Sommario: 1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione – 2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario – 2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. - 2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta - 3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme – 3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p. – 4. Conclusioni.
1. Il caso e le ragioni del ricorso per cassazione
Con la sentenza n. 2319 del 2024 la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) a una persona che, vittima di tratta di esseri umani, commetta dei reati in materia di stupefacenti, quando la stessa versi in una condizione di vulnerabilità e di asservimento che le impedisca di sottrarsi alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione delle autorità competenti.
Il caso oggetto della pronuncia riguarda una donna che, costretta a fuggire dalla Nigeria appena diciottenne e sottoposta a gravi violenze, compresi numerosi stupri, nel viaggio fino alla Libia, aveva tentato di estinguere l’ingente debito accumulato con i trafficanti prima con l’attività di prostituzione e, poi, divenendo “corriere della droga”.
Condannata per trasporto illecito di sostanze stupefacenti, ricorre per cassazione, lamentando la mancata applicazione, da parte dei giudici d’appello, della causa di giustificazione prevista dall’art. 54 c.p. La sentenza di secondo grado, pur senza mettere in discussione la sua condizione di vittima di tratta, aveva escluso che l’imputata si trovasse nell’assoluta impossibilità di recidere i contatti con il contesto criminale da cui era derivata la commissione del reato: si valorizzavano, a tal fine, non solo le specifiche modalità della condotta (tempi ravvicinati di due trasporti di droga, disponibilità di due telefoni cellulari al momento dell’arresto, spese di difesa in giudizio sostenute dal capo dell’associazione), ma anche, più in generale, l’assenza di elementi da cui potesse ricavarsi l’assoluta, prolungata e persistente impossibilità della donna di sottrarsi al “controllo” dei connazionali e di rivolgersi alle istituzioni pubbliche.
2. Il “principio di non punibilità” delle vittime di tratta: a) le indicazioni ricavabili dal diritto internazionale ed eurounitario
Le motivazioni dei giudici di appello sono state considerate dalla suprema Corte lacunose e generiche, specie perché del tutto avulse dallo specifico contesto nel quale la vittima si è trovata ad operare.
La sentenza n. 2319 del 2024 conclude per la possibile applicazione dello stato di necessità nei confronti di persone vittime di tratta ricorrendo a un complesso apparato argomentativo, che, a sua volta, si regge sull’obbligo di interpretare l’art. 54 c.p. in maniera conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie. Da queste ultime, infatti, si ricaverebbe che la tratta di persone costituisce una violazione dei diritti umani, da cui deriverebbe, come necessaria conseguenza, un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta per reati commessi in connessione o come conseguenza della condizione in cui sono costrette.
Tra le fonti di diritto internazionale assume una rilevanza centrale la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani del 16 maggio 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), ratificata dall’Italia con la legge n. 108 del 2010. La Convenzione di Varsavia, muovendosi nell’orizzonte tracciato dalla tutela dei diritti fondamentali, non solo valorizza l’identificazione delle vittime di tratta (art. 10), ma stabilisce che ciascuno Stato si impegni a prevedere «la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette» (art. 26).
Sul versante CEDU, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le condotte di tratta, sebbene non esplicitamente menzionate dalla Convenzione, si risolvano in una violazione dell’art. 4 della Convenzione (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato)[1].
La Corte EDU, poi, ad avviso dei giudici di legittimità, avrebbe esplicitamente riconosciuto un principio di non incriminazione della vittima di tratta, per reati commessi in conseguenza del suo stato di sfruttamento: il riferimento è alla sentenza V.C.L. e A.N. c. Regno Unito[2], relativa al caso di due cittadini vietnamiti, condannati per produzione e spaccio di sostanze stupefacenti nonostante la sussistenza di numerosi elementi da cui ricavare il fondato sospetto che gli stessi fossero vittime di tratta. I giudici di Strasburgo, in realtà, precisano più volte che dal diritto internazionale non possa ricavarsi alcun generale divieto di procedere penalmente nei confronti di una vittima di tratta[3], pur sottolineando come un procedimento penale nei confronti di vittime, anche solo potenziali, di tratta potrebbe porsi in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure a tutela delle stesse. Il dovere di adottare misure operative (operational measures) ex art. 4 CEDU Convenzione ha due obiettivi principali: proteggere la vittima di tratta da ulteriori danni e facilitare il suo recupero. È evidente (it is axiomatic) che il perseguimento delle vittime di tratta sarebbe dannoso per il loro recupero fisico, psicologico e sociale, determinando una condizione di vulnerabilità che potrebbe portarle, nuovamente, a divenire vittime di tratta: «non solo dovrebbero affrontare il calvario di un processo penale, ma una condanna penale potrebbe creare un ostacolo alla loro successiva integrazione nella società. Inoltre, la detenzione può ostacolare il loro accesso al sostegno e ai servizi previsti dalla Convenzione anti-tratta»[4]. Diviene fondamentale, quindi, identificare un soggetto come vittima di tratta, in modo da verificare se e come questa condizione sia in grado di incidere sul giudizio relativo alla sua responsabilità penale[5].
Anche dal diritto eurounitario, precisa la Corte di cassazione, si ricavano indicazioni utili per ricostruire la “posizione giuridica” delle vittime di tratta, che, in particolare, attribuiscono rilievo alla condizione di vulnerabilità in cui le stesse verserebbero in ragione del reato commesso nei loro confronti.
Si ricordano, in proposito, la Direttiva 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta di essere umani e la protezione delle vittime[6], attuata in Italia con il d.lgs. n. 24 del 2014 che, oltre a modificare l’art. 601 c.p. recependo le indicazioni del diritto europeo, ha introdotto una serie di misure finalizzate all’emersione del fenomeno criminale attraverso un sostegno alle vittime di tratta, anche quando le stesse non si rivolgano all’Autorità giudiziaria: è un dato acquisito, precisano i giudici di legittimità, che la volontà delle vittime di non denunciare derivi da paura o da sfiducia nelle istituzioni.
Indicazioni utili sono ricavabili anche dalla Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, recepita dall’ordinamento italiano con il d.lgs. n. 212 del 2015. Il considerando 17 della Direttiva 2012/29/UE inquadra la tratta di esseri umani nel più ampio contesto della violenza di genere, includendo poi le vittime di tratta tra quelle maggiormente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria (art. 22).
Le indicazioni offerte dal diritto internazionale e da quello eurounitario convergerebbero verso la conclusione del divieto di incriminazione o, meglio, di un generale principio di non punibilità delle vittime di tratta: «la più rilevante conseguenza giuridica del costituire la tratta una violazione dei diritti umani delle vittime […] è il principio della loro non incriminazione per i reati commessi in connessione o come conseguenza della situazione in sono costrette», come necessaria conseguenza del più generale principio di non contraddizione dell’ordinamento.
Il potere ricattatorio cui le vittime di tratta sono costrette escluderebbe qualsiasi forma di autonomia decisionale: la condizione di vulnerabilità delle vittime, quindi, si trova in connessione diretta con il sostanziale annullamento della loro libertà di scelta.
I reati oggetto della valutazione di eventuale punibilità sono non solo quelli direttamente collegati alla condizione di irregolarità della vittima di tratta o, ancora, quelli con cui ci si appropria dei proventi criminosi (furto, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti), ma anche i cosiddetti reati di liberazione, commessi, cioè, per sottrarsi dallo sfruttamento, anche di soggetti terzi. A quest’ultima categoria, precisa la Corte di cassazione, andrebbero ricondotti anche i reati che, pur in assenza di una diretta coercizione, sono causalmente collegati alla condizione di sfruttamento nella quale versa la vittima di tratta, nota all’istigatore e da quest’ultimo sfruttata.
2.1. b) l’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p.
A questo punto resterebbe da verificare, ad avviso della suprema Corte, in che modo il principio di non punibilità delle vittime di tratta trovi ingresso nell’ordinamento interno.
In assenza di norme specifiche, il principio in questione potrebbe pur sempre “filtrare” attraverso la norma generale dell’art. 54 c.p., (ri)letto in maniera conforme al diritto internazionale ed europeo.
L’art. 54 c.p. si fonderebbe su una generale ratio di bilanciamento di interessi tra loro confliggenti, uno dei quali è necessariamente destinato a soccombere[7]. Il giudizio di bilanciamento deve fondarsi sul complesso delle fonti, anche non nazionali, che delineano la fisionomia degli interessi in conflitto. Il giudice comune è infatti tenuto a un obbligo di interpretazione conforme, che, pur trovando la sua origine storica nel primato del diritto eurounitario su quello nazionale e nel principio di leale collaborazione degli Stati europei, è divenuto un principio di portata più generale, estendendosi, anzitutto, al sistema CEDU e alla Convenzioni del Consiglio d’Europa. L’interpretazione conforme, precisa la Corte di cassazione confermando premesse ormai sufficientemente consolidate, è in grado di produrre i suoi effetti anche sul diritto penale, sia pur con i limiti individuati dal divieto di interpretazioni contra legem e dal divieto di effetti in malam partem[8].
Una lettura dell’art. 54 c.p. ispirata dall’interpretazione conforme, allora, dovrebbe tener conto della lettera e della ratiodegli obblighi internazionali ed europei, consistenti nella tutela dei diritti fondamentali delle persone vittime di tratta e nel divieto di vittimizzazione secondaria derivante da un processo penale non dovuto.
2.2. c) l’iter logico-argomentativo da seguire in caso di reati commessi da potenziali vittime di tratta
L’autorità giudiziaria, chiariscono i giudici di legittimità, sarebbe tenuta a un doppio accertamento.
Il primo accertamento riguarda l’effettiva sussistenza della condizione di vittima di tratta. L’individuazione delle vittime di tratta deve fondarsi su una serie di indici sintomatici, contenuti, tra l’altro, in linee guida nazionali e internazionali, che costituiscono un utile strumento a disposizione (anche) dell’autorità giudiziaria[9]: si pensi, a titolo esemplificativo, alla provenienza da un Paese esposto al rischio di tratta, a viaggi lungo rotte utilizzate da organizzazioni criminali, all’esposizione a fenomeni di violenza o sfruttamento nei Paesi di transito, alla presenza di debiti contratti prima e durante il viaggio.
Se questo primo accertamento si conclude con un esito positivo, il giudice dovrebbe valutare una possibile applicazione dell’art. 54 c.p., secondo un accertamento capace di valorizzare la condizione di vulnerabilità del preteso responsabile.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto che l’imputata fosse vittima di tratta, aveva escluso l’applicazione dello stato di necessità senza considerare lo specifico contesto in cui la stessa si era trovata ad agire e senza fornire, dunque, analitica motivazione sulle ragioni per cui non potesse operare l’art. 54 c.p., interpretato in maniera conforme alle indicazioni ricavabili dalle fonti non nazionali.
Da queste premesse, deriverebbe la conclusione per cui «la scriminante dello stato di necessità è invocabile da una persona vulnerabile che risulti essere vittima di tratta e in condizioni di asservimento nei confronti di soggetti a capo di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, nel cui ambito sia stata costretta a compiere operazioni di trasporto di sostanze stupefacenti, senza alcuna possibilità di sottrarsi concretamente alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione dell’Autorità».
3. Estensione analogica dell’art. 54 c.p. o conferma dei principi generali? Una possibile lettura processuale delle conseguenze derivanti dall’interpretazione conforme
La pronuncia della Corte di cassazione, certamente condivisibile negli esiti, lascia emergere con apprezzabile chiarezza l’estrema complessità della condizione di chi, vittima di tratta, commetta a sua volta dei reati. L’impressione, tuttavia, è che restino non esplicitati alcuni aspetti tecnico-giuridici, relativi, in particolare, agli elementi costitutivi dello stato di necessità.
Pare opportuno precisare che l’applicazione dell’art. 54 c.p. in condizioni analoghe a quelle oggetto della pronuncia in commento era già “sperimentata” dalla giurisprudenza di legittimità. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza n. 40270 del 2015, con cui la suprema Corte ha ritenuto applicabile lo stato di necessità al caso di una donna, già riconosciuta da una sentenza irrevocabile come vittima del reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale (art. 600 c.p.), condannata in primo e secondo grado per aver commesso atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), consistiti nell’aver consumato un rapporto sessuale, durante la propria attività di prostituzione, nella pubblica via, alla vista dei passanti. In questa occasione, secondo i giudici di cassazione, la condizione di asservimento che aveva costretto la donna alla prostituzione di strada si traduceva in una sostanziale reificazione della persona, privata della propria libertà di autodeterminazione[10]. Gli interventi sulle vittime di reati come la tratta e lo sfruttamento di essere umani sono proprio caratterizzati da un superamento della condizione di vulnerabilità attraverso un recupero della loro capacità di autodeterminazione, da conseguire mediante un allontanamento dagli sfruttatori e, eventualmente, una denuncia degli stessi[11]. Affermare, come avevano fatti i giudici di merito, che per la vittima sarebbe stato agevole sottrarsi al pericolo rivolgendosi alle forze dell’ordine «significa banalizzare un fenomeno criminale gravissimo, che lede in maniera significativa e permanente i diritti umani e, soprattutto, equivale a violare i principi in materia di protezione delle vittime per tali reati e in materia di posizione delle vittime nel processo penale contenuti nelle fonti giuridiche internazionali (vanno richiamati sia il Protocollo Nazioni Unite c.d. Trafficking, già citato, che la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, ratificata con la L. 2 luglio 2010, n. 108) e negli strumenti europei comunque vincolanti per il nostro sistema giuridico (si vedano la direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani e la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI)»[12].
La sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione riprende ed enfatizza il riferimento alle fonti internazionali ed europee, le quali inciderebbero, per il tramite dell’interpretazione conforme, sulla lettura dell’art. 54 c.p.
Non risulta del tutto chiaro, però, se dall’obbligo di interpretazione conforme derivi una vera e propria estensione analogica dell’art. 54 c.p., consentendo l’applicazione della scriminante a casi che, altrimenti, sarebbero esclusi dal suo ambito di operatività; e, se così fosse, quale sarebbe l’elemento costitutivo dello stato di necessità ampliato per “recepire” le indicazioni derivanti dalle fonti non nazionali.
L’impressione, in effetti, è quella per cui dall’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p. derivino non tanto delle conseguenze sostanziali (ampliamento dei requisiti costitutivi della scriminante), quanto, piuttosto, degli effetti processuali: in presenza di una accertata condizione di vittima di tratta e, quindi, di vulnerabilità della persona, cui si aggiunga la presenza di un nesso causale tra questa condizione e il reato commesso, dovrebbe ritenersi sussistente una presunzione relativa sulla sussistenza dei requisiti costitutivi dell’art. 54 c.p., che, ovviamente, può essere superata in giudizio da una prova contraria.
La condizione di vittima di tratta, anche sulla base delle indicazioni offerte dalle fonti non nazionali di riferimento, comporterebbe una posizione più favorevole, sul versante processuale, per la persona che commetta reati causalmente collegati a quella condizione, determinando quella che, sia pur con tutte le peculiarità del processo penale, potrebbe sbrigativamente definirsi come una “inversione dell’onere della prova”[13].
La condizione di vulnerabilità delle vittime di tratta, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, faciliterebbe l’accertamento relativo a tutti gli elementi costitutivi dello stato di necessità, che, quindi, non sarebbe necessario estendere per via analogica.
3.1. Il rapporto tra la vulnerabilità della vittima di tratta e gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p.
Gli elementi costitutivi dell’art. 54 c.p., il cui accertamento potrebbe essere influenzato dalla posizione di vulnerabilità della vittima di tratta, sono i seguenti: a) la costrizione; b) la necessità di evitare un danno grave alla persona; b) la non evitabilità altrimenti del pericolo; c) l’attualità del pericolo.
a) Il rapporto tra la condizione di vulnerabilità, la costrizione e la non evitabilità altrimenti del pericolo. L’elemento della costrizione sembra quello sul quale si focalizzano alcuni dei passaggi più significativi della sentenza n. 2319 del 2024 della Corte di cassazione.
Si precisa, infatti, che il giudizio relativo alla sussistenza dello stato di necessità deve essere valutata sia in riferimento al primo comma dell’art. 54 c.p. sia in riferimento alla coazione morale disciplinata dal successivo terzo comma, richiamando l’orientamento per cui, nel caso di pericolo derivante dall’altrui minaccia, lo stato di necessità sussisterebbe anche in presenza di una coazione solo relativa, da cui deriva una limitazione, ma non un completo annullamento, della libertà di scelta del soggetto[14].
Nell’accertamento della coazione, evidentemente, dovrà attribuirsi rilievo alla condizione di vulnerabilità della vittima. Non è un caso che l’art. 2 della direttiva 2011/36/UE definisca la posizione di vulnerabilità come la situazione in cui lapersona non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. Così come non è un caso che la condizione di vittima di tratta venga usualmente indicata, anche dall’art. 90-quater c.p.p., come uno degli “indici sintomatici” da cui ricavare la vulnerabilità della persona[15]. Potrebbe obiettarsi che il concetto di “vittima vulnerabile” si trovi usualmente riferito alla persona offesa, mentre in questa ipotesi si pretenderebbe di qualificare con l’attributo della vulnerabilità chi ha commesso un certo reato, sia pur essendo stato vittima, in passato, di un reato diverso. Come però chiarito dalla Corte EDU, l’esigenza è quella di tutelare persone che abbiano subito gravi violazioni di diritti fondamentali, posto che da un processo penale potrebbe derivare un’ulteriore violazione di quei diritti.
La vulnerabilità, ad ogni modo, non comporta, di per sé sola, uno stato di costrizione rilevante ex art. 54 c.p.: è necessario che tra la vulnerabilità e la costrizione sussista un rapporto di derivazione causale, nel senso che, come si precisa più volte nella sentenza in commento, il reato deve essere la conseguenza della condizione di vulnerabilità che caratterizza la persona, in quanto vittima di tratta.
Se questo nesso sussiste, la condizione della vulnerabilità integra non solo il requisito della costrizione (il solo al quale si fa esplicito riferimento nell’art. 26 della Convenzione di Varsavia), ma anche quello della non evitabilità altrimenti del pericolo. Quest’ultimo rappresenta, come noto, uno degli elementi da cui si ricava una formulazione estremamente restrittiva dell’art. 54 c.p., rispetto, anzitutto, a quella del “contiguo” art. 52 c.p. in materia di legittima difesa[16]. Come precisato dalla Corte di cassazione, la materiale possibilità di sottrarsi al “controllo” dei propri sfruttatori deve essere contestualizzata, prendendo in considerazione quello stato di soggettivo asservimento che spesso caratterizza la persona vittima di tratta e che, di fatto, non rende praticabile altra via se non quella di subire la condotta abusiva nei suoi confronti.
Muovendo dagli effetti processuali di un’interpretazione conforme dell’art. 54 c.p., potrebbe quindi ritenersi che, se la vittima di tratta commette un reato “connesso” alla sua condizione, dovrà di regola ritenersi sussistente tanto l’elemento della costrizione quanto quello della non evitabilità altrimenti del pericolo, salva prova contraria eventualmente acquisita nel corso del processo.
b) La necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. La scriminante dello stato di necessità, come noto, può operare solo in presenza del pericolo di un danno grave alla persona.
Anche il pericolo di un danno grave alla persona, consistente, per esempio, in un pericolo per la vita, l’integrità fisica o la libertà personale, potrebbe ritenersi strutturalmente insito nella condizione di asservimento in cui versano le vittime di tratta.
Ben potrebbe concludersi, allora, che anche per questo requisito operi una presunzione relativa, superabile da prova contraria nell’ambito del processo.
Analoghe considerazioni valgono per il pericolo attuale, che, così come per la scriminante della legittima difesa, potrebbe consistere non solo in un pericolo “presente” in senso stretto, ma anche in un pericolo “incombente” o “perdurante”: quest’ultimo, in particolare, si verificherebbe nel caso in cui l’aggressione al proprio diritto è in corso e possono quindi esserne evitati sviluppi ulteriori o quando l’offesa non si è ancora consolidata, non essendosi completato il passaggio dalla situazione di pericolo a quella di danno[17].
La questione relativa all’attualità del pericolo, tornata al centro del dibattito scientifico, per la scriminante della legittima difesa, in riferimento alla violenza di genere e alla reazione delle donne nei confronti della violenza maschile[18], ben potrebbe estendersi, più in generale, ai casi in cui chi commette il reato si trovi in una condizione di oppressione tale da determinare (almeno) una significativa compromissione della propria libertà morale e personale. La condizione di vulnerabilità di una vittima di tratta, che commetta un reato derivante dalla sua condizione, potrebbe, ancora una volta, dar luogo a una presunzione relativa della sussistenza di un pericolo attuale, a meno che, nel corso del processo, non emerga che il pericolo in questione non rispondesse neppure al modello del pericolo incombente o perdurante.
4. Conclusioni
La sentenza in commento offre spunti di indubbio rilievo, specie nella parte in cui, per reati commessi da persone vittime di tratta, valorizza un’interpretazione dell’art. 54 c.p. conforme alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali ed eurounitarie: la tratta, rappresentando una violazione dei diritti fondamentali, impone una tutela rafforzata delle sue vittime, anche attraverso meccanismi che, pur senza garantire una generalizzata impunità a fronte della commissione di reati, tengano conto della particolare condizione di vulnerabilità che fa da sfondo alla condotta penalmente rilevante.
L’art. 54 c.p., per la verità, sembra da solo sufficiente a garantire le esigenze in questione, senza che il suo ambito di operatività debba essere ampliato per via analogica.
Il rafforzamento della tutela, allora, potrebbe transitare per un versante più strettamente processuale, consistente, più esattamente, in una “regola di giudizio” più favorevole all’imputato. A fronte dell’accertamento che la persona sia una vittima di tratta in condizione di vulnerabilità nonché del collegamento causale del reato commesso e la situazione in questione, dovrebbe muoversi da una presunzione relativa della sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 54 c.p., salvo un’eventuale prova contraria che venga a formarsi nel corso del processo penale.
Diviene dunque cruciale la fase della individuazione delle vittime di tratta, secondo le indicazioni puntualmente chiarite dalla Corte di cassazione. Questa operazione, oltre a garantire il rispetto degli obblighi convenzionali, come delineati dalla Corte EDU, consentirebbe non solo di mettere al riparo le vittime di tratta da una (sia pur sui generis) vittimizzazione secondaria, ma contribuirebbe a rafforzare i meccanismi di emersione di un fenomeno criminale spesso difficile da monitorare e, allo stesso tempo, ad attivare gli strumenti capaci di assicurare un’effettiva liberazione dal vincolo di asservimento che, pressoché inevitabilmente, deriva da una così profonda violazione dei diritti fondamentali della persona.
[1] Corte EDU, Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, 25965/04, § 282; Corte EDU, M. e altri c. Italia e Bulgaria, 31 luglio 2012, 40020/03, § 151.
[2] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, 16 febbraio 2021, 77587/12, 74603/12.
[3] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., § 158 («It is clear that no general prohibition on the prosecution of victims of trafficking can be construed from the Anti-Trafficking Convention or any other international instrument»).
[4] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 159.
[5] Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, cit., 162. V. anche il successivo § 196, dove, in riferimento all’art. 6 CEDU, si ribadisce che, sebbene le vittime di tratta non siano immuni dall’esercizio dell’azione penale, lo status di vittima di tratta può influire sulla valutazione relativa all’interesse pubblico di iniziare un procedimento penale, rappresentando, quindi, un aspetto fondamentale della difesa dell’imputato, che deve essere garantito dallo Stato.
[6] V., in particolare, l’art. 2 direttiva 2011/36/UE: al primo paragrafo si stabilisce che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili i seguenti atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento», precisando al paragrafo successivo che «per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima».
[7] Si tratta di una premessa, che, sebbene criticabile per più ragioni, rappresenta un assunto ampiamente condiviso dalla dottrina italiana (allineata, sul punto, a quella tedesca): valga, per tutti, il rinvio a F. Mantovani, Diritto penale, Milano, Wolters Kluver-Cedam, 2020, 255-256; T. Padovani, Diritto penale, XIII ed., Milano, Giuffrè, 189 ss.; F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, Giappichelli, 2018, 61 ss.
[8] Per un più ampio inquadramento del principio di interpretazione conforme in materia penale, tanto sul versante eurounitario quanto su quello convenzionale, sia consentito il rinvio ad A. Massaro, Diritto penale europeo, Torino, Giappichelli, 2023, 36 ss.
[9] La Corte di cassazione fa riferimento alle “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento” allegate al “Piano nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento” previsto dall’art. 13 della l. n. 228 del 2003, che hanno recepito tanto gli indicatori quanto i protocolli contenuti nei documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali, tra cui UNDOC (United Nations Office on Drugs and Crime). Più in generale, v. M. G. Giammarinaro, L’individuazione precoce delle vulnerabilità alla tratta nel contesto dei flussi migratori misti, in Quest. giust., 2/2018.
[10] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 7 del Considerato in diritto.
[11] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 9 del Considerato in diritto.
[12] Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 40270, punto 10 del Considerato in diritto.
[13] Sull’onere della prova da intendersi come “rischio per la mancata prova”, amplius, P. Ferrua, La prova nel processo penale. Struttura e procedimento, vol. I, II ed., Giappichelli, 2017, p. 83-84: «di ‘onere della prova’ nel processo penale non si può parlare in senso proprio: l’espressione, infatti, implicherebbe la validità della prova solo se prodotta dalla parte interessata ad affermare la proposizione da provare. Viceversa, secondo il codice vigente, la prova è validamente assunta, chiunque l’abbia prodotta (accusa, difesa o giudice)».
[14] Cass., Sez. III pen., 2 febbraio 2022, n. 15654, punto 5 del Considerato in diritto.
[15] Cfr. G. Fazzeri, Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”, in Sist. pen., 26 marzo 2024, il quale osserva come il diritto interna non definisca né la nozione di “vittima di tratta” né quella di “posizione di vulnerabilità” con la stessa precisione delle fonti internazionali ed eurounitarie.
[16] M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, Giuffrè, 2004, 572; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 286.
[17] F. Mantovani, Diritto penale, cit., 274.
[18] P. Di Nicola Travaglini, La legittima difesa delle donne nell’omicidio conseguente a reati di violenza di genere, in La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, a cura di C. Pecorella, Mimesis, Milano, 2022, 158 ss.; R. Battistoni, L’omicidio del coniuge maltrattante: tra legittima difesa (putativa) e proporzionalità della pena in astratto, in Sist. pen., 21 giugno 2023.