ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli impianti “minimi” nel servizio di gestione integrata dei rifiuti. Tutela dell’ambiente e promozione della concorrenza tra potere di direttiva dello Stato, pianificazione regionale e regolazione di ARERA (nota a Cons. St., sez. II, 12 dicembre 2023, n. 10734)
di Saul Monzani
Sommario: 1. Premessa. La classificazione degli impianti di trattamento secondo la regolazione ARERA. - 2. Il principio di evidenza pubblica in rapporto ai principi di prossimità e libera circolazione dei rifiuti urbani. La illegittimità di regimi di privativa non giustificati. - 3. La governance “multi-livello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti. La ritenuta carenza di potere, anche implicito, di ARERA in tema di impianti “minimi”. - 4. Il meccanismo degli impianti “minimi” quale strumento di natura regolatoria al servizio della pianificazione regionale nel quadro delle direttive statali. La ricomposizione della governance “multi-livello”.
1. Premessa. La classificazione degli impianti di trattamento secondo la regolazione ARERA.
La fattispecie che è stata oggetto della giurisprudenza che ci si accinge ad esaminare riguarda il meccanismo introdotto dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) nell’ambito del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani in tema di impianti “minimi”.
In particolare, con la delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio 2022-2025 (MTR-2), l’Autorità, per quanto qui rileva, ha prospettato, “al fine di sostenere lo sviluppo di un adeguato sistema infrastrutturale”, di adottare strumenti di regolazione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento, sulla base della classificazione, operata a livello di pianificazione regionale, degli impianti di chiusura del ciclo integrato dei rifiuti in “integrati”, “minimi” e “aggiuntivi”.
Tale classificazione viene ora effettuata sulla base di quanto previsto nel Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti (PNGR) di cui al decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica n. 257 del 24 giugno 2022 per cui: gli impianti “integrati” sono quelli gestiti dall’operatore incaricato del servizio integrato di gestione dei rifiuti; gli impianti “minimi” sono quelli individuati come indispensabili nella misura in cui offrono capacità in un mercato con rigidità strutturali, caratterizzato da un forte e stabile eccesso di domanda e da un limitato numero di operatori; mentre, infine, quelli “aggiuntivi” sono individuati in via residuale.
Ebbene, sotto il profilo tariffario, gli impianti di chiusura del ciclo gestiti dall’operatore incaricato del servizio di gestione integrata dei rifiuti sono sottoposti ad una regolazione dei costi riconosciuti e delle tariffe di accesso secondo quanto previsto dal Metodo tariffario adottato dall’Autorità, integrata da un meccanismo di perequazione ambientale, il quale, prevede, da un lato, il riconoscimento di incentivi a favore di chi conferisce agli impianti di recupero della frazione organica dei rifiuti urbani e di incentivi (più limitati e comunque vincolati a prestazioni ambientali soddisfacenti raggiunte nei territori di provenienza) a favore di chi conferisce agli impianti di incenerimento con recupero di energia (a parziale compensazione dei corrispettivi dovuti per l’accesso a tali impianti) nonchè, dall’altro lato, l’applicazione di disincentivi per chi conferisce in discarica o in impianti di incenerimento senza recupero di energia (come maggiorazione dei corrispettivi dovuti per l’accesso a tali impianti).
Gli impianti classificati come “minimi”, anche se facenti capo a gestori non integrati, sono parimenti sottoposti all’applicazione di una regolazione dei costi riconosciuti e delle tariffe integrata dal meccanismo di perequazione ambientale appena descritto.
Infine, gli impianti di chiusura del ciclo “aggiuntivi” non sono assoggettati a regolazione tariffaria, potendo offrire sul mercato la loro capacità, ma sono comunque tenuti all’obbligo di applicare condizioni di conferimento non discriminatorie, pubblicando, sul proprio sito internet, i criteri principali alla base della individuazione dei corrispettivi di accesso, nonché sono sottoposti a disincentivi ove si tratti di discariche o di impianti di incenerimento senza recupero di energia.
Nel descritto contesto, il metodo MTR-2 prevede, in particolare, che in sede di classificazione degli impianti di chiusura del ciclo siano esplicitati: a) i flussi che si prevede vengano trattati per impianto; b) la distinzione dei medesimi secondo il criterio di prossimità che si ritiene utile specificare; c) l’elenco dei soggetti che si prevede conferiscano ai medesimi impianti.
In sostanza, in sede di individuazione degli impianti “minimi”, la pianificazione regionale giunge a determinare i flussi “di prossimità” dei rifiuti che obbligatoriamente devono essere convogliati a ciascun impianto ubicato sul territorio regionale stesso, a fronte del riconoscimento al gestore di una remunerazione determinata in via regolatoria.
Il meccanismo fin qui succintamente illustrato è stato oggetto di contestazione da parte degli operatori del settore, in particolare di quelli titolari di impianti collocati fuori dalla regione presa a riferimento, i quali hanno lamentato un effetto restrittivo della concorrenza nonché hanno dubitato della legittimazione di ARERA ad intervenire sul tema.
Così, la sentenza che ci si accinge ad illustrare ha esaminato e definito la latitudine applicativa della regola dell’evidenza pubblica nel campo del servizio di gestione integrata dei rifiuti, ciò rispetto agli (ulteriori) principi contenuti nel Codice dell’ambiente in tema di “prossimità” nonchè di libera circolazione sul territorio nazionale di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata. Inoltre, la giurisprudenza oggetto del presente commento si è interrogata circa la sussistenza in capo ad ARERA del potere di disciplinare in via regolatoria il meccanismo in questione, con le relative conseguenze che, asseritamente, produrrebbero una sorta di regime di “privativa” del segmento dello smaltimento[1].
2. Il principio di evidenza pubblica in rapporto ai principi di prossimità e libera circolazione dei rifiuti urbani. La illegittimità di regimi di privativa non giustificati.
Come è noto, il Codice dell’ambiente (di cui al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 s.m.i.) ha previsto, all’art. 200, che, in via “ordinaria”, la gestione dei rifiuti urbani sia effettuata sulla base degli Ambiti Territoriali Ottimali delimitati dalle Regioni, in una prospettiva “integrata” volta al superamento della frammentazione gestionale e al conseguimento di adeguate dimensioni gestionali, nonché previa valutazione del sistema stradale e ferroviario di comunicazione e ricognizione degli impianti di gestione di rifiuti già realizzati e funzionanti nell’ambito territoriale di riferimento. Come è altrettanto noto, però, il comma 7 del predetto art. 200 consente alle Regioni di adottare modelli alternativi o in deroga al modello degli Ambiti Territoriali Ottimali; ciò sulla base di un piano regionale dei rifiuti che dimostri la propria adeguatezza rispetto agli obiettivi strategici previsti dalla normativa vigente, con particolare riferimento ai criteri generali e alle linee guida riservati, in materia, allo Stato.
Il successivo art. 202 del Codice dell’ambiente, in tema di modalità di affidamento del servizio in questione, fa riferimento, in particolare, alla “gara” pubblica, rinviando comunque alla disciplina vigente, anche di livello europeo, in materia di affidamento dei servizi pubblici locali. A tale ultimo proposito, rileva il disposto del vigente Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, il quale, all’art. 7, in nome del principio di “auto-organizzazione amministrativa”, effettua a sua volta un rinvio, per quanto riguarda i servizi di interesse economico generale di livello locale, a quanto previsto dal d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201 recante “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica”.
Ebbene, l’art. 14 di quest’ultimo corpus normativo, in quanto a “modalità di gestione del servizio pubblico locale”, fa riferimento sostanzialmente alle consuete tre possibilità: a) affidamento a terzi mediante procedura ad evidenza pubblica svolta in conformità al diritto dell’Unione europea; b) affidamento a società a capitale misto pubblico-privato tramite una gara avente come doppio oggetto la quota societaria e l’affidamento del servizio, in conformità al diritto dell’Unione europea; c) affidamento diretto c.d. “in house”, nei limiti fissati dall’Unione europea.
Più specificamente, il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. nella l. 24 marzo 2012, n. 27, dettato in tema di “concorrenza, sviluppo delle infrastrutture e competitività” (decreto c.d. “Crescitalia”), ha ribadito, all’art. 25, volto alla “promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”, comma 4, che la gestione ed erogazione dei servizi di gestione integrata dei rifiuti urbani sono affidate ai sensi del predetto art. 202 del Codice dell’ambiente, nel rispetto della normativa europea e nazionale sull'evidenza pubblica; ciò con esplicito riferimento alle attività di raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e avvio a smaltimento e recupero.
Segue l’ulteriore precisazione per cui nel caso in cui gli impianti siano di titolarità di soggetti diversi dagli enti locali di riferimento, come spesso avviene, all’affidatario del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono essere garantiti l’accesso agli impianti a tariffe regolate e predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e capacità necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento indicate nel piano d’ambito.
D’altro canto, l’art. 181, comma 5, del Codice dell’ambiente specifica che per le frazioni di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata destinati al riciclaggio e recupero è sempre ammessa la libera circolazione sul territorio nazionale al fine di favorire il più possibile il loro recupero, privilegiando, anche con strumenti economici, il principio di prossimità agli impianti di recupero.
Quest’ultimo principio, peraltro, risulta valorizzato nel già citato Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR), ove, con particolare riferimento ai rifiuti organici, si afferma che essi devono essere gestiti “prioritariamente” all’interno del territorio regionale nel rispetto del principio di prossimità, al fine di limitarne il più possibile la movimentazione. In tale prospettiva, si indica alle Regioni la necessità di verificare la propria autonomia impiantistica e di pianificare eventuali impianti necessari alla copertura del fabbisogno, rimanendo comunque impregiudicata la libera circolazione di tale frazione nonché la possibilità di conseguire l’autonomia gestionale, anche su un territorio più ampio, da individuare come “macroarea”, previo accordo tra le Regioni interessate[2].
Ebbene, la giurisprudenza oggetto del presente commento ha proceduto ad una disamina del rapporto sistematico che intercorre, da un lato, tra il principio generale dell’evidenza pubblica, quale modalità “principale” di affidamento del servizio di igiene urbana che, in quanto “integrato” comprende anche l’attività di recupero, e, dall’altro lato, il principio di “prossimità” degli impianti di recupero delle frazioni di rifiuto urbano oggetto di raccolta differenziata nel contesto della “sempre ammessa” circolazione di tale tipologia di rifiuti sul territorio nazionale[3].
Così individuato il quadro di riferimento, la giurisprudenza ora in esame è giunta a negare la sussistenza di una qualche forma di “privativa” rispetto, in particolare, alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati, da intendersi in senso lato fino a comprendere anche le attività di avvio al recupero, le quali attività devono pertanto ritenersi suscettibili di essere svolte anche dai privati muniti delle prescritte autorizzazioni ambientali[4].
A siffatte conclusioni, si è pervenuti partendo dal dato normativo di cui agli artt. 101-109 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea per cui un regime di privativa e dunque di “riserva di attività”, per essere ammesso nel sistema, deve essere sia previsto da una esplicita norma di legge, senza che possa essere ricavato o esteso in via interpretativa, nonché deve essere giustificato alla luce del principio di concorrenza.
Ancora più specificamente, la giurisprudenza che si sta considerando ha osservato come la direttiva europea 2008/98/CE “Rifiuti”, nel considerando 6, indichi come obiettivo principale in materia quello di “ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente”, giungendo a prescrivere, all’art. 15, agli Stati membri di adottare “le misure necessarie per garantire che ogni produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provveda personalmente al loro trattamento oppure li consegni ad un commerciante o ad un ente o a un’impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti o ad un soggetto addetto alla raccolta dei rifiuti pubblico o privato”, prefigurando, così, un “sistema complesso nel quale agiscono vari soggetti, pubblici e privati”. Tali indicazioni si ritrovano nella normativa nazionale e, in particolare, nell’art. 177 del Codice dell’ambiente, secondo il quale i soggetti pubblici possono esercitare le loro competenze anche “avvalendosi, ove opportuno, mediante accordi, contratti di programma o protocolli d'intesa anche sperimentali, di soggetti pubblici o privati”.
Sotto altro profilo, sempre nella medesima sede, si è rilevato che la direttiva predetta indica, all'art. 23, lo strumento a disposizione degli Stati membri per raggiungere gli obiettivi indicati, là dove prevede che essi “impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l'autorizzazione dell'autorità competente”, introducendo così un regime autorizzatorio che peraltro non è universale, dato che, ai sensi del successivo art. 24, gli stessi Stati membri possono escludere la necessità dell’autorizzazione in due casi, uno dei quali è proprio l’attività di recupero. Per tale via, si è concluso che la scelta di un regime autorizzatorio, per di più derogabile, appare di per sé contraria alla previsione di una privativa in materia, sia di carattere generale, sia nel caso particolare dell’attività di recupero, che, in ipotesi, potrebbe svolgersi anche senza autorizzazione e ciò anche sulla base dei principi europei di proporzionalità e adeguatezza: ne consegue, in tale prospettazione, che l’attività predetta può esser svolta da più soggetti, purché nel rispetto degli interessi pubblici coinvolti, non essendovi spazio per ricavare l’esistenza di una privativa che non risulta espressamente prevista dalle norme sulla gestione integrata dei rifiuti urbani[5].
Dal contesto così come appena ricostruito, la sentenza oggetto precipuo del presente commento, ha tratto spunto per ribadire che la regola generale in tema di gestione integrata dei rifiuti urbani è quella improntata all’evidenza pubblica, ovvero in prima battuta alla gara. In siffatto ordine di idee, si è osservato come il principio di “prossimità”, pur funzionale alla migliore tutela ambientale possibile, tuttavia non è in grado di comprimere in maniera assoluta il valore della concorrenza, costituendo, al più, un fattore di “mitigazione”, attraverso il quale, pur sempre nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, si valorizzino ed incentivino, con l’attribuzione di un punteggio premiale, le offerte che, tra le altre, garantiscano al meglio anche tale, ulteriore, principio[6].
Del resto, sempre secondo l’impostazione ora in rassegna, dallo stesso testo dell’art. 181, comma 5, del Codice dell’ambiente traspare come l’obiettivo principale del legislatore sia quello di “favorire il più possibile” il recupero delle frazioni di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata, mentre il criterio della “prossimità” viene individuato quale criterio preferenziale da incentivare “anche con strumenti economici”, ma senza che tale obiettivo ulteriore sia in grado di trasformare la libera circolazione di tali frazioni di rifiuti da regola ad eccezione, legittimando regimi di privativa o affidamenti diretti tali da sovvertire le regole in materia di affidamento degli appalti pubblici.
Sulla scorta del descritto impianto argomentativo, in definitiva, la giurisprudenza in commento ha statuito la illegittimità dei meccanismi che finiscano per stabilire una sorta di privativa ingiustificata, in particolare per quanto attiene l’attività di recupero delle frazioni di rifiuto urbano oggetto di raccolta differenziata (nel caso concreto si trattava della frazione organica - FORSU), a favore degli impianti “minimi” collocati sul territorio regionale; ciò nel momento in cui, come è avvenuto nella fattispecie concreta decisa dalla giurisprudenza in commento, vengano individuati a livello di pianificazione regionale, con carattere ritenuto “precettivo”, i bacini di riferimento di ciascun impianto, al quale gli enti locali interessati debbano, di fatto, conferire i rifiuti, così da sottrarre indebitamente tale attività alla dinamica concorrenziale del mercato del trattamento e smaltimento dei rifiuti, a discapito degli operatori collocati fuori del contesto regionale[7].
La necessità di sottoporre il conferimento dei flussi presso gli impianti di trattamento alla predetta dinamica competitiva, evitando regimi di privativa non giustificati, emerge nella giurisprudenza anche dal punto di vista delle modalità di affidamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti. Si allude al fatto che, con l’abrogazione dell’art. 201 del Codice dell’ambiente, il quale attribuiva all’Autorità d’Ambito il compito di individuare un soggetto preposto alla realizzazione, gestione ed erogazione “dell'intero servizio”, quest’ultimo non è più configurato come un tutto inscindibile, essendo ben possibile che entro i confini di un Ambito Territoriale Ottimale si affidi tutto il servizio ovvero singoli segmenti di esso separatamente[8].
Da quest’ultimo punto di vista, in giurisprudenza è apparsa censurabile la scelta di una stazione appaltante di affidare tramite procedura ad evidenza pubblica il servizio di gestione integrata dei rifiuti sulla base di un unico lotto, senza fornire un’adeguata motivazione, ai sensi e per gli effetti del disposto di cui all’art. 51 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (ora art. 58 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), che dia conto dei vantaggi economici e/o tecnico-organizzativi derivanti dall’opzione del lotto unico, piuttosto che della suddivisione in più lotti, e che espliciti le ragioni che giustifichino il sacrificio della concorrenza in un determinato settore del mercato, in relazione agli interessi, oltre che delle imprese, anche degli utenti[9]. In altri termini, il carattere “integrato” del servizio in questione non è considerato elemento valido e sufficiente, di per sé, a giustificarne l’affidamento “in blocco”, senza una preventiva indagine dei differenti mercati aventi ad oggetto le singole attività per le differenti tipologie di rifiuto. Alla luce della giurisprudenza segnalata, pertanto, occorre considerare, ancora una volta, che, pur nell’ambito di una gestione “integrata” dei rifiuti, nulla osta, anzi è doveroso, considerare le specificità dei singoli settori della filiera; ciò, con particolare riferimento al segmento relativo al recupero dei rifiuti, il quale costituisce un’attività di mercato che, come tale, non può essere oggetto di una privativa ingiustificata[10].
3. La governance “multi-livello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti. La ritenuta carenza di potere, anche implicito, di ARERA in tema di impianti “minimi”.
Un’ulteriore questione passata in rassegna dalla sentenza in commento, riguarda la riconducibilità, o meno, delle disposizioni in tema di impianti “minimi” al potere regolatorio attribuito dalla legge all’Autorità, nonché l’eventuale sovrapposizione di tale potere rispetto alle attribuzioni spettanti alle Regioni e, salendo al livello superiore, allo Stato.
L’impostazione che ci si accinge ad esaminare[11] prende le mosse dalla constatazione per cui la disciplina legislativa attributiva dei poteri alle Autorità indipendenti si connota spesso, vista l’oggettiva difficoltà di fare altrimenti, per l’utilizzo di clausole di ampio respiro, più orientate verso una prospettiva finalistica piuttosto che determinate in maniera tassativa nel loro contenuto: ciò ha portato la giurisprudenza all’elaborazione della nota teoria dei c.d. “poteri impliciti”, con riferimento a quei poteri che non sono espressamente contemplati dalla legge ma che si desumono, all’esito di una interpretazione sistematica, dal complesso della disciplina della materia, perché strumentali all’esercizio di altri poteri, posto che nei settori di competenza delle Autorità indipendenti è oggettivamente complesso per il legislatore predeterminare quale possa essere il contenuto del provvedimento amministrativo, in presenza di poteri di regolazione con una valenza tecnica e che si esplicano in ambiti in costante evoluzione per dinamiche di mercato differenti; ciò con l’ulteriore precisazione per cui siffatto meccanismo, in quanto derogatorio del principio di legalità, va applicato in modo stringente nonché va “affiancato” da particolari garanzie di carattere procedimentale, per consentirne la compatibilità costituzionale[12].
Così individuata la cornice di riferimento, il ragionamento condotto dai giudici amministrativi, al fine di pervenire alla decisione in commento, prende le mosse dalla considerazione del disposto di cui all’art. 1, comma 527, della l. 27 dicembre 2017, n. 205, il quale, proprio nella citata dimensione “finalistica”, conferisce ad ARERA una funzione di regolazione e controllo del servizio integrato dei rifiuti, al fine di garantire accessibilità, fruibilità e diffusione omogenee sull’intero territorio nazionale nonchè adeguati livelli di qualità in condizioni di efficienza ed economicità della gestione, armonizzando gli obiettivi economico-finanziari con quelli generali di carattere sociale, ambientale e di impiego appropriato delle risorse, nonchè di assicurare l’adeguamento infrastrutturale agli obiettivi imposti dalla normativa europea. In particolare, tra le funzioni così attribuite, quelle che interessano la tariffa del servizio riguardano la predisposizione ed aggiornamento del metodo tariffario per la determinazione dei corrispettivi del servizio integrato dei rifiuti e dei singoli servizi che costituiscono attività di gestione, a copertura dei costi di esercizio e di investimento, compresa la remunerazione dei capitali, sulla base della valutazione dei costi efficienti e del principio «chi inquina paga» (lett. f); la fissazione dei criteri per la definizione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento (lett. g); l’approvazione delle tariffe definite, ai sensi della legislazione vigente, dall’ente di governo dell'ambito territoriale ottimale per il servizio integrato e dai gestori degli impianti di trattamento (lett. h).
Ciò posto, secondo i giudici amministrativi l’attività di regolazione così attribuita all’Autorità “non può avere una portata illimitata”, dovendo l’atipicità finalistica del relativo potere confrontarsi con la tipicità dei poteri di altre amministrazioni che con il primo in qualche modo interferiscono. In tale ottica, sempre in base all’orientamento ora in considerazione, le norme del Codice dell’ambiente che ripartiscono le competenze in tema di gestione dei rifiuti, “non possono che costituire un limite all’espansione finalistica del potere di ARERA, arginandolo alla radice”.
Ebbene, le predette norme che vengono in considerazione riguardano l’aspetto di indirizzo, di competenza dello Stato, nonché quello di pianificazione, attribuito alle Regioni, del servizio di gestione integrata dei rifiuti.
Dal primo punto di vista, la giurisprudenza in commento ha richiamato l’impostazione, ormai consolidata, per cui la disciplina dei rifiuti rientra nella materia inerente la “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, lett. s), della Costituzione: in tale prospettiva, si è precisato che la legislazione statale, anche in attuazione degli obblighi europei, rappresenta un livello di tutela uniforme trasversale che si impone sull’intero territorio nazionale come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino[13].
Ciò posto, il carattere trasversale di detta competenza statale andrebbe ad interessare non solo le disposizioni di carattere sostanziale in tema di rifiuti, ma anche la dimensione organizzativa, entro la quale lo Stato alloca le funzioni amministrative in materia di tutela dell’ambiente, individuando più livelli e soggetti, i cui rispettivi ruoli devono essere coordinati nella prospettiva di una maggiore adeguatezza ed efficienza degli interventi di attuazione delle politiche ambientali.
Partendo da tale presupposto, la sentenza oggetto precipuo del presente commento, passa in rassegna le norme del Codice dell’ambiente le quali, anche innovando rispetto all’assetto precedente, “disegnano” un meccanismo pianificatorio “a cascata” che coinvolge Stato e Regioni, secondo un approccio multilivello.
In primo luogo, sul fronte statale, l’art. 195 del Codice ha attribuito al livello centrale, in un’ottica di integrazione e coerenza delle pianificazioni regionali, la funzione volta ad individuare criteri generali, differenziati per i rifiuti urbani e per i rifiuti speciali, ai fini dell’elaborazione dei piani regionali. In siffatta ottica, l’introduzione dell’art. 198-bis del Codice in tema di “Programma nazionale per la gestione dei rifiuti” confermerebbe la scelta di avocare al livello centrale le scelte di principio, affidando a tale atto il compito di definire i criteri e le linee strategiche cui le Regioni e le Provincie autonome devono attenersi nell’elaborazione dei piani regionali.
In secondo luogo, e di conseguenza, viene in considerazione, ai sensi dell’art. 196, la predisposizione del “Piano regionale di gestione dei rifiuti”, il quale comprende, secondo quanto specificato dal successivo art. 199, l’analisi delle modalità di gestione dei rifiuti adottate nell’ambito geografico interessato, le misure da assumere per migliorare l’efficacia ambientale delle diverse operazioni di gestione dei rifiuti, nonché una valutazione del modo in cui i piani contribuiscono all’attuazione degli obiettivi e delle disposizioni nazionali di cui al Codice dell’ambiente stesso. In particolare, per ciò che attiene al tema oggetto del presente in commento, i piani regionali suddetti, sempre in forza del predetto art. 199, comma 3, del Codice, individuano: tipo, quantità e fonte dei rifiuti prodotti all’interno del territorio, suddivisi per ambito territoriale ottimale per quanto riguarda i rifiuti urbani, rifiuti che saranno prevedibilmente spediti da o verso il territorio nazionale e valutazione dell’evoluzione futura dei flussi di rifiuti, nonché la fissazione degli obiettivi di raccolta differenziata da raggiungere a livello regionale (lett. a); i sistemi di raccolta dei rifiuti e impianti di smaltimento e recupero esistenti (lett. b); una valutazione della necessità di nuovi sistemi di raccolta, della chiusura degli impianti esistenti per i rifiuti, di ulteriori infrastrutture per gli impianti per i rifiuti in conformità del principio di autosufficienza e prossimità e se necessario degli investimenti correlati (lett. c). Si tratta, in sostanza, di svolgere un’analisi della domanda e dell’offerta, al fine di stabilire: le politiche generali di gestione dei rifiuti, incluse tecnologie e metodi di gestione pianificata dei rifiuti, o altre politiche per i rifiuti che pongono problemi particolari di gestione (lett. e); il complesso delle attività e dei fabbisogni degli impianti necessari a garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza, economicità e autosufficienza della gestione dei rifiuti urbani non pericolosi all’interno di ciascuno degli ambiti territoriali ottimali, nonché ad assicurare lo smaltimento e il recupero dei rifiuti speciali in luoghi prossimi a quelli di produzione al fine di favorire la riduzione della movimentazione di rifiuti (lett. h).
L’assetto di competenze fin qui descritto, in definitiva, esprime la necessità, sempre secondo la giurisprudenza in commento, che la “regìa” in tema di gestione dei rifiuti resti unitaria, in modo da assumere una visione d’insieme delle criticità, così da individuare soluzioni che possono anche travalicare i confini territoriali. In altri termini, sussisterebbe la necessità di salvaguardare un sistema che preveda un coordinamento statale nella individuazione delle scelte necessarie a chiudere in maniera efficiente il ciclo dei rifiuti. In particolare sotto il profilo della dotazione impiantistica, il bilanciamento tra tutela dell’ambiente, da un lato, e promozione della concorrenza, dall’altro lato, non potrebbe essere rimessa alla singola Regione in assenza di indicazioni da parte dello Stato soprattutto in situazioni di deficit infrastrutturale, rispetto al quale occorrerebbe una valutazione prospettica ed equidistante al fine di valutare necessità e priorità.
Nel quadro così ricostruito, si è giunti a ritenere che ARERA, nel fornire i criteri per individuare gli impianti “minimi” quale fattore essenziale per la chiusura del ciclo integrato dei rifiuti, abbia finito per indirizzare il potere pianificatorio delle Regioni, avocando, di fatto, un potere di direttiva il quale, come si è visto, spetta allo Stato, potere che quest’ultimo non ha inteso delegare all’Autorità, così che quest’ultima ha finito per individuare una soluzione di carattere normativo alle criticità impiantistiche consistente nella sostanziale acquisizione al sistema pubblicistico di impianti operanti in regime di libera concorrenza.
4. Il meccanismo degli impianti “minimi” quale strumento di natura regolatoria al servizio della pianificazione regionale nel quadro delle direttive statali. La ricomposizione della governance “multi-livello”.
Così ricostruito l’iter argomentativo seguito dalla giurisprudenza in commento al fine di escludere un potere, anche implicito, di ARERA in tema di individuazione di impianti “minimi”, occorre svolgere alcune considerazioni sulle conclusioni cui sono approdati i giudici amministrativi.
Sul punto si potrebbe anche dubitare che l’Autorità abbia effettivamente sconfinato nell’ambito coperto da attribuzioni statali e regionali in materia di gestione integrata dei rifiuti, soprattutto tenendo conto che il suo intervento era da considerarsi limitato alle situazioni di conclamato deficit impiantistico, con riferimento alle quali l’intento dell’Autorità è stato quello di arginare, tramite la sottoposizione ad una regolazione tariffaria, un eccessivo potere di mercato in capo ai pochi impianti esistenti, nonché i conseguenti riflessi in tema di incremento dei costi di gestione dei rifiuti urbani e dunque di una maggiore spesa per gli utenti.
Tale, limitato, campo di applicazione del meccanismo degli “impianti minimi” non parrebbe rientrare nel potere di “direttiva” attribuito allo Stato dall’art. 198-bis del Codice dell’ambiente, in quanto consistente nella definizione dei “criteri e linee strategiche” delle pianificazioni regionali. Analogamente, al livello territoriale viene demandato, come già illustrato, il compito, tra gli altri, di svolgere un’analisi della domanda e dell’offerta, al fine di stabilire le politiche generali di gestione dei rifiuti, entro cui si colloca l’individuazione della eventuale necessità di realizzare nuovi impianti, in modo da garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità ma anche autosufficienza e prossimità. Così, in fondo, l’individuazione degli impianti “minimi” costituisce solo un possibile strumento di carattere regolatorio al servizio delle “politiche generali” predette, del quale le singole Regioni, a seguito delle necessarie analisi della situazione di riferimento, possono decidere di avvalersi, o meno, fermi restando i poteri di programmazione e pianificazione in capo a Stato e Regioni sulla realizzazione di nuovi impianti[14].
Per contro, tra le competenze legislativamente conferite all’Autorità rientra, come già sottolineato, oltre alla predisposizione ed aggiornamento del metodo tariffario del servizio integrato dei rifiuti e dei singoli servizi che costituiscono attività di gestione, ivi comprese quelle che si inseriscono in un contesto di mercato, anche la fissazione dei criteri per la definizione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento. Peraltro, le attribuzioni delle Autorità in materia di regolazione economico-tariffaria sono state ulteriormente confermate e ribadite, in linea generale, dal disposto di cui al d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, recante “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica” (art. 6, comma 1, e art. 26, comma 1).
Nel descritto scenario, si sarebbe potuto anche riconoscere ad ARERA quantomeno un potere di natura implicita desumibile in via interpretativa volto ad impedire eccessivi poteri di mercato in capo a pochi operatori in certi e specifici contesti, proprio allo scopo di “di garantire accessibilità, fruibilità e diffusione omogenee sull’intero territorio nazionale nonchè adeguati livelli di qualità in condizioni di efficienza ed economicità della gestione”, così come prescritto in una prospettiva “finalistica” dal già segnalato art. 1, comma 527, della l. 27 dicembre 2017, n. 205.
Del resto, lo stesso Ministero competente, nell’approvare il PNGR attraverso il già citato d.m. 24 giugno 2022 n. 257, ha mostrato di non ravvisare alcuna “invasione” di competenza da parte di ARERA nel momento in cui essa ha disciplinato il meccanismo degli impianti “minimi” nell’ambito del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio 2022-2025 (MTR-2), così come ammesso anche dai giudici amministrativi nella giurisprudenza in commento[15]. Infatti, il citato Programma ministeriale, al par. 5.2., ha dato atto dell’adozione da parte di ARERA, con un intervento evidentemente ritenuto legittimo, di una sua “propria distintiva tassonomia degli impianti di trattamento dei rifiuti urbani”assoggettabili a regolazione tariffaria, cui lo stesso Ministero rinvia, riconoscendo, pertanto, il potere dell’Autorità in tema. In particolare, sempre secondo il Ministero, la definizione del meccanismo in questione si colloca nell’ambito degli obiettivi che hanno guidato da subito l’azione di ARERA: da un lato, la promozione della capacità del sistema locale (regionale o di macroarea) di gestire integralmente i rifiuti, con una forte attenzione al profilo infrastrutturale del settore, per ricomporre i divari territoriali e le carenze impiantistiche rilevate, favorendo così anche il pieno esplicarsi degli stimoli concorrenziali al raggiungimento dell’efficienza allocativa; dall’altro lato, lo sfruttamento ottimale delle potenzialità di valorizzazione economica insite nelle diverse filiere dei rifiuti, incentivando lo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative ed ambientalmente sostenibili, penalizzando oltremodo lo smaltimento in discarica, in coerenza con gli obiettivi di carattere ambientale dettati dal quadro euro-unitario e nazionale.
In tale “riconoscimento” operato dal Ministero si potrebbe scorgere una conferma della possibilità, in realtà, di riconoscere all’Autorità un potere anche solo in via implicita nel campo in considerazione, proprio nell’ottica del perseguimento e della realizzazione degli obiettivi che la legge le ha affidato.
Ancora, sempre nella medesima sede, si è dato atto che il perimetro di azione di ARERA è da ritenersi circoscritto, quantomeno prioritariamente, agli impianti di trattamento finale dei rifiuti urbani volti all’effettiva chiusura del ciclo mediante operazioni di smaltimento o di recupero (impianti di trattamento della frazione organica, inceneritori e discariche), con esclusione degli impianti riconducibili alle filiere del riciclaggio, destinati al recupero di materia, gestiti da Consorzi di filiera, o da altri soggetti, con i quali i Comuni possono sottoscrivere specifiche convenzioni per la copertura degli oneri sostenuti per le raccolte differenziate dei rifiuti, nonché degli impianti riconducibili ad altre filiere di riciclaggio destinati al recupero di materia diversi dagli impianti di trattamento biologico della frazione organica.
Al successivo par. 9, si precisa ulteriormente che le scelte in ordine alla qualificazione degli impianti di chiusura del ciclo come “minimi” devono trovare adeguata giustificazione e sviluppo nei pertinenti atti di programmazione regionale, a seguito dell’analisi dei flussi nonché di una ricognizione degli impianti di trattamento presenti sul proprio territorio: in tale ordine di idee, la classificazione in questione può essere attribuita agli impianti che “risultino operare, offrendo la propria capacità di trattamento, in un mercato caratterizzato da rigidità strutturali, nella misura di un ampio e stabile eccesso di domanda a fronte di un limitato numero di operatori presenti, avendo eventualmente capacità di trattamento già impegnata da flussi garantiti dagli strumenti di programmazione, o da altri atti amministrativi, o, comunque, essendo individuati come tali in sede di programmazione”.
Infine, per quanto qui rileva, viene anche ribadito dal PNGR che l’individuazione degli impianti di chiusura del ciclo “minimi” richiede da parte delle Regioni e Province autonome la contestuale indicazione: a) dei flussi che si prevede vengano trattati per impianto, anche ove ancora non risultassero negli strumenti di programmazione vigenti; b) dell’eventuale distinzione dei medesimi secondo il criterio di prossimità che la Regione o Provincia autonoma ritengano utile specificare; c) dell’elenco dei soggetti che si prevede conferiscano ai medesimi impianti (quali per esempio i gestori della raccolta e del trasporto dei rifiuti urbani o i gestori di impianti di trattamento intermedio).
Tutto ciò considerato, pare confermato l’assunto in precedenza proposto per cui l’individuazione degli impianti “minimi” costituisce un possibile strumento di carattere regolatorio al servizio delle “politiche generali” che comunque sono decise a livello regionale, sulla base delle direttive impartite dallo Stato nell’ottica di garantire livelli uniformi di tutela ambientale.
Ad ogni buon conto, a ricomporre il quadro in qualche misura “spezzato” dalla giurisprudenza commentata è intervenuta nuovamente la stessa ARERA con la deliberazione del 23 gennaio 2024 n. 7, la quale, in dichiarata ottemperanza alle sentenze amministrative esaminate, pur confermando sostanzialmente l’impostazione già assunta, ha dato espressamente conto della necessità che la determinazione delle tariffe di accesso agli impianti di trattamento avvenga tramite la modulazione degli strumenti di regolazione, distinguendo gli impianti di chiusura del ciclo in “integrati”, “minimi” e “aggiuntivi”, di cui al MTR-2, “in coerenza con i criteri indicati nel Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (PNGR) approvato con il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica 24 giugno 2022, n. 257”.
In definitiva, l’Autorità, con la recente delibera indicata, ha preso atto dell’emanazione del PNGR, ancora non esistente all’epoca della delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del MTR-2, il quale comunque, come si è illustrato, si è espresso in senso conforme a quanto già stabilito in precedenza dall’Autorità stessa[16]. Quest’ultima, nell’ottemperare alle statuizioni del giudice amministrativo, ha comunque rivendicato il fatto che attraverso la definizione del meccanismo degli impianti “minimi” essa non ha mai “inteso intervenire sulle competenze pianificatorie di altri soggetti competenti alla concreta individuazione di tale tipologia di impianti, né sulle competenze in materia di assegnazione dei servizi che possono essere svolti attraverso i medesimi impianti”. L’intervento in tale ambito, sempre secondo l’Autorità, non ha certo voluto provocare la creazione di una privativa nei termini che i giudici amministrativi hanno ritenuto di cogliere, bensì, al contrario, è stata animata da una “finalità di tipo pro-concorrenziale” volta a ridurre il potere di mercato detenuto in certi contesti in maniera eccessiva dai gestori degli impianti di trattamento, con i conseguenti effetti negativi in termini di costo del servizio per i cittadini.
In definitiva, una volta ricostruite le dinamiche di governance “multi-livello” del servizio in questione, si può affermare, conclusivamente, come il dibattito sviluppatosi sul tema degli impianti “minimi” testimoni un processo, avviato ma ancora in corso, di armonizzazione ed equilibrio tra valori tradizionalmente ritenuti, perlomeno in qualche misura, antitetici, ossia la tutela dell’ambiente, attraverso i principi di auto-sufficienza e prossimità, da un lato, e la promozione della concorrenza, dall’altro lato, in coerenza con la gerarchia dei valori affermati a proposito delle modalità di affidamento di contratti pubblici.
La sfida, come si diceva tuttora in atto, è quella di individuare un punto di equilibrio tra i suddetti valori, nella consapevolezza che lo stimolo della concorrenza può risultare funzionale anche ad una migliore tutela dell’ambiente, nel contesto di un’economia sostenibile e circolare; ciò a beneficio della società e della qualità dell’ambiente.
Tuttavia il corretto dispiegarsi di una sana e virtuosa logica di mercato necessita ancora di interventi “correttivi”[17], soprattutto sul fronte impiantistico, come quello posto in essere dall’Autorità, e poi di fatto recepito anche in sede ministeriale, anche se probabilmente si sarebbe dovuto verificare il contrario. In tale quadro, appare chiarissima la situazione di squilibrio infrastrutturale che caratterizza il nostro Paese: come rilevato nel PNGR, infatti, la distribuzione geografica degli impianti risulta fortemente disomogenea tra le Regioni italiane in termini di numerosità, capacità autorizzata e scelte tecnologiche, in quanto circa il 65% della complessiva capacità di trattamento autorizzata per gli impianti di recupero della frazione organica biodegradabile è operativa al Nord; per converso, quote considerevoli di rifiuti prodotte nelle aree del Centro e nel Mezzogiorno vengono trattate in impianti localizzati in altre aree, soprattutto nell’Italia Settentrionale, quindi non coerentemente con i principi di auto contenimento territoriale o prossimità dettati dagli indirizzi normativi e delle buone pratiche.
In tale contesto, dunque, un ruolo importante ai fini del reperimento del punto di equilibrio poc’anzi evocato è svolto senz’altro dall’attività di regolazione di ARERA, in coerenza ai poteri che la legge le ha attribuito, da ultimo anche rispetto al servizio di gestione integrata dei rifiuti. In tale ottica, come da sempre rivendicato dall’Autorità stessa, l’intervento in tema di impianti “minimi”, che di fatto ha solo anticipato quello statale nei contenuti, appare necessario al fine di contenere un fenomeno che ancora diffusamente sussiste, ovvero quello per cui i (troppo) pochi operatori esistenti in molti contesti territoriali detengono un potere di mercato eccessivamente ampio, tanto da costituire una sorta di oligopolio che appare il contrario del libero mercato (solo) astrattamente propugnato dai giudici amministrativi, a tutto discapito dei costi riversati sui cittadini.
Dunque, ove la situazione di deficit impiantistico lo richieda (e ciò purtroppo si verifica ancora in parecchi contesti territoriali, costituendo più che l’eccezione la regola), l’intervento di ARERA appare, come da sempre dichiarato dall’Autorità stessa, come volto a correggere una sorta di fallimento del mercato, nell’ottica di garantire condizioni eque di gestione del servizio e, in prospettiva, di sviluppare un’effettiva concorrenza laddove ancora non vi siano le condizioni (ciò anche stimolando nuovi, quanto cospicui, investimenti infrastrutturali), piuttosto che, come invece ritenuto dai giudici amministrativi, a creare dei regimi di privativa ingiustificati. Così, una volta ricostruite correttamente le dinamiche della governance “multilivello” del servizio di gestione integrata dei rifiuti, con il ripristino del potere di indirizzo statale, appare condivisibile la sostanziale conferma, nei termini illustrati, del meccanismo degli impianti “minimi”, quale (possibile) strumento delle politiche generali di gestione dei rifiuti individuate dalle Regioni.
[1] Cons. St., sez. II, 12 dicembre 2023, n. 10734, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In tema si v. anche F. Smerchinich, Servizi rifiuti, impianti minimi, principio di prossimità e concorrenza: alcuni chiarimenti tra giurisprudenza e programma nazionale di gestione dei rifiuti (PNGR), in Appalti & Contratti, 2023, 39 ss.
[3] Sul punto cfr., oltre alla sentenza oggetto precipuo del presente commento, anche Cons. St., sez. IV, 31 luglio 2023, n. 7412, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Sul punto cfr. Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2023, n. 5257 nonché Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 30 marzo 2022, n. 410, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. Sul tema si v., in generale, A. Benedetti, Organizzazione e regolazione dei servizi locali di interesse economico: il caso del ciclo dei rifiuti urbani, in www.federalismi.it, 24 febbraio 2021.
[5] In tema cfr. anche R. Raponi, L’autorizzazione alla realizzazione di nuovi impianti nel settore della gestione dei rifiuti assoggettati al libero mercato. Quali limiti incontra la discrezionalità amministrativa e il principio di precauzione?, in www.giustamm.it, 20 ottobre 2023.
[6] In tal senso già Cons. St., sez. IV, 24 dicembre 2020, n. 8315, in www.giustizia-amministrativa.it., ha sottolineato che sebbene i principi di “libera circolazione” nel territorio nazionale e di “prossimità” agli impianti di recupero (o di autosufficienza) siano entrambi presenti nella legislazione nazionale, il primo costituisce il criterio cardine, mentre il secondo è individuato come l'opzione preferibile tra più scelte.
[7] In tema è intervenuta anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), con segnalazione del 22 dicembre 2022, pubblicata sul Bollettino dell’Autorità n. 2 del 9 gennaio 2023, ove è stato rimarcato che l’individuazione di impianti “minimi” per la chiusura del ciclo appare uno strumento condivisibile in una prospettiva concorrenziale quando la sua finalità sia quella di garantire, in situazioni di carenza di capacità di trattamento o di smaltimento dei rifiuti, il completo asservimento ai flussi regionali degli impianti esistenti in base a tariffe definite dal regolatore per evitare l’applicazione di prezzi eccessivi da parte dei pochi impianti esistenti (dotati di potere di mercato), ed anche nella prospettiva di stimolare nuovi investimenti (per coprire il gap impiantistico) e per il tempo necessario allo sviluppo di tale nuova capacità. Tuttavia, prosegue l’Autorità, in assenza di uno specifico deficit impiantistico o di rigidità strutturali a livello regionale tali da giustificare la predeterminazione dei flussi e degli impianti di destinazione, non è giustificabile l’individuazione di impianti “minimi”, in quanto essa finisce per impedire la concorrenza tra gli impianti regionali e gli altri impianti limitrofi, collocati in regioni diverse, la quale, invece, è di per sé idonea a consentire di raggiungere un livello adeguato di qualità e prezzi competitivi. In tale prospettiva, sempre secondo l’Autorità, anche l’osservanza del principio di “prossimità” non può riferirsi rigidamente ai confini amministrativi regionali, ma deve eventualmente essere declinato in termini di effettiva distanza dal luogo di raccolta del rifiuto nonché deve tenere conto della tipologia e delle caratteristiche dei potenziali impianti di destinazione nonchè dei mezzi di trasporto impiegati. In dottrina, F. Leonardis, Codice dell’ambiente e regolazione dei rifiuti nella nuova stagione dell’economia circolare, in Riv. quad. dir. amb., 2022, 82-83, ha evidenziato la tendenza ad affidare insieme alle attività di raccolta, trasporto e avvio a smaltimento delle diverse frazioni della raccolta urbana, anche le attività di recupero e riciclo di essa che, invece, dovrebbero tipicamente essere svolte in regime di mercato, così che tale impropria attribuzione di titolarità esclusiva in capo al gestore delle suddette frazioni viene a configurare una sorta di monopolizzazione dei mercati concorrenziali “a valle”. In tale ottica, si rileva anche la necessità di valutare le determinazioni di ARERA nel momento in cui consentono alle Regioni di “ripubblicizzare”, attraverso lo schema degli impianti “minimi”, la gestione degli impianti di riciclo organico senza tener conto del principio di concorrenza. Viene poi rilevata la necessità di indagare come possa conciliarsi l’apertura alla concorrenza dei cd. mercati “a valle” con il principio di prossimità nella gestione dei rifiuti. Sempre in tema si v. anche G. Marchianò, L’economia circolare con particolare attenzione ai rifiuti urbani, ex d.l. n. 121 del 3 settembre 2020, in www.ambientediritto.it, 2022.
[8] Così, Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2023, n. 5257, cit.
[9] Così T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 24 aprile 2023, n. 1012, in www.giustizia-amministrativa.it. Nello stesso senso cfr. anche T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 2 gennaio 2024, n. 9; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 29 marzo 2024, n. 259, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Sul punto, la sentenza oggetto precipuo del presente commento ha rilevato come, in particolare dopo l’introduzione del concetto di economia “circolare”, l’approccio al servizio dei rifiuti, nella sua dimensione integrata, necessita di una “completa rivisitazione”, al fine di valorizzare/valutare quelle attività che escono dal regime di privativa per inserirsi in un ambito di mercato. In tema, oltre alla giurisprudenza già citata in precedenza, cfr. T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, sez. II, 16 gennaio 2023, n. 17, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 16 ottobre 2023, nn. 2331, 2332, 2334, ivi, in cui, pur confermando l’insussistenza di una privativa comunale, tuttavia non si esclude a priori la possibilità da parte di un ente locale di acquisire il servizio di recupero della FORSU alla mano pubblica ai sensi dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 201 del 2022, purchè siffatta scelta avvenga, come previsto dalla legge, all’esito di apposita istruttoria, svolta sulla base di un effettivo confronto tra le diverse soluzioni possibili, da cui risulti che la prestazione dei servizi da parte delle imprese liberamente operanti nel mercato sia inidonea a garantire il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali.
[11] Siffatta impostazione si rinviene, oltre nella sentenza oggetto principale del presente commento, anche in Cons. St., sez. II, 6 dicembre 2023, n. 10548 e n. 10550, nonché in Id., 14 dicembre 2023, n. 10775, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Così, di recente, T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 24 febbraio 2023, n. 486, in Foro amm., 2023, II, 211. In tema, si v. anche Cons. St., sez. VI, 14 dicembre 2020, n. 7972, in Giur. comm., 2022, II, 152, in cui si è rilevato che nell'esercizio dei poteri desunti in via interpretativa occorre rafforzare la legalità procedimentale, la quale assume una valenza forte per “compensare” le mancanze della legalità sostanziale. Ancora prima cfr. Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2015, n. 1532, in Foro amm., 2015, n. 760. In tema si v. in dottrina, tra gli altri, A. Marra, I poteri impliciti, in Dir. amm., 2023, 697 ss.; F.F. Guzzi, I poteri amministrativi impliciti: un tema alla ricerca di soluzioni, in www.ambientediritto.it, 2023; S. Spuntarelli, Poteri impliciti (ad vocem), in Enc. dir., I Tematici, V, 2023, 934 ss.; M. Ramajoli, Attività regolatoria e norme attributive dei poteri: alcune considerazioni, in Riv. reg. merc., 2022, 26 ss.; G. Manfredi, Legalità procedurale, in Dir. amm., 2021, 749 ss.; C. Acocella, Poteri indipendenti e dimensioni della legalità. Le prospettive di sostenibilità dell'implicito nell’esperienza delle autorità amministrative indipendenti, in Id. (a cura di), Autorità indipendenti. Funzioni e rapporti, Napoli, 2022, 11 ss.; F.L Maggio, Questioni interpretative sui poteri normativi delle Autorità amministrative indipendenti, in www.federalismi.it, 2001; P. Pantalone, Autorità indipendenti e matrici della legalità, Napoli, 2018; G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in Dir. amm., 2007, 703 ss.; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001.
[13] Così, tre le tante, si v. Corte cost., 7 ottobre 2021, n. 189, in Foro amm., 2022, II, 358; Corte cost., 23 luglio 2015, n. 180, in Giur. cost., 2015, 1355; Corte Cost., 14 luglio 2015, n. 149, ivi, 1282; Corte Cost., 10 aprile 2015, n. 58, ivi, 519. Sul punto cfr. anche Cons. St., sez. IV, 17 maggio 2022, n. 3870, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2017, n. 3146, in Riv. giur. ed., 2017, I, 940; Cons. St., sez. IV, 16 dicembre 2016, n. 5340, in Foro amm., 2016, 2932.
[14] Sul punto cfr. anche P. La Selva, Alcune riflessioni su ambiente e concorrenza nella regolazione del mercato dei rifiuti, in Dir. ec., 2023, 89 ss, il quale sottolinea come in tema di classificazione degli impianti “minimi” non risulti una riserva di regolamentazione statale evincibile dal quadro normativo.
[15] In particolare, al punto 53 della sentenza del Consiglio di Stato n. 10550 del 2023, cit., si ammette proprio che “il Ministero mostra in verità di condividere le opzioni dell’Autorità, evidentemente non ravvisando nella relativa estrinsecazione alcuna invasione delle proprie competenze”.
[16] Per la verità, ARERA, già nel documento di consultazione n. 196 del 2021, recante “Primi orientamenti per la definizione del Metodo Tariffario Rifiuti per il secondo periodo regolatorio”, aveva espresso l’opportunità di un intervento governativo con il quale individuare (e aggiornare con frequenza periodica, ad esempio biennale) gli impianti di chiusura del ciclo “minimi” da assoggettare a regolazione al fine di promuoverne l’efficienza in un quadro di progressivo dinamismo concorrenziale. Senonchè, come si è ampiamento rappresentato, tale intervento governativo è pervenuto solo con il d.m. 24 giugno 2022, n. 257, il quale ha comunque sostanzialmente confermato l’impostazione adottata in precedenza dall’Autorità con la delibera del 3 agosto 2021 n. 363 di approvazione del MTR-2.
[17] Sul tema degli interventi correttivi di situazioni di “fallimento del mercato” cfr., tra gli altri, P. Lazzara, La regolazione amministrativa: contenuto e regime, in Dir. amm., 2018, 355.
Porgo i saluti della magistratura requirente del distretto di Palermo a tutti i partecipanti a questo importante momento di confronto e dialogo.
Cosa significa interpretare una legge? Cosa significa essere imparziali “per e nel” giudizio? Significa, in primo luogo, individuare il percorso logico giuridico idoneo a dare risposte alle istanze di giustizia dei cittadini. È ovvio che un magistrato deve essere tecnicamente attrezzato, preparato nelle materie giuridiche e negli altri settori del sapere che fanno da corollario al diritto. Ma ciò non basta. Il magistrato colto, capace di muoversi con agilità nel sistema delle fonti nazionali ed internazionali non può prescindere da una raffinata capacità di leggere la norma inserendola nel quadro costituzionale, calandola nel caso concreto perché così rende le norme “viventi”. E nessuna intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, potrà mai realizzare un’attività intellettuale così complessa e delicata. Ne consegue che quella verso la legge è la sola soggezione che il magistrato deve avvertire come obbligo ed è condizione essenziale per un’interpretazione corretta e per una autentica imparzialità.
Ma che cosa significa essere “autenticamente” imparziale? Possiamo sostanziare il concetto con un elementare esempio. Il magistrato autenticamente imparziale è in grado di garantire “i diritti degli ultimi e dei primi” e cioè di tutti, nello stesso modo. Significa salvaguardare i diritti di coloro che per condizioni di povertà e disagio non hanno voce. Significa tenere insieme diritti, valori, principi.
Imparzialità significa, per il magistrato, riuscire ad essere nel mondo con le sue idee, con il suo vissuto, con il suo pensiero, ma senza farsi condizionare nello svolgimento dell’attività da quel bagaglio esistenziale che, inevitabilmente, si porta dentro. È vero, abbiamo bisogno di prevedibilità nelle decisioni ed in questa direzione è preziosa l’attività nomofilattica della Suprema Corte che aiuta e sostiene. Ma dobbiamo essere consapevoli che allorché l’imparzialità si fa carne, ogni vicenda umana può atteggiarsi diversamente ed una norma, calata nel vissuto di un imputato o di una vicenda civilistica può, e a volte deve, determinare decisioni differenti, alle quali dobbiamo pervenire attraverso il gesto ermeneutico scrupolosissimo, sostanziato sempre da motivazioni accurate, realizzate con scrupolosa osservanza delle leggi e dei valori costituzionali e dalle quali deve trasudare il nostro equilibrio.
L’imparzialità è, altresì, un concetto poliedrico perché il magistrato non solo deve essere imparziale, ma deve anche “apparire” imparziale. Il cittadino deve essere certo che il suo giudice interpreterà la norma senza essere condizionato da qualsivoglia convinzione extra giuridica. Tutto questo è, ancora una volta, ovvio. Ma, attenzione, la necessaria apparenza di imparzialità e l’indispensabile conseguente self restraint, non devono dilatarsi fino a sopprimere le libertà fondamentali del magistrato che non possono essere frantumate. Se occorre una forma di scrupolosissima sensibilità da parte del magistrato che gli impone di astenersi da condotte che possono, anche solo in potenza, offuscarne l’imparzialità, altrettanto equilibrio occorre nell’interpretare le condotte del magistrato, per evitare che qualsiasi situazione, espressione del mero atteggiarsi dell’esistenza, possa essere vista con sospetto e, conseguentemente, comprometta la serenità del magistrato. Equilibrio, dunque, e bilanciamento senza sbavature per salvaguardare l’essenza stessa dello ius dicere realizzato dall’uomo e che mai nessuna intelligenza artificiale potrà sostituire.
Qualcuno ha detto che un magistrato ha il delicatissimo compito di prendere fra le mani un fatto umano sporco di terra e dargli dignità giuridica. Si tratta di un lavoro complicato che richiede impegno e sobrietà. Il magistrato è solo nella fase della decisione, ma nel percorso che lo conduce al provvedimento interagisce con interlocutori indispensabili. Mi riferisco agli avvocati, insostituibili per garantire la genesi vivifica dell’attività interpretativa, imparziale e coerente, che ogni giorno siamo chiamati a realizzare. Il dialogo con l’avvocatura ed il confronto nel processo costituiscono un momento centrale del lavoro del magistrato perché aiutano a coltivare il dubbio. Il dubbio è uno dei pilastri fondamentali per un’interpretazione corretta ed imparziale nel senso più ampio e nobile del termine. Un magistrato senza dubbi non è un buon magistrato. Ed è l’avvocato che consente, con il suo apporto coraggioso e coerente, di mantenere intatta l’arte del dubbio. Invero, il cittadino deve essere sicuro che attraverso la difesa tecnica (e, quindi, attraverso l’esercizio del dubbio e del suo superamento), qualsiasi situazione sarà trattata e condurrà ad una decisione resa a seguito di un’analisi prospettica accurata che nulla ha tralasciato.
Ma, ancora una volta, attenzione, perché quella serenità che deve essere garantita al cittadino deve essere riconosciuta, negli stessi termini, al magistrato. Anche il magistrato deve poter essere “sereno”. I numeri, le statistiche, la performance, gli obiettivi da realizzare non possono divenire un totem al cui altare sacrificare quella sfera di tempo ragionevole che occorre per giungere a decisioni ponderate.
Il continuo ed alluvionale flusso riformatore, inoltre, non consente quella stratificazione giurisprudenziale che è essenziale per la certezza del diritto e rende il nostro quotidiano vivere nelle aule di giustizia una sorta di fatica di Sisifo, sostanziando una continua rincorsa all’aggiornamento professionale, attività spesso vana perché dopo poco tempo, quella norma muta o, peggio, è inapplicabile perché in contrasto con altre fonti, anche internazionali o con la Carta Costituzionale. In tal modo si altera irrimediabilmente il nostro rapporto con il cittadino che non comprende quale complesso meccanismo sottende alle nostre quotidiane fatiche.
Concludo con l’auspicio che si saprà “tenere insieme” e non separare le carriere, che vanno mantenute unite affinché il P.M. tragga sempre beneficio dalla linfa vitale della giurisdizione. Si potrebbero, invece, impiegare le risorse occorrenti per dar vita a due CSM per potenziare le strutture funzionali a rendere finalmente moderno il sistema giustizia e ciò a beneficio della collettività. Siamo consapevoli, più che mai in questo momento storico ove la terra è pianeta che sanguina, che ognuno deve fare la sua parte con pazienza e senso di responsabilità. Voglio richiamare quello che nel 1984 Rosario Livatino ebbe a dire del ruolo del magistrato nella società. Le sue parole erano intrise di speranza e appaiono di straordinaria attualità perché ci restituiscono, in contro luce, quale deve essere il minimo comune denominatore dell’attività del magistrato che vuole fare la sua parte nell’ottica positiva del cambiamento e del rasserenamento dei rapporti con gli altri poteri della Stato: “Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata ( del magistrato) e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive. Qui è importante che egli offra di sé stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà riceverle ed assumerle come se fossero sue (ragioni) e difenderle davanti a chiunque. Solo se (il giudice) offre questo tipo di disponibilità personale, il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole”.
Sono certa che la magistratura, autonoma ed indipendente da ogni altro potere, con orgoglio e con la schiena dritta che ha saputo mantenere nei momenti più complessi della sua storia, saprà proseguirà in questa univoca direzione ideale. A dispetto del resto.
Sommario: 1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione – 2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario – 2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. - 2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta - 3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme – 3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p. – 4. Conclusioni.
1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione
Con la sentenza n. 2319 del 2024 la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) a una persona che, vittima di tratta di esseri umani, commetta dei reati in materia di stupefacenti, quando la stessa versi in una condizione di vulnerabilità e di asservimento che le impedisca di sottrarsi alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione delle autorità competenti.
Il caso oggetto della pronuncia riguarda una donna che, costretta a fuggire dalla Nigeria appena diciottenne e sottoposta a gravi violenze, compresi numerosi stupri, nel viaggio fino alla Libia, aveva tentato di estinguere l’ingente debito accumulato con i trafficanti prima con l’attività di prostituzione e, poi, divenendo “corriere della droga”.
Condannata per trasporto illecito di sostanze stupefacenti, ricorre per cassazione, lamentando la mancata applicazione, da parte dei giudici d’appello, della causa di giustificazione prevista dall’art. 54 c.p. La sentenza di secondo grado, pur senza mettere in discussione la sua condizione di vittima di tratta, aveva escluso che l’imputata si trovasse nell’assoluta impossibilità di recidere i contatti con il contesto criminale da cui era derivata la commissione del reato: si valorizzavano, a tal fine, non solo le specifiche modalità della condotta (tempi ravvicinati di due trasporti di droga, disponibilità di due telefoni cellulari al momento dell’arresto, spese di difesa in giudizio sostenute dal capo dell’associazione), ma anche, più in generale, l’assenza di elementi da cui potesse ricavarsi l’assoluta, prolungata e persistente impossibilità della donna di sottrarsi al “controllo” dei connazionali e di rivolgersi alle istituzioni pubbliche.
2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario
Le motivazioni dei giudici di appello sono state considerate dalla suprema Corte lacunose e generiche, specie perché del tutto avulse dallo specifico contesto nel quale la vittima si è trovata ad operare.
La sentenza n. 2319 del 2024 conclude per la possibile applicazione dello stato di necessità nei confronti di persone vittime di tratta ricorrendo a un complesso apparato argomentativo, che, a sua volta, si regge sull’obbligo di interpretare l’art. 54 c.p. in maniera conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie. Da queste ultime, infatti, si ricaverebbe che la tratta di persone costituisce una violazione dei diritti umani, da cui deriverebbe, come necessaria conseguenza, un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta per reati commessi in connessione o come conseguenza della condizione in cui sono costrette.
Tra le fonti di diritto internazionale assume una rilevanza centrale la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani del 16 maggio 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), ratificata dall’Italia con la legge n. 108 del 2010. La Convenzione di Varsavia, muovendosi nell’orizzonte tracciato dalla tutela dei diritti fondamentali, non solo valorizza l’identificazione delle vittime di tratta (art. 10), ma stabilisce che ciascuno Stato si impegni a prevedere «la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette» (art. 26).
Sul versante CEDU, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le condotte di tratta, sebbene non esplicitamente menzionate dalla Convenzione, si risolvano in una violazione dell’art. 4 della Convenzione (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato)[1].
La Corte EDU, poi, ad avviso dei giudici di legittimità, avrebbe esplicitamente riconosciuto un principio di non incriminazione della vittima di tratta, per reati commessi in conseguenza del suo stato di sfruttamento: il riferimento è alla sentenza V.C.L. e A.N. c. Regno Unito[2], relativa al caso di due cittadini vietnamiti, condannati per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti nonostante la sussistenza di numerosi elementi da cui ricavare il fondato sospetto che gli stessi fossero vittime di tratta. I giudici di Strasburgo, in realtà, precisano più volte che dal diritto internazionale non possa ricavarsi alcun generale divieto di procedere penalmente nei confronti di una vittima di tratta[3], pur sottolineando come un procedimento penale nei confronti di vittime, anche solo potenziali, di tratta potrebbe porsi in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure a tutela delle stesse. Il dovere di adottare misure operative (operational measures) ex art. 4 CEDU Convenzione ha due obiettivi principali: proteggere la vittima di tratta da ulteriori danni e facilitare il suo recupero. È evidente (it is axiomatic) che il perseguimento delle vittime di tratta sarebbe dannoso per il loro recupero fisico, psicologico e sociale, determinando una condizione di vulnerabilità che potrebbe portarle, nuovamente, a divenire vittime di tratta: «non solo dovrebbero affrontare il calvario di un processo penale, ma una condanna penale potrebbe creare un ostacolo alla loro successiva integrazione nella società. Inoltre, la detenzione può ostacolare il loro accesso al sostegno e ai servizi previsti dalla Convenzione anti-tratta»[4]. Diviene fondamentale, quindi, identificare un soggetto come vittima di tratta, in modo da verificare se e come questa condizione sia in grado di incidere sul giudizio relativo alla sua responsabilità penale[5].
Anche dal diritto eurounitario, precisa la Corte di cassazione, si ricavano indicazioni utili per ricostruire la “posizione giuridica” delle vittime di tratta, che, in particolare, attribuiscono rilievo alla condizione di vulnerabilità in cui le stesse verserebbero in ragione del reato commesso nei loro confronti.
Si ricordano, in proposito, la Direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta di essere umani e la protezione delle vittime[6], attuata in Italia con il d.lgs. n. 24 del 2014 che, oltre a modificare l’art. 601 c.p. recependo le indicazioni del diritto europeo, ha introdotto una serie di misure finalizzate all’emersione del fenomeno criminale attraverso un sostegno alle vittime di tratta, anche quando le stesse non si rivolgano all’Autorità giudiziaria: è un dato acquisito, precisano i giudici di legittimità, che la volontà delle vittime di non denunciare derivi da paura o da sfiducia nelle istituzioni.
Indicazioni utili sono ricavabili anche dalla Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, recepita dall’ordinamento italiano con il d.lgs. n. 212 del 2015. Il considerando 17 della Direttiva 2012/29/UE inquadra la tratta di esseri umani nel più ampio contesto della violenza di genere, includendo poi le vittime di tratta tra quelle maggiormente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria (art. 22).
Le indicazioni offerte dal diritto internazionale e da quello eurounitario convergerebbero verso la conclusione del divieto di incriminazione o, meglio, di un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta: «la più rilevante conseguenza giuridica del costituire la tratta una violazione dei diritti umani delle vittime […] è il principio della loro non incriminazione per i reati commessi in connessione o come conseguenza della situazione in sono costrette», come necessaria conseguenza del più generale principio di non contraddizione dell’ordinamento.
Il potere ricattatorio cui le vittime di tratta sono costrette escluderebbe qualsiasi forma di autonomia decisionale: la condizione di vulnerabilità delle vittime, quindi, si trova in connessione diretta con il sostanziale annullamento della loro libertà di scelta.
I reati oggetto della valutazione di eventuale punibilità sono non solo quelli direttamente collegati alla condizione di irregolarità della vittima di tratta o, ancora, quelli con cui ci si appropria dei proventi criminosi (furto, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti), ma anche i cosiddetti reati di liberazione, commessi, cioè, per sottrarsi dallo sfruttamento, anche di soggetti terzi. A quest’ultima categoria, precisa la Corte di cassazione, andrebbero ricondotti anche i reati che, pur in assenza di una diretta coercizione, sono causalmente collegati alla condizione di sfruttamento nella quale versa la vittima di tratta, nota all’istigatore e da quest’ultimo sfruttata.
2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p.
A questo punto resterebbe da verificare, ad avviso della suprema Corte, in che modo il principio di non punibilità delle vittime di tratta trovi ingresso nell’ordinamento interno.
In assenza di norme specifiche, il principio in questione potrebbe pur sempre “filtrare” attraverso la norma generale dell’art. 54 c.p., (ri)letto in maniera conforme al diritto internazionale ed europeo.
L’art. 54 c.p. si fonderebbe su una generale ratio di bilanciamento di interessi tra loro confliggenti, uno dei quali è necessariamente destinato a soccombere[7]. Il giudizio di bilanciamento deve fondarsi sul complesso delle fonti, anche non nazionali, che delineano la fisionomia degli interessi in conflitto. Il giudice comune è infatti tenuto a un obbligo di interpretazione conforme, che, pur trovando la sua origine storica nel primato del diritto eurounitario su quello nazionale e nel principio di leale collaborazione degli Stati europei, è divenuto un principio di portata più generale, estendendosi, anzitutto, al sistema CEDU e alla Convenzioni del Consiglio d’Europa. L’interpretazione conforme, precisa la Corte di cassazione confermando premesse ormai sufficientemente consolidate, è in grado di produrre i suoi effetti anche sul diritto penale, sia pur con i limiti individuati dal divieto di interpretazioni contra legem e dal divieto di effetti in malam partem[8].
Una lettura dell’art. 54 c.p. ispirata dall’interpretazione conforme, allora, dovrebbe tener conto della lettera e della ratiodegli obblighi internazionali ed europei, consistenti nella tutela dei diritti fondamentali delle persone vittime di tratta e nel divieto di vittimizzazione secondaria derivante da un processo penale non dovuto.
2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta
L’autorità giudiziaria, chiariscono i giudici di legittimità, sarebbe tenuta a un doppio accertamento.
Il primo accertamento riguarda l’effettiva sussistenza della condizione di vittima di tratta. L’individuazione delle vittime di tratta deve fondarsi su una serie di indici sintomatici, contenuti, tra l’altro, in linee guida nazionali e internazionali, che costituiscono un utile strumento a disposizione (anche) dell’autorità giudiziaria[9]: si pensi, a titolo esemplificativo, alla provenienza da un Paese esposto al rischio di tratta, a viaggi lungo rotte utilizzate da organizzazioni criminali, all’esposizione a fenomeni di violenza o sfruttamento nei Paesi di transito, alla presenza di debiti contratti prima e durante il viaggio.
Se questo primo accertamento si conclude con un esito positivo, il giudice dovrebbe valutare una possibile applicazione dell’art. 54 c.p., secondo un accertamento capace di valorizzare la condizione di vulnerabilità del preteso responsabile.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto che l’imputata fosse vittima di tratta, aveva escluso l’applicazione dello stato di necessità senza considerare lo specifico contesto in cui la stessa si era trovata ad agire e senza fornire, dunque, analitica motivazione sulle ragioni per cui non potesse operare l’art. 54 c.p., interpretato in maniera conforme alle indicazioni ricavabili dalle fonti non nazionali.
Da queste premesse, deriverebbe la conclusione per cui «la scriminante dello stato di necessità è invocabile da una persona vulnerabile che risulti essere vittima di tratta e in condizioni di asservimento nei confronti di soggetti a capo di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, nel cui ambito sia stata costretta a compiere operazioni di trasporto di sostanze stupefacenti, senza alcuna possibilità di sottrarsi concretamente alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione dell’Autorità».
3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme
La pronuncia della Corte di cassazione, certamente condivisibile negli esiti, lascia emergere con apprezzabile chiarezza l’estrema complessità della condizione di chi, vittima di tratta, commetta a sua volta dei reati. L’impressione, tuttavia, è che restino non esplicitati alcuni aspetti tecnico-giuridici, relativi, in particolare, agli elementi costitutivi dello stato di necessità.
Pare opportuno precisare che l’applicazione dell’art. 54 c.p. in condizioni analoghe a quelle oggetto della pronuncia in commento era già “sperimentata” dalla giurisprudenza di legittimità. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza n. 40270 del 2015, con cui la suprema Corte ha ritenuto applicabile lo stato di necessità al caso di una donna, già riconosciuta da una sentenza irrevocabile come vittima del reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale (art. 600 c.p.), condannata in primo e secondo grado per aver commesso atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), consistiti nell’aver consumato un rapporto sessuale, durante la propria attività di prostituzione, nella pubblica via, alla vista dei passanti. In questa occasione, secondo i giudici di cassazione, la condizione di asservimento che aveva costretto la donna alla prostituzione di strada si traduceva in una sostanziale reificazione della persona, privata della propria libertà di autodeterminazione[10]. Gli interventi sulle vittime di reati come la tratta e lo sfruttamento di essere umani sono proprio caratterizzati da un superamento della condizione di vulnerabilità attraverso un recupero della loro capacità di autodeterminazione, da conseguire mediante un allontanamento dagli sfruttatori e, eventualmente, una denuncia degli stessi[11]. Affermare, come avevano fatti i giudici di merito, che per la vittima sarebbe stato agevole sottrarsi al pericolo rivolgendosi alle forze dell’ordine «significa banalizzare un fenomeno criminale gravissimo, che lede in maniera significativa e permanente i diritti umani e, soprattutto, equivale a violare i principi in materia di protezione delle vittime per tali reati e in materia di posizione delle vittime nel processo penale contenuti nelle fonti giuridiche internazionali (vanno richiamati sia il Protocollo Nazioni Unite c.d. Trafficking, già citato, che la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, ratificata con la L. 2 luglio 2010, n. 108) e negli strumenti europei comunque vincolanti per il nostro sistema giuridico (si vedano la direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani e la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI)»[12].
La sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione riprende ed enfatizza il riferimento alle fonti internazionali ed europee, le quali inciderebbero, per il tramite dell’interpretazione conforme, sulla lettura dell’art. 54 c.p.
Non risulta del tutto chiaro, però, se dall’obbligo di interpretazione conforme derivi una vera e propria estensione analogica dell’art. 54 c.p., consentendo l’applicazione della scriminante a casi che, altrimenti, sarebbero esclusi dal suo ambito di operatività; e, se così fosse, quale sarebbe l’elemento costitutivo dello stato di necessità ampliato per “recepire” le indicazioni derivanti dalle fonti non nazionali.
L’impressione, in effetti, è quella per cui dall’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. derivino non tanto delle conseguenze sostanziali (ampliamento dei requisiti costitutivi della scriminante), quanto, piuttosto, degli effetti processuali: in presenza di una accertata condizione di vittima di tratta e, quindi, di vulnerabilità della persona, cui si aggiunga la presenza di un nesso causale tra questa condizione e il reato commesso, dovrebbe ritenersi sussistente una presunzione relativa sulla sussistenza dei requisiti costitutivi dell’art. 54 c.p., che, ovviamente, può essere superata in giudizio da una prova contraria.
La condizione di vittima di tratta, anche sulla base delle indicazioni offerte dalle fonti non nazionali di riferimento, comporterebbe una posizione più favorevole, sul versante processuale, per la persona che commetta reati causalmente collegati a quella condizione, determinando quella che, sia pur con tutte le peculiarità del processo penale, potrebbe sbrigativamente definirsi come una “inversione dell’onere della prova”[13].
La condizione di vulnerabilità delle vittime di tratta, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, faciliterebbe l’accertamento relativo a tutti gli elementi costitutivi dello stato di necessità, che, quindi, non sarebbe necessario estendere per via analogica.
3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p.
Gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p., il cui accertamento potrebbe essere influenzato dalla posizione di vulnerabilità della vittima di tratta, sono i seguenti: a) la costrizione; b) la necessità di evitare un danno grave alla persona; b) la non evitabilità altrimenti del pericolo; c) l’attualità del pericolo.
a) Il rapporto tra la condizione di vulnerabilità, la costrizione e la non evitabilità altrimenti del pericolo. L’elemento della costrizione sembra quello sul quale si focalizzano alcuni dei passaggi più significativi della sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione.
Si precisa, infatti, che il giudizio relativo alla sussistenza dello stato di necessità deve essere valutata sia in riferimento al primo comma dell’art. 54 c.p. sia in riferimento alla coazione morale disciplinata dal successivo terzo comma, richiamando l’orientamento per cui, nel caso di pericolo derivante dall’altrui minaccia, lo stato di necessità sussisterebbe anche in presenza di una coazione solo relativa, da cui deriva una limitazione, ma non un completo annullamento, della libertà di scelta del soggetto[14].
Nell’accertamento della coazione, evidentemente, dovrà attribuirsi rilievo alla condizione di vulnerabilità della vittima. Non è un caso che l’art. 2 della direttiva 2011/36/UE definisca la posizione di vulnerabilità come la situazione in cui lapersona non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. Così come non è un caso che la condizione di vittima di tratta venga usualmente indicata, anche dall’art. 90-quater c.p.p., come uno degli “indici sintomatici” da cui ricavare la vulnerabilità della persona[15]. Potrebbe obiettarsi che il concetto di “vittima vulnerabile” si trovi usualmente riferito alla persona offesa, mentre in questa ipotesi si pretenderebbe di qualificare con l’attributo della vulnerabilità chi ha commesso un certo reato, sia pur essendo stato vittima, in passato, di un reato diverso. Come però chiarito dalla Corte EDU, l’esigenza è quella di tutelare persone che abbiano subito gravi violazioni di diritti fondamentali, posto che da un processo penale potrebbe derivare un’ulteriore violazione di quei diritti.
La vulnerabilità, ad ogni modo, non comporta, di per sé sola, uno stato di costrizione rilevante ex art. 54 c.p.: è necessario che tra la vulnerabilità e la costrizione sussista un rapporto di derivazione causale, nel senso che, come si precisa più volte nella sentenza in commento, il reato deve essere la conseguenza della condizione di vulnerabilità che caratterizza la persona, in quanto vittima di tratta.
Se questo nesso sussiste, la condizione della vulnerabilità integra non solo il requisito della costrizione (il solo al quale si fa esplicito riferimento nell’art. 26 della Convenzione di Varsavia), ma anche quello della non evitabilità altrimenti del pericolo. Quest’ultimo rappresenta, come noto, uno degli elementi da cui si ricava una formulazione estremamente restrittiva dell’art. 54 c.p., rispetto, anzitutto, a quella del “contiguo” art. 52 c.p. in materia di legittima difesa[16]. Come precisato dalla Corte di cassazione, la materiale possibilità di sottrarsi al “controllo” dei propri sfruttatori deve essere contestualizzata, prendendo in considerazione quello stato di soggettivo asservimento che spesso caratterizza la persona vittima di tratta e che, di fatto, non rende praticabile altra via se non quella di subire la condotta abusiva nei suoi confronti.
Muovendo dagli effetti processuali di un’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p., potrebbe quindi ritenersi che, se la vittima di tratta commette un reato “connesso” alla sua condizione, dovrà di regola ritenersi sussistente tanto l’elemento della costrizione quanto quello della non evitabilità altrimenti del pericolo, salva prova contraria eventualmente acquisita nel corso del processo.
b) La necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. La scriminante dello stato di necessità, come noto, può operare solo in presenza del pericolo di un danno grave alla persona.
Anche il pericolo di un danno grave alla persona, consistente, per esempio, in un pericolo per la vita, l’integrità fisica o la libertà personale, potrebbe ritenersi strutturalmente insito nella condizione di asservimento in cui versano le vittime di tratta.
Ben potrebbe concludersi, allora, che anche per questo requisito operi una presunzione relativa, superabile da prova contraria nell’ambito del processo.
Analoghe considerazioni valgono per il pericolo attuale, che, così come per la scriminante della legittima difesa, potrebbe consistere non solo in un pericolo “presente” in senso stretto, ma anche in un pericolo “incombente” o “perdurante”: quest’ultimo, in particolare, si verificherebbe nel caso in cui l’aggressione al proprio diritto è in corso e possono quindi esserne evitati sviluppi ulteriori o quando l’offesa non si è ancora consolidata, non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno[17].
La questione relativa all’attualità del pericolo, tornata al centro del dibattito scientifico, per la scriminante della legittima difesa, in riferimento alla violenza di genere e alla reazione delle donne nei confronti della violenza maschile[18], ben potrebbe estendersi, più in generale, ai casi in cui chi commette il reato si trovi in una condizione di oppressione tale da determinare (almeno) una significativa compromissione della propria libertà morale e personale. La condizione di vulnerabilità di una vittima di tratta, che commetta un reato derivante dalla sua condizione, potrebbe, ancora una volta, dar luogo a una presunzione relativa della sussistenza di un pericolo attuale, a meno che, nel corso del processo, non emerga che il pericolo in questione non rispondesse neppure al modello del pericolo incombente o perdurante.
4. Conclusioni
La sentenza in commento offre spunti di indubbio rilievo, specie nella parte in cui, per reati commessi da persone vittime di tratta, valorizza un’interpretazione dell’art. 54 c.p. conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie: la tratta, rappresentando una violazione dei diritti fondamentali, impone una tutela rafforzata delle sue vittime, anche attraverso meccanismi che, pur senza garantire una generalizzata impunità a fronte della commissione di reati, tengano conto della particolare condizione di vulnerabilità che fa da sfondo alla condotta penalmente rilevante.
L’art. 54 c.p., per la verità, sembra da solo sufficiente a garantire le esigenze in questione, senza che il suo ambito di operatività debba essere ampliato per via analogica.
Il rafforzamento della tutela, allora, potrebbe transitare per un versante più strettamente processuale, consistente, più esattamente, in una “regola di giudizio” più favorevole all’imputato. A fronte dell’accertamento che la persona sia una vittima di tratta in condizione di vulnerabilità nonché del collegamento causale del reato commesso e la situazione in questione, dovrebbe muoversi da una presunzione relativa della sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 54 c.p., salvo un’eventuale prova contraria che venga a formarsi nel corso del processo penale.
Diviene dunque cruciale la fase della individuazione delle vittime di tratta, secondo le indicazioni puntualmente chiarite dalla Corte di cassazione. Questa operazione, oltre a garantire il rispetto degli obblighi convenzionali, come delineati dalla Corte EDU, consentirebbe non solo di mettere al riparo le vittime di tratta da una (sia pur sui generis) vittimizzazione secondaria, ma contribuirebbe a rafforzare i meccanismi di emersione di un fenomeno criminale spesso difficile da monitorare e, allo stesso tempo, ad attivare gli strumenti capaci di assicurare un’effettiva liberazione dal vincolo di asservimento che, pressoché inevitabilmente, deriva da una così profonda violazione dei diritti fondamentali della persona.
[1] Corte EDU, Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, 25965/04, § 282; Corte EDU, M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012, 40020/03, § 151.
[2] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, 16 febbraio 2021, 77587/12, 74603/12.
[3] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., § 158 («It is clear that no general prohibition on the prosecution of victims of trafficking can be construed from the Anti-Trafficking Convention or any other international instrument»).
[4] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 159.
[5] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 162. V. anche il successivo § 196, dove, in riferimento all’art. 6 CEDU, si ribadisce che, sebbene le vittime di tratta non siano immuni dall’esercizio dell’azione penale, lo status di vittima di tratta può influire sulla valutazione relativa all’interesse pubblico di iniziare un procedimento penale, rappresentando, quindi, un aspetto fondamentale della difesa dell’imputato, che deve essere garantito dallo Stato.
[6] V., in particolare, l’art. 2 direttiva 2011/36/UE: al primo paragrafo si stabilisce che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili i seguenti atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento», precisando al paragrafo successivo che «per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima».
[7] Si tratta di una premessa, che, sebbene criticabile per più ragioni, rappresenta un assunto ampiamente condiviso dalla dottrina italiana (allineata, sul punto, a quella tedesca): valga, per tutti, il rinvio a F. Mantovani, Diritto penale, Milano, Wolters Kluver-Cedam, 2020, 255-256; T. Padovani, Diritto penale, XIII ed., Milano, Giuffrè, 189 ss.; F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, Giappichelli, 2018, 61 ss.
[8] Per un più ampio inquadramento del principio di interpretazione conforme in materia penale, tanto sul versante eurounitario quanto su quello convenzionale, sia consentito il rinvio ad A. Massaro, Diritto penale europeo, Torino, Giappichelli, 2023, 36 ss.
[9] La Corte di cassazione fa riferimento alle “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento” allegate al “Piano nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento” previsto dall’art. 13 della l. n. 228 del 2003, che hanno recepito tanto gli indicatori quanto i protocolli contenuti nei documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali, tra cui UNDOC (United Nations Office on Drugs and Crime). Più in generale, v. M. G. Giammarinaro, L’individuazione precoce delle vulnerabilità alla tratta nel contesto dei flussi migratori misti, in Quest. giust., 2/2018.
[10] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 7 del Considerato in diritto.
[11] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] Sull’onere della prova da intendersi come “rischio per la mancata prova”, amplius, P. Ferrua, La prova nel processo penale. Struttura e procedimento, vol. I, II ed., Giappichelli, 2017, p. 83-84: «di ‘onere della prova’ nel processo penale non si può parlare in senso proprio: l’espressione, infatti, implicherebbe la validità della prova solo se prodotta dalla parte interessata ad affermare la proposizione da provare. Viceversa, secondo il codice vigente, la prova è validamente assunta, chiunque l’abbia prodotta (accusa, difesa o giudice)».
[14] Cass., Sez. III pen., 2 febbraio 2022, n. 15654, punto 5 del Considerato in diritto.
[15] Cfr. G. Fazzeri, Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”, in Sist. pen., 26 marzo 2024, il quale osserva come il diritto interna non definisca né la nozione di “vittima di tratta” né quella di “posizione di vulnerabilità” con la stessa precisione delle fonti internazionali ed eurounitarie.
[16] M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, Giuffrè, 2004, 572; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 286.
[17] F. Mantovani, Diritto penale, cit., 274.
[18] P. Di Nicola Travaglini, La legittima difesa delle donne nell’omicidio conseguente a reati di violenza di genere, in La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, a cura di C. Pecorella, Mimesis, Milano, 2022, 158 ss.; R. Battistoni, L’omicidio del coniuge maltrattante: tra legittima difesa (putativa) e proporzionalità della pena in astratto, in Sist. pen., 21 giugno 2023.
Sommario: 1. Un consiglio giudiziario serio - 2. Il diritto di tribuna e l’apporto dei componenti non togati - 3. Le mancate conferme - 4. Il fondamentale ruolo decentrato del Consiglio Giudiziario.
1. Un consiglio giudiziario serio
Nel momento in cui il legislatore sta rimettendo mano alla normativa sui Consigli Giudiziari può essere di interesse partire da un’esperienza concreta, congrua come lasso temporale, in un distretto che al di là di quello che si pensa è l’ottavo per bacino di utenza ed il decimo come movimento di affari.
Esperienza che, come Presidente di Corte, ho vissuto per oltre sette anni, protratta per due consigli giudiziari e lavorando (oltre che con due Procuratori generali ed un Avvocato generale) con complessivamente diciotto consiglieri eletti o nominati (ivi compresi sei magistrati onorari, quattro avvocati e due professori universitari).
Il primo elemento del tutto positivo che devo rilevare è la pressoché totale assenza di logiche di appartenenza. Del primo consiglio (2016 – 2020) facevano parte tre consiglieri eletti nelle liste di Area, due nelle liste di Autonomia e Indipendenza, una in quella di Magistratura Indipendente, di cui tre di Bergamo, due di Brescia ed uno di Cremona, mentre nel secondo Consiglio erano stati eletti tre consiglieri nelle liste di Area, una di Autonomia e Indipendenza, uno di Unità per la Costituzione ed uno in una lista autonoma di P.M. bresciani, di cui quattro di Brescia e due di Bergamo. Mentre come avvocati vi sono sempre stati un avvocato del foro di Brescia ed uno del foro di Bergamo ed un professore universitario dell’Università di Brescia nel primo quadriennio e dell'Università di Bergamo nell’attuale tornata. Infine come magistrati onorari risultavano eletti nella tornata 2016 -2020 un giudice onorario di Bergamo ed uno di Cremona ed una vice procuratrice onoraria di Bergamo, mentre nell’attuale composizione risultano un giudice onorario di Bergamo ed uno di Mantova ed una viceprocuratrice onoraria di Cremona.
Nonostante le diversità di provenienza professionale, culturale e geografica quanto è stato unificante è sempre stato quello che io definirei “sentirsi come istituzione”, con un metodo di lavoro comune e la tensione per arrivare attraverso un costante dialogo a soluzioni condivise.
Riprova è la costante unanimità delle decisioni assunte, non raggiunta in meno di dieci casi avendo trattato complessivamente più di tremila pratiche.
Sono state sin dall’inizio accolte soluzioni, in primis regolamentari, per nulla scontate e che in altri distretti hanno comportato lacerazioni e disaccordi, quali il diritto di tribuna per i componenti non magistrati, l’incompatibilità (con relativo allontanamento con sostituzione e partecipazione del Vicario o dell’Avvocato generale) del Presidente della Corte e del Procuratore generale in tutte le pratiche relative a provvedimenti da loro adottati, il coinvolgimento in sedute plenarie dei componenti della sezione autonoma per tutti quei provvedimenti che pur spettando alla sezione ordinaria avevano riverberi su posizioni o status dei giudici onorari.
Ed è stato adottato un metodo di lavoro che nel contempo responsabilizzava il relatore (designato sulla base di rigidi criteri automatici) e puntava al coinvolgimento di tutti i componenti e alla semplificazione. Il relatore difatti una volta esaminata la pratica mandava a tutti i componenti la sua proposta in modo da raccogliere eventuali suggerimenti o opinioni differenti e di poterne discutere a ragione.
Questo ha consentito di effettuare una larga selezione delle pratiche all’ordine del giorno, concentrandosi su quelle più complesse o che comunque richiedevano un approfondimento. Va premesso che in una seduta del Consiglio Giudiziario vengono trattate tra le 20 e le 30 pratiche di cui per molte (applicazioni, variazioni tabellari, criteri organizzativi, autorizzazioni a residenze fuori sede) l’esito è pacifico o dovuto e che una metodologia di questo tipo, inevitabilmente più lenta all’inizio e sempre più efficiente man mano che si raggiunge una sintonia tra i componenti, ha consentito di concentrare l’attenzione e la discussione sui punti controversi o maggiormente complessi.
Il primo requisito del lavoro svolto è stata la serietà: scelte organizzative esaminate sulla base delle circolari del C.S.M. e della razionalità gestionale, valutazioni di professionalità non appiattite verso l’alto, ma che cercavano di cogliere specificità e capacità del singolo magistrato. Se in questo periodo si è avuto un solo parere negativo sulle progressioni in carriera questo non è stato dovuto a spirito corporativo, ma un quadro di professionalità positive per una magistratura molto giovane rispetto ad altri distretti (circa il 30 % infraquarantenni) e molto impegnata. Lo sforzo è stato di differenziare, sia evidenziando le eccellenze, sia puntando sulla specificità e individualità che deve avere ogni valutazione di professionalità (in più di un caso in cui i rapporti dei dirigenti degli uffici apparivano uniformi e stereotipati sono stati restituiti con preghiera di individualizzare le caratteristiche e capacità del singolo magistrato).
2. Il diritto di tribuna e l’apporto dei componenti non togati
Il contributo dato da avvocati e professori universitari è stato estremamente prezioso: a quanto ho potuto verificare questi componenti hanno visto il diritto di tribuna deliberato a livello regolamentare come un momento di trasparenza ed hanno potuto riscontrare direttamente come molti assunti purtroppo diffusi (l’appiattimento delle valutazioni di professionalità, l’emissione di pareri sempre positivi) fossero in realtà luoghi comuni con ben poco fondamento.
E la partecipazione a pieno titolo, spesso come relatori, in materia tabellare, organizzativa e nelle pratiche di vigilanza è stata fondamentale per rappresentare che ad esempio il parere negativo su variazioni tabellari non derivava da contrasti interni, ma da un’analisi gestionale che partiva dalle direttive consiliari e dalle esigenze di efficienza.
In particolare poi in occasione dell’apertura della pratica di vigilanza sulla situazione della Procura di Brescia nel 2018 (derivata dalla perquisizione di un giornalista per notizie comparse su quotidiani relative ai figli dell’allora Procuratore della Repubblica), è stata fondamentale la condivisione unanime nell’aprire e poi nel condurre un’istruttoria delicatissima, che ha poi consentito di giungere ad una soluzione del problema. Avere l’appoggio del foro e dell’accademia è stato al riguardo fondamentale.
Così importante è stato il loro apporto nelle pratiche di vigilanza condotte ogni anno sulle assegnazioni di cui erano stato investiti i magistrati neo nominati per evitare episodi di nonnismo, deteriori per gli stessi, ma più in generale per la funzionalità del servizio. Pratiche che, va detto, dopo un inizio sofferto che aveva riscontrato molteplici violazioni delle direttive consiliari e dell’equità di trattamento, hanno portato ad una positiva attenzione verso i neo magistrati.
Posso capire le perplessità riguardo alla partecipazione a pieno titolo di avvocati e professori in sedi in cui non si vive un rapporto di collaborazione e rispetto, come invece ho riscontrato a Brescia e nel distretto, ma credo vada anche valorizzata la valenza aggiuntiva che garantisce una condivisione in positivo delle valutazioni.
Anzi se devo rimarcare che il limite non sarà l’utilizzo strumentale del ruolo contro magistrati “scomodi”, ma l’eccessiva timidezza e a volte accondiscendenza che spesso il foro ha per i “propri” giudici e P.M. nei cui confronti i giudizi negativi sono rarissimi. Nella mia esperienza la facoltà di effettuare osservazioni, già prevista dalla legge, è rimasta sostanzialmente inoperosa, mentre al contrario grande rigore è stato dimostrato in occasione delle conferme dei magistrati onorari per i quali in diversi casi era stata chiesta la revoca, spesso sulla base di generiche lamentele e non, come prevede la legge, di fatti specifici.
Un rapporto di collaborazione comunque dimostratosi prezioso e fecondo.
3. Le mancate conferme
Una questione a parte che dimostra la serietà del Consiglio Giudiziario di Brescia, ma anche la difficoltà di interlocuzione con il Consiglio Superiore della Magistratura, sono i pareri negativi sulle conferme per un incarico semidirettivo e due incarichi direttivi espressi all’unanimità (in un caso con un voto contrario) e poi disattesi dal Consiglio Superiore della Magistratura (in un caso nella passata consigliatura ed in due casi nella presente).
Le conferme sono uno snodo fondamentale nell’organizzazione dell’ufficio, anche perché mentre la valutazione ex ante al momento della nomina viene fatta per molti aspetti alla cieca (sia perché l’aspirante spesso non aveva mai sperimentato un incarico, sia per l’impatto con una nuova sede ed una nuova realtà), la conferma opera dopo quattro anni sul campo e quindi una valutazione sulla capacità del dirigente può essere compiutamente svolta. Non solo, ma non va sottovalutato l’importanza e l’impatto che può avere un buon dirigente per l’andamento dell’ufficio e per la stessa comunità locale.
Un momento cruciale che, tra l’altro, dovrebbe essere vissuto non come una deminutio della professionalità dei magistrati, ma come una verifica delle sue capacità gestionali, potendoci benissimo essere ottimi magistrati inadatti a ruoli organizzativi o ancora incapacità di adeguarsi a situazione ambientali e gestionali particolari.
Ebbene in questi tre casi il Consiglio Giudiziario di Brescia, dopo una serrata istruttoria, ed una inevitabile sofferenza, aveva emesso un parere contrario unanime (in un caso con un voto dissenziente).
L’andamento ed i tempi delle procedure di conferma da parte dei C.S.M. hanno poi aspetti che meritano approfondimento.
Quanto alla conferma di un Presidente di sezione del Tribunale di Brescia (incarico con scadenza del 22 luglio 2020) l’Ordine degli Avvocati di Brescia aveva dato parere contrario in data 3 luglio 2020 ed il Consiglio giudiziario aveva emesso un parere contrario unanime in data 7 aprile 2021, poi confermato il 19 maggio 2021 dopo le osservazioni formulate dall’interessato, fondato sulle insufficienti capacità organizzative e relazionali, sul clima di conflittualità creatosi in sezione e sulla mancata adozione di provvedimenti organizzativi relativi alla sua sezione, più volte sollecitati dal Presidente del Tribunale e poi adottati direttamente dallo stesso. Il C.S.M. all’esito di due audizioni del Presidente di sezione in data 6 luglio 2021 e 25 luglio 2022 e di un’ulteriore istruttoria delegata, ha ritenuto nella proposta di maggioranza approvata in sede plenaria che tutti i provvedimenti organizzativi richiesti spettavano al Presidente del Tribunale (che peraltro li aveva emessi) e non al Presidente di sezione, ha valorizzato i buoni risultati raggiunti in tema di efficienza e di informatizzazione, ed ha operato una diversa ricostruzione dei fatti ed in particolare dei contrasti emersi in sezione e di alcune segnalazioni (in particolare relative alla gestione di una tirocinante). Più in specifico ha valorizzato che alcuni elementi di conflittualità e presenza risultano superati dopo il 2019 e ha ridimensionato le difficoltà relazionali verificatesi.
Si è trattato di una delibera consiliare molto combattuta a fronte di due proposte ampiamente motivate (31 pagine quella di maggioranza poi approvata e 48 quella di minoranza), di un dibattito serrato e di una votazione molto contrastata (11 voti contro 9).
Pur essendo la proposta di conferma indubbiamente motivata, al di là dei tempi impiegati (oltre due anni), la stessa in realtà non affronta sino in fondo le criticità emerse, inizialmente sollevate dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, in parte dallo stesso Presidente del Tribunale e poi dalle varie audizioni (di 5 magistrati, tra cui il Presidente del Tribunale ed il Presidente Vicario, oltre ai delegati dell’Ordine degli Avvocati e dei Commercialisti) condotte dal Consiglio Giudiziario da cui emergevano oltre ad alcuni episodi di conflittualità interna molto accentuati, una limitata presenza in ufficio. Non possono essere risolutive le dichiarazioni ivi ampiamente richiamate del 16 settembre 2021 rese dal personale amministrativo della cancelleria della sezione sul clima positivo ivi esistente e del 30 luglio 2021 della Camera civile di Brescia sul clima di collaborazione, pervenute nel corso della procedura e non raccolte nell’ambito dell’istruttoria compiuta dagli organi di governo autonomo e quindi non assistite dalla stessa garanzia di genuinità. Non solo, ma detta valorizzazione ha sortito l’inevitabile effetto, anche se probabilmente non voluto, di colpevolizzare i magistrati della sezione che avevano espresso opinioni dissenzienti sulla gestione proprio nel corso dell’istruttoria condotta dal Consiglio Giudiziario. Non un buon risultato. Anche per l’effetto – anche questo inevitabile, al di là delle intenzioni – di dissuadere in generale i componenti degli uffici dal far emergere criticità nelle procedure di conferma e di valutazione di professionalità, ove invece si registra da anni una notoria carenza di informazioni obiettive su fatti e condotte, al di là di abusate aggettivazioni altisonanti.
Quanto alla conferma del Presidente del Tribunale di Brescia (incarico con scadenza al 27 aprile 2020) il Consiglio Giudiziario di Brescia aveva emesso in data 20 luglio 2020 un parere favorevole unanime sulla base dei risultati e delle capacità organizzative. Successivamente in data 4 novembre 2021 il magistrato veniva sanzionato a livello disciplinare con la censura (sentenza divenuta definitiva il 24 novembre 2022) per i rapporti avuti con il consigliere togato Luca Palamara riguardo a segnalazioni per incarichi direttivi e semidirettivi nel distretto di Brescia ed il C.S.M. invitava il Consiglio Giudiziario a integrare il parere alla luce di questa sentenza. Il Consiglio Giudiziario, con un voto contrario, in data 8 giugno 2022 dava un nuovo parere, questa volta sfavorevole, evidenziando come i nuovi fatti sottoposti all’esame denunciavano “un difetto di indipendenza” ed erano tali “da compromettere significativamente l’autorevolezza nell’esercizio delle funzioni direttive”, aspetti negativi ritenuti aventi valenza assorbente rispetto ad ogni altra valutazione positiva a suo tempo espressa sulla capacità del magistrato. In particolare il Consiglio Giudiziario rilevava che dal tenore delle conversazioni captate poteva cogliersi come l’esercizio delle funzioni da parte del Presidente fosse stato “significativamente influenzato da logiche e criteri di carattere correntizio che non appaiono compatibili con l’indipendente esercizio dell’incarico direttivo e di coordinamento attualmente ricoperto”.
L’interessato veniva sentito dal C.S.M. in data 9 maggio 2023.
Al plenum del C.S.M. in data 19 luglio 2023 pervenivano due proposte e veniva approvata quella di maggioranza che deliberava la conferma, ritenendo irrilevanti gli aspetti relativi a indipendenza ed autorevolezza e facendo prevalere le valutazioni precedenti relative alla capacità organizzativa.
Tre punti balzano immediatamente all’occhio: da un lato i tempi del C.S.M. protrattisi per oltre tre anni, dall’altro l’incongruenza di chiedere un’integrazione al Consiglio Giudiziario per poi ritenere i fatti (oggetto della condanna disciplinare) non rilevanti ed infine di ignorare in sostanza le argomentazioni del parere negativo espresso dal Consiglio Giudiziario.
Devo al riguardo precisare che non parlo per “fatto personale”. Non ho partecipato ad alcuna delle delibere del Consiglio di Brescia relative al Presidente del Tribunale in quanto avevo, come previsto dalla procedura, stilato ancora nel 2020 il rapporto informativo sull’attività svolta dallo stesso, dando atto del quadro organizzativo e dei risultati, da cui aveva largamente attinto il Consiglio Giudiziario nel suo parere favorevole del 2020.
Quanto al Presidente del Tribunale di Bergamo (incarico con scadenza il 26 settembre 2021) il parere unanime negativo del Consiglio giudiziario in data 18 novembre 2021 derivava da una valutazione non favorevole dal punto di vista meramente organizzativo. Venivano ad essere rilevanti criticità nella gestione della sezione penale dibattimentale e della sezione famiglia, nonché una carenza di misure organizzative nel periodo della pandemia e in alcuni settori oltre che la gestione dei rapporti con i magistrati dell’ufficio.
In più occasioni emergeva la debolezza dei provvedimenti presidenziali adottati, poi revocati o modificati a seguito dell’interlocuzione con il Consiglio giudiziario, o ancora non approvati per essere stati adottati in violazione delle norme contenute nell’ordinamento giudiziario e nelle circolari che disciplinano la formazione delle tabelle.
L’interessato veniva sentito dal C.S.M. in data 5 settembre 2023.
Al plenum del C.S.M. in data 20 dicembre 2023 pervenivano due proposte e veniva approvata quella di maggioranza che deliberava la conferma. Proposta estremamente succinta (meno di tre pagine) che valorizzava la valutazione espressa dall’Ispettorato generale del Ministero relativa all’ispezione condotta dal 20 settembre al 19 ottobre 2021 presso il Tribunale che osservava “il positivo, seppur non omogeneo, quadro complessivo delineato attesta l’impegno del personale amministrativo e l’apprezzabile produttività dei magistrati e dà altresì conto di una struttura organizzativa che, pur se penalizzata dal deficit di personale, è improntata a criteri di funzionalità e di equa distribuzione dei carichi di lavoro e, dunque, ben diretta dal Presidente del Tribunale, del quale sono emerse le doti di equilibrio e la dedizione all’Ufficio.”
In realtà nella delibera più elementi non venivano citati, né risultavano presi in esame: i rilievi critici contenuti nel rapporto informativo del 9 settembre 2021, le criticità (comunque unite ad apprezzamenti) emerse dal parere del 27 maggio 2021 del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo, le numerose violazioni e conseguenti prescrizioni emesse in ogni caso in sede di ispezione (settore civile non contenzioso, incremento delle pendenze e dei tempi nel settore penale, situazioni di grave disfunzione in alcune aree organizzative), i rilievi consiliari sui programmi di gestione 2021 e 2022 e sulle tabelle 2020 – 2023, il parere negativo o l’invito a modificare i decreti presidenziali da parte del Consiglio Giudiziario su numerosi provvedimenti di variazione tabellare. Con l’ulteriore chiosa che in Consiglio Giudiziario il relatore sui provvedimenti organizzativi del Tribunale di Bergamo era ed è un avvocato di Brescia, pertanto fuori da qualsiasi logica interna alla magistratura e con evidenza indifferente ed imparziale, oltre che competente.
Tali elementi erano stati ripresi nella proposta di minoranza che proponeva la non conferma in cui vengono citati espressamente dieci decreti presidenziali successivamente revocati o non approvati e si osserva come le vicende relative alle variazioni tabellari denotano “la difficoltà di avere un disegno generale” e la “tendenza a inseguire la soluzione momentanea più facile”.
Ovviamente anche in questo caso può essere che il Consiglio Superiore avesse ragione ed il Consiglio giudiziario torto (nessuno è ovviamente infallibile), ma lasciano francamente perplessi sia i tempi lunghi (oltre due anni), sia l’estrema sinteticità della decisione, sia il non avere preso in esame, se non in modo estremamente sommario, gli argomenti posti a base del parere negativo proposto, sia infine una sorta di decisività dell’esito dell’ispezione ministeriale, senza affrontare gli elementi contrastanti che emergevano dalla stessa e la finalità di tipo burocratico amministrativo e non di analisi gestionale tipica dell’atto.
A mio parere garanzia fondamentale per i magistrati è un autogoverno serio e capace che rifugga da appiattimenti verso l’alto e che dimostri serietà e curiosità di sapere e capire.
4. Il fondamentale ruolo decentrato del Consiglio Giudiziario
Il ripetuto dissenso avutosi tra Consiglio Giudiziario di Brescia e Consiglio Superiore della Magistratura potrebbe essere qualificato come fisiologico, rientrando nelle differenze di valutazione che possono esservi in una materia inevitabilmente discrezionale come le valutazioni. Anche se mettono in discussione lo stesso istituto della conferma, pur previsto e voluto dalla legge, stante l’evidente cautela corporativa con cui il Consiglio lo maneggia.
Ma in realtà questo dissenso pone un ulteriore problema.
Con la modifica introdotta dall’art. 3 comma 1 lettera a della legge delega 17 giugno 2022 n.71 verrà data la “facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all'esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari (…), con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell'ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell'ordine degli avvocati.”
Un sistema complesso che verrà meglio articolato nei decreti legislativi in discussione, ma che crea una simmetria tra Consiglio Superiore della Magistratura e Consigli Giudiziari, con, anche a livello deliberante, una componente togata maggioritaria ed una componente laica.
Sarebbe l’occasione per realizzare il più volte auspicato decentramento delle funzioni del Consiglio Superiore. E’ ormai pacifico che l’accresciuta complessità del sistema giustizia mette in crisi il C.S.M. come quantità di pratiche da affrontare e come tempi di decisione. Ogni settimana il plenum del Consiglio vara tra le 250 e le 500 delibere sulle più diverse questioni (dalle incompatibilità, alle nomine, agli incarichi, alle aspettative, ai diversi documenti organizzativi, ai pareri, alle proposte, alle risposte ai quesiti, etc.) e i tempi di decisione, in particolare su nomine, variazioni tabellati, programmi organizzativi, applicazioni sono spesso troppo lunghi, tanto da rischiare di divenire irrilevanti. Questa constatazione aveva già portato lo stesso C.S.M. ad approvare il 20 ottobre 1999 una Risoluzione sul decentramento dei Consigli Giudiziari che affermava “la centralità del Consiglio giudiziario nell’opera di sistematica rilevazione, conoscenza, descrizione, misurazione, documentazione e valutazione del lavoro professionale dei magistrati.”
Rilevava che “I Consigli giudiziari sono i destinatari naturali ed i collettori di tutte le informazioni e valutazioni provenienti da altri soggetti che a loro volta hanno il compito di osservare il magistrato nel suo percorso di formazione o nella sua attività lavorativa o che di fatto lo osservano (i magistrati collaboratori per gli uditori giudiziari; i dirigenti degli uffici per i magistrati in servizio etc.).” e che “è un fatto che, senza l’apporto effettivo e costante del Consiglio Giudiziario, il C.S.M. non è in grado di acquisire conoscenze effettive e serie sul magistrato, sul suo reale valore professionale, sulle sue attitudini e vocazioni, sulla sua quotidiana dedizione all’attività di ufficio.”
La Risoluzione concludeva ritenendo possibile delegare ai Consigli Giudiziari solo attività istruttorie e di proposta, nella consapevolezza dei limiti posti dall’art.105 della Costituzione che attribuisce al Consiglio e non ad altri organi “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Risoluzione che nella sostanza rimaneva sulla carta e decongestionava ben poco l’attività (tra l’altro all’epoca molto meno complessa) del C.S.M.
Altra proposta che andava nella stessa direzione era la previsione emersa nella Commissione di Riforma dell’Ordinamento Giudiziario costituita nel 2015 – Presidente Michele Vietti - di riservare al Consiglio Giudiziario la delibera sulle valutazioni di professionalità in caso di giudizio unanimemente positivo. La competenza del C.S.M. veniva rispettata prevedendo che il Consiglio dovesse comunque trasmettere la delibera al C.S.M. per il quale valeva la regola del silenzio assenso: se entro 60 giorni non venivano prese iniziative la valutazione era convalidata.
Ipotesi di silenzio assenso (sempre susseguenti a delibere unanimi) e di delega rispetto a materie circoscritte normalmente del tutto pacifiche e che oggi corrispondono solo o quasi ad appesantimento burocratico sarebbero da esplorare (ad esempio in tema di aspettative, incarichi di insegnamento per poche ore, supplenze e applicazioni non contestate), in modo da consentire al C.S.M. di concentrarsi sulle questioni davvero meritevoli di approfondimento.
Ma questo passaggio, che ritengo auspicabile, può essere praticato e fecondo solo se si costruisce una reciproca fiducia tra Consiglio Superiore e Consigli Giudiziari e ciò significa da un lato incrementare i momenti di contatto e di interlocuzione tra gli organi e dall’altro che la diversa opinione e delibera del C.S.M. sia adeguatamente motivata, sia a fini di trasparenza, sia per consentire al Consiglio Giudiziario una verifica ed un eventuale adeguamento al diverso orientamento adottato. Altrimenti risulta solo un comportamento imperativo che, specie in magistratura, sappiamo perdente.
Il decentramento è una prospettiva da perseguire, che richiede fantasia, collaborazione e la costruzione di un rapporto di reciproca fiducia che, come le vicende di Brescia evidenziano, è ancora da realizzare.
Ma errori, limiti e difficoltà vanno esaminati e denunciati proprio per essere superati da parte di donne e uomini di buona volontà.
Relazione introduttiva al 36° congresso nazionale Associazione Nazionale Magistrati
di Giuseppe Santalucia
Palermo 10 maggio 2024
1. Signor Presidente della Repubblica, Sua Eccellenza Arcivescovo di Palermo, signori giudici costituzionali, signor vicepresidente e signori componenti del Consiglio superiore della Magistratura, onorevoli rappresentanti del Parlamento nazionale, del Governo della Repubblica e del Parlamento regionale, Autorità tutte, civili e militari; gentili ospiti, avvocati ed esponenti del mondo accademico; care colleghe, cari colleghi; cittadine e cittadini.
A nome dell’Associazione nazionale magistrati porgo i saluti e un sincero ringraziamento per la vostra presenza.
Un particolare e deferente saluto rivolgo al Presidente della Repubblica, facendomi interprete dei radicati sentimenti di gratitudine dei magistrati italiani per l’attenzione e la vicinanza che sempre ci ha riservato.
Ringrazio vivamente il Sindaco di Palermo, il Presidente dell’Assemblea regionale e il Presidente della Regione siciliana per gli indirizzi di saluto con cui hanno inteso onorare la giornata di apertura del Congresso.
Mi sia consentito manifestare la mia viva gratitudine alla sezione palermitana dell’Associazione nazionale magistrati, al suo presidente e alla sua segretaria, e per loro tramite a tutti i magistrati del distretto, per l’entusiasmo e la dedizione con cui si sono adoperati all’organizzazione di questa importante assise.
E da ultimo ma non per ultimo un grande grazie va al Sovrintendente della Fondazione Teatro Massimo, maestro Marco Betta, per averci consentito di fruire della bellezza e della magnificenza di questo luogo, splendida cornice per avviare i nostri lavori.
2. Il Congresso si accinge ad una discussione, che mi auguro feconda, sui tratti costitutivi dell’essere magistrato.
Interpretare la legge e rendere un giudizio imparziale sono l’in sé della funzione.
Tramontate alcune ingenue convinzioni ottocentesche, è assunto condiviso che l’interpretazione sia operazione intellettuale complessa, non riducibile a semplici sillogismi che facciano derivare la regola concreta da una norma astratta, che si vorrebbe chiara e facilmente leggibile, sì che il giudice possa essere un mero e asettico esecutore.
Ed è altrettanto incontestato che egli debba essere sottratto all’influenza dei poteri pubblici e da qualsiasi centro di potere anche privato, in modo che possa decidere il caso senza prendere pregiudizialmente parte per uno degli interessi in gioco.
Ciò non significa che non vi siano ampi margini per una discussione ricca su entrambi i versanti.
A parte alcune certezze intorno a nuclei concettuali forti, sono consistenti gli spazi per il confronto di posizioni.
3. Vi è una costante problematicità, e quindi attualità, delle questioni.
Le ragioni sono facilmente comprensibili.
Dall’affermazione che l’applicazione della legge non è attività meramente esecutiva, e quindi del tutto neutrale, non restano per ciò solo individuati lo spazio riservato all’interpretazione ed i suoi limiti.
E dal riconoscimento del valore della imparzialità, e quindi della necessità di un disinteresse del singolo magistrato per l’oggetto del processo, non deriva la specifica indicazione di quali possano essere i fatti e i comportamenti, soprattutto extraprocessuali, incidenti sulla imparzialità del giudizio.
In più, non va trascurato il nesso tra interpretazione e imparzialità per così dire percepita.
Accade che da più parti ci si interroghi se e in qual misura gli spazi di discrezionalità concessi da un testo privo di puntualità prescrittiva siano riempiti per mezzo di opzioni valoriali del singolo decidente.
Basta allora scrostare di un po’ la superficie per vedere quanto di controverso si agiti ancora intorno alle colonne portanti della giurisdizione.
4. L’opzione congressuale è attuale anche per un complementare ordine di considerazioni, che danno conto di come non possano restare fuori dallo spettro di esame i non pochi dati di novità che oggi incidono sul mondo della giustizia.
Una riflessione di tal tipo non si sovrappone ai dibattiti convegnistici che rivelano l’interesse continuo su questi stessi temi della dottrina, anche di matrice giurisprudenziale e forense.
L’intento è di misurarsi con le implicazioni politiche della discussione, averne compiuta consapevolezza per meglio comprendere il contesto in cui la giurisdizione si trova ad operare, a cogliere le ragioni profonde di polemiche che investono l’esercizio della giurisdizione e che non si spiegano soltanto sulla base di quel che viene detto nel contingente momento di attenzione mediatica.
5. Accolta questa prospettiva, che non accantona l’esame dei nodi tecnici e dei profili di più stretta giuridicità, è utile indietreggiare di qualche passo dal quadro che anche le novità dell’ultimo periodo vanno componendo.
Si riesce a scorgere in tal modo una linea di tendenza che attraversa il tempo presente con maggiore incisività, una direttrice in cui sembrano naturalmente collocarsi, ora per dichiarata provenienza ora per successiva attrazione, iniziative legislative, dichiarazioni e prese di posizione di esponenti autorevoli del mondo politico, e, sia pure su altro piano, il raffinato dibattito scientifico sulla natura e sui limiti dell’interpretazione.
Al di là dei momenti in cui il fenomeno si palesa con franche prese di posizione e la constatazione tiene luogo di una mera percezione, si coglie in più occasioni una spinta alla ridefinizione in senso restrittivo dei confini entro cui la giurisdizione può esprimersi e può far uso degli strumenti propri del suo agire.
L’idea sottesa a più voci critiche è che progressivamente la giurisdizione abbia accresciuto il proprio ruolo finendo con l’essere, invece che fattore di stabilizzazione e di ordinata risoluzione dei conflitti, causa o concausa di quella instabilità e precarietà di necessari equilibri che segnano la società nel tempo presente.
6. Il Congresso è stato preceduto da ben due Assemblee straordinarie, convocate lo scorso anno a distanza di qualche mese l’una dall’altra sull’onda della diffusa preoccupazione insinuatasi tra i magistrati per effetto:
Si badi, non una critica al provvedimento di non convalida fondata su argomenti volti a metterne in evidenza la discutibilità giuridica, ma una polemica nei confronti della magistrata, accusata di non essere imparziale in ragione della partecipazione, svariati anni prima, ad una manifestazione di protesta contro decisioni del Governo, espressione di altre maggioranze politiche, che avevano impedito alla nave con a bordo molti migranti tratti in salvo in mare di approdare nel porto catanese.
La partecipazione ad una manifestazione di piazza, che per anni era stata ignorata, è stata ritenuta la spia dell’esistenza di un pregiudizio, di una pregiudiziale avversione alle politiche governative di contenimento dell’immigrazione clandestina.
7. Come nella precedente, anche nell’ultima occasione è venuto in rilievo il timore di un progressivo indebolimento dei presìdi culturali che dovrebbero inibire, contenere, la pretesa delle maggioranze di governo che decisioni di tribunali e corti non contrastino o addirittura si adeguino ai loro programmi e fini.
La nostra posizione, in entrambi gli episodi, è stata però ispirata dalla ricerca di un confronto e non dalla contrapposizione con la politica per rievocare fantasmi di un passato che non vogliamo ritorni ad inquinare il discorso sulla giustizia.
E con questo spirito abbiamo voluto un Congresso che sappia, da un lato, individuare le ragioni di una crisi di senso sull’essenza della giurisdizione che sembra investire, con diversità di toni e di ampiezza, molte delle democrazie liberali; e dall’altro, dipanare una questione complessa che tocca molto da vicino la vita dei magistrati.
Siamo qui anche per interrogarci su quale sia, di quale ampiezza e di quale incidenza sui diritti e sulle libertà del cittadino-magistrato, la proiezione deontologica di una libertà interpretativa che non si può seriamente vagheggiare di comprimere in nome di una semplicistica rievocazione del principio della separazione dei poteri, nutrito alle convinzioni settecentesche della giurisdizione come potere nullo.
8. Nelle relazioni illustrative di tre dei quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare sulla cd. separazione delle carriere, che sono da tempo all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, si scrive che l’intero mondo occidentale è attraversato da una crisi del diritto e del processo, perché vive il problema della eccessiva espansione del giudice, che ormai “governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica” (AC nn. 23, 434, 824).
Il sommario riferimento a quel che accade oltre Italia sembra evocare le tensioni e i conflitti che stanno interessando la vita di altri Stati, entro e fuori dall’Unione europea.
Sono stati coniati nuovi termini e nuove espressioni per indicare l’asserito dominio del giudiziario: “governo dei giudici”, “giudizializzazione” della vita pubblica, “giuristocrazia”, tutti diretti a manifestare una crescente insofferenza verso una tecnocrazia delle regole che sopravanzerebbe il governo della politica.
Si pensi a quel che è accaduto in Israele, dove la recente riforma della giustizia, che ha scatenato imponenti proteste, è stata ispirata dalla volontà di limitare i poteri della Corte suprema e di ristabilire un diverso rapporto con il potere legislativo e quello esecutivo, vietando il controllo di ragionevolezza dei provvedimenti d e limitando fortemente la possibilità di annullamento delle leggi ritenute in contrasto con le cd. leggi fondamentali.
E, ancora, a ciò che è avvenuto all’interno dell’Unione europea, in Polonia e in Ungheria. I sistemi normativi di entrambi questi Paesi sono stati posti sotto osservazione ad opera degli organismi dell’Unione anche per l’inadeguatezza nell’assicurare una effettiva indipendenza del potere giudiziario.
Sia chiaro!
Non intendo accreditare impropri parallelismi e indulgere in eccentriche assimilazioni.
Ma quel che avviene in una importante democrazia di stampo occidentale come Israele e nello spazio comune europeo può essere eletto a sintomo della difficoltà che, al di là delle specificità dei singoli Paesi, si sconta nel rinvenire una condivisione su quale debba essere il grado di effettività dello Stato di diritto – solennemente proclamato nel Trattato dell’Unione (articoli 2 e 7) – sotto il profilo della indipendenza e dell’ambito di azione del potere giudiziario, che sia compatibile con il mantenimento in capo agli organi della rappresentanza della prerogativa di fissare i fini dell’azione e di poter contare sulle concrete condizioni per raggiungerli.
9. Questa difficoltà lambisce il discorso pubblico del nostro Paese.
Si denuncia l’espansione del giudiziario collegandolo più o meno dichiaratamente ad una pretesa egemonica della magistratura, che sperimenterebbe da tempo una libertà di azione conquistata a scapito della legge.
Si trascura però di considerare che l’enfatizzazione del giudiziario potrebbe essere in buona misura figlia della incapacità della politica latamente intesa, che è propria del nostro tempo, di coinvolgere e di includere ampi strati della società nella definizione di progetti collettivi e di realizzazione di fini comuni e condivisi.
Se i circuiti della politica hanno perso gran parte della loro capacità inclusiva, se l’impegno collettivo per la costruzione del futuro della comunità non è più un potente fattore di aggregazione, è inevitabile che ci si ritragga sempre più in una dimensione privata, che si ricerchino nelle aule di giustizia le risposte alle domande che nei luoghi tradizionali dell’agire politico non si riesce più a formulare.
La via per il riequilibrio che si va cercando potrebbe non essere quella della compressione forzosa degli spazi di giurisdizione; si potrebbe scoprire che in tal modo si raggiungerebbe il risultato non già di rimettere “ogni cosa a suo posto”, secondo l’efficace titolo di un recente interessante studio di un grande giurista (LUCIANI) ma, forse, di indurre maggiore instabilità sociale per il disconoscimento, ad interessi che reclamano visibilità e tutela, di ogni istanza di rappresentazione nei luoghi istituzionali.
10. Per restare ancorati a quel che ci riguarda direttamente, il tentativo di ridurre l’incidenza del giudiziario si scorge in plurimi segnali.
La “paura della firma” di amministratori e funzionari pubblici, invece che indurre ad una migliore tipizzazione delle fattispecie di responsabilità, sta portando alla eliminazione di una ipotesi criminosa – l’abuso di ufficio – secondo una direttrice che si stenta a ricondurre nell’alveo di una concezione liberale, che vorrebbe una rafforzata tutela delle libertà individuali di fronte alle angherie dei detentori dei pubblici poteri.
Lo stesso può dirsi in riguardo alla spinta, che non si arresta, al mantenimento di moduli emergenziali, escogitati per affrontare la pandemia da Covid-19 e incentrati sull’allentamento dell’area del controllo e quindi sull’abbassamento dei livelli di responsabilità, ancora una volta dei detentori di pubblici poteri.
Lo “scudo erariale”, ossia la limitazione della responsabilità di amministratori pubblici ai casi di dolo e condotte omissive gravemente colpose, introdotto nel 2020 in piena emergenza pandemica, è stato di recente ulteriormente prorogato, con il decreto milleproroghe, sino al 31 dicembre 2024 –il termine inizialmente fissato al 31 luglio 2021 era stato già prorogato al 30 giugno 2024 – e la Corte dei conti ha sollevato questione di legittimità costituzionale, evidenziando l’irragionevolezza della norma “nell’attuale sistema di pesi e contrappesi fondato sull’inscindibile binomio potere/responsabilità tipico anche del diritto euro-unitario”.
Non siamo per questa parte di fronte ad una misura inedita.
La logica degli scudi si era già concretizzata in più occasioni, ma se essa si combina all’idea che un pieno esplicarsi della funzione giudiziaria può non essere funzionale al recupero di efficienza della macchina amministrativa e mediatamente ad una maggiore vitalità dell’economia, allora prende corpo una concezione del giudiziario come potere scomodo.
Ancora.
Quale altra plausibile ragione può assegnarsi al disegno – coltivato nell’ambito dei progetti di revisione costituzionale per la separazione delle carriere – di alterazione dell’attuale rapporto di proporzione numerica tra magistrati e laici nella composizione del Consiglio superiore della magistratura, anzi nei due Consigli superiori che si avranno una volta separato il pubblico ministero dalla magistratura giudicante, se non l’indebolimento della presenza del giudiziario nel settore nevralgico deputato a quella delicatissima attività che, con felice espressione, è indicata come di “amministrazione della giurisdizione”?
Non persuade, come ratio del progetto di revisione, l’intento di diminuire la cifra di politicità dell’organo di cd. governo autonomo, se perseguito, con intrinseca irrazionalità, per mezzo di un aumento della quota della componente di nomina politica.
Lo stesso progetto di separazione delle carriere, coltivato con ostinazione pur dopo che la separazione delle funzioni è stata da ultimo portata alla sua massima espansione con buona pace del favor per la pluralità delle esperienze professionali, reca con sé il germe dell’indebolimento della giurisdizione, almeno quella penale, nel suo complesso.
Essa troverà compimento una volta che il pubblico ministero, separato dalla giurisdizione e collocato in un ideale ma ad oggi sconosciuto spazio di autonomia e di contestuale estraneità all’area dei tradizionali poteri dello Stato, sarà in breve attratto nel raggio di influenza del potere esecutivo, che mal tollera di non poter includere l’azione penale nei programmi di governo.
La prospettiva è tutt’altro che una fantasia spesa ad arte per contrastare quel progetto.
Proprio perché molte democrazie occidentali conoscono la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, sterilizzata nei suoi effetti distorsivi, nella maggior parte dei casi, da culture politiche e architetture istituzionali proprie di quei Paesi, la parabola di un riassetto istituzionale innescato dalla revisione costituzionale non sarà condizionabile nella sua traiettoria dalle dichiarazioni di chi oggi, alfiere della separazione, assicura e rassicura sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani.
11. La rivisitazione in senso riduttivo del ruolo del giudiziario dovrebbe rispondere a due grandi bisogni.
Il mantenimento di una netta separazione tra i poteri dello Stato, dovendosi evitare che il giudice si appropri della prerogativa di apprestare soluzioni che implichino apprezzamenti e scelte di natura politica, con il conseguente scolorimento di imparzialità, anche solo della sua apparenza.
La tutela del diritto dei cittadini di poter contare sulla sufficiente prevedibilità delle decisioni di tribunali e corti, possibile a condizione che l’interpretazione delle norme sia fedele al testo delle disposizioni e non ci siano spazi di eccessiva discrezionalità nella individuazione delle regole del caso concreto, tale da aprire alla creazione per via giurisprudenziale del diritto, giocoforza priva dei caratteri di astrattezza e generalità.
Si può dire, tentando una semplificazione riassuntiva, che sono ragioni che attengono sia alla dimensione del potere che a quella del servizio.
Le direttrici in cui sembra incanalarsi il discorso sulla giustizia, benché connotate da nuclei di valore meritevoli di considerazione, potrebbero risultare dissonanti rispetto al cammino che fu tracciato nel secolo scorso anche grazie agli sforzi e all’impegno della magistratura italiana.
Se assecondate perdendo di vista il senso progressista di quel movimento culturale che si sviluppò intorno alla prima parte della Costituzione, farebbero correre il rischio di un arretramento di tutele e di garanzie.
Sta qui l’utilità che la magistratura torni a ragionare sul rapporto con la legge, sulla soggezione alla legge, principio fondativo della sua autonomia e della sua indipendenza.
E che lo faccia da protagonista con un contributo di cultura istituzionale e di esperienze professionali senza restate spettatrice muta di un processo e di un dibattito che, pur movendo da premesse diverse, la chiamano direttamente in causa.
12. C’è un evento che individua una conquista culturale storica per la nostra giurisdizione: la scoperta nell’attività interpretativa del giudice comune del rapporto diretto con la Costituzione, da cui prese piede una nuova concezione del rapporto di soggezione.
Mi riferisco al 12° Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, che si tenne a Brescia-Gardone Riviera nel settembre 1965 e fu dedicato a “Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione”.
Quel Congresso si concluse con una mozione unitaria in cui si individuarono, come compiti del giudice, l’applicazione diretta delle norme costituzionali, ove tecnicamente possibile; il rinvio alla Corte costituzionale delle leggi non riconducibili per via interpretativa al dettato costituzionale; il dovere quindi di interpretazione conforme a Costituzione di tutte le leggi.
Approdo di quel fecondo percorso fu che ai giudici competeva di attuare l’indirizzo politico costituzionale, ovviamente nei limiti e con l’armamentario tipico del giudiziario.
Le ricadute di quel modo nuovo di intendere il rapporto di soggezione e quindi, in ultima istanza, il legame del giudice con la società furono colte dall’esterno, a volte con accenti di forte critica.
Il salto di qualità rispetto ad un modello strettamente funzionariale di magistrato fu visto da taluno come una pericolosa ingerenza del magistrato nella sfera riservata alla politica, nei termini dell’assunzione di un ruolo e di una funzione propri degli organi politicamente responsabili.
La relazione diretta con la Costituzione, non sempre e non necessariamente mediata dalla soluzione legislativa, costituì al contempo fattore di potenziamento dei risultati perseguibili per via interpretativa e condizione per la rilegittimazione in senso autenticamente professionale della figura del magistrato.
La grande novità fu costituita dal mutamento di paradigma, con l’irrompere del pluralismo dei principi e la conseguente necessità del loro bilanciamento, all’interno di uno spazio, quello dell’interpretazione, fino ad allora conformato in modo apparentemente rassicurante agli insegnamenti della scuola dell’esegesi.
13. Mutò da allora il tradizionale modo di intendere il ruolo del giudice e si iniziò a porre la questione della politicizzazione in termini anche di aperta critica, per la temuta compromissione del principio fondante della separazione dei poteri.
Non è un caso che a qualche anno di distanza da quel Congresso fu presentato alla Camera dei deputati un disegno di legge sulla premessa che la politica e la contestazione, intesa questa come il confronto vivace che all’interno dell’Associazione nazionale si sviluppava proprio sul ruolo del magistrato, avevano fatto ingresso nella magistratura.
Per contrastare quanto denunciato, ossia che la magistratura si avviava così “a diventare un centro di potere, strumento di scelte politiche e di partiti”, due deputati, gli onorevoli Manco e Romeo, entrambi del gruppo del Movimento sociale italiano, proposero l’introduzione del divieto non soltanto di iscrizione a partiti politici ma anche ad associazioni di categoria, quindi all’Associazione nazionale magistrati e ai gruppi che nella sua lunga storia ne hanno animato e ancora ne animano fecondamente la vita e il dibattito interno, volendone decretare, sia pure per via indiretta, lo scioglimento.
Accade oggi che, sull’onda – ancora una volta – dell’accusa alla magistratura di assumere indebitamente un ruolo politico, ritorna con forza l’incomprensione per quella cultura della giurisdizione e dei diritti che conquistò il suo spazio nel momento di maggior forza dello Stato sociale di diritto.
E, allora, che fare?
14. Nella spiccata diversità di contesto va anzitutto riconosciuto che la forza della legge, la sua presa sulla realtà giudiziaria non è scemata con l’avvento dello Stato costituzionale, seppure essa attraversi una crisi dovuta a più fattori, per la ricorrente scarsa chiarezza dei suoi enunciati linguistici, per l’oggettiva difficoltà nell’assicurare coerenti coordinamenti tra la molteplicità dei testi normativi che si stratificano nel tempo.
In ultima istanza, anche per le difficoltà delle maggioranze politiche nella costruzione di prescrizioni sufficientemente univoche in ragione del tributo pagato a logiche compromissorie conseguenti alla carenza di omogeneità nelle scelte di valore e conseguentemente nelle visioni programmatiche.
Detto questo, e ricordata la perdita non soltanto della primazia nella collocazione tra le fonti quanto della esclusività dell’ordine gerarchico affiancato dal criterio ordinativo della competenza per l’ingresso nell’ordinamento nazionale del diritto eurounitario con efficacia diretta (regolamenti e direttive dettagliate), occorre confermarsi nella consapevolezza che il vincolo di soggezione alla legge conserva integra la sua centralità come condizione ineludibile per l’indipendenza della magistratura e quindi per la tenuta dello Stato di diritto.
Le mura della legge non segnano soltanto il confine che il giudice non può valicare nel dare e fare giustizia, ma sono i bastioni che proteggono e danno effettività alla sua indipendenza.
La soggezione, a cui nessuno intende sottrarsi, si invera però in un impegno interpretativo condotto facendo uso di tutte le tecniche e gli strumenti che la stessa legge offre, dal criterio logico, a quello teleologico, a quello sistematico, saggiando della norma la conformità costituzionale e convenzionale.
La posizione della giurisprudenza è chiara e inequivoca.
Si è detto, e non vi sono deduzioni contrarie o diverse, che l’interpretazione dei giudici si limita a portare alla luce un significato precettivo interamente contenuto nel significante, nel testo normativo; e che essa non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato linguistico, quindi del testo di legge.
Senza scardinare “i cancelli delle parole” (IRTI), il giudice non può che interpretare la singola disposizione cogliendo le relazioni con le altre, nella rete sistematica che le tiene insieme.
In tal modo si è ben lontani dalla produzione di norme e si resta a buon diritto nel campo proprio dell’interprete.
Come è stato autorevolmente affermato, “soltanto il fraintendimento della disposizione… frutto di una lettura … che prescinde dagli strumenti interpretativi rivolti a farne emergere il significato, si traduce nella creazione di una norma…altrimenti inesistente” (S. U. n. 9659 del 2023).
E che il testo normativo sia e debba essere punto di partenza e punto di arrivo dell’interpretazione (IRTI) è affermazione che non riceve smentita nelle sentenze dei giudici italiani.
La fallacia di molte critiche che su questo terreno si muovono è allora nel non comprendere:
15. Queste puntualizzazioni non escludono l’utilità di una aggiornata considerazione di quali siano le implicazioni del principio di soggezione alla legge.
La rivendicazione del potere di interpretazione esercitato con il diretto parametro della Costituzione e del diritto convenzionale è opzione culturalmente distante dalla pretesa di creare norme nel caso concreto.
Non va poi dimenticato che le norme non hanno tutte la stessa struttura: vi sono le norme-regole e le norme-principi e quelle che, per meglio governare la complessità dei fenomeni, ricorrono a clausole generali, affidando al giudice, all’interprete, secondo un modulo cooperativo fondato sulla fiducia, il compito faticoso di adattare la regola ai mutamenti sociali.
Per tutte queste ipotesi al giudice spetta di operare una scelta, e a questo punto le domande si fanno insistenti.
Nel caso dell’interpretazione conforme, tra più soluzioni compatibili, quale è quella da privilegiare?
Quella a maggior tasso di conformità o quella che, magari più distante dalla Costituzione ma non per questo tacciabile di contrarietà, è più vicina al testo da interpretare?
In nome dell’indirizzo costituzionale, il giudice è abilitato a mettere da canto un programma legislativo per così dire di minore intensità costituzionale?
Se il richiamo al testo appare cogente, in che modo esso si combina con l’esigenza di assicurare una lettura sistematicamente coerente della disposizione, di armonizzarla all’interno di un sistema formato da norme le cui disposizioni non hanno minor forza e vincolatività di quella al cui testo si vorrebbe riservare una (maggiore) efficacia attrattiva?
Vi è spazio per una applicazione diretta della Costituzione, tenendo distinta l’applicazione dall’attuazione che, come è stato detto (LUCIANI), è riservata al legislatore a cui soltanto spetta di definire tempi e modalità del programma di inveramento costituzionale?
16. Al riconoscimento di margini più o meno ampi per scelte di concretizzazione e modellamento del precetto segue il timore che l’imparzialità sia destinata a soccombere.
Su questo delicato versante conviene tenere a mente, a mo’ di premessa, l’autorevole avvertimento che l’idea del giudice privo di idee e di passioni non ha mai trovato riscontro nella realtà (SILVESTRI) e che la dichiarata estraneità alla dialettica culturale e politica nella società servì per lungo tempo a mascherare l’adesione dei magistrati, di molti di loro, al blocco storico-politico dominante e la loro dipendenza dal potere politico.
Nel cono d’ombra della ostentata riservatezza e della proclamata neutralità alligna a volte una faziosità che non si riscontra in chi non fa mistero delle sue convinzioni ma è professionalmente attrezzato per saper trascendere, nella decisione, le proprie opzioni di valore affrancandosi dalle personali concezioni in modo da realizzare il grado massimo di indipendenza, quella da se stesso (SCODITTI)
Lungo questa direzione vanno valorizzate le potenzialità antagoniste del processo rispetto allo scivolamento verso l’arbitrario soggettivismo.
La rigorosa osservanza delle sue regole, il dovere di ascolto delle parti e soprattutto l’obbligo di rendere compiuta motivazione sono gli ostacoli che la trasparenza processuale pone per inibire il pericolo che il giudice e il suo patrimonio ideale siano metro della decisione.
17. Resta da indagare l’aspetto forse più problematico della imparzialità e della sua apparenza, come condizione di credibilità dell’istituzione giudiziaria, ossia il problema di come conciliarla con i diritti del magistrato- cittadino nella sua vita sociale e di relazione.
Conviene prendere le mosse dalle affermazioni della Corte costituzionale.
Con una prima pronuncia (sent. n. 224/2009) si è chiarito:
Con una successiva decisione (sent. n. 170 del 2018) si è ulteriormente precisato che i principi di indipendenza e di imparzialità vanno tutelati non soltanto sul pano dell’esplicazione delle funzioni giudiziarie ma anche “quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare”.
Entra in gioco per tale via il profilo dell’etica professionale, su cui è naturale che una parola importante sia pronunciata dai magistrati che al codice deontologico devono prestare convinta adesione.
18. Questa messe di questioni, complesse ma di grande interesse, sarà resa nel prossimo futuro di poco rilievo dall’intelligenza artificiale?
Può immaginarsi una giustizia digitale sostitutiva, si può aspirare ad un giudice automatico, come è stato appellato (BARBERIS), che ci restituisca al potere nullo vagheggiato senza successo secoli addietro e per esso alla certezza del diritto senza ombra di parzialità?
L’interrogativo apre ad orizzonti ampi verso cui ci incamminiamo in molti con scarsa consapevolezza.
Il Congresso servirà almeno ad accendere una spia, a indurci a considerare se il giudizio possa strutturarsi, in nome della certezza, secondo gli schemi dell’operazione algoritmica; o se, di contro, la struttura dialogica dell’esperienza giuridica e specificamente del momento processuale sia intimamente refrattaria allo schema algoritmico.
Come già acutamente osservato (ROMANO) il dialogo, anche quello processuale, non è trattabile sulla base di meccanismi computazionali, perché “non è anticipabile nel futuro” siccome si svolge nella “formazione del senso, aperta alla molteplicità dei contributi … dei dialoganti” (ROMANO).
Deve allora, a mio giudizio, salutarsi con favore quella disposizione che compare nel recente disegno di legge di iniziativa governativa in materia di intelligenza artificiale che ha cura di precisare che “è sempre riservata al magistrato la decisione sulla interpretazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sulla adozione di ogni provvedimento”, potendo i sistemi di intelligenza artificiale essere utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario (Art. 14).
19. Concludo con l’auspicio che una riflessione ampia, che involge anzitutto il rapporto con gli altri poteri dello Stato, non attiri sul Congresso l’usurata critica della politicizzazione, che si rinnova con puntualità quando la voce e l’azione dell’Associazione nazionale magistrati hanno la pretesa di uscir fuori dall’ambito, pur nobile, della difesa degli interessi di tipo impiegatizio.
Non appena l’orizzonte si amplia, nel tentativo di prendere parola su temi che interessano il mondo della giustizia anche più di qualche aspetto della carriera intesa in senso burocratico, viene revocata in dubbio la legittimazione ad intervenire, gettando l’ombra pesante della faziosità.
Va sgombrato il campo da questa ipoteca, liberandoci dal sospetto, maliziosamente coltivato, che i magistrati che intervengono nel pubblico dibattito su temi che ineriscono alla giustizia siano politicizzati e quindi inaffidabili.
Il termine “politica”, con i suoi derivati, non può divenire un dispositivo di espulsione dalla sfera pubblica, perché una democrazia partecipativa non può che arricchirsi del contributo di una categoria che di giustizia e di giurisdizione può dire a ragion veduta.
L’intervento argomentato nella discussione non porta con sé il tentativo obliquo di interferire nell’esercizio del potere di decisione che spetta ad altri; può invece consentire decisioni e soluzioni di migliore qualità, di maggiore avvedutezza. È l’esercizio, oltre che di un diritto, di un dovere, che direi di natura civica, di contribuzione al benessere della comunità di cui si è parte viva.
Vogliamo poter dire, e sentire ancora, le stesse parole che Pericle rivolse agli ateniesi, quando con orgoglio affermava che ad Atene coloro che non si occupavano di politica erano considerati non persone tranquille ma buoni a nulla; e che ad Atene la discussione sugli affari della città non era ritenuta un ostacolo sulla via della democrazia.
Di quella idea di democrazia vogliamo continuare a sentirci eredi.
Con vivo compiacimento dichiaro aperto il 36° Congresso nazionale.
Buon lavoro!
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