscere gli effetti della domanda non riscontrata nei termini, oltre i quali, invece, viene, meno il potere (primario) di provvedere e residua solo la possibilità di intervenire in autotutela, nei termini previsti dalla legge, sull’assetto degli interessi formatosi tacitamente.
3. La tesi della formazione del silenzio-assenso per effetto del solo decorso del termine di conclusione del procedimento in una prospettiva sistematica.
L’orientamento giurisprudenziale da ultimo riferito, che risulta il più aderente al dato testuale normativo come sopra ricordato nonché al chiaro intento legislativo nel senso della semplificazione, è stato basato anche su considerazioni di carattere sistematico, ossia traendo spunto da altre disposizioni di legge che si porrebbero in coerenza con la prospettiva della formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire per effetto del solo decorso del termine di conclusione del procedimento.
In tale quadro, è stato notato, in primo luogo, che, ai sensi dell’art. 20, comma 3, della l. n. 241 del 1990, ove il silenzio dell'amministrazione equivalga ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, nel senso della revoca o dell’annullamento d’ufficio. Da tale norma, si trarrebbe la conseguenza che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva, secondo i canoni generali, in termini di illegittimità dell’atto. In altri termini, per quanto qui interessa, la norma citata deporrebbe per il fatto che il silenzio-assenso si perfeziona col decorso del termine di conclusione del procedimento anche in assenza dei presupposti di legge, determinando, in tale ipotesi, un risultato equivalente all’emissione di un provvedimento espresso illegittimo che, come tale, può essere oggetto, al più, di un’iniziativa in autotutela dell’amministrazione competente.
In secondo luogo, si è considerato, ai fini ora in questione, il disposto di cui all’art. 2, comma 8-bis, della l. n. 241 del 1990, come introdotto in forza della l. n. 120 del 2020, il quale è giunto a precisare che le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di conclusione del procedimento sono inefficaci, fermo restando il potere di annullamento d’ufficio, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni. Anche da questo angolo visuale, dunque, si confermerebbe che il provvedimento tacito si forma per effetto del silenzio, salvo che i relativi effetti possano risultare illegittimi in mancanza dei presupposti di legge, con la conseguenza che il provvedimento così formatosi diverrebbe passibile di annullamento d’ufficio.
La novella appena evidenziata, a fronte del citato confronto giurisprudenziale tra posizioni diverse, ha posto un ulteriore tassello a favore dell’interpretazione per cui, nel caso che qui preme considerare, la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di permesso di costruire rimasta inevasa si ricollega (unicamente) al mero decorso del termine di conclusione del procedimento. In tale ottica, il legislatore è giunto a precisare il carattere perentorio del termine predetto, ai fini della formazione del silenzio, nonché a sancire che l’eventuale provvedimento tardivo emanato dalla pubblica amministrazione non produce effetti, essendosi ormai consumato il relativo potere e residuando solo un eventuale intervento di secondo grado in autotutela. Proprio in quest’ultimo ordine di idee, sarebbe forse stato preferibile chiarire che un eventuale provvedimento tardivo sia affetto da nullità, piuttosto che da inefficacia, e ciò proprio in quanto, consumatosi il potere di decidere per effetto del decorso del termine di conclusione del procedimento, da intendersi appunto perentorio, la successiva attività provvedimentale dovrebbe, logicamente, considerarsi “tamquam non esset”, in ragione di una sopravvenuta carenza assoluta di potere[8].
In ogni caso, è stato osservato che pure nell’ipotesi della nullità, comunque, al privato destinatario di un provvedimento (di diniego) tardivo, residuerebbe l’onere, nell’incertezza derivante dal quadro giurisprudenziale in commento, di adire il giudice amministrativo entro 180 giorni dal provvedimento stesso, anche solo in via prudenziale, per sentirne dichiarare la nullità o, al limite, l’inefficacia[9].
In terzo luogo, militerebbe nel senso ora in commento la previsione generale di cui all’art. 20, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, come introdotta dal d.l. n. 77 del 2021, per cui, sulla falsariga di quanto già specificamente previsto proprio in materia edilizia, nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento e fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l'amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell'intervenuto accoglimento della domanda, con l’ulteriore precisazione che decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l'attestazione è sostituita da una auto-dichiarazione del privato.
Ancora, si è individuato un elemento di conferma alla prospettazione ora in considerazione nell’avvenuta abrogazione della norma di cui al comma 2 dell’art. 21 della l. n. 241 del 1990, la quale disponeva che le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza di atto di assenso dell’amministrazione o in difformità da esso si applicano anche a coloro che abbiano iniziato l’attività in forza della formazione del silenzio-assenso in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.
Infine, sempre con riguardo all’art. 21 della l. n. 241 del 1990 ma con riferimento al disposto di cui al comma 1 e sempre a sostegno della teoria ora in commento, si è apprezzato, sul presupposto per cui l’interessato nella propria domanda deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti, che la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria sono escluse solo in caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni, e non in caso di dichiarazioni più semplicemente incomplete, nel qual caso, pertanto, il silenzio-assenso si perfezionerebbe comunque.
4. Conclusioni: silenzio-assenso ed annullamento d’ufficio dei titoli edilizi.
In conclusione, la giurisprudenza, di cui fa parte la sentenza in commento, che richiede la conformità urbanistica dell’intervento proposto, oltre al decorso del termine di conclusione del procedimento, ai fini della formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire appare decisamente criticabile.
Del resto, è stato anche svelato come l’argomentazione per cui non si potrebbe ottenere attraverso il silenzio un risultato contrario alla legge tradisca in realtà una confusione tra perfezionamento della fattispecie attraverso il silenzio-assenso, nei termini previsti dalla legge, ed effetti di quella fattispecie, i quali possono anche essere illegittimi per violazione delle norme urbanistiche, con conseguente possibilità di attivare i rimedi in autotutela, quale l’annullamento d’ufficio, la cui operatività è espressamente estesa, dall’art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990 s.m.i., ai casi in cui il provvedimento si sia formato per silenzio assenso[10].
In definitiva, il quadro di incertezza che viene tuttora alimentato dalla giurisprudenza come quella in commento appare vanificare, almeno una certa misura, gli sforzi del legislatore, innegabilmente diretti verso la semplificazione, quale valore funzionale anche alla ripresa economica. In campo edilizio, peraltro, ove i valori in gioco sono rilevanti, sia dal punto di vista meramente economico che di quello occupazionale, le esigenze di certezza giuridica appaiono particolarmente significative al fine di non rendere difficoltosi i passaggi di proprietà degli immobili. Tenendo conto di ciò, appare ancora più criticabile che, in caso di inerzia dell’amministrazione, si lasci il privato nell’incertezza circa l’effettiva formazione del silenzio-assenso, nel momento in cui quest’ultimo sia ricondotto, non solo al mero decorso del termine di conclusione del procedimento, ma anche alla sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge per il conseguimento del permesso di costruire, il cui accertamento non è affatto scontato in un quadro normativo, come quello relativo all’attività edilizia, multi-livello tra Stato, Regioni ed enti locali, attraversato da molteplici interessi pubblici, anche particolarmente sensibili, nonché in un ambito potenzialmente interessato anche dall’azione penale nei confronti di comportamenti in grado di integrare la fattispecie dell’abuso edilizio.
In altre parole, occorre che il privato possa confidare nell’effettiva acquisizione del titolo legittimante l’intervento edilizio, anche per il tramite del silenzio-assenso, la cui formazione non può ragionevolmente dipendere dall’accertamento della conformità urbanistica lasciata all’apprezzamento del privato stesso, invece che all’attività provvedimentale della pubblica amministrazione.
Proprio nella descritta direzione, ovvero quella della necessità della certezza dei rapporti giuridici, va collocata la, già segnalata, novella legislativa introdotta nel campo edilizio, e poi generalizzata, per cui la pubblica amministrazione è tenuta a rilasciare un’attestazione circa l’avvenuto decorso dei termini di conclusione del procedimento senza che siano intervenute richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e provvedimenti di diniego, la quale attestazione, come parimenti già rilevato, verrebbe a costituire un elemento di certezza maggiormente “tangibile” rispetto al provvedimento tacito e dunque in grado di rassicurare tutti i soggetti coinvolti nell’avvio e nello svolgimento dell’attività edilizia.
Del resto, la tutela dell’interesse pubblico a fronte di un permesso di costruire formatosi tacitamente appare comunque adeguatamente tutelato, in primo luogo, dall’esclusione dell’operatività del silenzio-assenso nei casi in cui sussistano vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, nonché in secondo luogo, dalla possibilità di procedere all’annullamento d’ufficio di eventuali provvedimenti taciti formatisi in difetto dei presupposti di legge. Da quest’ultimo punto di vista, il (doveroso) equilibrio con il legittimo affidamento del privato che abbia confidato nell’ottenimento, sia pure in via tacita, del permesso di costruire, viene ottenuta grazie alle particolari condizioni e limiti che caratterizzano i provvedimenti di secondo grado adottati in via di autotutela da parte della pubblica amministrazione, senza che quest’ultima, viceversa, possa ritenersi abilitata ad emanare provvedimenti tardivi senza il rispetto di tali condizioni.
Pertanto, nel momento in cui la pubblica amministrazione intenda inibire un’attività edilizia tacitamente assentita per effetto del mero decorso del termine di conclusione del procedimento, non potrà farlo liberamente in maniera tardiva, ma dovrà necessariamente accertare, dandone conto in motivazione, la sussistenza dei presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, i quali presupposti sono da individuarsi nell'originaria illegittimità del provvedimento nonchè nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari[11].
[1] Sul punto cfr E. Boscolo, Semplificazioni e flessibilizzazioni nella disciplina dei titoli edilizi, in Riv. giur. urb., 2022, 185-188.
[2] Nel senso che ai fini della formazione del provvedimento implicito di assenso occorre verificare che, oltre all'inutile decorso del tempo necessario alla conclusione del procedimento, la domanda sia stata presentata dal soggetto legittimato alla richiesta, nonché corredata dalle attestazioni, dagli elaborati grafici e dalle asseverazioni espressamente richieste e che, infine, non sussistano vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientale, paesaggistici o culturali, si v. tra le altre e di recente, T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 3 novembre 2021, n. 910, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Nel senso indicato si sono espresse di recente, oltre alla sentenza in commento, anche, Cons. St., sez. IV, 28 gennaio 2022, n. 616, in www.giustizia-amministrativa.it.; Cons. St., sez., VI, 8 settembre 2021, n. 6235, in Riv. giur. edilizia, 2021, I, 1654; T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 29 luglio 2022, n. 10792, in Riv. giur. edilizia, 2022, I, 1247; T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 22 novembre 2022, n. 1565, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II, 2 maggio 2022, n. 1462, ivi; T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 9 luglio 2021, n. 2229, ivi; T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II,18 gennaio 2021, n. 105, ivi. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali in tempi più risalenti, si v. A. Licci Marini, Silenzio assenso in materia edilizia, in Urb. e app., 2018, 850 ss.
[4] Cons. St., sez. IV, 29 novembre 2021, n. 7924, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Così, di recente, T.A.R. Trentino-Alto Adige Trento, sez. I, 28 febbraio 2022, n. 44, in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] Sul punto cfr. G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della P.A., in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, 226. In tema si v. anche M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in www.federalismi.it, 2020.
[7] Così, di recente, Cons. St., sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un commento si v. anche P. Marzaro, Il silenzio assenso e l’infinito della semplificazione. La scomposizione dell’ordinamento nella giurisprudenza sui procedimenti autorizzatori semplificati, in Riv. giur. urb., 2022, 584-588.
[8] Sul punto M. Calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76 /2020 (c.d. decreto semplificazioni), in questa Rivista, 26 novembre 2020. Sempre nel senso della ritenuta nullità di un provvedimento tardivo sull’istanza di permesso di costruire, G. Corso, Silenzio-assenso: il significato costituzionale, in Nuove autonomie, 2021, 9 ss., ha osservato come le recenti novelle legislative abbiano condotto all'attribuzione al silenzio-assenso di una forza limitativa del potere amministrativo, che con la formazione di questo si esaurisce, conseguendone una rinnovata connessione tra il piano della (in-)validità, sotto forma di nullità, e quello della (in-efficacia) della determinazione espressa tardiva.
[9] Così. M.A. Sandulli, Silenzio assenso e inesauribilità del potere, in www.giustizia-amministrativa.it, 24 maggio 2022.
[10] Così A. Travi, Silenzio-assenso e conformità urbanistica delle opere, in Foro it., 2022, 430 ss., il quale ha osservato come la individuazione delle condizioni per la maturazione del silenzio-assenso non siano rimesse alla giurisprudenza, essendo definite dalla legge, con la conseguenza che il giudice amministrativo non può sovrapporre valori diversi a quelli che la legge abbia sancito e stabilito nel prevedere e regolare l’istituto. In definitiva, in tale ottica, si è ribadito che se la legge non stabilisce che la conformità urbanistica rappresenti una condizione per la formazione del silenzio-assenso, quest’ultimo si forma anche in assenza di conformità urbanistica, fatta salva l’eventuale illegittimità degli effetti così prodotti e la loro conseguente annullabilità nei modi e nei termini previsti dalla legge.
[11] Così, di recente, Cons. St., sez. II, 17 ottobre 2022, n. 8840, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si è ulteriormente specificato che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione. Nello stesso senso anche Cons. St., sez. VI, 28 dicembre 2021, n.8641, ivi; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 14 marzo 2022, n. 135, ivi; T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII, 1° ottobre 2021, n. 6150, ivi.
La Corte di appello di Palermo ha accolto solo in parte la richiesta di Contrada di riparazione per ingiusta detenzione
Con sentenza del 24.6.2022, la Corte di Cassazione ha annullato (per la 2^ volta) l’ordinanza con la quale un’altra Sezione della Corte di Appello di Palermo aveva respinto la richiesta avanzata dal dott. Bruno Contrada di riparazione per ingiusta detenzione, affidando al giudice di rinvio il seguente principio:
“Sulla scorta degli accertamenti in punto di fatto indicati nella ordinanza impugnata, determinare la ricorrenza del dolo o colpa grave, causa ostativa alla riparazione, in relazione non già alla fattispecie di reato di partecipazione all’associazione mafiosa, mai contestata e rispetto la quale il ricorrente non si è mai difeso nel processo, bensì rispetto a condotte sinergiche al favoreggiamento sia delle singole vicende accertate (ed elencate nella ordinanza impugnata) sia dell’associazione mafiosa”.
“Al giudice di rinvio è richiesto di valutare, sulla scorta delle individuate condotte ritenute rilevanti, già evidenziate nell’ordinanza impugnata, con autonomo giudizio, se le stesse con un giudizio ex ante rendevano prevedibile l’intervento dello Stato in relazione alla diversa fattispecie di reato di favoreggiamento”.
Con l’ordinanza del 15.12.2022 - depositata il 17.2.2023 - la Corte di Palermo, in sede di rinvio, ha ritenuto indubbio che fosse prevedibile per chiunque – a fronte dei gravi, reiterati, inequivoci comportamenti accertati nel corso di cinque giudizi divenuti definitivi, certamente ostativi in quanto gravemente colposi – la reazione preventiva e poi sanzionatoria dello Stato, sulla base di una valutazione ex ante e improntata secondo l’id quod plerumque accidit, tanto più per un Funzionario di polizia con molteplici esperienze investigative nel contrasto alla criminalità mafiosa.
È stato accertato, infatti, nei confronti del dott. Contrada, di avere contribuito – dapprima nella qualità di funzionario di p.s. della Questura di Palermo, poi in quella di dirigente presso l'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa e, infine, presso il SISDE – alle attività e agli scopi criminali dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra, fornendo "ad esponenti della commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra notizie riservate, riguardanti indagini ed operazioni di polizia da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione". E (prosegue la citata ordinanza) non può che ribadirsi che tale forma di collusione realizzata dall’imputato, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 378 c.p. <<deve considerarsi tanto più grave in quanto, da un lato particolarmente utile a "Cosa Nostra", e dall'altro espressione più alta del tradimento delle proprie pubbliche funzioni>> (sent. di condanna citata).
In altri termini, le pur divergenti definizioni giuridiche date a contegni del tipo di quelli addebitati al dott. Contrada rendevano comunque certamente conoscibile, in via anticipata al momento del compimento delle condotte, la possibilità concreta della incriminazione e della punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa e inedita, tale da sorprendere l’affidamento del Contrada come formatosi al momento del compimento dei fatti, nei quali erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell’incriminazione, della misura cautelare e della punizione, di talché sarebbe contrario al sistema disconoscere tale rilevanza causale a comportamenti del tenore di quelli posti in essere dal Contrada.
Le condotte del dott. Contrada sono state ritenute fattore condizionante la produzione dell'evento "detenzione", e dunque presupposto che ha ingenerato – ancorché in presenza di errore dell'autorità procedente – la falsa apparenza della loro configurabilità come illecito penale […] così ingenerando una condizione ostativa alla riparazione, quantomeno con riferimento al periodo antecedente alla maturazione della prescrizione del reato di favoreggiamento aggravato.
In ordine alla prescrizione, la Corte ha ritenuto, poi, che il giudizio ex ante debba tener conto della normativa all’epoca vigente, rammentando che, in epoca antecedente al 2005, per la pena superiore ad anni cinque, come nel caso di specie, si applicava la prescrizione di anni dieci, aumentata della metà per effetto della previsione sulla prescrizione prorogata, contenuta nell’art. 161 c.p. dell’epoca.
Il termine della prescrizione decorreva, secondo la disciplina dell’epoca, non dalla data relativa ad ogni singola fattispecie, ma dal giorno in cui cessava la continuazione del reato, e dunque dal febbraio 1988.
Pertanto, in applicazione dei suddetti principi, all’epoca della emissione della misura cautelare il reato non era certamente prescritto, con la conseguenza che, per la ragioni suesposte con riferimento alla sussistenza (quantomeno) di una colpa grave rinvenibile nelle condotte del Contrada, il periodo di custodia sofferto in data antecedente alla prescrizione del reato – ossia per il periodo compreso tra il 24.12.1992 ed il 31.7.1995 – è stato ritenuto insuscettibile di riparazione.
A diverse conclusioni è giunta la Corte di appello per il periodo successivo alla condanna definitiva, intervenuta il 10.5.2007, epoca nella quale vigeva il diverso regime di prescrizione (cd. ex Cirielli) con il termine massimo, per il reato di favoreggiamento, di sette anni e sei mesi, più favorevole del precedente e, dunque, suscettibile di applicazione.
La pena scontata per un reato prescritto al momento della condanna, i cui effetti sono stati posti nel nulla (“dichiara ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada Bruno dalla Corte di appello di Palermo in data 25.2.2006, irrevocabile il 10.5.2007”) dalla sentenza della Suprema Corte del 6.7.2017, che recepiva quella della Corte EDU del 14.4.2015, è stata invece ritenuta riparabile, non potendo applicarsi, in questo caso, i principi riguardanti il dolo e la colpa grave, che si riferiscono, comunque, ad un reato non estinto.
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