ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Non saprei dire quante volte ho raccontato questa storia, e non so neppure se adesso sto rielaborando quello che per anni ho rivisto ogni 19 luglio, la storia dei miei racconti, oppure sarò capace di una testimonianza vera.
Io quel giorno ero lì, il 19 luglio 1992 ero proprio lì, a Palermo.
Nel tardo pomeriggio di quella maledetta domenica io ero in via d’Amelio, nella confusione di una strada e di case sventrate, sul campo della sconfitta, e della paura.
Come tanti magistrati avevo trovato la mia prima sede in Sicilia, ero alla Procura di Sciacca da appena un anno quando saltò in aria l’autostrada. Passate alcune settimane da quei fatti sconvolgenti, sentita addosso la pioggia dei funerali davanti alla Chiesa di San Domenico, seguivo con una preoccupazione adrenalinica gli sviluppi delle inchieste, ma anche i discorsi e quei preziosi interventi in pubblico di cui Paolo Borsellino non volle privarci, fino all’ultimo
Ero anche un po’ egoista.
In quei giorni giravano strane voci su progetti d’attentati, venivano pubblicati trafiletti di stampa con riferimenti equivoci a “giovani magistrati nell’obiettivo” della mafia. Mi ritenevo così importante che per cercare rassicurazione lo chiamai, il venerdì sera prima di quel 19 luglio per sentirmi dire che erano notizie senza fondamento, che potevo stare tranquilla, o qualcosa del genere. Paolo Borsellino mi rassicurò. Non ricordo le parole che mi disse e questo mi tormenta proprio, perché se solo fossi stata più attenta adesso potrei raccontare una storia più interessante, e invece sfodero solo i ricordi dei sentimenti di una giovane magistrata, sollevata nel sapere che non ci poteva essere nulla di male che l’aspettava. Per questo il sabato sera mi ero ritrovata con amici a Palermo e poi l’indomani al mare, una bella domenica di luglio.
Invece il male c’era, eccome. Era in via D’Amelio ad aspettare Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Di rientro dalle spiagge di Pollina iniziarono a squillare i telefoni dei miei amici, entrambi giornalisti palermitani, e mentre ci avvicinavamo alla città si vedeva la colonna nera di fumo alzarsi da quel punto verso il porto. Le prime notizie dicevano ben poco, via D’Amelio non era nella mappa dei luoghi noti e protetti in città, quelli davanti ai quali stavano i divieti di sosta (le camionette con i soldati dell’operazione Vespri siciliani sarebbero arrivate sei giorni dopo).
Giunti in città, ci si precipitò col motorino in via D’Amelio. In tutti questi anni ho cercato di estrarre dai miei ricordi quello che vidi allora, con chi parlai, cosa ascoltai in quei momenti e invece riesco solo a ricordare come ero vestita (un impresentabile copricostume) e come mi sentissi del tutto inutile e fuori luogo a starmene lì, a creare intralcio, girovagando tra strada e marciapiedi ingombri di cose che non saprei descrivere. Ogni anno, ad ogni anniversario, rivedo le immagini di quella strage in televisione e mi ostino a cercare qualcosa che mi ricordi me stessa, in quei luoghi, quella sera. Col tempo mi sono anche fatta una ragione di questo vuoto, credo davvero che la testa a volte decida di oscurare quello che vediamo e sentiamo per aiutarci a sopportarne l’esperienza.
Ogni anno, da allora, ho raccontato di quel pomeriggio e di quella sera, quando alcune ore più tardi ci si ritrovò, alcuni colleghi, interrogandoci e guardandoci in faccia per incoraggiarci ma senza riuscire a cavar nulla di buono.
Quella sera sentivamo davvero quello che di lì a poco avrebbe detto Antonino Caponnetto: “E’ finito tutto!”. Una settimana dopo, alla stessa ora di quella domenica pomeriggio, Rita Atria, testimone di giustizia a 17 anni, si uccise; ascoltando la sua testimonianza insieme ad Alessandra Camassa avevo conosciuto il Procuratore di Marsala, e questa sarebbe ancora un’altra storia..
In tutti questi anni ho narrato a classi di studenti, in iniziative di Libera, ai miei uditori, la mia storia, ogni volta tornando al giorno in cui perdemmo Paolo Borsellino, l’uomo, il magistrato che avevo avuto la fortuna di conoscere al mio primo incarico; ma non è la violenza di quella strage che merita il ricordo e non sono i particolari di quel pomeriggio che mi spingono a parlare e ora a scrivere.
Paolo Borsellino, visto da lontano, rappresentava per me qualcosa di irraggiungibile, un pezzo della storia della magistratura, il maxi processo, una parte importante delle ragioni per cui avevo fatto il concorso. Da vicino, con tutto il timore reverenziale del caso, fu una grande scoperta. Era davvero molto palermitano, conosceva l’accoglienza e la gentilezza, ma anche il parlare duro. Aveva sempre una gran voglia di insegnare qualcosa ai colleghi di prima nomina, e lo faceva, concretamente, anche se non citava l’ultima Cassazione.
Era un magistrato fedele all’impegno preso giurando sulla Costituzione e a lui, all’epoca anche presidente della Giunta distrettale dell’ANM, consegnai a la mia prima iscrizione ad una associazione di magistrati. Paolo Borsellino era un magistrato attento e impegnato, iscritto a Magistratura Indipendente, coinvolto nell’attività associativa.
Ecco allora non solo il desiderio, ma la necessità oggi, nel momento in cui l’intera magistratura appare colpita e piegata dalla perdita del sentimento della vergogna che ha infestato le nostre istituzioni di autogoverno e le relazioni associative, di ricordare e fare testimonianza del magistrato e dell’uomo, dell’esempio e del coraggio, dell’impegno e della disponibilità che la vita di Paolo Borsellino ci hanno lasciato in eredità, senza dimenticare che proprio perché così consapevole del ruolo che svolgeva Borsellino non si tirò mai indietro quando era il momento. L’esempio conta, ricordare è importante.
L’autrice affronta il tema della prevedibilità della giustizia sotto il profilo degli effetti economici ad essa collegati, analizza gli effetti degli interventi legislativi che si susseguono senza studio di impatto e degli interventi legislativi ambigui e di difficile interpretazione. Illustra infine come attraverso decisioni giurisprudenziali c.d. manipolative, tanto a livello europeo che a livello nazionale, si tenti di contenere i costi a carico della società derivanti dall’imprevedibilità.
Sommario 1. Prevedibilità della giustizia e certezza del diritto. - 2. Prevedibilità sotto un profilo di efficienza economica. - 3. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso Defrenne v. Sabena. - 4. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso della Illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax - 5. Conclusioni
1. Prevedibilità della giustizia e certezza del diritto
La prevedibilità della giustizia, quale logico corollario del principio della certezza del diritto, è principio immanente dell’ordinamento, destinato ad avere un profondo impatto sull’agire degli operatori economici.
A livello europeo, diverse sono le fonti giuridiche dalle quali è riconosciuto: in particolare l’articolo 7 della CEDU, e l’articolo 49 della Carta di Nizza così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Nel caso TAGARAS la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato: “tale principio, che forma parte integrante dell'ordinamento giuridico comunitario, esige che ogni atto dell'amministrazione che produca effetti giuridici sia chiaro, preciso e portato a conoscenza dell'interessato in modo tale che questi possegga la certezza del momento a decorrere dal quale l'atto stesso esiste ed è produttivo di effetti giuridici, segnatamente in riferimento all'esperibilità dei mezzi di impugnazione apprestati dalle norme […] [3]”.
A ben vedere, quando si parla di certezza del diritto non si parla solo della certezza della legge, ma anche della sua applicazione attraverso la prassi decisionale degli organi amministrativi e la giurisprudenza delle corti. Se analizzato sotto la lente della prevedibilità, tale principio assume, dunque, una duplice connotazione. Da una parte vincola il legislatore a formulare regole giuridiche determinate, chiare e precise, dall’altro vincola il giudice ad “un interpretazione ragionevole”, ovvero al dovere di scegliere in maniera prevedibile la giusta regola di diritto da applicare al caso concreto, assicurando coerenza applicativa: ogni persona deve essere posta in condizione di valutare e prevedere in base alle norme generali dell’ordinamento le conseguenze giuridiche della propria condotta. Esso costituisce, dunque, un valore al quale lo Stato deve tendere per garantire la libertà dell’individuo e l’uguaglianza di fronte alla legge.
All’interno del principio di certezza del diritto si dipanano quali corollari il principio del legittimo affidamento e non retroattività della legge, il principio di determinatezza e prevedibilità, ed il principio di coerenza applicativa. Diversi sono i risvolti concreti del principio di certezza del diritto: la tutela della libertà personale, attraverso la protezione degli individui dall’esercizio arbitrario del potere da parte dello Stato; la deterrenza, permettendo agli individui di comprendere quale condotta sia proibita; la fiducia nella legge; e, sotto un profilo economico, la riduzione dei costi e una migliore pianificazione delle attività economiche, sia a livello individuale che di governo. In questo senso, il principio non mira solo ad assicurare il rispetto della legge, quale funzione deterrente ma anche permettere che gli operatori economici compiano scelte razionali[4].
Le considerazioni sinora svolte devono essere vagliate anche alla luce di una prospettiva dinamica. Partendo dall’assunto che la regola giuridica sia chiara e determinata, e quindi prevedibile, è necessario, infatti, porre l’accento sullo ius superveniens. Modifiche legislative o degli ordinamenti consolidati spesso sono necessarie alla mutata realtà sociale, ma inevitabilmente incidono sulla prevedibilità. Vi è, infatti, un aggiustamento dell’esito giudiziario rispetto a cambiamenti che riguardano la società.
La mancanza di un riadattamento del diritto (sia attraverso un intervento legislativo che attraverso un’interpretazione aggiornata da parte delle corti) comporta un’inefficienza economica tanto maggiore, quanto maggiore è la discrepanza tra diritto applicato e realtà sociale, e, in questo senso, spesso l’affidamento alle regole esistenti deve essere sacrificato all’esigenze derivanti dai cambiamenti che accompagnano la società.
Al riguardo il quesito che bisogna porsi è dunque in che modo innovazioni giurisprudenziali, accompagnate da una riduzione della prevedibilità, siano efficienti economicamente. In particolare, è utile interrogarsi su quali parametri devono essere presi in considerazione per valutare l’efficienza economica di una modifica legislativa o giurisprudenziale.
2. Prevedibilità sotto un profilo di efficienza economica
Al fine di rispondere a tali interrogativi in dottrina, è stato rilevato che se da una parte i c.d. costi di affidamento aumentano con l'incertezza del diritto e la perdita di beni acquisiti a causa di una legge successivamente abrogata, dall’altra troppa aderenza alla legge determina il radicamento di regole che potrebbero diventare nel tempo inefficienti a causa del cambiamento sociale[5].
In termini di efficienza, quindi, si dovrebbe dare corso a cambiamenti legislativi o interpretativi solo quando i benefici (B) post modifica al netto dei costi (C), siano superiori ai benefici di mantenere inalterata la disciplina normativa al netto dei costi[6], ovvero:
B after – Cafter > B now – C now , non essendo sufficiente che B after > C now .
Sotto il profilo dei costi, in particolare, è possibile rintracciarne tre voci. In prima battuta devono essere considerati i c.d. costi transattivi, ovvero i costi sopportati dalle istituzioni nel redigere un nuovo testo normativo e monitorarne l’applicazione, nonché dalle corti nel compiere una svolta interpretativa. Si tratta di costi di trasmigrazione, c.d. switching cost, tipici nei mercati dei beni, ma che possono estensivamente essere valutati anche in relazione al “mercato legale”. Il fenomeno che può verificarsi è quello della c.d. path dependence, in forza della quale modifiche degli orientamenti che sarebbero benefiche alla luce di modificate situazioni sociali, non vengono compiute a causa degli alti costi di trasmigrazione.
Inoltre, vi sono i c.d. costi di affidamento: in alcuni casi si tratta di costi che non possono essere esclusi, come nel caso dei costi sostenuti dagli attori economici che compiono investimenti sulla base dell’attuale scenario legislativo e dei risvolti processuali prevedibili in quel dato momento. In questo senso investimenti effettuati alla luce della normativa vigente e dell’interpretazione che ne è invalsa, diventano una perdita economica netta nel caso in cui ci sia un’inversione di rotta. Questo potrebbe rappresentare un incentivo economico degli operatori a investire di meno.
In altri casi, però, tali costi sono ulteriormente aggravati da un minore prevedibilità del cambiamento nell’orientamento del giudice, e quindi nei casi di incertezza del diritto, di incoerenza interpretativa o poca chiarezza del dettato normativo. In questo caso il costo è maggiore poiché viene meno l’affidamento degli operatori economici su un’interpretazione normativa. Quando le leggi sono scritte male o quando sono difficilmente comprensibili, gli attori economici non possono basarsi in modo ottimale su di esse e quindi sopportano alcuni costi di interpretazione ex post tendenzialmente superiori ai costi risparmiati nella redazione ex ante.
Infine, deve essere considerato il c.d. costo del rischio. L’attitudine risk adverse degli operatori del diritto in relazione agli esiti non predicibili delle modifiche normative/interpretative comporta l’aumento di costi per la società per assicurarsi contro cambiamenti imprevisti, aumentando così il costo sociale complessivo relativo alle interazioni economiche. Questi costi concernono sia il costo derivante dalla necessità di assicurarsi rispetto a esiti giudiziari / modifiche legislative non prevedibili, che la riluttanza ad avere modifiche normative anche se desiderabili da un punto di vista di efficienza. Poiché (inefficienti) comportamenti opportunistici sono possibili solo nel tempo delle incertezze, l'imprevedibilità e l'inefficienza dei comportamenti opportunistici inducono le persone avverse al rischio a non entrare in rapporti giuridici che comportano tali incertezze.
Alla luce dei menzionati costi, è possibile concludere che il principio di certezza del diritto, e la prevedibilità della regola giuridica applicabile al caso concreto risponde ad una logica di efficienza economica (sia dal punto statico – allocativa e produttiva -, che dinamico – in termini di incentivi-) solo quando i sopra menzionati costi risultano essere minimizzati.
L’analisi sinora proposta rappresenta un passaggio essenziale quando si tratta di valutare l’impatto di una riforma legislativa, mostrando l’importanza di uno studio di impatto che di fatto è sembrato mancare in tutti i casi di interventi normativi registrati in Italia nell’ambito del processo civile e del processo penale. I governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sono, infatti, intervenuti sul rito civile e penale, con l’obiettivo della “semplificazione” e dell’“efficienza” del processo, senza alcuno studio dell’impatto sui costi a carico della società derivanti dalle modifiche normative introdotte, in materia di formazione degli operatori, di rischio di errore interpretativo e in termini di prevedibilità della decisione.
Nessuna verifica di impatto economico è stata mai effettuata con riguardo alle riforme, né si è considerato che detti costi avrebbero potuto più efficacemente essere sostenuti per implementare le risorse disponibili considerato che, secondo la costante affermazione degli studiosi e degli operatori del diritto, l’irragionevole durata dei processi in Italia dipende dalla carenza di risorse umane e materiale e non già dalla disciplina del rito.
Ulteriore aspetto meritevole di considerazione è quello della necessità di coniugare le suddette valutazioni con il criterio di efficienza (o di compensazione) di Kaldor-Hicks, secondo il quale, una modificazione nell'allocazione delle risorse è efficiente se il benessere ottenuto da alcune componenti supera le perdite di benessere subite da altri componenti. Perché vi sia efficienza è fondamentale che coloro che subiscono una perdita di benessere siano compensati da coloro verso i quali la modificazione dell'allocazione ha operato favorevolmente[7].
In conclusione, una modifica legislativa e degli orientamenti interpretativi è efficiente quando questi costi sono minimizzati, e in generale quando chi subisce dei peggioramenti è compensato. Come avviene questo? Secondo la richiamata dottrina attraverso il risarcimento della violazione del legittimo affidamento e nella modulazione degli effetti del giudicato. In questo senso sarebbe possibile pervenire alla conclusione che non sempre l’imprevedibilità, se corretta, si accompagna ad inefficienza economica.
3. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso Defrenne v. Sabena[8]
Un esempio importante in questo senso è rappresentato dallo storico caso Defrenne v. Sabena. La questione riguardava un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea da parte del giudice belga, con il quale era stato sollevato il quesito dell’applicabilità della norma del Trattato di Roma che vieta la discriminazione in base al sesso, art. 119 TFUE, ai rapporti tra privati e se, nel caso di specie, la diversa età pensionistica per uomini e donne prevista dalla compagnia aerea Sabine rappresentasse una violazione di simile norma[9].
La questione aveva coinvolto tutti gli Stati, che si erano schierati a sostegno della compagnia aerea Sabena, dal momento che una eventuale pronuncia in favore del ricorrente, Defrenne, avrebbe esposto a rischio economico molte altre compagnie aeree.
Secondo l’opinione espressa dall’Avvocato Generale, tuttavia la Corte non avrebbe dovuto essere forviata dalla prospettazione economiche e politiche dei Paesi Membri, né cedere di fronte a quella che a suo avviso rappresentava in realtà una vera e propria discriminazione. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea disattese, tuttavia le conclusione dell’Avvocato Generale e percorse una terza via affermando che, sebbene dal trattato emergesse un nuovo diritto immediatamente applicabile anche nei rapporti tra privati, la Corte avrebbe potuto limitare per il passato gli effetti delle proprie sentenze anche nel caso di sentenze interpretative (e quindi non solo, come fino ad allora ammessa ex 174 TFUE nel caso di decisioni di annullamento) sia ratione temporis che ratione personae. L’articolo 174 TFUE è, infatti, espressione di un principio generale dal quale discende il potere in capo alla Corte di determinare l’efficacia temporale delle proprie sentenze.
La Corte quindi, rilevando che il riconoscimento dell'efficacia diretta dell'art. 119, con effetto retroattivo, avrebbe potuto avere, nella situazione dei datori di lavoro, ripercussioni tali da pregiudicare l'economia degli Stati membri, concluse che “eccezion fatta per i lavoratori che abbiano già promosso un'azione giudiziaria o proposto un reclamo equipollente, l'efficacia diretta dell'art. 119 non può essere fatta valere a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della presente sentenza”.
4. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso della Illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax [10]
A livello nazionale, la necessità di modulare gli effetti di sentenze dichiarative di incostituzionalità è emersa con particolare forza nel caso della pronuncia della Corte Costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria). La sentenza n. 10 del 2015, infatti, rappresenta il primo caso in cui la Corte Costituzionale si è esplicitamente riconosciuta la facoltà di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni. Alla base di simile intervento, vi sono una serie di considerazioni che rispondono a valutazioni in termini di efficienza economica. La Corte, infatti, dispone che «[…] la cessazione degli effetti delle norme dichiarate illegittime dal solo giorno della pubblicazione della presente decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica risulta, costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, in modo da impedire “alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri […] garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali” (sentenza n. 264 del 2012). Essa consente, inoltre, al legislatore di provvedere tempestivamente al fine di rispettare il vincolo costituzionale dell'equilibrio di bilancio, anche in senso dinamico (sentenze n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008, n. 384 del 1991 e n. 1 del 1966), e gli obblighi comunitari e internazionali connessi, ciò anche eventualmente rimediando ai rilevati vizi della disciplina tributaria in esame».
Scopo della Corte è quindi giungere a quell’equilibrio costi/benefici e, in ultima istanza, evitare che si creino effetti ancora più incompatibili con la Costituzione di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina.
5. Conclusioni
In conclusione, a seguito della breve disanima sinora svolta sembra che nel contemperamento tra esigenze di prevedibilità e di efficienza economica le Corti compiano uno sforzo al fine di modulare gli effetti delle proprie decisioni destinate ad avere un significativo impatto economico sulla società in certi casi compiendo una valutazione di impatto dei costi sociali più attenta di quella spesso compiuto dal legislatore nell’ambito di riforme sistemiche (come quelle del rito civile e penale).
Una simile modulazione degli effetti risulta, infatti, essenziale al fine di migliorare l’efficienza economica di scelte legislative o interpretative in sede applicativa.
Nei casi in cui manca un simile correttivo, al contrario, si può assistere ad una divaricazione tra scelte giurisprudenziali ed efficienza economica. A tal riguardo è utile richiamare come in dottrina sia stata rilevata la totale imprevedibilità di alcuni esiti decisionali in materia di concorrenza, prima fra tutto la decisione sul caso Google Search[11] attraverso la quale la Commissione ha imposto una sanzione record di €2.42 miliardi per violazione dell’articolo 102 TFEU. Il problema era quello dell’inquadramento tra le fattispecie anti concorrenziali della condotta di Google, la quale avrebbe favorito il proprio servizio di comparazione dei prezzi Google shopping a discapito delle proprie concorrenti, abusando della propria posizione di dominanza nell’attiguo mercato della ricerca su internet.
Si tratta di un’area dove la protezione della certezza del diritto e la necessaria prevedibilità deve essere bilanciata con la necessità di assicurare una repressione di nuove condotte di mercato, al passo con il nuovo sviluppo tecnologico e sociale. Tuttavia, è stato in dottrina rilevato come una modulazione degli effetti, anche attraverso l’adozione dei c.d. programmi di clemenza o attenuanti, avrebbe potuto ricondurre la decisione entro margini di maggiore prevedibilità, evitando elevati costi che potrebbero avere anche ricadute sociali in termini di disincentivo all’innovazione[12].
[1] Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Camera), del 15 giugno 1978, caso Defrenne v Sabena, C-149/77.
[2] Sentenza della Corte Costituzionale del 9 febbraio 2015, n.10/2015.
[3] Sentenza del Tribunale Della Funzione Pubblica Dell’Unione Europea (Prima Sezione) 15 giugno 2010, C-18/89.
[4] Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Dike, 2018.
[5] O. Gough e J. Tanega, The principle of legal certainty as a principle of economic efficiency Aurelien Portuese, in European Journal of law and economics, 2017, 44, 131–156.
[6] Becker, Nobel Lecture: The Economic Way of Looking at Behavior, in The Journal of Political Economy Vol. 101 (1993) 385-409.
[7] Posner, Economic Analysis of Law, 9° edizione (Wolters Kluwer 2014), capitoli 1 & 2; Veljanowski, The Economics of Law 2° edizione (iea 2006), 44-80.
[8] Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Camera), del 15 giugno 1978, caso Defrenne v Sabena, C-149/77.
[9] Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Cedam, 2012.
[10] Sentenza della Corte Costituzionale del 9 febbraio 2015, n.10/2015.
[11] Decisione della Commissione Europea del 27 giugno 2017, caso Google Search, AT.39740.
[12] Wills, The Increased Level of Antitrust Fines, Judicial Review, and the European Convention on Human Rights, World Competition, 33(1)/2010, 5. Sul punto si rinvia a Ezrachi, EU Competition Law Goals and the Digital Economy, Oxford Legal Studies Research Paper, 17/2018; Petit, Are 'FANGs' Monopolies? A Theory of Competition under Uncertainty, 7 luglio 2019 disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=3414386.
Consenso informato e falso ideologico: nessun obbligo certificativo del medico sull’autenticità della sottoscrizione del paziente. Nota a Trib. Roma, Sez. G.I.P., sent. 27 marzo 2019 (dep. 19 aprile 2019), giud. E. Pierazzi
Sommario: 1. La decisione. - 2. La disciplina del consenso informato, tra approdi giurisprudenziali e sopravvenienze normative. - 3. Doveri informativi e poteri certificativi: quale la possibile rilevanza dell’art. 479 c.p.?
1. La decisione.
La pronuncia concerne l’addebito, quale ipotesi ex art. 479 c.p., della falsificazione della sottoscrizione del paziente in calce al modulo di consenso informato all’esecuzione di intervento chirurgico, integrante, secondo l’assunto accusatorio, falsa attestazione di ricezione di dichiarazione di volontà, consumatasi con l’apposizione della firma del medico curante. L’Autorità giudiziaria ha ritenuto insussistente il fatto tipico di reato, per difetto di attività certificativa dell’autenticità della sottoscrizione, attesa la differente natura dell’atto del professionista, quale mero adempimento del dovere informativo sullo stesso gravante (con conseguente diverso significato giuridico della sottoscrizione del medico, da reputarsi unicamente attestazione della propria attività, non anche della ricezione di dichiarazioni altrui). La sentenza che s’annota offre, invero, un interessante contributo ermeneutico in tema di qualificazione giuridica dell’atto di consenso informato, quale connubio (a struttura essenzialmente paritetica e speculare) tra dovere informativo del medico e consapevole dichiarazione di volontà del paziente sul trattamento terapeutico, ove all’adempimento del primo si attribuisce valore di semplice dichiarazione di scienza (sul proprio operato), con assenza, dunque, di portata certificativa del consenso eventualmente prestato, tale da rendere non sussumibile nella fattispecie incriminatrice in contestazione l’eventuale accertamento di falsità della sottoscrizione del paziente.
2. La disciplina del consenso informato, tra approdi giurisprudenziali e sopravvenienze normative.
La decisione prende le mosse dall’analisi del consolidato orientamento di legittimità secondo cui il consenso informato al trattamento terapeutico integra non già scriminante della condotta eventualmente tipica (ai sensi dell’art. 50 c.p.), bensì presupposto di validità e liceità dell’attività medica. Sul punto si veda, ex multis, Cass. pen., S.U., 21 gennaio 2009, n. 2437, ove s’è affermato come il consenso informato (espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico) si configuri quale vero e proprio diritto della persona, trovando fondamento nei principi espressi all’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., la cui combinata lettura pone il principio dell’autodeterminazione in ambito terapeutico, inteso, dunque, come intrinseco limite alla doverosa attività di tutela della salute. Così anche C. cost., 23 dicembre 2008, n. 438, ove sono pure passate in rassegna le numerose fonti internazionali che detto diritto sanciscono (tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina di Oviedo del 4 aprile 1997, ratificata con l. 28 marzo 2001, n. 145).
Pare, infine, doveroso l’esame della più recente normativa interna che, sebbene non applicabile al caso oggetto di scrutinio ratione temporis, definitivamente detta la disciplina del consenso informato, quale precipitato dell’esperienza giurisprudenziale in commento. Si fa riferimento alla l. 22 dicembre 2017, n. 219, volta alla promozione e valorizzazione della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, fondata sul consenso informato, «nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico» (art. 1, comma 2). Pertanto, «ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 3). Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, «è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 4). Così garantito il consapevole approccio al percorso terapeutico, è infine sancito il diritto al rifiuto, in tutto o in parte, di qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, al pari del diritto di revocare, in qualsiasi momento, il consenso eventualmente già prestato, quand’anche ciò determini interruzione del trattamento in corso, con obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente e conseguente esenzione da responsabilità civile o penale (art. 1, commi 5-6).
3. Doveri informativi e poteri certificativi: quale la possibile rilevanza dell’art. 479 c.p.?
L’enunciato di cui all’art. 1, comma 2, l.n. 219/17, secondo il quale il consenso informato realizza la fusione tra autonomia decisionale del paziente e competenza professionale e responsabilità del medico, integra adeguato riscontro alla tesi sostenuta nella pronuncia in commento, con particolare riferimento alla natura composita dell’atto, data dalla convergenza di una dichiarazione di volontà e d’una dichiarazione di scienza (quanto al contributo informativo, attestato dal professionista). Tanto consente di limitare alla sola osservanza dell’obbligo d’informazione la potestà certificativa del medico e, pertanto, di reputare configurabile il delitto unicamente in caso di falsa attestazione dell’adempimento (riconducibile alla prima ipotesi contemplata dall’art. 479 c.p.), di contro non ravvisandosi, per struttura dell’atto (ampiamente descritta) e difetto di espressa attribuzione di poteri certificativi sulla provenienza del consenso, i presupposti della seconda ipotesi di cui alla disposizione incriminatrice (concernente la falsa attestazione di ricezione di dichiarazioni, in contestazione nel giudizio definito con sentenza di non luogo a procedere).
Nota Trib. Agrigento, 2 luglio 2019
Sommario: 1. – La capitana della Sea Watch 3 non è una delinquente – 2. I fatti – 3. La decisione del Gip di Agrigento – 4. Antigone e i ‘porti chiusi’ – 5. Il rispetto dei diritti fondamentali come fondamento della legalità democratica.
1. La capitana della Sea Watch 3 non è una delinquente.
Carola Rackete non andava arrestata, né deve essere sottoposta ad alcuna misura cautelare: a questa conclusione giunge con il provvedimento qui in commento il Gip di Agrigento nella vicenda relativa alla capitana della nave Sea Watch 3 che, in violazione del divieto di ingresso in acque italiane intimatogli dal Ministro dell’interno, aveva deciso comunque di approdare nel porto di Lampedusa per farvi sbarcare i migranti soccorsi due settimane prima al largo delle coste libiche.
I bellicosi proclami del Ministro dell’interno – che assicurava che non avrebbe mai concesso alla nave di approdare sulle nostre coste e minacciava “manette e galera” (per usare la terminologia consueta del Ministro) qualora il divieto di ingresso fosse stato violato – vengono dunque clamorosamente smentiti dalla decisione del giudice agrigentino; Carola Rackete non è “una delinquente”, come era stata in più occasioni apostrofata dal Ministro dell’interno, perché la sua condotta era giustificata dall’adempimento al dovere di trovare un porto sicuro ove far sbarcare i migranti soccorsi in mare.
Di seguito andremo rapidamente a ripercorrere le argomentazioni del Gip, per svolgere poi qualche considerazione di natura generale sulla complessiva vicenda in cui tale provvedimento si inserisce.
2. I fatti
I fatti sono stati oggetto di grande attenzione da parte dei media, e ci si può limitare qui a fornirne solo una sintesi assai stringata.
Il 12 giugno la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, effettua il soccorso di 53 persone presenti su un natante in condizioni precarie a 47 miglia dalle coste libiche. Operato il soccorso, la comandante procede subito a richiedere l’indicazione di un POS (place of safety) alle autorità italiane, maltesi, olandesi e libiche. La prima risposta giunge dalle autorità libiche, che indicano Tripoli quale porto sicuro ove condurre i migranti. Considerate le tragiche condizioni in cui versano i migranti nei campi di detenzione libici, la comandante ritiene che la Libia non possa essere considerata un porto sicuro per i naufraghi soccorsi, e si dirige verso le coste europee, benché le autorità italiane e maltesi si rifiutino di indicare un POS affermando la propria incompetenza rispetto al soccorso operato nella cd. zona SAR libica. Dopo che la Sea Watch 3, pur restando in acque internazionali, si era portata a poche miglia da Lampedusa, il 15 giugno il Ministro dell’interno, sulla base dei poteri conferitigli dal cd. decreto-sicurezza bis appena entrato in vigore, formalizza il divieto di ingresso della nave in acque italiane. Nei giorni successivi vengono evacuati dalla nave 10 soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità, ma per gli altri 43 la situazione continua a non sbloccarsi. Il 26 giugno la comandante si risolve infine a violare il divieto e ad entrare nelle acque nazionali, ritenendo non più sostenibile la condizione di stallo venutasi a creare. Dopo qualche giorno di ulteriore attesa di una soluzione concordata con le autorità italiane, nella notte del 29 giugno la nave entra nel porto di Lampedusa, dirigendosi verso l’unica banchina adatta all’attracco di un natante delle dimensioni della Sea Watch 3; nel tentativo di impedire l’attracco, una motonave della Guardia di finanza si frappone tra la banchina e la nave, e viene urtata da quest’ultima nelle manovre di ormeggio, prima di riuscire a sfilarsi e mettersi al sicuro. Ormeggiata la nave, la capitana viene immediatamente arrestata dalla Guardia di finanza, ed il giorno successivo la Procura della Repubblica di Agrigento chiede la convalida dell’arresto e la contestuale applicazione della misura cautelare del divieto di dimora.
3. La decisione del Gip di Agrigento
Le richieste della Procura non si fondano sulla contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (per cui il Procuratore di Agrigento ha reso noto l’apertura di un diverso fascicolo) né sulla violazione del divieto di ingresso nelle acque nazionali emanato dal Ministro dell’interno (il decreto-sicurezza bis prevede per tale violazione solo l’applicazione di una sanzione ammnistrativa pecuniaria), ma riguardano solo i reati che secondo la Procura sarebbero stati compiuti dalla capitana nell’ultimo frammento temporale della vicenda, quando in fase di approdo sulla banchina vi è stato il contatto tra la nave (di dimensioni imponenti) dei soccorritori e la piccola imbarcazione dei finanzieri, che intendeva impedire l’attracco. La Procura ritiene sussistente nella condotta della capitana, che decideva di procedere all’approdo nonostante l’interposizione fisica sulla banchina del natante della Guardia di finanza, gli estremi di due figure delittuose: il delitto di violenza contro nave da guerra di cui all’art. 1100 cod. nav. (punito con la reclusione da tre a dieci anni) e il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. (reclusione da sei mesi a cinque anni).
Il Gip decide di inserire l’analisi dello specifico episodio oggetto di contestazione all’interno della vicenda complessiva, e prende le mosse da una considerazione delle disposizioni internazionali e nazionali che regolano i soccorsi in mare. Il provvedimento fa riferimento in particolare alla Convenzione sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, alla Convenzione SOLAS del 1974 ed alla Convenzione SAR del 1979 (tutte ratificate e rese esecutive nel nostro Paese dalle rispettive leggi di esecuzione); per quanto riguarda poi il diritto interno, il Gip rammenta il disposto dell’art. 10 ter TUI (per cui “lo straniero (…) giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi”), da cui secondo il Gip “deriva l’obbligo, in capo alle autorità statali, di soccorrere e fornire prima assistenza, allo straniero che abbia fatto ingresso, anche non regolare, nel territorio dello Stato”.
Dopo avere riportato l’informativa della Guardia di finanza che ricostruisce la cronologia degli eventi (dal momento del soccorso in mare all’approdo sulla banchina del porto di Lampedusa), il provvedimento passa poi ad analizzare le dichiarazioni rese da Carola Rackete a giustificazione della propria condotta. Il GIP ritiene innanzitutto che la decisione di non riportare i migranti in Libia, come richiesto dalle autorità libiche e italiane, “risultava conforme alle raccomandazioni del Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa e a recenti pronunce giurisprudenziali (v. sentenza del GUP di Trapani del 23 maggio 2019)”. Legittima era anche la scelta di escludere “i porti di Malta, perché più distanti”, e quelli tunisini, perché “la Tunisia non poteva considerarsi un luogo che fornisse le garanzie fondamentali ai naufraghi (…), e la Tunisia non prevede una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo politico”. Il giudice conclude dunque che “alla luce del suddetto quadro normativo, delle sue conoscenze personali in ordine alla sicurezza dei luoghi, ed avvalendosi della consulenza dei suoi legali, il Comandante Carola Rackete si approssimava alle acque di Lampedusa, ritenendola “porto sicuro” e più vicino, per lo sbarco e chiedeva, invano, alle autorità di poter entrare”.
La decisione ricorda poi come, una volta entrata in acque italiane, la capitana della Sea Watch 3 abbia atteso ancora oltre due giorni prima di fare ingresso nel porto di Lampedusa, e si sia decisa all’attracco nonostante il diniego della Guardia di finanza solo quando ha ritenuto che le condizioni fisiche e psicologiche dei migranti non consentissero l’ulteriore prosecuzione del trattenimento sulla nave. Secondo il giudice, tale decisione risulta conforme tanto al diritto internazionale, quanto alla normativa interna, che come visto sopra all’art. 10 ter TUI prevede il dovere di prestare soccorso nei punti di crisi agli stranieri anche irregolari soccorsi in mare. Quanto poi al divieto di sbarco emanato dalle autorità italiane, “ritiene questo Giudice che, in forza della natura sovraordinata delle fonti convenzionali e normative richiamate, nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3 potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del 15 giugno del Ministro dell’interno, che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave Sea Watch 3 nel mare territoriale italiano".
Posto questo quadro di riferimento, il Gip passa rapidamente ad analizzare le due specifiche contestazioni mosse alla Rackete.
Per quanto riguarda il delitto di cui all’art. 1100 cod. nav. (violenza o resistenza a nave da guerra), il giudice ne esclude in radice la sussistenza, aderendo all’interpretazione della nozione di nave da guerra fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 35/2000, secondo cui “le unità navali della Guardia di finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare”.
Quanto invece alla contestazione della resistenza a pubblico ufficiale, il giudice ritiene che “sulla scorta delle dichiarazioni rese dall’indagata (a tenore delle quali ella avrebbe operato un cauto avvicinamento alla banchina portuale) e da quanto emergente dalla visione del video in atti, il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella sua portata offensiva, rispetto alla ricostruzione accusatoria fondata sulle rilevazioni della p.g”. Il Gip ritiene comunque che la condotta della Rackete integri gli estremi della resistenza a pubblico ufficiale, ma reputa altresì che il reato sia scriminato ai sensi dell’art. 51 c.p., posto che “il descritto segmento finale della condotta dell’indagata, come detto integrativo del reato di resistenza a pubblico ufficiale, costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dover di soccorso, il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione sino al più volte citato porto sicuro”.
4. Antigone e i “porti chiusi”
La decisione del Gip di Agrigento mostra come, in uno Stato costituzionale di diritto, il sacrificio di Antigone non sia più necessario per tutelare i valori supremi del diritto di fronte all’ingiustizia del potere. Se le pubbliche autorità impongono un comportamento che comporta la violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, colui (o colei) che decida di trasgredire l’ordine dell’autorità non commette alcun illecito, perché la tutela di tali diritti è posta al vertice dell’ordinamento giuridico, e legittima l’opposizione ad ordini ingiusti dell’autorità. Poco importa che il Ministro dell’interno invochi il carcere per chi non rispetta i suoi ordini: se tali ordini sono contrari a norme di diritto internazionale che il giudice italiano è tenuto ad applicare in virtù del vincolo sancito all’art. 10 Cost., le condotte che pure trasgrediscono tali ordini non sono punibili, quali che siano i desiderata del Ministro dell’interno o della (supposta) maggioranza della pubblica opinione
E’ questo il messaggio che emerge dalla lettura del provvedimento. Posto che le coste italiane erano il “porto sicuro” più vicino ove sbarcare i naufraghi della Sea Watch 3, il diritto internazionale del mare attribuiva ai naufraghi-migranti il diritto a sbarcare sulle nostre coste, ed alla capitana che ha agito al fine di consentire l’esercizio di tale diritto non può essere rimproverato di essere stata costretta ad opporsi alla pubblica autorità che cercava di impedirle l’adempimento al proprio dovere.
In effetti, il punto decisivo della vicenda – e dei molti episodi simili di rifiuto delle pubbliche autorità italiane di concedere l’approdo delle navi delle ONG (anche di quelle battenti bandiera italiana: quando si scrivono queste note è in corso l’ennesimo episodio di rifiuto di un POS alla nave Alex della ONG italiana Mediterranea) – riguarda la legittimità della strategia governativa dei “porti chiusi” per le ONG che operano attività di soccorso nelle acque della cd. SAR libica. Qualora si ritenga, come il giudice agrigentino, che il diritto internazionale (oltre che la normativa interna) imponga alle autorità italiane di fare sbarcare gli stranieri soccorsi in mare, anche se irregolari, è logica conseguenza ritenere non punibili comportamenti che si pongono come necessari per il rispetto di tale dovere, anche se essi implicano la trasgressione ad un ordine dell’autorità, o sinanco (come nel caso in commento) il contrasto fisico all’autorità medesima.
Il ragionamento è il medesimo che ha condotto poche settimane orsono il Tribunale di Trapani, nel pressoché assoluto silenzio dei media, a riconoscere la legittima difesa ai migranti che avevano impedito con la forza al capitano della nave che li aveva salvati di riportarli in Libia, come gli era stato indicato dalle autorità italiane e libiche (Trib. Trapani, 23.5.2019 -dep. 3.6.2019-, in Dir. pen. cont., 24.6.2019, con nota di L. Masera). Anche in questo caso, il giudice anzitutto motiva (con argomenti che sono stati ampiamente ripresi dalla decisione qui in commento) la contrarietà al diritto internazionale della decisione delle autorità (italiane e libiche) di ordinare al capitano della nave lo sbarco in Libia dei migranti soccorsi; dall’illegittimità del rimpatrio verso la Libia, la sentenza ricava poi la conclusione che la condotta del capitano configurasse per i migranti il pericolo di una offesa ingiusta, alla quale legittimamente essi hanno opposto resistenza.
Nel caso di Trapani, il giudice, riconoscendo le legittima difesa agli imputati, arriva a qualificare come una vera e propria aggressione ingiusta la condotta delle pubbliche autorità, mentre il giudice agrigentino, decidendo di applicare l’esimente dell’adempimento di un dovere, si limita a constatare che la condotta della capitana era conforme ai doveri su di lei incombenti ai sensi della normativa nazionale e internazionale, senza espressamente pronunciarsi sull’illegittimità della condotta tenuta dai pubblici agenti. L’iter logico rimane comunque lo stesso: in tanto la capitana può invocare l’esimente dell’art. 51 c.p., in quanto la condotta dei pubblici ufficiali cui con la sua condotta si è opposta sia da ritenere un illegittimo impedimento all’adempimento dei doveri su di lei incombenti.
La situazione che viene alla luce è allora quanto mai preoccupante. Tanto i due provvedimenti in questione, quanto le diverse pronunce (tutte di natura cautelare) che hanno sempre sinora escluso profili di responsabilità ex art. 12 TUI per le ONG che, in violazione delle indicazioni ricevute dalle autorità italiane, hanno condotto in Italia i migranti soccorsi in mare, hanno in termini molto chiari affermato che contrasta con il diritto internazionale la prassi delle nostre autorità di ostacolare in ogni modo lo sbarco dei soccorsi sulle nostre coste, favorendo il rimpatrio dei migranti in Libia ad opera della Guardia costiera libica o di natanti privati (nel caso Sea Watch 3, le autorità italiane hanno a più riprese esortato la capitana ad aderire all’indicazione di Tripoli come porto sicuro fornita dalla Guardia costiera libica, e proprio l’inottemperanza a tale indicazione è stata a fondamento dell’interdizione ad entrare nelle nostre acque territoriali). E’ vero poi che si tratta di decisioni di merito, e che sul punto non vi è ancora stata una pronuncia della Cassazione. Tuttavia, la contrarietà della strategia dei porti chiusi ai doveri imposti dal diritto internazionale è stata sostenuta da una pluralità di fonti autorevoli: basti por mente, per limitarci agli interventi più recenti, alle Raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa in relazione ai soccorsi in mare, del giugno scorso (Lives saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean: il testo è disponibile su Dir. pen. cont., 20.6.2019, con una nota di commento di S. Zirulia) o al documento sottoscritto da 21 professori di diritto internazionale(Ampi stralci del testo sono stati pubblicati sul Corriere della sera del 4 luglio c.a.
), che in replica alle osservazioni di uno dei consulenti giuridici del Ministero dell’interno individuano le ragioni per cui il rifiuto di concedere lo sbarco alle ONG deve ritenersi illegittimo.
Nonostante dunque le censure che alle politiche governative in materia di soccorsi in mare sono state mosse dalla giurisprudenza e dalle istituzioni sovranazionali di tutela dei diritti, il Governo continua pervicacemente a portare avanti tali politiche, con le gravi conseguenze che proprio i provvedimenti di Trapani e Agrigento mettono bene in luce. Perseverando nella politica dei porti chiusi, infatti, l’autorità di governo impone a chi agisce sul campo (il capitano della nave cui era stato ordinato di riportare i migranti in Libia, nel caso di Trapani; o i finanzieri cui era stato ordinato di impedire l’attracco della Sea Watch 3, nel caso di Agrigento) di tenere condotte che secondo la magistratura sono illegittime, e rispetto alle quali risultano di converso legittime le condotte che vi si oppongono.
Non vi è dubbio che si tratti di una situazione insostenibile, specie se si protrae nel tempo. I pubblici ufficiali chiamati ad implementare le (illegittime) politiche governative sono esposti al rischio che i destinatari degli ordini impartiti si ribellino (legittimamente) a tali ordini, e in tale eventualità i pubblici ufficiali rimangono privi delle tutele che l’ordinamento predispone a garanzia del loro operato (come l’art. 337 c.p.), e che presuppongono l’agire legittimo delle autorità.
Non solo, i pubblici ufficiali che agiscono in conformità a direttive che la magistratura ritiene contrarie al diritto internazionale si espongono anche alla possibile contestazione di reati eventualmente ritenuti integrati dalle condotte in cui si estrinseca l’impedimento dell’approdo in Italia. Nel caso di Trapani, il giudice che aveva riconosciuto le legittima difesa ai migranti aveva escluso la responsabilità penale del capitano per il fatto illegittimo di aver cercato di riportarli in Libia, sulla base della considerazione che il capitano doveva ritenersi scusato perché aveva agito nell’erronea convinzione di adempiere ad un ordine legittimo dell’autorità. E’ evidente, tuttavia, che, una volta qualificata come illegittima la politica dei porti chiusi, non è affatto da escludere che le concrete modalità in cui essa si esplica possano integrare gli estremi di fattispecie di reato: pensiamo prima di tutto all’abuso d’ufficio, posto che i pubblici ufficiali, impedendo l’attracco in Italia a navi che ne hanno diritto, cagionano intenzionalmente ai migranti un danno ingiusto, in violazione di norme di diritto interno ed internazionale(Per qualche approfondimento circa i possibili profili di responsabilità penale delle autorità italiane per le politiche volte ad impedire il trasferimento in Italia dei migranti soccorsi in mare, sia consentito il rinvio alla nostra nota -citata sopra- alla decisione del Tribunale di Trapani).
5. Il rispetto dei diritti fondamentali come fondamento della legalità democratica
Due decisioni della magistratura che riconoscono rispettivamente la legittima difesa e l’adempimento del dovere in capo a chi si è rifiutato di obbedire agli ordini dell’autorità dovrebbero, in uno Stato di diritto, indurre le autorità governative a riflettere a fondo sulla legittimità delle proprie politiche, se non altro per non esporre ai rischi che abbiamo appena delineato i pubblici ufficiali chiamati a implementare concretamente tali politiche.
La reazione del Ministro dell’interno alla decisione del Gip agrigentino va invece nella direzione esattamente opposta. Come è ormai consuetudine di fronte a decisioni della magistratura che risultano poco funzionali ai progetti politici del Governo in tema di immigrazione (pensiamo agli attacchi durissimi rivolti ai magistrati che hanno ritenuto sussistente, anche dopo il decreto sicurezza dello scorso autunno, il diritto alla residenza per i richiedenti protezione), il Ministro dell’interno reagisce auspicando i magistrati che li hanno assunti lascino la magistratura e si candidino alle elezioni, senza neppure porsi il problema di confrontarsi con le (solide) ragioni che tali magistrati hanno posto a fondamento delle loro decisioni.
Lo schema argomentativo del Ministro è molto semplice. Chiunque non rispetti gli ordini contenuti in un suo atto amministrativo deve andare in carcere, ed i magistrati che, applicando la legge, emettono provvedimenti contrari ai suoi auspici, diventano ipso facto degli oppositori politici, che gli impediscono di realizzare la volontà degli elettori. Il problema della compatibilità del proprio progetto politico con quanto previsto dal diritto internazionale viene trattato con fastidio, come un tentativo di limitare le legittime prerogative delle autorità nazionali. A chi obietta che le Convenzioni internazionali vietano il rimpatrio verso la Libia o il rifiuto di un porto sicuro a soggetti bisognosi di assistenza, si risponde con toni sprezzanti che nessuno può porre limiti al Ministro dell’interno nella tutela dei confini e della sicurezza nazionale. Ad ogni intervento della magistratura che, invocando puntualmente i doveri internazionali dello Stato in materia di tutela dei diritti fondamentali, si rifiuta di punire chi abbia portato in Italia i migranti soccorsi in mare, si reagisce in modo scomposto gridando alla sentenza politica, ed esprimendo sconcerto per il fatto che la violazione di un divieto del Ministro dell’interno non sia sufficiente per fondare l’arresto e la detenzione del colpevole.
La richiesta da parte dei consiglieri togati dell’apertura presso il CSM di una pratica a tutela del magistrato agrigentino, destinatario degli ultimi attacchi del Ministro, ci pare il giusto tentativo di non far passare sotto silenzio l’ennesimo, virulento attacco del Ministro dell’interno ai magistrati che prendono decisioni a lui sgradite. Tale episodio non è che l’ultimo di una strategia che appare ormai chiaramente delineata, e che ci pare quanto mai pericolosa. Gli attacchi ai magistrati che prendono decisioni sgradite al Ministro, invocando i diritti fondamentali dei migranti, sono infatti funzionali a veicolare un messaggio culturale di insofferenza al “buonismo” dei diritti fondamentali, che servono solo ad impedire al Ministro le politiche che davvero sarebbero necessarie per contrastare l’immigrazione irregolare. Ogni limite all’azione di governo (specie se di matrice internazionale ed europea) è un ostacolo che si frappone tra il popolo ed il Governo che ne rappresenta la volontà, ed è chiaro che in questa prospettiva il potere giudiziario, che agisce anche sulla base di principi sovraordinati alle stesse leggi dello Stato, risulti disfunzionale al disegno complessivo.
Il contrasto con la magistratura su questioni in tema di diritti dei migranti è d’altra parte una costante dei governi che si ispirano all’ideologia “sovranista”. Già nelle prime settimane del suo mandato, il Presidente Trump ha attaccato duramente i magistrati che avevano disapplicato, ritenendole illegittime, alcune disposizioni in materia di ingresso degli stranieri nel territorio americano. Oppure pensiamo, allargando lo sguardo oltre il tema dell’immigrazione, alle riforme costituzionali che sono state realizzate, in Polonia e in Ungheria, proprio al fine di limitare le prerogative e l’indipendenza della magistratura, ed hanno portato le istituzioni europee a prendere iniziative a tutela dello Stato di diritto.
A costo di apparire ottimisti, a noi pare che la nostra democrazia sia ancora abbastanza solida per impedire le derive cui abbiamo assistito in alcuni Paesi dell’Est. Almeno sino a che non verrà modificata la Costituzione, la magistratura gode di un’indipendenza tale da consentirle un controllo stringente di legalità sulle scelte dell’esecutivo, specie quando esse mettano in discussione i diritti fondamentali della persona. Alla propaganda del Ministro, e alla sua sempre più esibita insofferenza verso i vincoli che le fonti sovranazionali a tutela dei diritti fondamentali pongono al suo operato, la magistratura deve reagire come sta facendo, cioè ribadendo la cornice di legalità (anche internazionale) entro cui l’agire del Governo deve collocarsi, senza timore degli attacchi che invariabilmente seguono una decisione sgradita. Piaccia o meno al Ministro dell’interno, il nostro ordinamento giuridico pone i diritti della persona al vertice del sistema, e nessun decreto sicurezza bis o ter può sovvertire la gerarchia valoriale delineata dalla Costituzione e dal diritto internazionale.
A questa domanda (apparentemente banale) un giurista non può che rispondere compulsando i codici, e la prima risposta non può che essere “un ausiliario dell’Autorità giudiziaria”, questa è infatti la definizione che troviamo leggendo l’art. 59 c.p.c. e l’art. 1 D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ord. Uff. giud.); tuttavia questa risposta, pur essendo ovviamente corretta, è nient’affatto esaustiva, l’ufficiale giudiziario non è un ingegnere, non è un medico, non è un traduttore e neppure un commercialista in altre parole non possiede altre conoscenze tecniche se non quelle giuridiche e la risposta non è neppure quella di un mero esecutore materiale di ordini giudiziari infatti a differenza di un custode giudiziario non ha la materiale detenzione dei beni sottoposti a vincolo giudiziario e neppure in occasione di uno sfratto materialmente è lui a prender di peso eventuali soggetti che non adempiono allo sloggio ordinato dalla competente A.G. … allora, a che serve davvero un ufficiale giudiziario?
Alla superiore domanda si potrebbe quindi candidamente concludere: “un residuato storico”, una sorta di “fossile vivente”? Non c’è dubbio che purtroppo alcuni, pensando all’ufficiale giudiziario come ad un mero trasportatore di documenti giuridici, una sorta di “postino di lusso” il cui ruolo sarà presto soppiantato dalla tanto più efficiente e celere p.e.c., diano questa tanto sbrigativa quanto scorretta risposta. Se tuttavia allarghiamo lo sguardo ci accorgeremo che l’ufficiale giudiziario italiano, così come l’huissier de justice, il bailiff, il Gerichtsvollzieher (non abbiamo infatti sistema giuridico che sia di diritto continentale o di common law che non lo preveda) svolge una funzione senza dubbio ausiliaria ma non meno imprescindibile per l’intero sistema giuridico.
Poniamo mente al provvedimento giudiziario più saldo per eccellenza ovvero alla sentenza passata in giudicato, sui banchi dell’università abbiamo studiato che il giudicato “facit de albo nigrum …” e nessuno dubita della bontà di tale pur iperbolica definizione, l’azione giudiziaria umana ha la necessità di trovare un punto di caduta definitivo pena la sua inconsistenza, tuttavia tale situazione di inconsistenza si produrrebbe parimenti se tale decisum non varcasse le aule giudiziarie in cui fu pensato e prodotto, ecco quindi la necessità che il provvedimento giudiziario sia attuato nel mondo reale. A tale necessità si può rispondere in due modi: uno quello che il legislatore varò con la novella[1] dell’art. 560 c.p.c. con il ricorso a un mero missus iudicis infatti in quell’articolo si leggeva “Il provvedimento è attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare ...”, l’altro, previsto per default dal sistema, ovvero tramite l’ufficiale giudiziario ed è nella differenza tra un mero missus iudicis ed un ufficiale giudiziario che dobbiamo ravvisare la vera natura di questo ausiliario giudiziario.
A differenza del missus che non può neppure nominare ausiliari ed avvalersi della Forza Pubblica essendo ciò di prerogativa del solo G.E., l’ufficiale giudiziario può nominare ausiliari (art. 68 c.p.c.), chiedere non solo lui direttamente l’ausilio della Forza Pubblica ma addirittura l’assistenza del P.M. (art. 475 c.p.c.) ed è inoltre dotato di poteri “officiosi”[2]. Anche la sentenza passata in giudicato ha i suoi limiti, infatti secondo l’art. 2909 c.c. "L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa" (cosa giudicata in senso sostanziale) il giudicato tra Tizio e Caio potrà valere anche verso i loro aventi causa Tizietto e Caietto, ma non verso Filano e Sempronio, terzi estranei alla vicenda processuale; pertanto allorché sia da aprire forzatamente in occasione di un pignoramento mobiliare il domicilio di Caio, l’ufficiale giudiziario dovrà stare ben attento a non forzare il portone condominiale dove accedono terzi estranei, se è previsto un escomio di un fondo rustico a cui vi si accede tramite stradella interpoderale non può e non deve esser pregiudicato il diritto di accesso dei titolari dei fondi confinanti come il diritto di questi di veder chiuso il cancello che dà accesso a detta stradella. Può sembrare lapalissiano ma lo stesso giudicato ha un limite quanto al suo oggetto, infatti Caio può essere soccombente e quindi esposto esecutivamente nei confronti delle pretese patrimoniali di Tizio ma l’esecuzione non può ledere o pregiudicare gravemente altri suoi beni giuridici quali la vita o la salute. Se quindi in occasione di uno sfratto di un immobile l’ufficiale giudiziario trova un soggetto da esecutare allettato, prima di disporre il suo forzoso allontanamento dovrà esser certo, ed è qui uno dei casi in cui entra la possibilità di far ricorso direttamente ad ausiliari nominati ex art. 68 c.p.c., che il soggetto allettato sia mobilizzabile senza porre a rischio altri beni primari come la vita e/o la salute; se l’ufficiale giudiziario è legalmente richiesto di procedere alla consegna di un minore, questo prelievo deve avvenire in modo tale che non sia messa in pericolo l’integrità psico-fisica del minore al contempo oggetto della esecuzione e soggetto terzo rispetto ad essa, ed è qui che entra in gioco la possibilità di cui all’art. 475 c.p.c. di ricorrere non solo all’ausilio della Forza pubblica, ma anche agli assistenti sociali del Comune. Il magistrato nel formare il suo provvedimento si basa su una porzione della realtà (due soggetti in contraddittorio), ma non conosce tutta la realtà con la sua complessità composta da altri soggetti, da altri oggetti, da altri interessi (pubblici e/o privati che siano) eppure quel decisum per potersi pienamente realizzare deve vivere in una realtà complessa e stratificata. Se ad esempio in un giudizio possessorio riguardante un alloggio di edilizia popolare Tizio ottiene un’ordinanza che preveda di spogliare Caio dal possesso del detto alloggio popolare ed all’accesso si presentano le competenti autorità amministrative proprietarie dell’alloggio e titolari dell’azione esecutiva di sgombero che formalmente dichiarano il soggetto istante decaduto dalla titolarità dell’alloggio e lo concedono proprio al soggetto da esecutare, si pone (problematica esecutiva che ho personalmente affrontato) il caso di esecutare Caio in virtù di un titolo civilisticamente perfetto in favore di un soggetto, Tizio, che un attimo dopo la competente P.A. avrebbe provveduto ad esecutare a sua volta, magari immettendo in quell’appartamento proprio quel soggetto che io avevo messo alla porta, un vero è proprio loop esecutivo! Il punto di caduta non poteva che essere quello per cui in un immobile pubblico è in definitiva la P.A. ad agire amministrativamente a tutela delle proprie ragioni, nel caso concreto, giusta il combinato disposto degli artt. 610, 613 c.p.c. ho sospeso le procedure esecutive rimettendo gli atti al G.E. ma appare chiaro a tutti che il solo sospendere rimettendo gli atti al G.E., quando non siano tutte le parti a richiederlo, è già una decisione non scevra di conseguenze se non validamente supportata, né un buon ausiliario si può permettere di ingolfare la scrivania del G.E. giusto per il gusto di deresponsabilizzarsi! Concludendo, se la cifra della giustizia la ravvisiamo nell’unicuique suum tribuere, tale giudizio di valore non può limitarsi solo nella fase della cristallizzazione di un decisum giudiziario, ma anche nel momento della sua concreta realizzazione e per far ciò occorre un professionista del diritto posto in posizione autonoma ma subordinata all’A.G. è questo è il minimo comun denominatore di ogni ufficiale giudiziario in qualunque parte del mondo ove si pratica il diritto e ciò non potrà mai esservi in un mero missus iudicis!
Certo, è prerogativa del legislatore scegliere la modalità esecutiva tramite il mero missus iudicis anziché quella tramite l’ufficiale giudiziario ma questa scelta è tutt’altro che priva di conseguenze, meno autonomia ha l’ausiliario più si riverberanno sulla catena di comando giudiziaria tutte le scelte esecutive e materiali concretamente attuate dai missi iudicis che non sono titolari di autonomo giudizio. In altri termini quelli che indicai come elementi caratterizzanti l’ufficiale giudiziario ovvero: la terzietà, la professionalità, l’autonomia e la necessarietà della funzione[3] non sono le roccaforti di una sorta di dinosauro delle professioni giuridiche ma tutelano in fin dei conti la funzionalità della stessa giurisdizione.
Una volta che il diritto soggettivo si sia cristallizzato in un decisum giudiziario, tale diritto sarà reale “signoria del volere” se e solo se non occorra un ulteriore passaggio giurisdizionale per essere attuato, occorre solo un professionista del diritto che, dotato degli elementi di cui sopra e sottomesso al controllo giurisdizionale in caso di irregolarità nel suo operato, lo metta in esecuzione; una tale visione rende l’ufficiale giudiziario un professionista in sincrono con le sempre nuove esigenze di un mondo in continua evoluzione.
Questo è quello che, nonostante le mille differenze fra i vari sistemi, accomuna tutti gli ufficiali giudiziari in ogni angolo del mondo, ed è proprio per rispondere alle nuove sfide che l’Italia[4] risulta come membro fondatore nel 1952 dell’Unione internazionale degli Ufficiali Giudiziari[5] che recependo le raccomandazioni di varie istituzioni internazionali tra i quali il CEPEJ ha provveduto a redigere una summa delle best practice nel Codice mondiale dell’esecuzione[6].
Solo aprendo lo sguardo oltre le incomprensibili pastoie nazionali che non rendono certo un gran servigio in efficacia ed efficienza al nostro sistema giudiziario potremo concludere augurando lunga vita alla professione di ufficiale giudiziario ed allo stato di diritto!
[1] Art. 4, I co., lett. d), n. 01) del D.L. 03. maggio. 2016, n. 59, convertito con modificazioni nella L. 30. giugno. 2016, n. 119; oggi l’art. 560 c.p.c. è stato sostanzialmente riformato grazie all'art. 4, II co., D.L. 14. dicembre. 2018, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla L. 11. febbraio. 2019, n. 12.
[2] Amedeo Sperti, I poteri officiosi dell’ufficiale giudiziario nell’esecuzione forzata ordinaria, Riv. Es. Forz. n. 1 del 2017, pagg. 136 – 187.
[3] Orazio Melita, Il problema della giustizia nel procedimento esecutivo, pagg. 41 – 42 consultabile all’indirizzo https://www.auge.it/il-problema-della-giustizia-nel-procedimento-esecutivo-brasilia-04-aprile-2019/
[4] Non essendo organizzati gli ufficiali giudiziari italiani in una Camera professionale come in 21 degli attuali membri della U.E. e come nella maggior parte degli altri paesi del mondo, l’associazione di categoria che rappresenta gli ufficiali giudiziari italiani nel seno dell’Unione è l’Associazione degli Ufficiali Giudiziari in Europa (www.auge.it).
[5] www.uihj.com
[6] http://www.uihj.com/fr/code-mondial-de-l-execution_2165010.html
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