ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I VIAGGI IN MARE NELLA ROTTA DEL MEDITERRANEO CENTRALE di Salvatore Vella
“Information-sharing on the smuggling of migrants as a form of transnational organized crime, consistent with article 10 of the Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, and article 28 of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime”
di Salvatore Vella
Sono in servizio come Pubblico Ministero in Italia. Il mio Ufficio ha la competenza territoriale sull’isola di Lampedusa, un’isola di 6.000 abitanti che si trova tra l’Europa e il continente africano, sul 35 esimo parallelo Nord, cioè più a sud di Tunisi e di Algeri.
Negli ultimi decenni l’Italia è diventata un Paese di destinazione di migranti. Nel 2014 sono arrivati via mare in Italia poco più di 170.000 migranti, nel 2019 sono arrivati poco più di 5.600 migranti, di questi il 42% sono sbarcati a Lampedusa.
L’Italia ha conosciuto sia il fenomeno dell’immigrazione che quello dell’emigrazione. Oggi i cittadini italiani residenti all’estero sono circa 4 milioni e 500.000, gli stranieri residenti in Italia sono invece poco più di 5 milioni, circa il 9% della popolazione.
L’Italia è un esempio di come la Storia sia caratterizzata dalla ciclicità: vi sono Paesi che in un certo periodo sono luoghi di partenza di migranti e in altre stagioni diventano luogo di destinazione e di arrivo.
Posso affermare che non esiste un “viaggio in mare standard”, una modalità standard di trasporto illegale di migranti nella rotta del Mediterraneo centrale. Per semplificare descriverò i 4 metodi principali utilizzati da trafficanti, consapevole però che ve ne possono essere altri.
Sommario: 1. I “barconi”, vecchi pescherecci trasformati - 2. I gommoni, i “rubber boat” - 3. Il sistema della “mother boat” - 4. I “viaggi in business class”, con imbarcazioni veloci 5. Conclusioni 6. Recommendations
1. I barconi
Fino a qualche anno fa, fino al 2016 circa, i viaggi illegali più diffusi erano quelli fatti con vecchi motopesca carichi di migranti fino al tetto della cabina di guida. Era il metodo con il quale i trafficanti di esseri umani facevano i numeri maggiori nella rotta del Mediterraneo centrale.
Un caso di cui mi sono occupato fu quello che si concluse con l’affondamento di uno di questi motopesca avvenuto il 25 maggio 2016 e l’arresto due trafficanti, 2 marinai egiziani. Un viaggio da Sabratha (Libia) verso Lampedusa, su un vecchio peschereccio di 21 metri, modificato per l’occasione nel porto libico di Zuara. Un viaggio che terminò appena 6 ore dopo la partenza. Morirono circa 283 migranti, tutti quelli che erano stati rinchiusi sotto bordo. Morirono annegati nei 40 minuti che ci mise lo scafo ribaltato ad andare a fondo.
Le modalità del viaggio, accertate attraverso le testimonianze dei migranti, erano simile a quelle accertate in decine e decine di altri casi, ed erano le seguenti:
L’organizzazione criminale utilizza un vecchio peschereccio in legno, barche a fine carriera acquistate dai trafficanti nei porti della Libia, della Tunisia o dell’Egitto;
L’organizzazione prepara il motopesca in un cantiere navale, trasformandolo in una specie grosso pullman galleggiante. Toglie di bordo tutte le attrezzature da pesca (che diventavano inutili per la nuova funzione della barca); crea dei ponti sotto coperta (lì dove normalmente vi erano depositi per le reti e il frigo per il pescato), per ospitare più gente possibile; fa dei buchi sullo scafo per permettere di respirare alle gran massa di gente che viaggia sotto coperta.
Il viaggio viene pagato dai migranti interamente prima della partenza.
L’imbarco avviene con piccoli gommoni da una spiaggia, ove vengono radunati i migranti, sotto il controllo di uomini armati, fino al motopesca ormeggiato in mare, poco lontano;
I trafficanti mettono alla guida della barca due loro marinai esperti e prevedono un servizio d’ordine a bordo, 4 o 5 dei loro uomini, armati di bastoni o di tubi di gomma rigida, che picchiano i migranti se creano problemi durante il viaggio. A volte queste persone del servizio d’ordine lanciano in mare i migranti che si lamentano durante il viaggio, che annegano.
In acque internazionali, nei pressi delle coste italiane, lo skipper fa una chiamata alle Guardia Costiera Italiana con un telefono satellitare “thuraya”, chiedendo soccorso e fornendo le propria posizione tramite i dati GPS.
All’arrivo delle navi di soccorso, i membri dell’organizzazione tentano di mimetizzarsi tra i migranti, per non essere arrestati. A volte ci riescono e ritornano in Nord Africa per incassare il resto del loro compenso e magari per fare altri viaggi, altre volte no. Ne abbiamo arrestati a centinaia, aiutati dalle testimonianze dei migranti trasportati a bordo.
Sono viaggi pericolosi, vi è sempre il rischio che i barconi si ribaltano per il pesante carico. Il pericolo è dato soprattutto dalla “mobilità” del carico. I migranti sono impauriti, stanchi, nervosi, basta che la maggior parte dei passeggeri si sposti su un lato della barca, magari felici alla vista della nave dei soccorsi, per far ribaltare l’imbarcazione e causarne l’affondamento.
Ricordo il racconto di un migrante siriano Rashid, sopravvissuto all’affondamento del 25 maggio 2016, che aveva fatto quel viaggio con la moglie, la figlioletta piccola e i suoi due figli maschi. Rashid aveva pagato 7.500 dinari libici ai trafficanti per far viaggiare la sua famiglia. In quel viaggio Rashid ha perso Mohamed, uno dei suoi due figli, morto annegato.
Rashid mi ha raccontato che sulla spiaggia in Libia di notte, sei ore prima dell’affondamento, ha ascoltato un trafficante libico che diceva all’altro “dobbiamo imbarcare ancora merce”, “merce” non “uomini”. Il peschereccio era già pieno oltre il consentito, poteva trasportare 20 persone in sicurezza, i trafficanti riuscirono a imbarcarne 725.
E’ successo qualcosa di simile nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. In quel caso il motopesca partito da Misurata (Libia) con a bordo almeno 545 migranti, per la maggior parte eritrei, era giunto a meno di un miglio da Lampedusa quando ebbe un avaria al motore. I migranti a bordo nel motopesca diedero fuoco a una coperta, per attirare l’attenzione di altre barche, che al buio della notte non li vedevano. Ciò causò un incendio a bordo, il panico dei migranti e infine il ribaltamento dell’imbarcazione. Morirono in 366, tra cui almeno 9 bambini.
In quel caso arrestammo subito lo “skipper”, un tunisino accusato da alcuni sopravvissuti. Le indagini successive, grazie anche all’uso di intercettazioni telefoniche, portarono all’arresto di altri trafficanti di esseri umani.
2. I gommoni, i “rubber boat”
I Gruppi criminali tendono naturalmente a incrementare i guadagni, riducendo il più possibile i costi e i rischi della loro attività criminale.
Da qualche anno i vecchi pescherecci da utilizzare per i viaggi sono diventati sempre più rari in Nord Africa e, quindi, più costosi. Inoltre sono imbarcazioni che richiedono marinai esperti e uomini a bordo per tenere l’ordine, uomini che sono un costo per l’organizzazione. Per questo motivo i trafficanti hanno scelto, sempre di più, di utilizzare altri metodi di trasporto in mare, metodi che consentono di abbattere i costi e di incrementare i guadagni.
Un carico di droga o di armi non può condurre da solo l’imbarcazione su cui viaggia, ha bisogno di uomini dell’organizzazione criminale che conducano la nave. La “merce” ha bisogno degli “uomini” per spostarsi in mare. I trafficanti di esseri umani hanno scoperto che il loro carico illegale poteva, invece, condurre da solo l’imbarcazione su cui viaggiava, che non avevano bisogno di mettere uomini della loro organizzazione sulle barche, uomini che andavano pagati e che rischiavano di essere arrestati o di morire in un naufragio; hanno addossato questi rischi sulle spalle delle loro vittime.
Per questi motivi i trafficanti di migranti sulla rotta del mediterraneo centrale hanno cominciato a usare i rubber boat. Oggi, sempre più spesso, sono gli stessi migranti a condurre le imbarcazioni su cui attraversano il canale di Sicilia.
I gommoni costano molto meno rispetto a un motopesca; possono essere condotti da due uomini inesperti scelti tra gli stessi migranti: uno “skipper” che regge il timone e un “compass man” che indica la rotta. I rischi per l’organizzazione si azzerano, non vi sono più loro uomini a bordo e le imbarcazioni sono destinate in partenza ad essere perse nel viaggio. I costi si abbassano e i profitti crescono.
Cresce purtroppo il rischio per i migranti, aumentano le morti in mare, perché difficilmente queste imbarcazioni raggiungono autonomamente la costa italiana, senza essere soccorse.
Le modalità di questo tipo di viaggio si possono schematicamente riassumere nelle seguenti:
I gommoni di circa 11 metri vengono acquistati dai trafficanti a poco prezzo, dai 500 ai 2000 dollari americani, attraverso transazioni internazionali, spesso in mercati asiatici, trasportati in Libia tramite container su navi cargo, che a volte transitano anche da Paesi Europei. Questo tipo di imbarcazioni vengono vendute su internet a volte col nome di “refugee boat”, che lascia poco spazio all’immaginazione.
I gommoni potrebbero trasportare circa 15 passeggeri in sicurezza, i trafficanti riescono a imbarcare fino a un centinaio di migranti, senza giubbotti di salvataggio, per non rubare spazio a bordo, con pochi viveri e acqua.
Il viaggio parte direttamente da una spiaggia, il gommone viene accompagnato in mare per poche miglia da un’imbarcazione dei trafficanti, l’indicazione per i migranti è di seguire una rotta con direzione nord e di chiamare i soccorsi prima di giungere nelle acque territoriali italiane, con il telefono satellitare fornito dall’organizzazione.
Il gommone viene condotto da due migranti scelti dai trafficanti, spesso in cambio del costo del viaggio. A volte i trafficanti spiegano soltanto il giorno prima ai due migranti scelti come si conduce il gommone e come funzione il GPS. A volte sono migranti che non hanno mai visto il mare prima. Questo è un problema serio per tutti quelli che si trovano sul gommone, perché il Canale di Sicilia è un mare pericoloso, è un mare chiuso con onde corte, ravvicinate e ripide, più insidiose per la navigazione rispetto a quelle oceaniche.
I gommoni, costruiti con materiali scadenti, cominciano a sgonfiarsi già dopo poche ore di navigazione, via via cedono tutte le camere d’aria di cui costituito il gommone e i migranti a bordo cominciano ad annegare, uno ad uno. A volte si rompe il piccolo motore, ma la scena non cambia, questi gommoni si sgonfiano anche da fermi, con mare calmo.
A volte, a bordo di questi gommoni, i migranti vengono ustionati dalla benzina che fuoriesce dal serbatoio, che deve essere riempito più volte lungo il viaggio. La benzina si mischia all’acqua di mare presente sul fondo del gommone, quella miscela di benzina e acqua di mare inzuppa gli abiti di chi viaggia al centro del gommone, di solito le donne, e gli ustiona la pelle come fosse acido, gliela brucia letteralmente.
Se i migranti non riescono a mettersi in contatto con imbarcazioni di soccorso o se i soccorsi in mare arrivano tardi, muoiono annegati. Come traccia della tragedia resta in mare il gommone semi sommerso, sgonfio, senza vita.
Il gruppo criminale che ha organizzato il viaggio ha comunque fatto il proprio business, tutti hanno pagato il biglietto prima di partire.
3. Il sistema della “mother boat”
Un altro metodo che i trafficanti stanno utilizzando, sempre di più, è quello della “mother boat”.
Come esempio faccio riferimento a un caso di cui mi sono occupato conclusosi il 23 novembre 2018. In quel caso i trafficanti trasportarono 68 migranti da Sabratha (Libia) a Lampedusa, utilizzando un motopesca di circa 21 metri (nave madre) e una imbarcazione più piccola (nave figlia), costituita da una barca di circa 10 metri con un piccolo motore fuoribordo da 40cv. Arrestammo tutti i sei membri dell’equipaggio, dopo un lungo inseguimento in mare fatto con i mezzi della Guardia di Finanza Italiana.
Le modalità di questo tipo di viaggio si possono schematicamente riassumere nelle seguenti:
L’organizzazione criminale si fa pagare dai migranti il viaggio in anticipo;
I migranti vengono custoditi in diverse “safe house” poste nella vicinanza della costa, la notte della partenza i migranti vengono spostati sulla spiaggia e caricati su piccole imbarcazioni che, con diversi viaggi, li portano a bordo della mother boat ormeggiato al largo delle coste libiche, di solito sotto la vigilanza di uomini armati;
A bordo della mother boat vi sono 5 o 6 uomini di equipaggio, marinai esperti. Il motopesca affronta il viaggio vero nord, verso le coste siciliane come se fosse una normale imbarcazione da pesca, tutti i migranti nascosti dentro la mother boat. Legata al traino del motopesca la “barca figlia”;
Ai migranti vengono soltanto fornite acqua e viveri per il viaggio, chi si lamenta troppo e fa problemi viene picchiato;
Dopo circa 15 ore di navigazione, al largo delle coste italiane, i trafficanti fermano il motopesca, fanno salire tutti i migranti a bordo della “barca figlia” che avevano al traino, e indicano loro la rotta da seguire verso Lampedusa.
I trafficanti, dopo aver scaricato i migranti, fanno ritorno con la nave madre verso la costa libica. Nessun trafficante resta a bordo della “barca figlia”;
I migranti raggiungono il porto di Lampedusa con la “barca figlia”;
Il costo per l’organizzazione criminale è costituito soltanto dalla perdita secca della piccola imbarcazione di 10 metri.
Il metodo della “mother boat” mette, comunque, in pericolo la vita dei migranti, soprattutto nella fase in cui gli stessi vengono accalcati sulla “barca figlia” in condizioni di grave instabilità (70 persone su una piccola imbarcazione di 10 metri), senza viveri e mezzi di salvataggio individuali, fase che prevede ancora circa 8 ore di navigazione, prima di giungere sulla costa siciliana.
Questo metodo di viaggio rende, inoltre, più difficile il contrasto alle organizzazioni dei trafficanti, i migranti nascosti dentro la nave non sono visibili ad una osservazione esterna e le mother boat si fermano in acque internazionali, a grande distanza dalla costa del Paese di destinazione.
E’ difficile distinguere in mare le “mother boat” dai normali motopesca che affollano il mediterraneo centrale, uno dei metodi che usano gli equipaggi dei velivoli militari o di polizia, che presidiano questa ampia zona di mare, è quello di cercare i gabbiani, le “mother boat” infatti sono gli unici motopesca che in navigazione non hanno stormi di gabbiani intorno. Il perché è presto detto: sono gli unici motopesca che non pescano. Niente pesci a bordo, niente gabbiani.
Le imbarcazioni figlie, molto più piccole, sono le uniche che entrano nelle acque nazionali del Paese di destinazione e sono comunque difficilmente individuabili dai radar delle navi militari che controllano il mare.
4. I “viaggi in business class”, con imbarcazioni veloci
Infine vi sono trafficanti di migranti che offrono viaggi fatti con mezzi veloci, non facilmente individuabili dalle Forze dell’ordine, in genere organizzati da trafficanti tunisini o egiziani, non libici. Sono stati ribattezzati “sbarchi fantasma”, perché con questa modalità i migranti entrano nel territorio dello Stato di destinazione senza transitare dai centri di identificazione della Polizia, senza lasciare traccia, come dei fantasmi appunto. Non vi sono statistiche affidabili sui numeri di migranti trasportati in questo modo.
Si tratta di viaggi per mare che, per i servizi che offrono ai migranti, costano di più rispetto agli altri metodi, perché garantiscono sia una maggiore sicurezza per i migranti (che in questi casi non rischiano quasi mai la vita) che l’arrivo di nascosto sulla terraferma, con possibilità per i migranti di muoversi in autonomia sul territorio europeo, senza essere identificati allo sbarco.
Dal punto di vista dei trafficanti questi viaggi prevedono il ritorno del mezzo navale utilizzato nel Paese di partenza, insieme ai trafficanti che vi sono a bordo.
Vi porto un caso concreto di cui mi sono occupato, risale al 10 ottobre 2017. In quel caso arrestammo un cittadino tunisino che aveva appena fatto un viaggio con un gommone di ottima qualità, dotata di motore fuoribordo da 115cv, lungo poco più di 5 metri, con il quale aveva trasportato 10 migranti da Monastir (Tunisia) alla Sicilia, in poco meno di dodici ore. Per il trasporto si era fatto pagare un compenso di 7.000.000 dinari tunisini (corrispondenti a circa € 2.250 a persona).
Sul suo cellulare abbiamo trovato il filmato della traversata e il percorso GPS del viaggio in mare, che aveva avuto come destinazione finale un punto ben scelto della costa siciliana, lontano da abitazioni e strade, che aveva permesso uno sbarco senza destare allarme.
5. Conclusioni
La continua modifica dei modelli di business delle organizzazioni dei trafficanti di migranti deve portare necessariamente a una conseguente modifica delle modalità di contrasto da parte delle Forze di polizia.
Con i “barconi” le Forze di Polizia potevano tentare di fare una attività di contrasto in mare che avesse una qualche efficacia, lotta che poteva portare all’arresto dei marinai (professionisti pagati dall’organizzazione) e alla confisca o alla distruzione delle navi dell’organizzazione.
Oggi i numeri maggiori i trafficanti li fanno con i “rubber boat”, per i quali un’attività di contrasto in mare è poco efficace. Le organizzazioni dei trafficanti non hanno più in mare i loro uomini e la flotta di rubber boat è una flotta di imbarcazioni destinate a essere utilizzate per un solo viaggio, destinate ad essere costantemente sostituite a poco prezzo. Il sequestro di questi mezzi è inefficace, perché sono mezzi non utilizzabili per un nuovo viaggio.
Oggi sempre di più un efficace contrasto alle organizzazioni di trafficanti di migranti presuppone una lotta da svolgere sulla terra ferma non in mare, soprattutto nei Paesi di partenza con la necessaria collaborazione dei Paesi di destinazione. Sono poco utili e difficilmente attuabili i blocchi navali, cioè i tentativi di bloccare in mare l’arrivo delle imbarcazioni cariche di migranti.
Il Paese di destinazione è il luogo in cui arrivano le vittime dei traffici, portando con se il peso delle violenze subite, delle torture, degli abusi sessuali, delle uccisioni di familiari o di amici.
I Paesi di partenza sono i luoghi in cui si trovano i trafficanti, le loro armi da fuoco, i loro mezzi, le loro basi, le prigioni in cui tengono i migranti, e, soprattutto, i loro soldi.
Spesso le informazioni acquisite dai migranti, che debbono essere considerate vittime del reato di smuggling, permetterebbero una seria attività d’indagine nei Paesi di partenza sulla costa africana. I migranti, pur tra grandi difficoltà, ci forniscono numeri di cellulare, descrizione dei trafficanti, l’indirizzo dei luoghi di incontro tra migranti e trafficanti, l’indicazione dei luoghi ove si trovano le grandi “house” dove vengono radunati i migranti prima della partenza, alcune delle quali sono diventati veri propri campi di concentramento e luoghi di tortura, spesso ex basi militari o caserme. A volte i migranti ci riferiscono di appartenenti a Forze di Polizia che utilizzano la loro posizione e i loro mezzi per aiutare i trafficanti di migranti. Sono informazioni che debbono essere condivise.
6. Recommendations
Gli Stati parte dovrebbero considerare di creare Network regionali di Prosecutors specializzati nel contrasto allo smuggling of migrants, per condividere informazioni utili e strategie di contrasto, utilizzando ove possibile banche dati comuni, contenenti informazioni standard quali numeri di cellulare utilizzati dai trafficanti per mettersi in contatto con i migranti, dati sui possessori dei numeri di cellulare, generalità e precedenti penali dei trafficanti, in accordo con le singole legislazioni nazionali;
Gli Stati di una regione e in particolare gli Stati di partenza, di transito e di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di creare una banca dati comune a disposizione delle Forze di Polizia contenente le impronte digitali o altri dati biometrici dei soggetti sospettati di appartenere alle organizzazioni di trafficanti di migranti, attribuendo un codice unico identificativo per ogni soggetto registrato nella banca dati, in aggiunta al nome dichiarato. Questa banca dati condivisa dovrebbe poter dialogare con eventuali banche dati nazionali di dati biometrici, in modo da consentire una corretta identificazione dei trafficanti, in accordo con le singole legislazioni nazionali;.
Gli Stati di partenza, di transito e di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di creare corpi di interpreti delle diverse lingue parlate dai migranti trasportati dai trafficanti, da mettere stabilmente a disposizione di Polizia e Prosecutors specializzati nel contrasto allo smuggling of migrants.
Gli Stati di partenza e gli Stati di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di prevedere lo scambio di propri Ufficiali di Polizia di collegamento, in modo da rendere più veloce e diretto la condivisione di informazioni utili tra i Paesi della rotta dei migranti.
Per rendere più efficaci le strategie di contrasto contro lo smuggling of migrants, ciascun Stato parte dovrebbe condividere con gli altri Stati parte della medesima regione informazioni sulle NGO che trasportano migranti sul proprio territorio o all’interno delle proprie acque territoriali, informando gli altri Stati se tratta di organizzazioni che svolgono un’attività diretta a salvare i migranti, in attuazione alle norme internazionali sulla tutela della vita in mare (Convenzione Internazionale SOLAS Safety Of Life At Sea del 1974; Convenzione Internazionale di Amburgo SAR Search And Rescue del 1979) o se si tratta di organizzazioni che hanno accordi illegali con i trafficanti di migranti.
Gli Stati parte dovrebbero considerare di prevedere canali di accesso legali per i migranti, in modo da ridurrebbe sensibilmente il potere di ricatto che i trafficanti hanno nei confronti dei migranti, offrendosi come unico canale di accesso ai Paesi di destinazione. Ciò ridurrebbe il volume dei traffici illegali di esseri umani e consentirebbe un più efficace contrasto alle organizzazioni dei trafficanti.
Sommario : 1. Inquadramento del problema - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite - 3. La soluzione delle Sezioni Unite - 4. Le molte luci delle sentenze del 2019 -5. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento del problema.
Ancora una volta, come un ulteriore capitolo di una vera e propria saga giudiziaria, i giudici devono intervenire nel sistema dei rimedi ai tempi della Giustizia in Italia, con una pronuncia molto articolata e che si sforza di adeguare il variegato e complesso quadro nazionale ai principi generali costantemente elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Gli interventi normativi e giurisprudenziali sul tema denotano una linea di tendenza propria del nostro Paese: poiché era divenuto insostenibile un sistema che lo esponeva al triste primato di trasgressore cronico del diritto fondamentale alla ragionevolezza dei tempi del processo (pure solennemente consacrato tra i pilastri di una moderna società democratica all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed ora pure dalla Costituzione nazionale e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), si è adottata dapprima una normativa (la legge c.d. Pinto, 24 marzo 2001, n. 89) che, in linea con la stessa giurisprudenza convenzionale, almeno tentasse di offrire una riparazione pecuniaria alla violazione di quel diritto, quale livello minimale di tutela di quello.
Negli anni successivi, diventata sempre più gravosa l’entità degli esborsi richiesti per l’incapacità di intervenire sulla struttura del sistema e quindi sulle cause della sua sinistrosità, sono poi intervenuti un incessante lavorio di elaborazione giurisprudenziale ed alcuni rilevanti correttivi normativi, tali da rendere estremamente complesso l’effettivo conseguimento di quella riparazione pecuniaria, perfino introducendo modalità di esecuzione od ottemperanza delle relative condanne che si risolvono in autentici privilegi dello Stato-debitore.
Nel settore si è assistito allora, per una infelice Heterogonie des Zwecke, la proliferazione delle azioni giudiziarie dovute al ritardo: la maggior parte degli sforzi per tentare di ovviare ai ritardi nella Giustizia ha causato un incremento del contenzioso e quindi dei tempi, visto che l’Italia ha generato le cause per ritardi … sulle cause per ritardi, spesso non essendo riuscita a contenere i tempi neppure di queste ultime, a dispetto della chiarezza quasi aritmetica dei relativi presupposti e della semplicità della condotta di adempimento delle conseguenti condanne.
A dimostrazione poi che al peggio non c’è mai limite, al “Pinto-bis” (un … Pinto al quadrato) si è aggiunto oramai il “Pinto-ter” (per insistere nell’analogia con l’elevazione a potenza: un … Pinto al cubo): cioè le cause per ritardi nei procedimenti per conseguire la riparazione sul ritardo nella definizione dei procedimenti per l’irragionevole durata del processo – civile o penale o amministrativo – per così dire di merito od originario. In questo complessivo desolante contesto, la fatica degli interpreti è chiamata a dedicarsi ad individuare gli effetti, sovente distorti, della persistente condizione di inadempienza dello Stato italiano.
2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.
È quanto è accaduto nella fattispecie portata all’esame delle Sezioni Unite, in dottrina individuata come ipotesi di “Pinto-ter”, siccome riferita ad un procedimento ex lege Pinto per l’irragionevole durata di un precedente procedimento (il c.d. “Pinto-bis”) ai sensi della stessa legge relativo ad un originario procedimento sempre per irragionevole durata del processo originario. È evidente come quest’ultimo resti ormai sullo sfondo, perduto nelle nebbie del tempo, quale causa ultima o peccato originale ancora inespiato.
In particolare:
a) la ricorrente propone, in uno ad altri, un primo ricorso ex lege Pinto nell’ottobre del 2005 alla Corte d’appello di Roma: che è definito con decreto di parziale accoglimento del giugno del 2007, seguito da sentenza della Corte di cassazione del luglio 2008 (tanto rilevandosi da Cass. 19/12/2012, n. 23453);
b) la ricorrente propone poi, il 29/09/2010, alla Corte d’appello di Perugia altro ricorso ex lege Pinto per fare valere l’eccessiva durata del primo procedimento Pinto: il quale è dapprima dichiarato inammissibile dalla corte territoriale (con provvedimento 19/12/2011, secondo quanto risulta dalla stessa Cass. n. 23453/12) e poi accolto, con decisione nel merito, dalla Corte di cassazione con sentenza 19/12/2012, n. 23453 (e condanna del Ministero a pagare € 1.125, oltre interessi dalla domanda e spese di lite);
c) invano notificato (il 03/03/2013) il titolo esecutivo al Ministero, la ricorrente intima (in data 11/12/2013) precetto, cui fa seguire procedimento di esecuzione mobiliare presso il Tribunale capitolino, conclusosi con ordinanza di assegnazione divenuta definitiva il 17/07/2014;
d) sul presupposto che tale secondo procedimento ex lege Pinto si fosse protratto ininterrottamente dal 29/09/2010 al 17/07/2014 (e quindi per oltre tre anni), nel febbraio del 2015 la ricorrente adisce di bel nuovo la Corte d’appello, ora di Firenze, per fare valere l’irragionevole durata di quello;
e) la corte fiorentina, dapprima con decreto e poi all’esito dell’opposizione, rigetta la domanda, sostanzialmente perché, pur considerando unitariamente le fasi di cognizione ed esecuzione, dal computo della durata del processo doveva essere espunto il periodo in cui il privato, vittorioso nel giudizio di cognizione, era rimasto inerte senza notificare il precetto (cioè, nella specie, il periodo tra la pronuncia della condanna, del 19/12/2012, fino al dì 11/11/2013, data di notificazione dell’intimazione); in tal modo, il processo doveva qualificarsi durato anni due, mesi nove e giorni 28, ma l’eccedenza rispetto al periodo da considerare ragionevole (due anni, mesi sei e cinque giorni) era di soli mesi tre e giorni 23 e, così, non indennizzabile, escludendo l’art. 2 bis della L. n. 89/2001 l’indennizzabilità delle frazioni di anno non superiori a sei mesi;
f) la ricorrente chiede la cassazione del relativo decreto, pubblicato il 19/10/2015, con il primo dei cui due motivi sostenendo la necessità di considerare, per il computo della durata complessiva del processo ed a carico della convenuta Amministrazione, unitariamente tutto l’intervallo tra l’inizio del procedimento ex lege Pinto e la conclusione del procedimento di esecuzione reso necessario dall’inadempimento, ivi compreso il termine di 120 giorni (di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo di cui all’art. 14 d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. n. 30/1997, nel corso del quale il danneggiato non poteva notificare l’atto di precetto).
Alle Sezioni Unite l’ordinanza interlocutoria 15/01/2019, n. 802, seguita a precedente di rimessione alla pubblica udienza (Cass. ord. 06/09/2017, n. 20835), ha rimesso un’articolata questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex lege Pinto: e cioè se, alla luce - da un lato - della sentenza delle S.U. n. 27365 del 2009 e - dall’altro - della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto.
Dagli snodi argomentativi dell’ordinanza di rimessione si ricava come siano stati coinvolti differenti problemi ricostruttivi: a) se il ritardo da parte dello Stato nel pagamento dell’indennizzo ex lege Pinto costituisce un autonomo diritto azionabile unicamente innanzi alla CTEDU ove eccedente i sei mesi e cinque giorni o esso può essere fatto valere anche ai sensi della Legge Pinto; b) se, quando il debitore è lo Stato, il processo di cognizione e quello di esecuzione possono essere valutati come un unico processo ai fini della ragionevole durata senza il rispetto di alcun termine; c) se e quale rilevanza abbia, ai fini del termine di sei mesi e cinque giorni concesso alla P.A. per l’adempimento spontaneo, quello di 120 gg. di cui dall’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997; d) il momento temporale in cui il processo esecutivo può considerarsi introdotto (dalla notifica del titolo esecutivo, del precetto o del pignoramento); e) l’equiparabilità del processo di ottemperanza a quello esecutivo e la valutabilità unitaria ai fini della ragionevole durata.
Le questioni, al di là dell’apparente aridità del suo tecnicismo, involgono diversi principi fondamentali dell’ordinamento, affrontati dalle Sezioni Unite con ampiezza e ricchezza di argomentazioni: quale premessa di grande momento, l’esigenza di interpretazione della normativa nazionale in senso convenzionalmente orientato; un primo, sui rapporti tra giudizio di cognizione e processo di esecuzione in generale quali presupposti indefettibili dell’effettività della tutela dei diritti; un secondo, sulla peculiare responsabilità dello Stato debitore; un terzo, sulla legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
3. La soluzione delle Sezioni Unite.
La sentenza 23/07/2019, n. 19883 (in uno ad altre coeve su ricorsi analoghi: nn. 19884, 19885, 19886, 19887 e 19888 della stessa data, nonché 20404 del 26/07/2019), che è intervenuta sulla materia a definire la questione di massima di particolare importanza appena ricordata, si preoccupa di ricostruire il quadro giurisprudenziale, riferito sia alle Corti nazionali che a quella europea dei diritti dell’Uomo.
3.1. L’interpretazione convenzionalmente orientata.
La premessa, quanto meno in tema di violazione del diritto fondamentale espressamente codificato nell’art. 6 della Convenzione, è l’esigenza di una puntuale trasposizione dei principi elaborati a sua interpretazione dalla Corte di Strasburgo, sia pure senza un’automatica valutazione di recessività delle peculiarità nazionali: risultando appunto obiettivo della nomofilachia nazionale la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte EDU. Infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della legge n. 89/2001, sia pur senza considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale; margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio. Ancora, il carattere vincolante per l’interprete nazionale è riconosciuto alle pronunce della Corte di Strasburgo anche in caso di cancellazione dal ruolo, se non altro quando questa ha avuto luogo a seguito di dichiarazione di riconoscimento della violazione da parte dello Stato convenuto.
Infatti, per la stessa Corte di legittimità e per la Corte costituzionale, la funzione del giudice nazionale è quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire il livello più elevato possibile di protezione dei diritti fondamentali.
3.2. L’unitarietà del processo.
Quanto alla fattispecie in esame, si fa allora espresso riferimento all’elaborazione come finalmente consolidata dalla Corte europea con la sua sentenza 14/09/2017 in causa Bozza c. Italia, resa il 14 settembre 2017, la quale ha ribadito con forza, quasi richiamando all’ordine le corti italiane che si erano discostate dalle precedenti conclusioni convenzionali, la necessaria unitarietà del processo nelle sue fasi di cognizione ed esecuzione: e tanto, in estrema sintesi, in base all’indefettibilità della seconda a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Al riguardo, le Sezioni Unite ricostruiscono un iter articolato. Con le pronunce del 2009 si era fatta leva sull’autonomia strutturale e funzionale del giudizio di cognizione rispetto al processo di esecuzione ed a quello di ottemperanza per sancirne una distinta rilevanza ai fini del sistema Pinto; ma, all’esito della successiva evoluzione interpretativa, nel 2014 ci si è fatti carico della contraria impostazione della Corte europea, per giungere ad una diversa conclusione, sull’unitarietà delle due “fasi” della cognizione e dell’esecuzione (od ottemperanza) in quanto consequenziali e complementari in un unitario, benché articolato e complesso, processo volto a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale: con la conseguenza che, in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, l’interessato, mancato il versamento delle somme spettanti entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto - sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. - ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva; indennizzo, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CTEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.
E tuttavia, nel 2016 le stesse Sezioni Unite intervennero nuovamente, introducendo, quale condizione per la considerazione unitaria del processo di esecuzione e del retrostante giudizio di cognizione, l’avvio del primo entro il termine decadenziale di sei mesi dalla definitività del provvedimento che aveva concluso il secondo: in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. 89/2001 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva. E tanto per la necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva.
La peculiarità dell’ultimo intervento, quello del 2019, sta allora in ciò, che esso intende porsi in continuità col precedente del 2014 e correggere o ridefinire quello del 2016: visto che, quanto meno nel sistema degli indennizzi Pinto, dove a rivestire la qualità di debitore è lo Stato medesimo, si afferma ora – al contempo – che l’unitarietà del processo sempre sussiste, ma che comunque che non è indennizzabile ai fini della legge Pinto, bensì soltanto in sede convenzionale e quindi con separato ricorso alla Corte di Strasburgo, il ritardo tra la conclusione del giudizio di cognizione e l’inizio del processo esecutivo (correttamente individuato nel pignoramento, a differenza del decreto impugnato, che lo collocava all’atto del precetto).
3.3. L’inadempienza dello Stato debitore.
Di grande rilievo è l’adesione ai passaggi argomentativi della già richiamata sentenza CtEDU in caso Bozza, in convinto e sostanziale loro recepimento:
- sulla sussistenza di un obbligo incondizionato, per gli Stati contraenti, di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice; sulla differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione;
- sulla responsabilità dello Stato contraente, nel primo caso e cioè in ipotesi di privato debitore, soltanto per difetto di diligenza richiesta od ostruzionismo nell’apprestamento dell’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione;
- sulla ben più pregnante responsabilità nel secondo caso, in ipotesi cioè in cui ad essere condannato o identificato come debitore sia lo Stato (o comunque una pubblica amministrazione ad esso riconducibile, soggettivamente od oggettivamente in ragione della funzione concretamente svolta), visto che il privato creditore non dovrebbe essere costretto ad avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, potendo anzi essere sufficiente la notifica regolare all’autorità nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura però meramente formale.
Del resto, la stessa giurisprudenza di Strasburgo esclude la legittimità di una giustificazione della non esecuzione di una sentenza contro un ente pubblico con la carenza di fondi; ammette un ritardo nell’esecuzione, purché non vanifichi l’essenza del diritto protetto; ancora, la più appropriata forma di ristoro nel caso di inesecuzione è che lo Stato garantisca la piena esecuzione delle sentenze ineseguite, mentre causa disagio, ansietà e frustrazione la protratta inesecuzione di una sentenza definitiva.
Quale principio di civiltà di grande importanza si rileva quindi che lo Stato deve sempre e comunque adempiere le proprie obbligazioni, senza costringere il privato pure ad azioni esecutive una volta conseguito il titolo in sede di cognizione. I debiti dello Stato (e della pubblica amministrazione a quello riconducibile) vanno (o andrebbero …) quindi sempre pagati e per di più in modo automatico.
3.4. Legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
Nonostante il carattere generale delle affermazioni della sentenza CtEDU Bozza in punto di unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione, con conseguente sconfessione del diverso approdo delle Sezioni Unite del 2016, la pronuncia del 2019 applica quelle conclusioni, rivedendo quest’ultimo precedente, esclusivamente per il sistema di indennizzi Pinto. Fermo quindi l’approdo del 2016 – di per sé contrario alla giurisprudenza di Strasburgo – sulla ricostruzione secundum eventum (ovvero voluntatem actoris, con istituzionalizzazione in sede processuale di una sorta di condizione si voluero che desta qualche perplessità) della unitarietà o meno delle due fasi, almeno quando debitore condannato è lo Stato ed almeno quando il titolo della condanna è un decreto ex lege Pinto l’unitarietà non può essere messa in discussione.
L’unitarietà delle due fasi non esclude però la necessità di isolare, dal contesto dell’indennizzo ex lege Pinto ed in relazione al concreto contenuto della disciplina nazionale da questa posta, il periodo tra la definitività del provvedimento di condanna e l’inizio del procedimento esecutivo: periodo che fonda sì un diritto della parte vittoriosa ad un indennizzo, ma per la condotta renitente della controparte e non per la pendenza in sé del procedimento giurisdizionale e quindi per una mancanza dello Stato nell’approntamento di una tutela efficace, tanto che, per tale intervallo, in difetto di previsioni normative specifiche nella l. 89/2001, ogni ragione è rimessa esclusivamente alla cognizione della Corte europea (si vedano le sette sentenze delle SS.UU. del 2014, riprese e confermate al punto 9.37 della sentenza del 2019, in richiamo di CtEDU 21/12/2010, Gaglione e a. c. Italia, che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo in ragione di € 200 à forfait, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno).
Pertanto, unitario è il procedimento, ma non tutto il tempo dal suo inizio alla sua conclusione rileva ai fini dell’indennizzo ex lege Pinto, dovendo, dalla durata indennizzabile, detrarsi quello tra la conclusione del giudizio di conclusione e l’inizio del processo esecutivo (o del giudizio di ottemperanza): ciò che, una volta correttamente individuato quest’ultimo ai sensi dell’art. 491 cod. proc. civ. con il pignoramento, esclude la rilevanza, sempre ai fini della legge Pinto, sia del termine dilatorio normalmente riconosciuto al debitore pubblico per pagare (di sei mesi e cinque giorni), sia di quello di 120 giorni imposto dalla disciplina speciale (di cui all’art. 14 d.l. 669/1996 cit.).
4. Le molte luci delle sentenze del 2019.
Con amarezza si constata quante risorse vanno profuse nell’elaborazione di un sistema assai complesso di tutela dai ritardi nella Giustizia, che si fa sempre più intricato e complicato, ad allontanare o rendere sempre più difficile il conseguimento di quella tutela, pure limitata al solo ed insufficiente momento risarcitorio: e va riconosciuto alle pronunce delle Sezioni Unite 19883 e ss. del 2019 di avere contribuito in direzione di una maggiore effettività di quella tutela, con la riaffermazione di importanti principi generali, che pure non si sarebbero mai voluti rimessi in discussione.
Alla tendenziale linea di continuità con le pronunce del 2014, quelle del 2019 affiancano la peculiarità di discostarsi almeno in parte dall’arretramento del 2016 e di ripristinare così la conclusione sull’unitarietà delle due fasi, di cognizione ed esecuzione in ragione della reciproca interdipendenza ed indefettibilità, sia pure con riguardo allo speciale caso di creditore nei confronti dello Stato per ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di altro precedente processo, ai sensi della legge Pinto.
La conclusione ha l’indubbio pregio di riallineare, quanto meno nella tematica dell’equa riparazione ex lege Pinto, la giurisprudenza nazionale a quella convenzionale, come pure quello di ribadire la missione della prima di comprimaria consapevole però della tendenziale sovraordinazione della seconda in tema di tutela di diritti fondamentali oggetto della Convenzione.
Ma ha, ancora, l’indubbio pregio di ribadire concetti importanti, che nell’attuale contesto storico paiono perfino rimessi in discussione, cioè l’assoluta indefettibilità della tutela esecutiva (con la preziosa precisazione dell’equiparazione, ai fini dell’effettività della tutela del diritto, al processo esecutivo pure del giudizio di ottemperanza) e l’insostenibilità dell’inottemperanza dello Stato alle proprie obbligazioni.
È bene che sia stato ribadito come tale soggetto (ad esso ricondotto ogni ente definibile come amministrazione pubblica e cioè partecipe dell’esercizio di pubblici poteri), proprio per la sua posizione nell’ordinamento giuridico, sia più di ogni altro tenuto ad adempiere puntualmente le proprie obbligazioni, ad evitare l’insanabile contraddizione della violazione delle regole da parte di quei soggetti investiti della potestà – e quindi del potere, ma anche del dovere, istituzionale – di farle rispettare.
Va quindi salutato con estremo favore l’intervento del 2019: dal quale non ci si poteva attendere di più, per il concreto ambito della controversia devoluta alle Sezioni Unite.
Del resto, critiche molto più radicali potevano essere mosse al precedente approdo del 2016, di rimessione dell’unitarietà delle due fasi alla volontà della parte: approdo in forza del quale finiva elusa la limpida nettezza del principio, per il quale non solo le obbligazioni si rispettano ma soprattutto lo Stato le rispetta senza bisogno di altri oneri per il malcapitato suo creditore; approdo giustificato in nome della preponderante necessità di ovviare a timori evidentemente inveterati e radicati in un autentico malcostume nazionale, essendo state invocate le esigenze della certezza del diritto e del contrasto agli abusi.
Eppure, probabilmente già in quella sede la cristallina chiarezza della conclusione convenzionale sulla necessaria unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione avrebbe potuto essere mantenuta, visto che gli abusi o i ritardi nell’attivazione della tutela esecutiva (o di ottemperanza) avrebbero potuto trovare adeguata prevenzione, con l’esclusione dei relativi periodi, in applicazione dei principi generali di non riconoscimento del danno ascrivibile alla condotta del danneggiato o di limitazione di quello in caso di concorso della sua condotta colposa.
5. Qualche considerazione conclusiva.
Un passo in avanti importante, dunque, ad opera delle pronunce del 2019, sulla strada del superamento dell’arretramento del 2016 rispetto alle conclusioni della giurisprudenza di Strasburgo.
Anche i primi commenti, dando doverosamente atto alle pronunce del 2019 di essersi mantenute entro i limiti della giurisprudenza convenzionale e del pregresso quadro normativo e giurisprudenziale nazionale, hanno auspicato, ma appunto de iure condendo, sanzioni più stringenti ed efficaci di quella, irrisoria perché contenuta nella forfetaria liquidazione in 200 euro e per di più dinanzi alla Corte di Strasburgo, che attualmente ne risulta applicabile in caso di protrazione dell’inerzia dello Stato inadempiente oltre il termine di sei mesi e cinque giorni per l’esecuzione spontanea del decreto in tema di indennizzo ex lege Pinto.
La conclusione è, comunque, non precisamente consolante: nella perdurante attesa di un Godot inteso quale efficace intervento sulle ragioni del fenomeno, ingentissime risorse – normative ed interpretative e quindi processuali – sono profuse nell’elaborazione sempre più intricata e complessa – quando non propriamente contorta – di un sistema volto a ristorarne almeno in parte le conseguenze negative, per di più afflitto da una cronica insufficienza di risorse finanziarie.
Anziché intervenire sulla struttura del sistema per tentare di impedire gli effetti del dissesto, si agisce quindi per contingentare e limitare quanto dovuto dallo Stato, incapace di realizzare un sistema Giustizia adeguato, per indennizzarli.
Se si concede il parallelo, è come se, dinanzi ad una rete stradale accidentata e fonte di innumerevoli gravi incidenti, la maggior parte degli sforzi sia dedicata non a rifare la rete stradale in modo che gli incidenti più non si verifichino, ma a regolare i risarcimenti, predeterminandoli e contenendoli, ma pure rendendo sempre più arduo, per il danneggiato loro creditore, conseguire effettivamente quel solo pecuniario ristoro.
È come preferire all’impegno di una riforma strutturale del sistema, probabilmente ritenuta fuori portata, la rassegnata accettazione della necessità di fronteggiare alla meno peggio il risarcimento talvolta poco più che simbolico delle sue inefficienze.
È tipica della realtà nazionale un’elaborazione raffinatissima, quasi sterminata, di casistiche e fattispecie, l’introduzione di termini decadenziali, impedimenti e cautele, di distinguo, di caveat, di eccezioni, di precisazioni, che rendono il soggetto creditore, danneggiato dalla violazione da parte dello Stato del suo diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, protagonista di un’autentica avventura giudiziaria – verrebbe da dire quasi un “Camel Trophy®” giudiziario – al cui esito sperare di imbattersi nella favolosa Arca o nel Vello d’Oro di un obolo ottriato a compensazione di ogni danno derivato dalla stessa cronica ed insanabile inadempienza dello Stato.
Eppure, nonostante tutto, la ricchezza delle elaborazioni e la sensibilità di tanti tra gli operatori e gli interpreti ancora consentono di confidare nello Stato di diritto e nella loro capacità di impegnarsi efficacemente per esigerne e conseguirne la realizzazione, nel quadro dell’effettività di una tutela multilivello dei diritti fondamentali affidata sempre più ad un proficuo dialogo tra le Corti di volta in volta coinvolte. In questa consapevolezza e con questo impegno, da rinnovare giorno dopo giorno, occorre mantenere costante l’attenzione di ognuno.
Quest’articolo è una fotografia in una libera cornice.
Ed è scritto per Catanzaro e per i magistrati del Tribunale di Catanzaro.
Colleghi, amici e bravissimi magistrati di un’altra Italia.
Sommario: 1. Catanzaro. Città vertiginosa - 2. Catanzaro “non è bella” - 3. Il Tribunale - 4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà - 5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia - 6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia - 7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale- 8. Un Tribunale debole - 9. Un Tribunale in fuga - 10. Un Tribunale senza aspiranti - 11. Un Tribunale in movimentazione. – 12. Tribunale di un’altra Italia
1. Catanzaro. Città vertiginosa
Catanzaro. Città vertiginosa. Ha scritto François Lenormant.
L’archeologo – studioso delle antichità nell’Italia meridionale – è stato uno dei pochi viaggiatori del passato, giunti in città, a lasciare un significativo segno del passaggio.
Città particolare, Catanzaro. Come particolare è il rapporto con quei viaggiatori che con spirito diverso, in qualche modo, l’hanno affrontata.
C’è stato il viaggiatore tradizionale che davvero si è fermato a Eboli. Goethe, Dickens, Montesquieu, per citarne solo alcuni, per cui il Grand Tour vedeva nelle terre campane il limite del Mezzogiorno, anche come punto d’imbarco per la Sicilia, senza alcuna considerazione dell’altrove meridionale.
C’è stato il viaggiatore eccentrico, pur arrivato nelle Calabrie, ma non così eccentrico da raggiungere Catanzaro. Escher, Dumas padre, ad esempio.
C’è stato il viaggiatore realista – Douglas, Piovene, Swinburne, Strutt, Saint-Non, ad esempio – che, ancor più eccentrico, a Catanzaro è arrivato, portando con sé il proprio realismo e non sempre troppe lusinghe.
E c’è stato il viaggiatore immaginario che Catanzaro, e la Calabria, ha solo immaginato. È Stendhal che ha pur scritto di un viaggio mai compiuto e citato Catanzaro – il cui nome pare lo affascinasse – in un episodio della Certosa di Parma (cap. XXVI).
E poi c’è il magistrato, contemporaneo viaggiatore nella giurisdizione.
Immaginario nell’immaginare Catanzaro dopo averla scelta, per caso o necessità, nella grande sala di un hotel di Roma. Tradizionale nell’immaginarla come una sventura. Realista nel giudicarla, senza indulgenza, una volta arrivato e tutte le volte in cui deve tornarci. Eccentrico, alla fine, nel giudicarla con affetto quando va via.
2. Catanzaro “non è bella”
“Non è bella” ha scritto, di Catanzaro, Dominique Vivant Denon, aggiungendo che “non ha niente che possa destare curiosità”. Lo scrittore e diplomatico francese – era il 1778 – ha lasciato la traccia di un leggero pregiudizio estetico che, seppur in senso diverso, accompagna ancor oggi la fama della città.
Dall’alto dei suoi colli, con l’aria sempre battuta da un vento incessante e la bella vista sullo Jonio e sulla Sila, Catanzaro è davvero una vertigine. Di cemento, disordine architettonico e urbanistico. È un labirinto di strade colme di auto, di molti avvocati e pochi giovani. Da una parte la marina, dall’altra la città storica, nel mezzo – non i Giardini delle Esperidi, immaginati da Gissing – i quartieri dell’abbandono e un’isola costituita dalla Regione e dal Polo Universitario. E poi, ancora, altre propaggini e isole edilizie. È una città divisa, scomposta e ricomposta come in un singolare décollage, che ha cancellato le tracce migliori del suo passato completando l’opera iniziata dai terremoti e cesellata dalla guerra.
“Sono stato più volte a Catanzaro e ho avuto sempre la stessa sensazione. Catanzaro, come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Infatti, malgrado si trovi in un posto molto bello e piacevole, la carenza di uno sviluppo urbanistico organico, per la mancanza di un piano regolatore, le conferisce un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo, cosa che del resto avviene in moltissime altre città italiane”. Ha detto Pasolini.
“Et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!” ha detto invece Marc Augé, il celebre antropologo dei “non luoghi”, in visita in città.
Perché Catanzaro non è così male come la prima impressione afferma e l’ultimo pensiero suggerisce. Ha il bizzarro fascino di quell’altra bellezza.
Un ponte audace e maestoso nella sua unica arcata, un tunnel che rompe la rupe e subito dopo una gigante rotatoria a forma di occhio che sovrasta una vallata. Sono le immagini che accompagnano l’ingresso in una città intrisa di altri ponti, altri palazzi, altri tunnel, altre rampe. Catanzaro ha il senso delle impalcature, si sale sempre e verso qualcosa che non è evidente ma che è evidentemente incompiuto. Frequentate chiese barocche, palazzi decadenti e i pochi resti delle antiche porte, viuzze e piazzette strette e nascoste, il Convitto Galluppi, la cucina di Salvatore, l’Arcivescovado, Bellavista, Case Arse e il complesso di San Giovanni, sono l’anima storica di una città che ha un corpo d’arte contemporanea la cui fisionomia unisce Mimmo Rotella, Altrove Festival, “U Ciaciu”, il lungomare mosaicato di Mendini, i piatti di Abbruzzino, il Politeama di Portoghesi, l’arte pubblica di decine di muri dipinti da grandi artisti, l’Aria dei vetri di Borondo, il Marca e le sculture del Parco della Biodiversità.
E poi c’è quel che resta del paesaggio. "…La città è sita sovra un monte in mezzo della Calabria: dietro le spalle le van sorgendo altri monti sino alla gran giogaia della Sila, che di verno si vede coperta di neve, e su la neve sorgono nereggianti i pini: dinanzi le sta un vastissimo terreno ondulato di colline che sono sparse di giardini, di orti, di case, di vigne, di oliveti, d’aranceti, e di pascoli dove biancheggiano armenti: e tutto quel terreno si curva in arco sul mare Ionio che tra i capi Rizzuto e Badolato forma il golfo di Squillace. Il mare è distante da la città sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il fragore...". Ha scritto Settembrini.
3. Il Tribunale
Arrampicato su uno dei tanti costoni della città, il Tribunale lo scorgi immediatamente, appena giunto sull’occhiuta rotatoria. Il color ocra pallido dell’alto edificio originario è accompagnato dal grigio e dal vetro dell’edificio nuovo, sorta di architettonico container, che ormai da molti anni sta per aprire, senza aprire mai.
Rampe stradali e la linea di una ferrovia cingono l’edificio fino quasi a toccarlo mentre due logore bandiere campeggiano nel piazzale d’ingresso – anticipato dall’azzurro stinto dei piloni dell’ennesima sopraelevata – dove una grigia intitolazione prova a ricordare Francesco Ferlaino.
Il frequentato interno non è dei peggiori, anche se gli spazi non abbondano, così come i servizi. Per quasi un anno senza un servizio bar, per oltre un anno senza riscaldamento né aria condizionata. Mancano aule adeguate e attrezzate per la trattazione dei numerosi maxiprocessi e dei processi che richiedono la video conferenza (ve ne sono sole due, una delle quali posizionata in luogo diverso dalla sede del Tribunale) e mancano gli spazi per la conservazione della documentazione. Non ci sono stanze per tutti i magistrati, la maggior parte sono condivise, anche nell’innovativa formula “per giorni alterni” o nella tradizionale, ma rivisitata, formula dell’open space. Poco più in là del Tribunale c’è la Corte d’Appello, che ospita anche i locali della Procura.
Antica realtà giurisdizionale, già nel Seicento luogo della Regia Udienza, Catanzaro è stata la sede d’importanti processi – Piazza Fontana, “il processo dei 117” – di fragorosi scandali – come la “guerra tra le Procure” o l’affare degli esami per avvocato – di una classe forense storica e signorile, di moltissimi magistrati, alcuni dei quali sufficientemente noti anche al grande pubblico.
4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà
Alla domanda su quale sia il capoluogo della Calabria non sempre si risponde, almeno immediatamente, “Catanzaro”.
Altrettanto spesso qualcuno dimentica che Catanzaro è sede distrettuale.
Distretto, estesissimo, che include sette circondari per quattro province (Vibo Valentia, Paola, Cosenza, Crotone, Castrovillari, Lamezia Terme), oltre trecentotrenta Comuni e un bacino d’utenza di oltre un milione e centomila soggetti (superiore a quello di Distretti come Bari, Catania, Reggio Calabria, Salerno e Messina)[1]. Realtà difficili per contenzioso e situazione socio-economica e con scoperture importanti che vanificano l’esistenza di qualsiasi rimedio endodistrettuale.
Il Tribunale è strutturato in tre sezioni penali (Dibattimento, Riesame, GIP, GUP) e in due sezioni civili (una delle quali inclusiva del settore lavoro e previdenza).
Catanzaro è, ad oggi, il Tribunale distrettuale con la maggiore scopertura di organico.
Il dato formale, in disparte il posto vacante da Presidente, conta una scopertura del 24% per la presenza giuridica di 32 giudici sui 42 previsti dalla pianta organica (che prevede anche 5 semidirettivi e due giudici del lavoro). Il dato, estratto da Cosmag, include la fittizia presenza di un collega trasferito d’ufficio (e contestualmente sospeso) dal CSM, proprio a Catanzaro, dove mai ha messo piede e che, dopo aver subito una condanna per corruzione, ragionevolmente non farà più parte, e nemmeno fittiziamente, della pianta organica catanzarese.
La scopertura, quindi, senza contare i magistrati in congedo per maternità o assenti per altri motivi, è del 26% (contando i 31 magistrati in servizio).
La difficoltà del Tribunale di Catanzaro è strutturale, non contingente, e si ripete nel tempo. Difficoltà, non confinata al solo dato della pianta organica, riflessa nell’affanno della giurisdizione e della popolazione, basata su più fattori che – sebbene comuni a molte realtà giudiziarie – interpretati nel contesto socio-economico di riferimento rilevano una consistenza che non è solo numerica.
5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia
Il tasso di litigiosità del territorio è elevato e colloca Catanzaro tra i Tribunali più gravati d’Italia.
Per quanto riguarda la giustizia civile, i più recenti dati tratti dal sistema DWGC (datawarehouse della giustizia civile) del Ministero dello Giustizia, relativi al 2018, indicano oltre 21mila sopravvenienze, oltre 24mila pendenze finali e un clearance rate in tendenza negativa. Catanzaro, deve esser inoltre rilevato, assorbe il numeroso contenzioso connesso alla presenza del governo dell'ente regionale e delle numerose aziende regionali. L’indice di litigiosità elaborato dal Sole24 ore (e fondato sul rapporto tra cause iscritte e abitanti) colloca la zona catanzarese, negativamente, al quarto posto in Italia. Medesima posizione negativa occupa per quanto riguarda la durata media dei procedimenti civili. La percentuale delle cause pendenti ultratriennali sul totale delle pendenze vede la provincia catanzarese, sempre negativamente, al sesto posto.
Il Tribunale di Catanzaro esercita la giurisdizione, naturalmente anche con competenza distrettuale, su un territorio caratterizzato dalla forte presenza della criminalità organizzata.
Per quanto riguarda la giustizia penale quindi – la cui particolarità sul territorio calabrese è tanto nota quanto ovvia – è sufficiente evidenziare un solo e significativo dato, tratto dalla Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie (2016), in cui si sottolinea la presenza in Calabria di circa 160 organizzazioni mafiose per quasi 4.400 affiliati di cui oltre la metà (circa 2.300) concentrati nel distretto di Catanzaro. E il Distretto catanzarese è il più grande per bacino di utenza (e affiliazione criminale) dopo quello di Napoli e Palermo.
I numeri della giustizia catanzarese sono solo in parte un peso da smaltire. Sono la manifestazione di un disagio sociale da comprendere e di un intenso bisogno di giustizia e legalità, per moltissimi versi inespresso[2], da soddisfare, per questo, nel migliore dei modi possibili. “Sono pochi i paesi d’Italia che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza: eppure, forse per ciò, questa regione tiene al sommo del suo carattere il senso del diritto e del torto”, ha scritto Alvaro.
6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia
Catanzaro è in proporzione all’organico – e considerando come parametro la valutazione di professionalità – il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia.
Il Tribunale, come detto, conta una pianta organica di 42 giudici (più 2 giudici del lavoro). Al settembre 2019 conta 31 magistrati (oltre i due giudici del lavoro) di cui: quindici sono in attesa della I valutazione di professionalità; dieci hanno la I valutazione di professionalità; tre hanno la II valutazione di professionalità; uno la III e due la IV valutazione. Circa l’80% dei magistrati hanno la I valutazione o ne sono in attesa (a Reggio Calabria il dato si “ferma”, per così dire, a circa il 70%). Cinque giudici con la I valutazione di professionalità hanno ottenuto il trasferimento in altri uffici nel corso del 2019.
I giudici in attesa della I valutazione costituiscono l’intera Sezione Riesame e – salvo un giudice di I valutazione – l’intera Sezione Dibattimento. La Sezione GIP-GUP conta magistrati in attesa della I valutazione e con la I e II valutazione. I giudici di prima nomina provengono da diverse regioni: Lazio, Puglia, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Piemonte.
La “giovinezza” che connota il Tribunale di Catanzaro è la sua debolezza e la sua forza. È debolezza perché è causa di un incessante e instabile andirivieni mai oggetto di programmazione né generale, né specifica. È forza perché nel Tribunale, fino all’orario di chiusura e anche fuori dalle sue mura, c’è l’intensità e la freschezza di un gruppo di colleghi che danno il meglio per la loro giurisdizione.
7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale
Catanzaro continua ad avere una pianta organica inadeguata.
Il recente allargamento di dieci unità, andato a colmare un’inadeguatezza da anni nota e manifesta, è stato totalmente vanificato, e in brevissimo tempo, dall’accentramento in sede distrettuale delle misure di prevenzione (per cui non vi è un numero di magistrati adeguato per comporre un collegio specializzato, nonostante nel corso del periodo 2017-2018 vi sia stato un incremento del 84% delle richieste di misure di prevenzione e del 168% dei controlli giudiziari) e di quello della protezione internazionale (per cui ad oggi non c’è stata neppure la rinnovazione dell’interpello per il posto extradistrettuale). Accentramento che si è aggiunto alle competenze distrettuali del tribunale delle imprese, all’aumento del carico di lavoro della Corte d’Assise (inclusiva dei distretti anche di Lamezia, Crotone, Vibo Valentia) e che è stato accompagnato al contestuale rafforzamento dell’Ufficio di Procura. Un allargamento numerico della pianta organica reso comunque inefficace dagli incessanti trasferimenti in uscita e dalla scarsa attrattività dell’ufficio per i trasferimenti in entrata.
8. Un Tribunale debole
Catanzaro è un Tribunale che poggia su un’amministrazione fragile di personale e risorse e che si rapporta sia con un’Avvocatura numerosa e con scarso reddito, sia con una Procura della Repubblica strutturata e attiva.
Per quanto riguarda il contrappeso costituito dall’Avvocatura, un dato appare significativo. La Calabria[3] conta 6,8 avvocati ogni mille abitanti[4] (5,9 ne conta la Campania, 4 è la media nazionale), il numero più alto tra le regioni italiane. Avvocati il cui reddito medio è inferiore del 56% alla media nazionale, ovvero il dato più basso tra le regioni italiane. Un altro dato, tratto dal sistema statico ministeriale, aiuta a cogliere ancora meglio la situazione. Gli onorari ai difensori nel Distretto di Catanzaro, a carico dell’erario e per il 2018, hanno superato i 20milioni di euro collocando lo stesso per spesa al sesto posto in Italia dopo Milano, Roma, Catania, Torino, Palermo.
La Procura della Repubblica di Catanzaro – dopo l’arrivo dell’attuale Procuratore, vero e proprio attrattore giurisdizionale di personale e mezzi – conta 22 sostituti procuratori sui 24 previsti dalla pianta organica (oltre tre aggiunti), di cui quasi la metà destinati alla Direzione Distrettuale Antimafia. Una scopertura, ad oggi relativa, a fronte di un passato recente che ha visto l’ufficio in grande sofferenza. Una Procura giovane – il cui settore ordinario è strutturato essenzialmente sui magistrati di prima nomina – che ultimamente ha visto plurimi trasferimenti in entrata dopo che, per tanti anni, al pari del Tribunale, i bandi sono andati deserti. La Procura di Catanzaro può dirsi debole se raffrontata con altre Procure Distrettuali, anche della medesima Regione, ma costituisce una struttura comunque solida rispetto al Tribunale.
L’organico amministrativo del Tribunale di Catanzaro – la cui professionalità sfata il pregiudizio, ricorrente e negativo, del pubblico impiegato meridionale – sconta, al pari dell’organico giudiziario, gravi carenze connesse all’atavico sottodimensionamento della giurisdizione catanzarese. Gli ultimi dati a disposizione, estratti dal programma di gestione e sempre mobili, indicano una carenza del personale di cancelleria superiore al 50%, oltre alla carenza del 17% per la figura di funzionario giudiziario.
9. Un Tribunale in fuga
Dal Tribunale di Catanzaro in molti vanno via, costantemente.
I magistrati di prima nomina, che non appartengono al territorio catanzarese, vanno via perché, stanchi di un pendolarismo scomodo e a lungo raggio, si riavvicinano ai propri affetti lontani da tempo. Vanno via perché stufi, dopo aver vissuto il disagio, di un Tribunale che dal disagio non riesce a liberarsi. Vanno via perché avere una parte di vita, in un altro e lontano luogo, significa destinare un terzo dello stipendio per questo. Vanno via perché l’incentivo “a restare” esistente – ovvero il punteggio per la sede a copertura necessaria, non previsto nemmeno per tutti – è una misura fallimentare, in alcun modo compensativa. E per comprendere meglio l’incentivo “alla fuga” basta la semplice notazione che i magistrati che lasciano Catanzaro raramente ottengono, in sede di trasferimento, la sede realmente ambita[5] e si accontentano, comunque, della sede a questa più vicina.
I magistrati che appartengono al territorio, al di fuori di scelte legate ad aspirazioni professionali, vanno via per le condizioni lavorative disagevoli e perché la continua fuoriuscita di magistrati conduce a costanti vuoti d’organico, e quindi a costanti spostamenti interni che tentano di rattoppare una coperta che non solo è troppo corta ma anche troppo bucata. Vanno via in Tribunali limitrofi o della stessa città, in sedi disagiate della Calabria, in Corte d’Appello (per cui basta davvero poca anzianità).
Alcuni dati aiutano meglio ad inquadrare la situazione. Nel solo corso del 2019 hanno ottenuto il trasferimento da Catanzaro 7 giudici, di cui 5 con la I valutazione di professionalità; dal 2015 al 2019 sono stati assegnati al Tribunale 28 giudici di prima nomina (con la considerazione che la pianta organica, in precedenza, contava trentadue giudici) e nello stesso periodo almeno dieci giudici del Tribunale sono passati in Corte d’Appello o in uffici limitrofi.
10. Un Tribunale senza aspiranti
Al Tribunale di Catanzaro nessuno vuole andare.
E nessuno vuole andare perché se il giudice non appartiene al territorio non ha motivo di andare in una realtà lavorativa disagiata. Perché se appartiene al territorio, Catanzaro l’ha ottenuta, subito, in sede di prima scelta. E perché vi è un lungo elenco di ragioni che richiederebbero un altro tipo di scritto.
Un dato aiuta a capire. Dal 2010 al 2019, con i bandi di tramutamento ordinario, sono stati pubblicati oltre 35 posti ordinari per il Tribunale di Catanzaro e, sempre nel corso di tale periodo, i tramutamenti in entrata sono stati solo 3 (uno nel 2011, uno del 2013, uno nel 2017 che ha interessato un giudice del lavoro, sempre del Tribunale di Catanzaro, che è passato all’ordinario).
Le applicazioni extradistrettuali difficilmente sono coperte, perché a causa della situazione effettivamente disagiata del Tribunale, della posizione geografica della città e della situazione logistica che non consente un pendolarismo agevole, i vantaggi economici dell’applicazione sono neutralizzati dai costi e dal peso tangibile del lavoro (in particolare se l’applicazione ha ad oggetto posti come quelli dell’Ufficio GIP-GUP o del Riesame in cui, a differenza di altri settori, l’attività anche solo per sei mesi è davvero effettiva e consistente).
11. Un Tribunale in movimentazione
Catanzaro conosce una continua, e necessitata, rotazione sui ruoli che determina rallentamento e confusione nella gestione dei procedimenti, sia frustrazione per la professionalità dei magistrati.
Il movimento segue sempre la medesima intonazione ed ha cadenza quasi annuale.
La Sezione GIP-GUP (composta astrattamente da undici magistrati) manifesta le scoperture più frequenti e importanti dovute ai trasferimenti dei colleghi verso altri tribunali o verso la Corte d’Appello (ad esempio, solo nel corso del 2019, si sono trasferiti ad altra sede quattro magistrati assegnati alla Sezione). L’immediata necessità della copertura – anche per mantenere il necessario rapporto di proporzionalità con la Procura – porta ai primi tramutamenti interni che, volente o nolente, in base alla normativa vigente, coinvolgono i magistrati del Dibattimento e del Riesame. Sezioni che, a loro volta in difficoltà (a causa dei tramutamenti al GIP-GUP, ad esempio, il Dibattimento è stato costretto a mutare nell’ultimo biennio plurime volte i due collegi esistenti e quello d’assise), vedono l’assegnazione dei magistrati del settore civile, che quindi rimane inevitabilmente scoperto, salvo la fortunata coincidenza dell’ingresso di magistrati di prima nomina.
12. Tribunale di un’altra Italia
“Qui nacque il nome Italia”. È scritto su un cartellone di benvenuto, sufficientemente consumato da passare inosservato, all’ingresso della città. Un’interpretazione leggendaria, in tante versioni narrata, ne vuole l’origine in un vocabolo con il quale i greci designavano la popolazione stanziata nei pressi dell’odierno abitato.
Una volta vista e confrontata la realtà giurisdizionale catanzarese, dell’Italia, al Tribunale di Catanzaro, sembra rimasto a mala pena il nome. Senza troppe parole, basterebbe ricordarne la collocazione geografica. Perché Catanzaro non è un tribunale del sud Italia, ma un tribunale che sta nel meridione del sud Italia, in Calabria.
I problemi del meridione si riflettono sulla giurisdizione, certo. La giurisdizione è, in modo biunivoco, parte del problema del meridione. Debole e claudicante, è sia componente del problema, sia ostacolo alla soluzione delle altre sue parti. E tanto perché, in modo forse più intenso che da altre parti, c’è bisogno di vedere, di sentire, la legalità e la giustizia, oltre i proclami e soliti stilemi. Una giustizia che è pure civile, e non solo penale, anche se si parla di Calabria e anche se si parla di ‘ndrangheta. Perché la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società – ha scritto Alvaro, che a Catanzaro ha vissuto e studiato – è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.
Soluzioni immediate alle problematiche che affliggono il Tribunale di Catanzaro non sono facili da immaginare. Tre desideri si possono però pur sempre esprimere.
Il primo è un desiderio di continuità.
La soluzione ai mali del Tribunale di Catanzaro è da sempre l’iniezione, massiva e consistente, di magistrati di prima nomina. Palliativo con effetti limitati che manifesta la sua fragilità non appena i magistrati maturano la legittimazione al trasferimento[6]. Il turn over è tale se vi è effettivo avvicendamento e quindi contestualità tra entrate e uscite. E nel caso del Tribunale di Catanzaro, dove tra uscite ed entrate vi è asimmetria numerica e temporale, non è possibile parlare di turn over. Il desiderio è quello che a Catanzaro si possa parlare effettivamente di turn over. E questo appare possibile solo creando dei nuovi incentivi “a restare” effettivamente compensativi ovvero applicazioni dotate di flessibilità temporale, determinate per il caso specifico, al fine di consentire il passaggio di consegne tra magistrati di prima nomina che vanno via e magistrati di prima nomina che arrivano.
Il secondo è un desiderio di trasparenza e diversificazione delle tutele.
Il Tribunale di Catanzaro, al pari delle altre sedi problematiche, richiede una tutela diversificata. I tribunali non in difficoltà sono tutti uguali, i tribunali in difficoltà sono tutti diversi, sono più fragili e richiedono una specifica attenzione e programmazione – a livello centrale e locale – che non può limitarsi al manifesto dei programmi di gestione. Il desiderio è la creazione di una banca data accessibile a tutti in cui vi sia una scheda per ogni ufficio, aggiornata con costanza, contenente i dati volti a chiarirne la situazione (scopertura, flussi di procedimenti, flussi di personale, statistiche, tabelle provvedimenti adottati, misure attuate dal Consiglio, programma di gestione, documento organizzativo generale, ecc.). Il desiderio è che il Csm esprima, motivatamente, le sue decisioni su tali basi – non su logiche di forza dei differenti uffici, come spesso accade – e che decida le azioni di ridistribuzione e collocazione delle forze anche sulla effettiva considerazione della serie storica dei flussi dei magistrati in entrata e uscita. Il desiderio è la previsione di canali procedimentali accelerati e privilegiati, di una valutazione dei dirigenti, in sede di conferimento e riconferma, che focalizzi l’attenzione sulle problematiche endemiche del singolo Tribunale e sulla loro gestione.
L’ultimo è un desiderio lessicale.
Il Tribunale di Catanzaro, assieme ai suoi sfortunati pari, è spesso definito di “frontiera”, per edulcorare con termine vagamente eroico, vagamente western, vagamente epico quello che è un reale problema di norme, organizzazione e risorse e non un immaginifico problema di confine fra realtà. Il desiderio è quello che non si parli più di Tribunale di frontiera, badando al concreto delle cose.
[1] Secondo i (non recenti) dati presenti su Cosmag. È interessante notare come, dai dati ministeriali relativi al 2018, il Distretto di Catanzaro risulti essere il sesto per peso delle spese di giustizia a carico dell’erario dopo Catania, Napoli, Palermo, Milano, Roma e Torino.
[2] Un dato è significativo e riguarda il lavoro sommerso, ovvero i diritti sommersi. La Calabria, secondo gli ultimi dati Istat elaborati dalla Ciga Mestre, presenta uno dei rapporti più alti in Italia tra popolazione residente e lavoratori in “nero” (146 mila per nemmeno 2 milioni di abitanti) e la più alta un’incidenza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil regionale (9,9%, quasi doppio rispetto al dato medio nazionale).
[3] Secondo i dati del Rapporto Censis 2018 “Percorsi e scenari dell’Avvocatura italiana”.
[4] L’Ordine degli Avvocati di Catanzaro conta 1735 avvocati e l’ultimo bacino d’utenza stimato conta circa 260mila soggetti. Si consideri inoltre che il limitrofo Ordine di Lamezia Terme conta 783 avvocati.
[5] Anche perché di base collocati nella parte bassa della graduatoria concorsuale e quindi sopravanzati, anche in sede di trasferimento, dai propri colleghi di concorso.
[6] Quattro dei cinque giudici (salvo l’unico giudice, che è calabrese) che hanno assunto le funzioni nel 2015 hanno ottenuto il trasferimento appena legittimati, lasciando un vuoto d’organico che, sommato agli altri trasferimenti subiti dal Tribunale nel corso del 2019, sarà probabilmente colmato solo nell’autunno 2020 con l’arrivo dei magistrati di prima nomina del d.m. 12 febbraio 2019 (che sceglieranno la sede di destinazione nella primavera 2020). Nell’autunno 2020 otterranno la legittimazione dodici magistrati del d.m. 18 gennaio 2016 il cui (ipotetico e per molti concreto) trasferimento verrà colmato solo dai m.o.t. dell’ultimo concorso che ancora debbono iniziare il tirocinio.
di Stefano Petitti[i]
Il libro di Roberto Conti rappresenta un importante contributo allo studio e alla sistematizzazione di tematiche di grande rilievo e di grande complessità. Il pregio maggiore, a me sembra, sia il tentativo, più ancora che di dare soluzioni a questioni quali quelle evocate nel titolo (questioni di vita e di morte), di individuare un metodo per porre in condizioni il giudice di orientarsi e pervenire alla decisione auspicabilmente più giusta e più aderente al caso della vita sottoposto alla sua attenzione.
E questo metodo mi pare sia caratterizzato, in primo luogo, dal principio di collaborazione, declinato sia nel rapporto tra giudice e legislatore, quale espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all’art. 54 Cost., sia all’interno delle diverse giurisdizioni, nazionali e sovranazionali; in secondo luogo, dal ricorso alla comparazione quale criterio per la soluzione di casi nuovi.
Il tutto ispirato dalla esigenza di orientare le soluzioni di volta in volta necessarie alla tutela della dignità umana.
Indubbiamente, il nostro ordinamento, da ultimo con l’approvazione della legge n. 219 del 2017, alla quale risulta in gran parte dedicato il libro, ha espressamente accomunato la dignità al livello dei diritti fondamentali alla vita alla salute e all'auto-determinazione della persona (art. 1, comma 1) e poi esplicitando la necessità del rispetto alla dignità nella fase finale della vita (art. 2), ed ancora affermando che le manifestazioni di volontà relative ai trattamenti sanitari dei minori e degli incapaci, siano finalizzate al rispetto della dignità degli stessi.
Con tale legge, ricorda Conti, il nostro ordinamento ha sostanzialmente normativizzato alcune soluzioni giurisprudenziali adottate nella seconda metà del decennio scorso in tema di interruzione di terapie salvavita. Soluzioni giurisprudenziali intervenute in una situazione di carenza normativa, rispetto alla quale i giudici si sono fatti carico di individuare, sulla base dei principi e attraverso il metodo di cui si è detto, la soluzione al caso della vita sottoposto alla loro attenzione. Quale fosse la portata innovativa e di quelle decisioni risulta del resto evidente anche nella vicenda più recente, e cioè quella alla quale si riferisce l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale.
In tale vicenda, infatti, viene dato per acquisito in fatto che alla parte interessata, prima ancora della approvazione e della entrata in vigore della legge n. 219, è stata prospettata la possibilità della interruzione dei trattamenti terapeutici in atto; pratica, questa, ritenuta ammissibile, in quel momento, solo sulla base dei principi giurisprudenziali.
Orbene, che quei principi e quelle soluzioni fossero finalizzati alla tutela della dignità della persona interessata a sospendere i trattamenti sanitari, oltre ad emergere in modo chiaro dalle decisioni stesse, è oggi una realtà normativa.
Come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 293 del 2000), la tutela della dignità della persona umana è un valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque orientare sia l'interpretazione delle disposizioni esistenti, ove la loro applicazione sia suscettibile di incidere su quel valore, sia la individuazione della soluzione più adeguata al caso concreto, ove l’ordinamento presenti una lacuna nella disciplina della fattispecie.
Quanto al tentativo di definire il concetto di dignità, Conti afferma essere “insito nel concetto di dignità ed, anzi, ne rappresenta la forza vivificante, il carattere composito, al cui interno convivono la dignità come valore intrinseco di ciascun essere umano, che impedisce ogni attentato alla libertà, identità ed integrità della persona, ma anche la dignità come merito sociale e ancora la dignità come diritto all’autodeterminazione o come statura morale di una persona rispetto a determinati comportamenti di rilievo morale o come autopercezione del proprio valore”, evidenziando, ad un tempo, per un verso la difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice”.
In realtà, nelle interpretazioni giurisprudenziali, ma anche nella ricostruzione del valore “dignità” espresse dalla dottrina, possono individuarsi due diverse prospettive della rilevanza giuridica della dignità. Per un verso, la dignità coincide sostanzialmente con l’attributo primo e irrinunciabile della persona: si tratta di un concetto che discende dal principio personalista che ispira il nostro ordinamento e in forza del quale la persona merita assoluto rispetto di per sé. Per altro verso, essa, pur configurandosi come un presupposto del riconoscimento del valore della persona in quanto tale, opera anche con riferimento all’essere umano nella sua vita di relazione e più in generale, all’essere umano come soggetto della società in cui vive, in una dimensione che supera quella della tutela dell’individuo, per cogliere quest’ultimo nei suoi rapporti con gli altri.
L’applicazione del valore della dignità della persona umana, proprio per la sua qualificazione come valore costituzionale, investe sia il giudice comune che la Corte costituzionale e nel rapporto tra tali organi si cerca di pervenire alla individuazione della soluzione più appropriata al caso; soluzione che può essere quella della interpretazione costituzionalmente conforme o, venendo in rilevo diritti fondamentali, convenzionalmente e comunitariamente conforme, ovvero attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale e, in questo secondo caso, attraverso la adozione di soluzioni interpretative di rigetto o di accoglimento.
Nel considerare il rapporto tra giudice comune e corte costituzionale, vengono qui alla mente le questioni concernenti l'art. 1 della l. n. 164 del 1982, e il successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, in relazione alle quali la Corte di cassazione ha affermato, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata, che per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. Qui la dignità umana opera in modo prevalentemente soggettivo, valorizzandosi in termini assoluti la volontà e la concezione che la persona ha di se stessa, ritenendosi prevalente tale profilo sul concorrente interesse pubblico alla stabilità dello status. Tale connotazione risulta ancor più evidente ove si consideri che la soluzione affermata dalla Corte di cassazione è stata assunta dalla Corte costituzionale a fondamento della decisione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, che pure era stata sollevata in proposito, nella quale si rileva che il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l'entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l'identità personale e di genere.
Sotto altro profilo, invece, per una diversa colorazione del valore della dignità umana, assumono rilievo le decisioni in tema di riconoscimento di sentenze straniere di attribuzione dello status di filiazione in assenza di rapporto biologico tra il genitore intenzionale e il minore. Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari. E qui, giocano un ruolo assai significativo le decisioni della Corte costituzionale, nelle quali si esplicita “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”.
Ecco, quindi, che la previsione di una sanzione penale per una determinata condotta sembrerebbe precludere la possibilità di ritenere la stessa espressione di dignità umana e quindi di consentirne una comparazione e un bilanciamento con altri valori che si ritengano a loro volta espressione della dignità della persona.
Un simile approccio è però contraddetto dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, la quale, pur in presenza di una disposizione che sanziona penalmente l’aiuto al suicidio, ha enucleato alcuni elementi del fatto che possono essere ritenuti, da un lato, espressivi della particolare rilevanza del principio personalista che ispira il nostro ordinamento e, quindi, del principio di autodeterminazione, da tutelare ora in via tendenzialmente assoluta anche per disposizione di legge ordinaria; dall’altro, ha dubitato – anzi, ha accertato ancorché non dichiarandola - la non conformità a costituzione della sanzione penale prevista nei confronti di chi agevoli il suicidio nel caso in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
A tale accertamento, ancora non dichiarato, la Corte perviene valorizzando in termini assai espansivi il valore della dignità della persona umana, ritenendo che sia meritevole di tutela anche la percezione soggettiva e personale della propria dignità da parte di un malato che venga a trovarsi in quelle condizioni (non consentendo al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte - si afferma -, “si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”).
La prestazione di aiuto nei confronti del malato, quindi, non integrerebbe la violazione del precetto penale allorquando quell’aiuto sia strettamente strumentale alla realizzazione di un proposito consapevolmente maturato da parte del soggetto o al momento della formulazione della richiesta ovvero in anticipo, secondo le modalità di cui alla legge n. 219 del 2017.
Ciò che viene in rilievo è, dunque, la percezione che ciascun individuo ha di se stesso e tale percezione è a tal punto significativa da poter escludere dall’ambito del penalmente rilevante una condotta che quella convinzione di sé concorra a realizzare.
In proposito, mi pare assumano un rilievo del tutto particolare alcune affermazioni contenute in una sentenza della Corte costituzionale (n. 467 del 1991) che, pur se formulate in relazione alla obiezione di coscienza al servizio militare per motivi religiosi o filosofici, assumono una portata di carattere generale, tanto da consentire di individuare in esse la esplicitazione del concetto di dignità umana. Afferma la Corte nella citata decisione che “a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che - quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell'uomo, (…) - la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell'idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale (…), la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.
La valorizzazione della coscienza individuale quale fondamento della dignità umana può operare, dunque, come causa di esclusione della illiceità penale allorquando la stessa si collochi in un contesto di concorrente sussistenza di interessi meritevoli di tutela in quanto espressivi di valori costituzionali. E così, nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la Corte ha ritenuto che il valore della coscienza individuale dovesse essere dal legislatore posto in bilanciamento con altri interessi pure costituzionalmente tutelati, ed ha ritenuto prevalente la tutela del valore individuale. Una simile opera di bilanciamento pare indispensabile allorquando la coscienza individuale venga opposta all’adempimento di un dovere penalmente sanzionato.
Nel caso dell’art. 580 c.p., invece – e limitando per ovvie ragioni di rilevanza le considerazioni alla sola ipotesi di agevolazione del suicidio in favore di un soggetto consapevolmente determinatosi a togliersi la vita e tuttavia impossibilitato a perseguire il proprio proposito autonomamente – ciò che viene in rilievo ai fini della affermazione del valore della coscienza individuale non è l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente: la legge n. 219 del 2017, invero, ha consacrato l’inesistenza di un dovere di vivere.
E’ questo un dato che la stessa Corte costituzionale ha rilevato, affermando nella ordinanza n. 207 che “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (…) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce quindi per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Se così è, allora, l’agevolazione nella realizzazione della consapevole scelta di interrompere la propria vita da parte di un soggetto che si trovi nelle descritte condizioni si risolve nell’affermazione più piena della dignità della persona, intesa quale coscienza che quella persona ha di se stessa. Né in ipotesi siffatte potrebbe opporsi la sussistenza della condizione che giustifica, nella impostazione prescelta dalla Corte costituzionale, la persistente validità della previsione di una sanzione penale per la condotta di aiuto nei confronti del suicida, e cioè la vulnerabilità di quest’ultimo. Nelle ipotesi delineate, infatti, ciò che certamente non fa difetto alla persona che invoca la realizzazione della propria dignità attraverso un ausilio nella morte, sono proprio quelle condizioni la cui mancanza potrebbe far ipotizzare una scelta non sufficientemente consapevole, e segnatamente l’assistenza familiare e le cure.
Certo, la stessa Corte costituzionale ha ritenuto di non poter dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nei termini prima indicati, rilevando la indispensabilità di un intervento del legislatore. Tale intervento non si è verificato, sicché, tra pochi giorni, la Corte costituzionale sarà nuovamente investita della questione.
Molto si è scritto sulla vicenda, sia quanto alla tipologia della decisione adottata sia quanto alla efficacia della stessa, se cioè in essa sia contenuta un’anticipazione di una decisione già assunta ovvero se la formula adottata – rinvio della trattazione delle questioni sollevate – implichi la piena disponibilità, da parte del Collegio della decisione, che potrebbe in ipotesi non comportare una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Tuttavia, quale che sia la decisione che la Corte adotterà, credo si possa sin d’ora affermare che la stessa non potrà essere risolutiva, rimanendo sempre affidato al giudice comune il compito di assicurare la tutela della dignità umana. E’ infatti possibile ipotizzare – e in molti commenti già lo si è fatto – che la resecazione della ipotetica illegittimità costituzionale possa creare un deficit di tutela della dignità di quelle persone che, pur trovandosi nella medesime condizioni patologiche in cui si è trovato l’Antoniani, non sono tuttavia tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.
Così come suscettibile di valutazione in ambito giudiziario sarà sempre e comunque l’accertamento della consapevolezza e libertà della scelta praticata dalla persona e del suo convincimento della possibilità di affermare la propria dignità attraverso l’abbandono della vita.
Ciò che conta è che il giudice comune chiamato a dare soluzione a tali nuovi casi si accosti alla decisione con la metodologia ampiamente evidenziata nel libro di Conti, in uno spirito di fedeltà e di leale collaborazione sia rispetto agli altri organi giurisdizionali, sia rispetto alle determinazioni del legislatore ove queste dovessero intervenire.
Ed è questo credo il messaggio più forte che si trae dalla lettura del libro di Roberto: il giudice è certamente garante della dignità umana.
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”
Una notazione sull’inadeguata recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA di Giuseppe Licastro
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Una limitazione inopportuna… – 3. Per di più… – 4. Una (piccola-grande) digressione… – 5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
1. Introduzione.
La recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, segnatamente di ritirare provvisoriamente gli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale per la durata della proroga, ossia fino alla fine del mese di settembre del 2019 (cfr. il corrispondente comunicato stampa del 29 marzo 2019; nonché la decisione (PESC) 2019/535 del Consiglio, p. 2), costituisce una restrizione significativa nel quadro dell’azione di contrasto da parte dell’Unione Europea al fenomeno del traffico di migranti nonché della tratta di esseri umani. Tale “intesa” (cfr. ancora il suddetto comunicato stampa) ha stabilito che l’operazione SOPHIA continuerà ad attuare il suo «mandato, aumentando la sorveglianza con mezzi aerei e rafforzando il sostegno alla guardia costiera e alla marina libiche nei compiti di contrasto in mare attraverso un monitoraggio potenziato, anche a terra, e continuando la formazione» (sulla nota operazione SOPHIA, v., tra gli altri, M. Gestri, EUNAVFOR MED: Fighting Migrant Smuggling under UN Security Council Resolution 2240 (2015), in Italian Yearbook of International Law, 2016, p. 21 ss., A. Annoni, Il ruolo delle operazioni Triton e Sophia nella repressione della tratta di esseri umani e del traffico di migranti nel Mediterraneo centrale, in Dir. Un. Eur., 2017, p. 835 ss., da ultimo G. Salvi, New Challenges for Prosecution of Migrants Trafficking: from Mare Nostrum to EUNAVFOR MED. The Experience of an Italian Prosecution Office, in B. Majtényi, G. Tamburelli (a cura di), Human Rights of Asylum Seekers in Italy and Hungary. Influence of International and EU Law on Domestic Actions, Torino/The Hague, 2019, p. 227 ss.). Appare peraltro criticabile la scelta di potenziare il sostegno alla guardia costiera libica, che nello svolgere le operazioni di soccorso utilizza modalità operative lesive dei diritti umani. La United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) ha documentato «the use of firearms, physical violence and threatening or racist language by coastguard officials during search and rescue operations in Libyan and international waters, which induces panic among people in unseaworthy vessels seeking assistance» (cfr., più diffusamente, il report dell’UNSMIL realizzato unitamente all’Office of the High Commissioner for Human Rights, del 18 dicembre 2018, Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, punto 5.2 Dangerous sea crossings and rescues, specialmente p. 35 ss.).
La decisione di sospendere temporaneamente lo spiegamento delle forze navali dell’operazione, circa il ritiro temporaneo degli assetti navali, è frutto delle conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2018, conclusioni volte fondamentalmente all’elaborazione del «concetto di piattaforme di sbarco regionali per le persone salvate in mare» e del concetto di «centri sorvegliati», da creare negli Stati membri (naturalmente dell’UE), ma «su base volontaria» (altresì di interesse il comunicato stampa della Commissione del 24 luglio 2018, Gestione della migrazione: la Commissione approfondisce i concetti del sistema degli sbarchi e dei “centri controllati”: doc. IP/18/4629; da richiamare, però, le perplessità manifestate da F. Maiani, “Regional Disembarkation Platforms” and “Controlled Centres”: Lifting The Drawbridge, Reaching out Across The Mediterranean, or Going Nowhere?, in RefLaw, 14 settembre 2018, nonché da S. Marinai, Extraterritorial Processing of Asylum Claims: Is It a Viable Option?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2018, p. 481 ss.).
2. Una limitazione inopportuna…
Si tratta tuttavia di una limitazione quanto mai inopportuna, come dimostra chiaramente un recente avvistamento che documenta un modus operandi dei trafficanti di migranti che utilizza ancora una volta lo schema della c.d. nave madre con una piccola variante (invero già nota, infra). Il trasbordo dei migranti (dalla c.d. nave madre) e lo sbarco sulle nostre coste si realizzano mediante un barchino trainato dalla c.d. nave madre, il barchino serve infatti a proseguire verso e infine sbarcare sulle nostre coste italiane dopo essere stato riempito con il “carico” umano. Peraltro la documentazione di questo caso, il video, risulta postato sul profilo twitter dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (testo del tweet del 22 giugno 2019 che precede il video: «Wait, wait. Why is that fishing trawler towing an empty wooden boat at high seas???»), altresì inserito successivamente sul sito di detta agenzia FRONTEX (FRONTEX detects mother boat smuggling people, 24 giugno 2019. La cronaca di questo recente caso nonché di questo già noto modus operandi dei trafficanti appare sul Corriere della Sera, firmato da S. Toscano, il 22 giugno 2019, p. 19).
Da menzionare un “dettaglio” che figura nel sollecito comunicato stampa sul sito della Guardia di Finanza (21 giugno 2019): «Alle ore 13.20 un aereo operante nel progetto MAS dell’Agenzia Frontex, attraverso il National Coordination Centre del Ministero dell’Interno, ha documentato, a circa 60 miglia a sud dell’isola di Lampedusa, il trasbordo di un considerevole numero di migranti [81] da un motopesca su di una imbarcazione più piccola, alla quale era affiancato. Dopo il trasbordo, le due imbarcazioni si allontanavano con rotte opposte, dirigendo, la prima verso le coste libiche e la seconda carica di migranti verso le coste italiane». Il comunicato stampa menziona, altresì, l’istituto del diritto di inseguimento, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 (all’art. 111), allo scopo di asseverare la giurisdizione penale nazionale in alto mare (riguardo detto istituto, v. U. Leanza, F. Graziani, Poteri di enforcement e di jurisdiction in materia di traffico di migranti via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto, in La Comunità Internazionale, 2014, pp. 178-179). Su questa base la squadra d’abbordaggio del Pattugliatore Veloce PV 4 Avallone della Guardia di Finanza assumeva il controllo della nave madre, mentre le vedette della Guardia di Finanza e della Capitaneria di porto fermavano il barchino a 4 miglia dal Porto di Lampedusa, dove venivano fatte sbarcare le 81 persone a bordo.
Si discute, appunto, di un avvistamento operato nel quadro del dispositivo Multipurpose Aerial Surveillance (MAS): vale la pena consultare taluni risultati operativi esplicativi di tale dispositivo che appaiono, peraltro, sul Frontex annual activity report 2017 (doc. n. 10525/18 FRONT 199 COMIX 352, del 27 giugno 2018, p. 29, disponibile sul sito Statewatch), al fine di comprendere il funzionamento e le finalità di questo dispositivo (MAS), teso, all’attività di rilevamento (rectius osservazione), nonché predisposizione di operazioni di Search and Rescue e di contrasto al crimine transfrontaliero. Tale dispositivo (MAS) sembrerebbe quindi uno strumento in grado di supplire al ritiro (quantunque provvisorio) degli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale.
A fronte di episodi come quello appena descritto (supra), la sospensione dello spiegamento delle forze navali appare, invece, a dir poco discutibile. Prima di questa considerevole restrizione gli assetti navali dell’operazione SOPHIA si dispiegavano addirittura in prossimità delle acque territoriali libiche… (v., a titolo esemplificativo, un riferimento in tal senso, che figura nel quadro dell’Annual report on the implementation of Regulation (EU) 656/2014, annualità 2017, doc. n. 11129/18 FRONT 229 COMIX 402, del 16 luglio 2018, p. 8). L’operazione SOPHIA era entrata da tempo (dal 7 ottobre 2015) nella prima parte della seconda fase dell’operazione, vale a dire, poteva concretamente «procedere all’esecuzione di fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, incluse le pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 e dal Protocollo sullo smuggling di migranti, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000» (si veda il mio contributo pubblicato in dUE - Osservatorio europeo nel mese di dicembre 2015, in cui si richiamava l’attenzione sul considerando n. 6 della rettifica parziale della decisione (PESC) 2015/778 del Consiglio, relativamente all’osservanza delle pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, dal principio di non-refoulement e dalla disciplina internazionale a tutela dei diritti umani, un profilo da non trascurare...: in argomento, v. i successivi contributi di F. Mussi, Countering migrant smuggling in the Mediterranean Sea under the mandate of the UN Security Council: what protection for the fundamental rights of migrants?, in The International Journal of Human Rights, 2017, p. 488 ss., e di L. Salvadego, Il rispetto dei diritti umani fondamentali nel contrasto al traffico di migranti attraverso il Mediterraneo centrale, in Il Diritto Marittimo, 2017, p. 1122 ss.).
3. Per di più…
Va inoltre considerato che l’operazione THEMIS, lanciata dall’agenzia FRONTEX nel febbraio 2018 (in sostituzione di TRITON), con il mandato di aiutare l’Italia a fronteggiare i flussi provenienti da Turchia e Albania (zona est), Libia, Tunisia e Algeria (zona ovest), ha in realtà previsto una ridotta capacità operativa delle nostre unità navali impiegate, portata del raggio d’azione limitata solo alle 24 miglia marine… (“particolari” che figurano sul sito del (nostro) Ministero dell’Interno, mese di febbraio 2018).
4. Una (piccola-grande) digressione…
Sembra comunque interessante, a questo punto (della disamina), fare una digressione, quindi richiamare, il recente d.l. 14 giugno 2019, n. 53, c.d. decreto sicurezza-bis (in GURI online), che, all’art. 1, ha introdotto modifiche all’art. 11 del Testo Unico immigrazione, immettendo un nuovo comma 1-ter, dal tenore seguente: «Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689 [in GURI online; il riferimento attiene, più che probabilmente, al «carico o» allo «scarico» di «persone», relativamente alle leggi in materia di immigrazione «vigenti nello Stato costiero»]. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri» (sul c.d. decreto sicurezza-bis, v.: S. Zirulia, Decreto sicurezza-bis: novità e profili critici, in Diritto penale contemporaneo, 18 giugno 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza-bis, in Questione Giustizia, 20 giugno 2019; I. Papanicolopulu, Tutela della sicurezza o violazione del diritto del mare?, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; E. Zaniboni, Quello che le norme non dicono. Le ambiguità del decreto sicurezza-bis, la gestione dei flussi migratori e l’Europa che verrà, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; L. Masera, La crimmigration nel decreto Salvini, in La legislazione penale, 24 luglio 2019, p. 44 ss.). La limitazione o il divieto di ingresso, transito o sosta nella fascia di mare territoriale, previsti da tale innovazione, esula rectius sgombra quindi dal “campo” di applicazione solo le unità della flotta navale militare o le «navi in servizio governativo non commerciale». Per quanto concerne l’operazione SOPHIA (tanto pour parler), ovviamente si serviva di navi militari (ad esempio, la nave Cavour), che percorrevano le acque territoriali sino ad approdare al porto di sbarco assegnato… (per dire che l’operazione SOPHIA avrebbe avuto naturalmente accesso, transito o sosta, nella fascia di mare territoriale; sostanzialmente “bandita”, invece, alle navi delle ONG: in argomento, da ultimo, v. C. Pitea, S. Zirulia, “Friends, not foes”: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in SIDIBlog, 26 luglio 2019).
Vale la pena di aggiungere (sia consentito: la digressione continua), che l’impianto generale del comma 1-ter (dell’art. 11 del Testo Unico immigrazione), è stato (però) oggetto di significativi rilievi in sede di audizione presso le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati (2 luglio 2019), audizione concernente proprio il c.d. decreto sicurezza-bis… (si rinvia opportunamente all’interessante testo della relazione, depositata, di G. Cataldi, dal titolo Audizione informale nell’ambito dell’esame del disegno di legge C. 1913 Governo, di conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica’, specie il punto 2., p. 3 ss.; tra l’altro, risulta disponibile qui la registrazione video dell’audizione di G. Cataldi, a partire da 30’:26”, nonché ivi, le audizioni, parimenti interessanti, di C. Pitea e di F. De Vittor, a partire, rispettivamente, da 15’:02’’ e da 45’:55’’. Per completezza (sia consentito ancora: per chiudere la digressione): il disegno di legge n. 1437, di conversione del c.d. decreto sicurezza-bis, ha apportato, con riferimento proprio all’articolo 1 di detto decreto, modificazioni solo dal punto vista meramente stilistico, marcate in grassetto: v. la corrispondente documentazione consultabile sul sito del Senato della Repubblica, p. 17; il testo (ovviamente di conversione) approvato dal Senato, il 5 agosto 2019, figura altresì sul sito del Senato della Repubblica).
5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
Al termine di questa breve e mirata notazione sull’inadeguata “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, si ritiene confacente riprendere taluni aspetti delle considerazioni finali contenute nel significativo contributo (parte di un progetto di ricerca piuttosto datato: correva l’anno duemilaquattro…), di una stimata studiosa (l’apporto della scienza sociale appare rilevante in tale contesto; cfr., appunto, il contributo di P. Monzini, Il traffico di migranti per via marittima: il caso dell’Italia, in P. Monzini, F. Pastore, G. Sciortino, L’Italia promessa. Geopolitica e dinamiche organizzative del traffico di migranti verso l’Italia, w.p. n. 9/2004, CeSPI, p. 68 ss.): individuato «l’anello debole» nella strategia di contrasto (in questo caso, il ritiro temporaneo degli assetti navali dispiegati addirittura oltre l’alto mare), le organizzazioni criminali di trafficanti, operano «con flessibilità»… appunto!
(articolo sottoposto a referaggio anonimo)
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