ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Maria Alessandra Sandulli
Cognita causa*
Sommario. 1. Premessa. 2. Il d.l. 11 dell’8 marzo: il rischio del deficit di contraddittorio per effetto della sospensione dei termini a ritroso. 3. Il d.l. 18 del 17 marzo: la tutela cautelare monocratica ex lege. 4. Il “contraddittorio cartolare coatto” e le asimmetrie difensive della disciplina della discussione da remoto. 5. La sospensione “mutilata” dei termini nel d.l. 23 dell’8 aprile. 6. Conclusioni.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto salutare e ringraziare tutti i cari amici e studiosi del gruppo di Modanella per la loro partecipazione a questo e agli altri webincontri che, a partire da quello del 24 aprile[1] (ascoltabile su youtube), abbiamo dedicato alla nostra giustizia in tempo di Covid e per il costante e appassionato apporto che, con i loro scritti e monitoraggi, hanno cercato di dare alla lettura e alla sistematizzazione dello tsunami di norme da cui, come ampiamente ricordatoci dai relatori di ieri, siamo stati travolti nella sconvolgente emergenza pandemica che ci ha colpiti nei primi mesi dell’anno[2].
L’inimmaginabile e sconvolgente emergenza pandemica che, partendo dalla Cina, ha colpito l’Italia e molti altri Paesi dell’Europa e del mondo dai primi mesi del 2020, significativamente qualificata come apocalisse, tsunami, catastrofe, guerra mondiale, ci ha costretto a subire fortissime perdite e impensabili limitazioni nelle sfere più importanti delle nostre vite: affettive, sociali, economiche e, inevitabilmente, giuridiche.
L’assoluta priorità che, in incalzante progressione, dalla fine di febbraio all’8 di marzo, ha inevitabilmente avuto lo sforzo di fermare, o quantomeno rallentare, l’inesorabile attacco di un nemico straordinariamente aggressivo, totalmente sconosciuto e assolutamente imprevedibile, ha giustificato la compressione di diritti inviolabili della persona umana, come quelli al lavoro e ai correlati mezzi di sostentamento, alla circolazione, al contatto fisico con i propri familiari e congiunti, al rientro nelle proprie abitazioni, e, purtroppo, nelle zone più drammaticamente colpite, alle stesse cure e, dunque, alla stessa vita.
E non sto a menzionare l’impossibilità di celebrare eventi come matrimoni e funerali o quella di frequentare le aule scolastiche e universitarie.
Tra le “vittime” del Covid-19 si annovera tristemente anche la giustizia. Con modalità e conseguenze diverse, tutti i nostri processi hanno subito sospensioni, rinvii, rimodulazioni. E tutti le abbiamo, dapprima accettate, poi tollerate e, progressivamente, man mano che l’emergenza si riduceva, combattute.
Come per altri settori e per altri temi, l’intelligenza umana ci consente e ci impone però di trarre lezioni anche dagli eventi più negativi e trovarvi spunti di riflessione utili al progresso del sistema, facendo tesoro di questa atroce esperienza per migliorare ulteriormente il nostro processo.
Riprendo anche io, come ha già fatto la Presidente della Corte costituzionale in una recente intervista[3], una riflessione di Arendt sulla crisi che appare particolarmente adatta a questa gravissima congiuntura. “Una crisi ci costringe a tornare alle domande ed esige da noi risposte nuove o vecchie purché scaturite da un esame diretto e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà e a utilizzare quell’occasione per riflettere che la crisi stessa costituisce”[4] .
Le norme processuali che si sono vertiginosamente inseguite dall’8 marzo[5] al 4 maggio 2020 per cercare di adattare il sistema processuale amministrativo alla situazione emergenziale e per non “fermare” la nostra giustizia ci hanno indotto a riflettere su alcuni dei suoi temi centrali. Abbiamo parlato ieri del ruolo del giudice amministrativo: argomento che come sapete mi è particolarmente caro e del quale abbiamo molto discusso in questi anni anche nelle nostre Giornate di studio sulla giustizia amministrativa.
Il tema su cui ho ritenuto però opportuno concentrare oggi la mia attenzione e sul quale, soprattutto, vorrei stimolare la riflessione dell’autorevole uditorio, è quello dell’irrinunciabilità che, anche, se non soprattutto, nel processo amministrativo assume la garanzia di una decisione assunta “cognita causa”, ovvero all’esito di una piena ed effettiva conoscenza dei fatti di cui si controverte e di una reale consapevolezza delle posizioni e degli argomenti delle diverse parti. È stato più volte sottolineato, anche ieri, a partire dalla relazione introduttiva di Fabio Francario, che il fine del processo non è evidentemente quello di emettere, al più presto, una qualunque decisione, ma quello di emettere, nel tempo ragionevolmente necessario, una decisione “giusta”. E ciò vale a maggior ragione per il giudice amministrativo, che, come da diversi decenni tengo in ogni occasione a rimarcare, non è chiamato soltanto a dirimere conflitti, ma anche e prima di tutto ad assicurare la giustizia nell’amministrazione. A questi fini, il principio dispositivo è come noto temperato dal metodo acquisitivo, e la legislazione e la giurisprudenza, come ben ricordato in varie circostanze dallo stesso Presidente del Consiglio di Stato, stanno progressivamente rafforzando l’accesso al fatto e erodendo i limiti al sindacato sulla discrezionalità. E a questi fini, il nostro Codice processuale ha previsto un’articolata scansione delle produzioni difensive, introducendo le memorie in replica per l’udienza di merito e calibrando i termini della fase cautelare in modo da contemperare gli interessi di tutte le parti, ivi compreso quello del giudice a “studiare” adeguatamente il fascicolo, sia pure nei limiti richiesti per una decisione tendenzialmente sommaria. Nella stessa ottica, è stato poi rafforzato il legame tra la fase cautelare e quella di merito[6], di cui sono espressione la clausola di improcedibilità dell’istanza cautelare in assenza dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito, l’obbligo del giudice cautelare di dichiarare preliminarmente la propria competenza e di fissare la trattazione del merito nell’eventuale ordinanza di accoglimento, la previsione (purtroppo non rispettata) della trattazione in fase cautelare delle istanze istruttorie: il tutto al fine di garantire che i giudizi non restino sostanzialmente definiti in modo sommario, ma siano, in un tempo ragionevolmente breve, oggetto di una valutazione più consapevole e ponderata sui diversi profili sostanziali e processuali della controversia, avendo peraltro espressamente cura di garantire un contraddittorio effettivo anche sulle questioni eventualmente rilevate d’ufficio.
Il rischio di indebolire la garanzia della decisione assunta cognita causa si è presentato nella legislazione Covid-19 e nella sua attuazione sotto diversi profili, facilmente rilevabili nei suoi effetti sul contraddittorio, sulla collegialità e sull’oralità, ma più ampiamente conseguenti, sia pure in termini meno immediatamente evidenti, al vero e proprio ginepraio di norme processuali, che ha inevitabilmente attratto e concentrato l’attenzione delle parti processuali, già alterata dalla preoccupazione di fondo per la pandemia, sottraendola all’approfondimento delle questioni controverse. Il Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma ha “pesato” 8 kg di decreti, ordinanze, linee guida, circolari, faq e simili sui diversi processi e per il solo processo amministrativo si contano cinque decreti legge (2 marzo 2020 n. 9; 8 marzo 2020 n. 11; 17 marzo 2020 n. 18; 8 aprile 2020 n. 23; 30 aprile 2020 n. 28) ai quali va aggiunta almeno la legge di conversione 24 aprile 2020 n. 27). Tutti noi, come emerso chiaramente anche dalle relazioni di ieri, abbiamo avuto e ancora abbiamo il timore di compiere errori di ricostruzione del sistema di volta in volta applicabile e/o errori di lettura delle nuove regole, di perdere l’ennesimo termine per presentare istanze, opposizioni, brevi note, note sostitutive della discussione, e quant’altro. E sappiamo che anche per i giudici il compito di orientarsi tra le diverse disposizioni e raccomandazioni non sia stato e non sia tuttora facile.
Passo comunque a focalizzarmi sui tre profili più specifici sopra indicati: contraddittorio, collegialità e oralità. I problemi si sono diversamente configurati a seconda delle fasi emergenziali e del tipo di tutela, cautelare e/o di merito.
2. Il d.l. 11 dell’8 marzo: il rischio del deficit di contraddittorio per effetto della sospensione dei termini a ritroso
Nella primissima fase di lockdown (le mitiche due settimane dall’8 al 22 marzo gradualmente dilatatesi in due mesi) il Governo ha – primariamente e giustamente – cercato di assicurare la tutela delle esigenze cautelari. Il primo decreto, il noto d.l. 11 dell’8 marzo[7], all’art. 4, nel sospendere, fino al 22 marzo appunto, la decorrenza dei termini processuali, ha quindi fatto salvi, come nel periodo feriale, quelli della fase cautelare e, nel sospendere, nel medesimo periodo, la celebrazione delle udienze, questa volta anche quelle cautelari (ed escludere comunque, salvo, all’epoca, espressa richiesta, la discussione orale fino al 31 maggio), ha fatto, naturalmente, salva la cautela monocratica prevista dall’art. 56 cpa, con effetto fino alla prima camera di consiglio utile dopo quella che si ipotizzava (o che, almeno, veniva presentata come) la fine della sospensione. Il modello di cautela di estrema urgenza disegnato dal codice garantiva, per un verso, la tutela del ricorrente da pregiudizi effettivamente intollerabili nelle more dell’udienza collegiale e, dall’altro, la “giusta” precarietà e temporaneità che devono caratterizzare una decisione resa in assenza di contraddittorio orale e in deroga al principio di collegialità che permea il processo amministrativo. Il sistema funzionava, come funziona nel periodo feriale e in quello natalizio e nei tribunali in cui (penso, in particolare, alla Val d’Aosta), le udienze cautelari si celebrano a distanza di tre o quattro settimane. La disciplina poteva in ogni caso essere, se del caso, limata e meglio adattata alla sospensione Covid-19 in sede di conversione in legge.
Cominciava però a emergere il problema degli effetti del Covid-19 sulla garanzia del contraddittorio. Il testo della norma – e la logica – non lasciavano per la verità margini di dubbio sulla regola, pacificamente valevole per il periodo feriale, che la sospensione operasse anche per i termini a ritroso, con la conseguenza che molti di essi dovevano ritenersi ope legis retroattivamente scaduti il 7 di marzo e non vi fosse dunque altra strada che quella di ricalendarizzare le udienze in modo da consentirne l’integrale garanzia. Le, pur comprensibili, preoccupazioni organizzative indussero tuttavia la Commissione Speciale appositamente istituita presso il Consiglio di Stato ad esprimere un parere che, inopinatamente, sosteneva la tesi opposta[8], che, evidentemente, si traduceva in una ingiusta limitazione del diritto di difesa e, per l’effetto, del diritto/dovere del giudice di decidere cognita causa. Ricordo, infatti, in proposito, che la giurisprudenza ha, proprio in quest’ottica, affermato la inderogabilità e non transigibilità dei termini a ritroso dall’udienza, sottolineando come essi operino anche a garanzia del giudice.
La questione è stata, come noto, opportunamente e correttamente risolta e superata dal d.l. 18 del 17 marzo, che, a distanza di soli 10 giorni dal d.l. 11, e nelle more della scadenza del primo periodo di sospensione, è pesantemente reintervenuto sulla disciplina del processo amministrativo nella cd fase 1 dell’emergenza Covid-19.
La protrazione del lockdown al 15 aprile ha invero determinato un ulteriore intervento legislativo d’urgenza anche sulla tutela giurisdizionale.
Ne è nata, per quanto interessa la giustizia amministrativa, la complessa e farraginosa disciplina dell’art. 84 del d.l. 18, che ha temporaneamente rivisitato anche la disciplina della fase cautelare[9].
Nell’estendere la sospensione delle udienze e dei termini fino al 15 aprile, con gli unici limiti indicati dall’art. 54, comma 3, cpa per il periodo feriale (ovvero quelli per la trattazione delle domande cautelari e la proposizione degli appelli cautelari), la novella ne ha chiarito espressamente l’operatività per “tutti” i termini processuali, riconoscendo, conseguentemente, a ciascuna parte, il diritto a chiedere il rinvio dell’udienza che ne precludesse in via retroattiva il rispetto, in modo da poter fruire del l’intero arco temporale individuato dalla legge come necessario per un pieno ed effettivo esercizio del diritto di articolare e comprovare le proprie difese al fine di dare al giudice una congrua rappresentazione dei fatti e delle questioni controverse (art. 8, comma 5). L’urgenza ha impedito alcune opportune limature del testo, come avrebbe potuto essere l’espressa attribuzione alle parti della facoltà di riconoscere reciprocamente la validità dei depositi (divenuti ex lege retroattivamente inammissibili) eventualmente effettuati in vista dell’udienza di merito nel periodo di sospensione: la mancanza della discussione orale toglieva infatti rilievo alla loro (sopravvenuta) tardività ai fini della piena cognizione del giudice in fase di decisione, dal momento che quest’ultima avrebbe potuto essere più facilmente rinviata a una successiva camera di consiglio. Il sistema, almeno per questa parte, non ha comunque dato problemi sotto il profilo specificamente ad oggetto di questo intervento.
3. Il d.l. 18 del 17 marzo: la tutela cautelare monocratica ex lege.
L’effetto negativo del Covid sulla garanzia di una decisione assunta cognita causa si è manifestato tuttavia nello stesso periodo sub specie di deficit di collegialità nella fase cautelare.
Preoccupato di garantire, comunque, anche la tutela cautelare ordinaria, il legislatore dell’emergenza ha costruito un sistema “ibrido”, che, pur (opportunamente) rispettando le garanzie temporali stabilite – a tutela delle parti e dei giudici – dall’art. 55, comma 5, del codice processuale[10], ha trasformato ex lege la tutela collegiale in tutela monocratica, aggiungendo così alla privazione del contraddittorio orale anche quella della decisione basata su una – quantomeno teoricamente, più piena – cognizione collegiale.
Il terzo periodo dell’art. 84, comma 1, stabiliva infatti che “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”.
Per il periodo di sospensione delle udienze (operante - fatto salvo quanto stabilito dal comma 2 per il cd periodo pasquale - fino al 15 aprile compreso e, per il solo processo amministrativo, non ulteriormente prorogato, anche se le udienze si celebrano ancora solo da remoto), tutte le domande cautelari, a prescindere dalla gravità dell’urgenza e dalla rappresentazione di una specifica esigenza di tutela nelle more della riapertura delle udienze collegiali, sarebbero state dunque decise ope legis in forma monocratica, per essere poi ri-valutate – con massima sollecitudine – in sede collegiale al termine del periodo di sospensione.
Grazie anche alle interlocuzioni con la dottrina, il successivo periodo precisava peraltro, come accennato, che, ferma restando la possibilità di continuare a utilizzare lo strumento della cautela di estrema urgenza di cui all’art. 56, comma 1, primo periodo, il decreto monocratico sostitutivo dell’ordinanza collegiale avrebbe dovuto essere comunque emanato nel rispetto dei termini di cui all’art 55, comma 5, c.p.a. (i c.d. “termini a difesa” delle altre parti):
Con specifico riferimento all’oggetto di questa relazione, come anticipato, il sistema architettato dalle riferite disposizioni, pur apparentemente offrendo la massima tutela cautelare compatibile con la fase emergenziale in atto, garantendo comunque il miglior contraddittorio scritto, legittimava tuttavia, per il solo fatto della monocraticità, una decisione fisiologicamente meno ponderata e fondata su una conoscenza meno completa e approfondita. Se a ciò si aggiunge che la decisione monocratica, non esonerando comunque dalla successiva trattazione collegiale, non evitava neppure la formazione dell’arretrato cautelare, c’è da chiedersi quanto il sacrificio della collegialità in assenza di una effettiva urgenza fosse realmente proporzionato e il modello della cautela a due se non a tre (e talvolta addirittura a quattro momenti, con conseguente moltiplicazione degli scritti difensivi) non abbia invece costituito un inutile aggravio processuale, ponendo peraltro il delicato problema del rapporto tra decisione monocratica derogatoria e decisione collegiale.
La magistratura non ha dato una risposta omogenea al nuovo modello. Ciò che si è nei fatti verificato è che molti giudici hanno assunto un atteggiamento fortemente prudenziale, tendenzialmente concependo le decisioni monocratiche ex lege Covid come quelle ex art. 56 cpa e, conseguentemente, valutando l’istanza sulla base della mera gravità e irreparabilità del pregiudizio rispetto alla ri-trattazione dell’istanza cautelare in sede collegiale e non, come previsto per la tutela cautelare ordinaria ex art 55 cpa e richiesto dall’art. 84, sul fumus e sul periculum rispetto al “tempo necessario alla decisione del ricorso” all’esito dell’udienza di merito.
Da un monitoraggio delle prime decisioni monocratiche curato da alcuni giovani studiosi che collaborano alla mia cattedra[11] è emerso invero che, privilegiando un’interpretazione restrittiva dal dato normativo formale, la giurisprudenza monocratica si è mossa per lo più nel senso di respingere le istanze che non apparissero giustificate da un’urgenza tale da non poter attendere la decisione collegiale, che, peraltro, dove possibile, alcuni decreti fiduciosamente calendarizzavano, per i casi più urgenti, subito dopo il 15 aprile, mentre altri rinviavano, disattendendo quanto prescritto dall’art. 84, a udienze più lontane. Sono stati, dunque, rarissimi i casi di remand e le richieste di adempimenti istruttori, mentre i giudici di appello hanno in vari casi rinviato al Collegio anche la decisione sulle istanze di mera sollecita fissazione del merito. Alcuni Presidenti hanno poi apprezzabilmente favorito una interlocuzione tra il magistrato delegato (tendenzialmente coincidente con quello designato come relatore) e il Presidente del Collegio. Altri hanno invece informalmente bypassato la fase monocratica e direttamente calendarizzato la trattazione delle istanze di cautela collegiale non accompagnate da specifiche richieste di urgenza a udienze successive al 15 aprile.
Proprio la risposta data dalla magistratura amministrativa all’introduzione del descritto meccanismo ne ha però confermato la probabile inutilità, tanto più che, come è stato ampiamente ricordato anche dai relatori di ieri, lo stesso art. 84, introducendo un periodo transitorio nella fase transitoria, aveva rimesso ai presidenti la possibilità di anticipare ai giorni pre e post “pasquali” (dal 6 al 15 aprile) la trattazione collegiale delle istanze cautelari accolte in sede monocratica e aveva direttamente rimesso all’accordo delle parti la possibilità di far definire, senza discussione (ma comunque collegialmente), le questioni di cui era già calendarizzata la trattazione in udienze da celebrare nello stesso periodo[12]: ciò che lasciava ben sperare nella possibilità di riprendere almeno le trattazioni collegiali (eventualmente da remoto e senza discussione orale) anche qualora, come purtroppo all’epoca si temeva e si è in parte verificato, il termine del lockdown fosse ulteriormente slittato.
Tornando allo spirito di queste riflessioni, nella direzione della migliore garanzia della decisione assunta cognita causa, ciò che mi premeva comunque soprattutto sottolineare è che il modello cautelare coniato per l’emergenza non possa essere considerato come un esperimento per un eventuale percorso verso la riduzione della tutela collegiale.
Senza nulla togliere alla serietà, all’impegno e alla capacità di ciascun singolo magistrato, il Collegio garantisce invero, per sua intrinseca natura, se non altro per il valore costruttivo di qualsiasi confronto dialettico, un livello di cognizione, di riflessione e di ponderazione evidentemente superiore a quello della tutela monocratica, e la giustizia amministrativa, per il suo ruolo, non vi può e non vi deve rinunciare.
4. Il “contraddittorio cartolare coatto” e le asimmetrie difensive della disciplina della discussione da remoto.
Il terzo – e forse il peggiore – effetto del lockdown è stato, come emerso anche dalle relazioni di ieri, la sospensione della possibilità di discussione orale, cui si sono correlate altre, gravi, asimmetrie difensive.
Lo stesso art. 84 del d.l. 18, come noto, ha disposto (comma 5) che, sempre in deroga alle previsioni del cpa, “successivamente al 15 aprile e fino al 30 giugno 2020”, tutte le controversie fissate per la trattazione, tanto in udienza pubblica, quanto in udienza camerale, salvi naturalmente eventuali rinvii d’ufficio o su richiesta di parte, passassero “in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati”: un grave limite al diritto di difesa, solo apparentemente temperato dalla “facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”.
Solo la discussione, anche da remoto, consente invero alle parti una piena rappresentazione dei fatti e un effettivo diritto di replica ad affermazioni “a sorpresa” delle loro controparti. Lo dimostra l’incertezza che, in mancanza dell’espressa previsione di perentorietà del termine, un’autorevole dottrina togata ha rappresentato nel webinar del 24 aprile sulla possibilità di ammettere la produzione ad libitum di note difensive “a catena”, per replicare a quelle delle altre parti[13]. L’esperienza di questi mesi ha del resto dimostrato che, mai come in questo periodo, gli avvocati si sono affrettati a replicare, anche nei giorni e nelle ore normalmente dedicate al riposo, agli scritti delle altre parti, caricando il fascicolo telematico di atti difensivi dell’ultima ora.
Il problema della replica è stato vieppiù aggravato se si considera che il termine per chiedere il rinvio delle udienze al fine di recuperare i termini di deposito di documenti e memorie scaduti nel periodo di sospensione è stato fatto inopportunamente coincidere con quello per la presentazione delle brevi note sostitutive della discussione, sicché chi rinunciava ad avvalersi del rinvio rischiava di perdere ogni possibilità di replica a tale forma “straordinaria” di difesa scritta, che, evidentemente, a maggior ragione se la sospensione aveva “bruciato” i termini per la produzione delle memorie e delle repliche, poteva contenere eccezioni e controdeduzioni tali da rendere imprescindibile la garanzia di un adeguato contraddittorio, consentendo alle controparti di valutare cognita causa l’esigenza di chiedere il rinvio necessario a esercitare in modo effettivo il fondamentale diritto di replica.
Abbiamo letto e apprezzato in quest’ottica le ordinanze con cui, a partire dalle note pronunce gemelle emesse il 21 aprile dalla VI sezione, il Consiglio di Stato (con ordinanze della III e della V sezione)[14] ha stigmatizzato il “contraddittorio cartolare coatto”, pur correttamente rappresentando l’esigenza di un equo contemperamento tra il diritto alla discussione orale e quello, delle eventuali controparti, ma spesso anche generale, alla sollecita definizione di un giudizio con fisiologici risvolti pubblicistici (si pensi, in via meramente esemplificativa, alla decisione su un importante concorso o su un appalto strategico).
L’estrema delicatezza del tema e l’importanza della discussione orale sono state del resto autorevolmente messe in risalto anche dalla Presidente della Corte costituzionale, che, nella richiamata intervista, a proposito degli effetti del lockdown sulla giustizia costituzionale e della scelta di rinviare le attività pubbliche della Corte, ivi comprese le udienze, salva espressa e concorde richiesta delle parti di far passare la causa in camera di consiglio senza trattazione orale, ha evidenziato che “l'udienza pubblica può essere molto importante sia per non comprimere il contraddittorio sia per non sacrificare la pubblicità della trattazione di quelle cause che abbiano particolare rilievo pubblico”, sicché il Presidente può comunque disporre il rinvio della trattazione per garantirne il contraddittorio e/o la pubblicità: l’argomento, sia pure con tratti meno evidenti, è valido anche per il processo amministrativo, fisiologicamente attinente a un ambito (l’esercizio del potere amministrativo) su cui il sistema chiede sempre maggiore trasparenza (essenziale a garantire un effettivo controllo democratico), e nel quale peraltro, diversamente da quanto accade in quello costituzionale, l’udienza non è visionabile in streaming.
Il tema del deficit di contraddittorio provocato dalla mancanza del confronto orale riporta anche alle perplessità destate dalla previsione, nell’art. 84 del d.l. 18/2020, della possibilità che, in deroga all’art. 60 del codice processuale, il giudice cautelare definisca immediatamente il giudizio anche nel merito, con sentenza semplificata, “omesso ogni avviso” alle parti. In sede di primo commento alla novella, segnalavo quindi ai potenziali lettori l’opportunità di rappresentare eventualmente per iscritto al Collegio (e alle altre parti) le eventuali ragioni ostative alla definizione immediata della controversia (in primis, la presentazione di motivi aggiunti o ricorsi incidentali). Significativamente, nel richiamato webinar del 24 aprile sugli effetti delle norme Covid sul processo amministrativo, autorevoli presidenti di sezione hanno condiviso le criticità della disposizione, sottolineando l’ingiusta e ingiustificata limitazione che essa creava al diritto di difesa e alla possibilità delle parti di rappresentare le ragioni per le quali ritenevano che la causa non fosse ancora matura per una decisione consapevole (cognita causa appunto). Non si deve infatti dimenticare che la decisione in forma semplificata anticipata nella fase cautelare deve restare un’eccezione nei limiti in cui ricorrano le condizioni di manifesta inammissibilità, improcedibilità, fondatezza o infondatezza di cui all’art. 74. Io stessa ho in più occasioni criticato la previsione che le decisioni di merito sull’affidamento di appalti e concessioni debbano essere sempre assunte in forma semplificata: proprio in una materia oggettivamente complessa e delicata una tale disposizione è infatti totalmente illogica e denota una scarsa attenzione all’esigenze e al ruolo della giustizia amministrativa. Lo dimostra del resto chiaramente il fatto che, opportunamente, la giurisprudenza tende a obliterarla, mostrando anzi ritrosia anche sulla immediata pubblicazione del dispositivo.
Sempre nell’ottica delle riflessioni pro futuro, con riferimento al turbinio di proposte di riforma sui contratti pubblici, queste considerazioni ostano a ogni ipotesi di anticipazione generalizzata della decisione di merito alla fase cautelare, o a possibili limitazioni a quest’ultima fase delle decisioni con effetto caducatorio. E, conseguentemente, fanno guardare con grande preoccupazione anche alle voci di proposte nel senso che, in assenza di sospensione dell’aggiudicazione, le parti non potrebbero decidere di rinviare la stipula del contratto alla definizione della controversia nel merito[15].
Il problema del contraddittorio orale è stato in parte ridimensionato, ma sicuramente non ancora superato e risolto, dall’art. 4 del d.l. n. 28 del 30 aprile, che, nel prorogare (dal 1 luglio) al 1 agosto il momento della “riapertura” fisica delle udienze, ha introdotto, a partire dal 30 maggio (sabato!), un intricato sistema per consentire, a determinate e complicate condizioni, la discussione da remoto. Come segnalato anche dal presidente Patroni Griffi e, ieri, dalla presidente Panzironi, è innegabile differenza tra il confronto fisico, che consente una compartecipazione completa e globale di gesti e di espressioni tra avvocati e collegio, valorizzando al massimo la prossemica, e quello da remoto, in cui manca persino la visione del relatore. Se l’approccio alle modalità telematiche può essere utile a riorganizzare la gestione delle istanze preliminari, vi è quindi massima esigenza di tornare quanto prima alla normalità per le discussioni.
Nell’ottica di queste riflessioni devo peraltro insistere anche nelle critiche, già peraltro vanamete espresse in un commento a prima lettura[16] cui per brevità rinvio, sulle incertezze e le problematiche create dalla novella, e sui riflessi negativi che esse esplicano su una piena cognizione della controversia.
Si prevede che la discussione venga chiesta con apposita “istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito”: il che significa che deve essere presentata prima che la parte istante abbia piena e adeguata contezza delle avverse difese. Il suo accoglimento, poi, è tutt’altro che certo, dal momento che il legislatore lo condiziona, non soltanto alla disponibilità di adeguati mezzi tecnici e informatici e alla compatibilità con i “limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”, ma anche all’accordo di tutte le altre parti costituite.
Se, come sopra rimarcato, la discussione è momento fondamentale del contraddittorio non soltanto per una interlocuzione diretta col giudice, ma anche per consentire un effettivo diritto di replica alle difese delle altre parti, l’asimmetria è evidentissima. Come può essere effettivamente garantito un contraddittorio che vede prevalere la posizione di chi impedisce alle altre parti l’esercizio di un loro diritto?
Sembra dunque che, come stava per accadere con i decreti monocratici ex lege (per i quali la bozza del dl 18 obliterava il rispetto dei termini a difesa previsti dall’art. 55 cpa) e come accaduto per la cd “proroga mutilata della sospensione dei termini processuali” dal 15 aprile al 3 maggio, inspiegabilmente circoscritta dal dl 23 alla notifica dei ricorsi (su cui v. infra), al legislatore dell’emergenza sia sfuggita un’attenta considerazione delle esigenze del contraddittorio, pur ampiamente curate dal codice processuale.
È stato così rimesso ai presidenti (e alla loro sensibilità, inevitabilmente condizionata dall’affollamento dei ruoli e dalle esigenze organizzative) operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e accogliere o meno l’istanza alla luce del comportamento (semplicemente inerte, più o meno giustificatamente, contrario, o, magari, anche tardivamente adesivo) delle “altre parti”.
Conosciamo e apprezziamo il lavoro svolto dal Presidente del Consiglio di Stato e dalle Associazioni forensi per cercare di riportare il caos a sistema, ma sappiamo anche che le loro indicazioni non hanno alcun valore cogente e in materia processuale l’incertezza non è tollerabile.
La lettura degli ulteriori passaggi della novella non offre purtroppo elementi di conforto.
La legge non fissa alcun termine, né per la presentazione di eventuali opposizioni, né per la comunicazione alle parti della decisione, rimessa peraltro al solo presidente, sulla possibilità, o eventuale necessità, della discussione[17]. Il tema è di massima importanza, giacché, come avevo evidenziato in sede di primo commento, il dl 28 non abroga la disposizione con cui l’art. 84, co. 5, del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazione di “brevi note”, che, secundum legem, le parti cui non viene concesso discutere devono dunque avere un tempo adeguato per redigere e, in teoria, presentare (per darne adeguata contezza a tutte le parti, giudici compresi), entro due giorni liberi prima dell’udienza.
È quindi inconferente, a tal fine, l’avviso che la segreteria deve dare almeno un giorno prima della trattazione (in caso già disposta), dell’ora e delle modalità di collegamento”. A parte la vaghezza e l’incertezza della formula “almeno un giorno prima”, la comunicazione riguarda invero soltanto le modalità organizzative, ma presuppone, evidentemente, una decisione già assunta e che, per quanto detto, dovrebbe essere già stata resa nota alle parti.
La confusione è aggravata dalla previsione che “in alternativa” alla discussione – si presume, già disposta – le parti possono comunque depositare richiesta scritta di passaggio diretto in decisione o “note di udienza” fino alle 9 della mattina dell’udienza stessa. Le altre parti dovrebbero quindi eventualmente replicare a eccezioni o rilievi di cui il giudice, impegnato nell’udienza, non avrebbe potuto ancora avere contezza.
È agevole cogliere una scarsa sistematicità e un conseguente rischio di sovrapposizione e confusione tra le “brevi note” di cui all’art. 84, dl 18 e queste “note d’udienza” (prive, oltretutto, entrambe, di ogni limite contenutistico o criterio dimensionale). Ieri i colleghi Greco e Gallo, nella logica propositiva della dottrina scientifica, facevano congetture su eventuali limiti di questi atti, ma desta sincera perplessità il fatto che, nonostante il problema fosse stato già sollevato, il legislatore, anche nella meno concitata sede della conversione in legge, abbia totalmente evitato di definirli.
L’incidenza negativa di questo complesso e intricato meccanismo sulla “piena conoscenza” della controversia è di assoluta evidenza.
Il tema, come ho già avuto occasione di segnalare, è di notevole importanza dal momento che, come ricordato, l’art. 84 del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazione di “brevi note”, che le parti devono dunque avere il tempo di predisporre e, in teoria, presentare entro due giorni liberi prima dell’udienza.
Il giudice rischia di essere sommerso dagli atti e il contraddittorio ne esce pesantemente sconfitto. Come detto, le criticità sono state solo parzialmente ridotte dalle Linee Guida del Presidente del Consiglio di Stato e dal Protocollo stilato con le Associazioni degli Avvocati[18]: non sono fonti e, non avendo carattere vincolante, non possono dare certezza. Penso, ad esempio, alla raccomandazione di presentare le note entro le 12 del giorno precedente all’udienza. Qual è la sanzione per chi non la rispetta e presenta magari uno scritto di 30 pagine alle 9 del mattino dell’udienza? Il collegio non potrà esimersi dal valutarle, ma non potrà certo ascoltare e valutare “cognita causa” le eventuali repliche, a questo punto necessariamente soltanto orali, che le altre parti saranno state costrette frettolosamente ad approntare e che, oltretutto, saranno tendenzialmente costrette a contenere in un tempo non rapportabile a quello che il collegio potrà, se lo ritiene, dedicare alla – tranquilla – lettura delle note scritte. Né è ragionevolmente ipotizzabile che la produzione in limine di una ponderosa difesa scritta possa essere utilizzato come comodo strumento per implicare il rinvio dell’udienza.
Fortunatamente, o almeno tutti ce lo auguriamo, Il problema è limitato nel tempo, ma, come osservavo nelle premesse di questa relazione, la crisi deve essere anche un’occasione per riflettere e i modelli utilizzati, come ipotizzavano anche il presidente Montedoro e il collega Gallo, potrebbero costituire spunto per future riforme del sistema processuale o semplicemente per una riorganizzazione della gestione e celebrazione delle udienze. Non ho tempo per affrontare anche io di tutti i profili che gli stessi hanno autorevolmente trattato: mi limito solo a condividere i rilievi del primo sul contributo unificato (tema sul quale ho del resto ampiamente scritto) e quelli del secondo sull’esigenza di definire il termine ultimo di costituzione delle parti diverse dal ricorrente, che potrebbe però a mio avviso già essere individuato per analogia con quello di presentazione dell’atto di intervento, ovvero il termine per la presentazione delle memorie in vista dell’udienza.
Quello che non deve assolutamente ripetersi è, per un verso, la descritta situazione di incertezza delle regole processuali, che, con l’aiuto degli esperti, devono essere più attentamente ponderate e definite (banalmente, ad esempio, ogni volta che si inseriscono termini, va chiarito se sono perentori o meramente ordinatori, se valgono per l’intera giornata o fino alle 12 e se valgono per tutti i riti o sono soggetti a dimidiazione) e, per l’altro, la scarsa attenzione che il legislatore dell’emergenza ha ingiustificatamente e incomprensibilmente rivelato per la parità delle armi tra le diverse parti del processo e per un effettivo contraddittorio, aprendo il fianco a forti rischi di asimmetria.
5. La sospensione “mutilata” dei termini nel dl 23 dell’8 aprile.
Prima di chiudere non posso a tale proposito non menzionare l’irragionevole limitazione della proroga della sospensione dei termini processuali alla notificazione dei ricorsi[19].
Un processo che sia davvero tale deve consentire a tutte le parti una effettiva possibilità di rappresentare e documentare le proprie posizioni. La sospensione dei soli termini dell’azione, che evidentemente presuppone la consapevolezza del Governo della oggettiva difficoltà di costruire e comprovare una linea difensiva in tempo di Covid-19, ha gravemente violato questo principio, inaccettabilmente disconoscendo al diritto di eccezione, di controdeduzione e di replica nei giudizi instaurati, senza i problemi della pandemia e del lockdown, nel periodo ante Covid, le stesse garanzie riconosciute al diritto di intraprendere nuove azioni.
Ciò che, come ho già scritto, sottopone inutilmente a seri rischi di illegittimità costituzionale le decisioni assunte senza tenerne conto.
6. Conclusioni.
Chiudo allora con la conferma del monito che la redazione delle norme processuali sia accompagnata da una più attenta riflessione sulle conseguenze che esse possono avere sul ruolo del giudice e sui diversi profili su cui poggia l’assunzione di una decisione cognita causa. Perché, come sottolineava ieri Paola De Cesare, richiamando la lezione di Salvatore Satta ne “Il mistero del processo”, per dare buone regole “bisogna comprendere il sistema”.
***
*Lo scritto costituisce la rielaborazione, ampliata e corredata di note, del testo della Relazione al webinar Modanella 2020 su L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro, svoltosi nei giorni 30 giugno e 1 luglio 2020 nell’ambito delle Giornate di Studio sulla Giustizia amministrativa organizzate da F. Francario e M.A. Sandulli.
[1] Il processo amministrativo e il Covid-19 (introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di F. Francario, M. Lipari, L. Maruotti, G. Montedoro, G. morbidelli, P.L. Portaluri, M. Ramajoli, C. Saltelli, S. Santoro, R. Savoia, G. Severini e M.R. Spasiano), ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=qv33zNnY6I8
A questo primo incontro sono poi immediatamente seguiti, il 29 aprile, un webinar organizzato dall’AIPDA su Poteri del giudice amministrativo e efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti, coordinato da C. Barbati e introdotto da interventi di R. Cavallo Perin, M. Clarich, G. de Giorgi Cezzi, G. Morbidelli, F.G. Scoca, L. Torchia e G. Tropea sul dibattito apertosi sul tema tra G. della Cananea, M. Dugato, A. Police e M. Renna e G. Corso, F. Francario, G. Greco, M.A. Sandulli e A. Travi, ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=HZhPESkwTD8 e, il 30 aprile, un webinar su Emergenza sanitaria, diritto e (in)certezza delle regole, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di V. Antonelli, R. Balduzzi, F. Basilico, C. Bottari, B. Caravita di Toritto, S. Cogliani, M. D'Amico, L. Giani, M. Gola, A. Pioggia e F. Risso, https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw
[2] Richiamo, per comodità di ricerca, in ordine cronologico, i miei commenti sulle disposizioni in tema di processo amministrativo susseguitesi tra l’8 marzo e il 4 maggio 2020:
-Vademecum di prima lettura sulle misure urgenti per la giustizia amministrativa e comunicato ufficio stampa giustizia amministrativa, 9 marzo 2020, in lamministrativista.it e in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it;
-Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, 10 marzo 2020, ibidem;
-Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del decreto "Cura Italia", 17 marzo 2020, ibidem;
-I “primi chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul "Decreto cura Italia", 20 marzo 2020, ibidem;
-Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, 31 marzo 2020, in federalismi.it;
-Il “D.l. credito” proroga la sospensione dei termini del procedimento amministrativo e, un po’, anche quelli dei giudizi amministrativi, 9 aprile 2020, in lamministrativista.it;
-Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, in federalismi.it, 9 e 10 aprile 2020;
-Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, 1 maggio 2020, in lamministrativista.it; Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, 4 maggio 2020, in giustiziainsieme.it;
-L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo, in Il Dubbio, 6 maggio 2020.
Per una riflessione più ampia sulle problematiche riproposte dall’emergenza Covid-19 in riferimento alla giustizia amministrativa, mi si consenta il rinvio al saggio Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss. (leggibile anche in www.giustizia-amministrativa-it) e ivi ulteriori richiami, e, con specifico riferimento alla questione della (in)ammissibilità di una tutela meramente risarcitoria in materia di contratti pubblici, gli scritti La nuova tutela giurisdizionale in tema di contratti pubblici (note a margine degli artt. 244-246 del Codice de Lise), Il processo amministrativo superaccelerato e i nuovi contratti ricorso-resistenti e Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici in federalismi.it, nn. 21/2006, 5/2009 e 15/2016.
[3] M. Cartabia, La Corte costituzionale non si ferma davanti all’emergenza, in giustiziainsieme.it, 27 marzo 2020.
[4] H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano 1991, 229.
[5] Il riferimento è alla prima disposizione generale: si ricorda peraltro che l’art. 10 del d.l. n. 9 del 2 marzo aveva inizialmente sospeso i termini del processo amministrativo, analogamente a quanto disposto per gli altri processi, fino al 31 marzo (con espresso richiamo alla possibilità di rimessione in termini per errore scusabile dei termini scaduti nel periodo dal 23 febbraio al 2 marzo) per le sole “zone rosse” di cui all. 1 al d.P.C.M. 1 marzo 2020.
[6] Cfr. le considerazioni svolte in M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[7] Su cui v. il mio primo Vademecum richiamato alla nota 2 e il contributo di F. Francario, L’emergenza Coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, 11 marzo 2020.
[8] In lamministrativista.it del 10 marzo 2020, con mia news critica, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve, ma aumenta l’insicurezza.
[9] Per un commento a prima lettura delle modifiche introdotte si vedano, oltre a M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid 19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del Decreto Cura-Italia, e I primi “chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto Cura-Italia”, citt. supra, alla nota 2, F. Patroni Griffi, Prot. Int. 1454 del 19 marzo 2020. in www.giustizia-amministrativa.it; C. Saltelli, La tutela cautelare dell’art. 84 d.l. n. 18 2020, ivi, 24 marzo 2020; F. Francario, Il L'emergenza coronavirus e la cura per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo in Osservatorio emergenza Covid19, federalismi.it e Il non - processo amministrativo nel diritto dell'emergenza Covid 19; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Osservatorio emergenza Covid19, federalismi.it, 6 aprile 2020. i
[10] Non vi erano infatti ragioni per giustificare una compressione del diritto di difesa e di effettivo contraddittorio anche sotto tale profilo, men che mai nella gravissima congiuntura che si stava attraversando e con le evidenti difficoltà che ne conseguivano, anche in termini di rapporti con i clienti e con i collaboratori, di svolgimento dell’attività di ricerca e di organizzazione del lavoro.
[11] Contributi di V. Sordi, T. Cocchi e B. Gargari, leggibili su giustamm.it e sull’Osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, Foro amm., n. 2/2020.
[12] L’art. 84 disponeva infatti al comma 2 che, “in deroga a quanto previsto al comma 1 [e dunque, è da ritenere, rinunciando a fruire della sospensione dei termini processuali anche per i depositi], dal 6 al 15 aprile, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale, sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite”. E, a parziale temperamento di quanto disposto dal comma 1, il terzo periodo dello stesso comma 2 disponeva che “nei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato un decreto monocratico di accoglimento, totale o parziale, della domanda cautelare”, la trattazione collegiale è fissata, “ove possibile, nelle forme e nei termini” di cui all’art. 56, comma 4, c.p.a., a partire dal 6 aprile 2020 ed è definita secondo quanto previsto dal medesimo art. 84, comma 2, del decreto. La possibilità sarebbe stata dunque valutata dai singoli presidenti. Veniva comunque fatto espressamente, “salvo” il caso (per vero abbastanza difficile) in cui, entro due giorni liberi prima della trattazione “una delle parti su cui incide la misura cautelare” (ovvero che ne fosse pregiudicata) depositasse un’istanza di rinvio. In tal caso, la trattazione collegiale era “rinviata a data immediatamente successiva al 15 aprile e segue le regole ordinarie previste dal comma 5”.
[13] C. Saltelli.
[14] Cfr. ordd. sez. VI, 21 aprile 2020 nn. 2538 e 2539, sez. III, 8 maggio 2020 nn. 2918 e 2919, sez. V, 7 maggio 2020, nn. 2887-2891, su cui, inter alia, V. Sordi, Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid-19, in giustiaziainsieme.it, 27 maggio 2020; F. Saitta, Da Palazzo Spada un ragionevole no al «contraddittorio cartolare coatto» in sede cautelare. Ma il successivo intervento legislativo sembra configurare un’oralità…a discrezione del presidente del collegio, in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 5 maggio 2020 e S. Tarullo, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. 28 del 2020, in federalismi.it, 13 maggio 2020.
[15] Il tema sarà ampiamente affrontato nella relazione di M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, leggibile su lamministrativista.it, 3 luglio 2020.
[16] Cfr. i contributi del 1 e del 4 maggio e l’intervista su Il dubbio del 6 maggio citati alla nota 2. Per una valutazione positiva delle nuove regole, cfr. però G. Veltri, Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”, in www.giustizia-amministrativa.it, 2 maggio 2020.
[17] La norma infatti – opportunamente – prevede che, anche in assenza di istanza di parte, il presidente possa disporre, “con decreto”, la discussione orale da remoto, ma neppure in questo caso stabilisce un termine entro il quale le parti devono essere rese edotte della decisione assunta.
[18] Facilmente consultabili sul sito istituzionale della giustizia amministrativa.
[19] Il riferimento è all’art. 36 del dl 23 dell’8 aprile, su cui rinvio alle più ampie considerazioni svolte in M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è “riservata” alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al “pieno” contraddittorio difensivo”, in federalismi.it del 9 aprile, con Postilla del 10 aprile 2020. Analogamente, in senso critico, F. Francario, Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19, in www.giustiziainsieme.it, 14 aprile 2020 e Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 15 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più speciale”, in lamministrativista.it e in giustamm.it; M. Lipari, L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma, in federalismi.it del 29 aprile. Per una difesa delle nuove regole (su cui sono poi puntualmente arrivate le Direttive del Presidente del Consiglio di Stato: prot. n. 7400 del 20 aprile 2020, in www.giustizia amministrativa.it) v. invece R. De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 15 aprile 2020.
La Corte Costituzionale chiama il Parlamento sulle modifiche in tema di diffamazione secondo il "modello Cappato" (a proposito di Corte cost.n.132/2020)
di Marina Castellaneta
Nel riproporre il modello seguito nel caso Cappato, la Corte costituzionale, al termine dell’udienza tenutasi il 9 giugno, con l’ordinanza n. 132/2020, depositata il 26 giugno 2020, ha accordato un anno di tempo al Parlamento per modificare le norme interne in materia di diffamazione a mezzo stampa e adeguarle, così, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, entro il 22 giugno 2021, il legislatore dovrà arrivare a rimuovere i profili di contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e mettere fine alle infinite discussioni sui cambiamenti da apportare al quadro normativo sulla diffamazione a mezzo stampa, provando a raggiungere un accordo tra le forze politiche che in tutti questi anni di discussione non è stato conseguito. E questo malgrado i richiami di istituzioni internazionali che considerano la previsione del carcere per i giornalisti nei casi di diffamazione contraria alle regole internazionali a tutela della libertà di espressione (salvo nei casi di incitamento all’odio e alla violenza) e i numerosi disegni di legge presentati. Né sono servite a “svegliare” il legislatore le pronunce di condanna da parte della Corte europea (si vedano, tra le altre, la sentenza Sallusti contro Italia, ricorso n. 22350/13, depositata il 7 marzo 2019; la pronuncia del 24 settembre 2013 relativa al caso Belpietro, ricorso n. 43612/10 e quella Magosso e Brindani, ricorso n. 59347/11, depositata il 16 gennaio 2020) che, oltre a indicare l’Italia come uno Stato che comprime la libertà di stampa, incidono sulle casse dello Stato a causa degli indennizzi da versare alle vittime delle violazioni convenzionali. E’ opportuno ricordare, inoltre, che l’Italia è stato il Paese, tra quelli del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di alerts per intimidazioni ai giornalisti (2018), secondo quanto rilevato dalla Piattaforma per la protezione dei giornalisti istituita dal Consiglio d’Europa, collocandosi, inoltre, nel 2019, al secondo posto (si veda il rapporto “Hands of Press Freedom: Attacks on Media in Europe must not become a New Normal”, reperibile all’indirizzo https://rm.coe.int/annual-report-en-final-23-april-2020/16809e39dd).
Di conseguenza, l’intervento della Corte costituzionale è di grande rilievo e fornisce al legislatore italiano l’opportunità di approvare un testo conforme alle regole di diritto internazionale in materia di libertà di stampa e, al tempo stesso, di procedere a tutelare altri diritti come quello alla reputazione, con una rimodulazione del bilanciamento tra i diritti in gioco. Il ricorso alla tecnica processuale dell’incostituzionalità differita, ispirata alle decisioni della Corte suprema canadese e del Regno Unito permette, infatti, in via generale, di contemperare le due esigenze che vengono in rilievo. Si veda, sul punto la relazione annuale sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, presentata il 28 aprile 2020 dalla Presidente Marta Cartabia la quale ha sottolineato, con riferimento all’ordinanza relativa al caso Cappato, che la nuova tecnica processuale permette di “lasciare in prima battuta al legislatore lo spazio per intervenire in una materia altamente sensibile, oggetto di profondi dibattiti nell’opinione pubblica, che esige che le dinamiche politiche e culturali trovino modo di ricomporsi anzitutto in sedi politiche” (la relazione è reperibile nel sito https://www.cortecostituzionale.it. Si veda, in particolare, p. 11 ss.).
Resta da vedere se questa volta il legislatore riuscirà a centrare l’obiettivo. Prima di tutto, però, occorre ricostruire brevemente il percorso che ha portato il caso dinanzi alla Corte costituzionale.
La vicenda ha avuto origine dalle questioni di costituzionalità sollevate (diremmo finalmente) dai Tribunali di Salerno (ordinanza del 9 aprile 2019) e di Bari, sede di Modugno (ordinanza del 16 aprile 2019) che, prima di decidere nell’ambito di procedimenti penali a carico di giornalisti e direttori di testata, hanno avviato un giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Punto centrale è se l’articolo 595 del codice penale e l’articolo 13 della legge n. 47/1948 siano contrari all’articolo 117 della Costituzione in quanto in contrasto con il parametro interposto costituito dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura la libertà di espressione nonché con l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero. Vale la pena ricordare che, tra l’altro, nel procedimento dinanzi alla Consulta, grazie alla delibera dell’8 gennaio 2020, “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”, è intervenuto anche l’Ordine nazionale dei giornalisti (ordinanza n. 37 del 2020).
La scelta di sollevare la questione di costituzionalità appare quanto mai opportuna perché se in alcuni casi i giudici nazionali e, in particolare la Cassazione, hanno utilizzato i parametri individuati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per assicurare un giusto bilanciamento tra tutela del diritto alla reputazione e diritto alla libertà di stampa, in altri casi i parametri fissati da Strasburgo non sono stati considerati, come accertato dalla stessa Corte europea che, in diverse occasioni, come osservato poc’anzi, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 10 e, in alcuni casi, proprio per l’apparato sanzionatorio incompatibile con la Convenzione.
La Corte costituzionale, come detto, ha seguito il modello Cappato e, in ragione della circostanza che in Parlamento pendono diversi disegni di legge, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia”. Va ricordato che il rinvio effettuato nel caso Cappato non ha portato a una conclusione favorevole perché, nonostante il tempo concesso con l’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018, il legislatore non è intervenuto, con la conseguenza che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) …agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile…”.
È difficile dire se l’ultimatum in materia di diffamazione possa portare a un risultato favorevole ossia all’adozione di una legge in materia conforme alla Convenzione europea come interpretata dai giudici internazionali. Tuttavia, si può rilevare che lo strumento dell’incostituzionalità differita è senza dubbio una misura utile per bilanciare i valori da tutelare e per evitare che una pronuncia di incostituzionalità conduca a effetti pregiudizievoli su un diritto in gioco (sulla incostituzionalità differita si veda, per tutti, R. Pinardi, La Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993).
Se la Corte avesse dichiarato immediatamente l’incostituzionalità delle norme sulla diffamazione si sarebbe realizzato un pregiudizio alla tutela del diritto alla reputazione e proprio per questo, molto opportunamente, il Redattore dell’ordinanza, Francesco Viganò”, ha sottolineato la necessità di “una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica…con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”.
E così, la Corte ha offerto al legislatore una possibilità di raggiungere un giusto equilibrio e un bilanciamento che contempli “non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generali riparatori adeguati (come in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare…”.
Riuscirà il legislatore a fare quello che in tanti anni non è riuscito a fare? È difficile essere ottimisti perché, pur senza soffermarci sull’esame dei diversi disegni di legge in discussione, ci sembra che la sola decisione di eliminare il carcere non sia sufficiente se si introducono multe e sanzioni di natura pecuniaria in grado di produrre un chilling effect sulla libertà di stampa. Così, il tempo fornito dalla Corte costituzionale dovrebbe essere utilizzato ad ampio raggio, per rimuovere dal disegno di legge n. 812 “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato” tutti gli aspetti – e non sono pochi – che sin da subito appaiono non conformi alla giurisprudenza della Corte europea. Non basta, quindi, un semplice ritocco al maquillage con l’eliminazione del carcere se le sanzioni economiche previste risultano sproporzionate e in grado di produrre un effetto dissuasivo su chi esercita la libertà di stampa per fornire alla collettività notizie di interesse generale. Che – come chiarito dalla Corte europea – sono un bene da proteggere. E varrebbe la pena, nell’intervenire, tenere conto della realtà italiana dalla quale emerge un utilizzo sempre più frequente, e in diversi casi pretestuoso, della denuncia per diffamazione come strumento per bloccare e intimidire i giornalisti. Va ricordato, a tale proposito che il Relatore speciale del Comitato sulla cultura, la scienza, l’educazione e i media dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, George Foulkes, nel rapporto presentato il 3 gennaio 2020 ha evidenziato il comportamento aggressivo della classe politica verso i giornalisti in particolare in Italia, nella Repubblica Ceca, in Slovacchia e in Turchia.
Di conseguenza, non basta la rimozione del carcere ma è necessario un intervento organico per bloccare gli assalti giudiziari ai giornalisti e anche la prassi delle querele temerarie, naturalmente assicurando la tutela della reputazione che anche a causa del web rischia di essere danneggiata in modo grave da un’informazione non corretta.
Il giudice amministrativo può pronunciarsi sull’ottemperanza di una sentenza del giudice civile pur in presenza di un impreciso dispositivo sul quantum risarcitorio.
(nota a Cons. Stato Sez. III, 24 giugno 2020, n. 4028)
di Esper Tedeschi
La sentenza n.4028 del 24 giugno 2020 della Sezione III del Consiglio di Stato merita di essere segnalata perchè precisa quali siano, nell’ambito del giudizio d’ottemperanza, i poteri cognitori del giudice amministrativo a fronte di una pronuncia del giudice civile che non quantificava l’ammontare risarcitorio e non dettava esatti criteri per la determinazione del quantum.
In particolare, il Tribunale di Firenze condannava il Ministero della Salute al risarcimento del danno subito per infezione da virus HCV, contratta a causa della somministrazione di emoderivati infetti.
Il G.O. – con sentenza confermata dalla Corte d’Appello Fiorentina – aveva dichiarato che dalla somma liquidata si sarebbe dovuto detrarre “quanto corrisposto a titolo di rendita riconosciuta” al mese ai sensi della l. n. n. 210 del 1992 e, in relazione al danno non patrimoniale, “l’importo pari alla capitalizzazione della rendita – omissis – al mese per il periodo successivo al marzo 2008 [data di notificazione della citazione, n.d.r.]”.
A fronte dell’inerzia dell’Amministrazione ad adempiere, il T.A.R. Toscana adìto dichiarava l’obbligo del Ministero della salute di corrispondere alla ricorrente le somme oggetto di condanna da parte del Tribunale ordinario, nominando, altresì, un Commissario ad acta per il caso di ulteriore inottemperanza.
Il T.A.R. si è anche pronunciato sull’incidente d’esecuzione proposto in conseguenza del pagamento del Ministero, avvenuto – secondo la ricorrente – in misura inferiore rispetto a quanto asseritamente dovuto.
Il G.A. ha ritenuto che, in esecuzione delle pronunce del giudice civile, dalla somma indicata a titolo di risarcimento si sarebbero dovuti decurtare i ratei futuri della rendita da capitalizzare e che “tuttavia, la sentenza non indica «le modalità tecniche con le quali [la capitalizzazione, n.d.r.] deve effettuarsi (profilo che non è quindi ricompreso nel giudicato), né risulta che vi siano indicazioni univoche sul punto»”. Ciò precisato, secondo il giudice dell’ottemperanza, il ricorrente avrebbe chiesto al G.A. un’inammissibile integrazione della sentenza del giudice civile.
Atteso, infatti, che “il Tribunale ordinario di Firenze ha provveduto recta via a decurtare l’ammontate del risarcimento liquidato […] dell’importo della rendita corrisposta fino alla data della notificazione dell’atto di citazione del 19 marzo 2008 […] condannando l’Amministrazione al pagamento del residuo importo di -omissis-, permane da definire la questione attinente alla compensabilità del risarcimento con i ratei successivamente maturati e maturandi”.
In giudizio, a fronte di tale indeterminatezza, l’Amministrazione eccepiva che la misura compensabile dell’assegno sarebbe dovuta derivare dalla capitalizzazione di quanto maturato e maturando fino al compimento di 85 anni di vita. Al contrario, per la ricorrente, nessuna ulteriore decurtazione – oltre a quanto già operato fino al 19 marzo 2008, data di notificazione della citazione – avrebbe potuto legittimamente essere consentita.
In appello, il Consiglio di Stato ha, anzitutto, rilevato che il meccanismo compensativo andava applicato oltre la misura temporalmente circoscritta dal G.O. (ossia in relazione ai ratei maturati sino alla data d’instaurazione del giudizio civile risarcitorio). Questo perché già il Tribunale civile indicava nel dispositivo dichiarativo che si sarebbe dovuto detrarre “quanto corrisposto nel corso del tempo e quanto deve ancora corrispondersi a titolo di rendita riconosciuta […]”, così allargando il meccanismo compensativo anche ai ratei ancora da corrispondere, ulteriormente precisando, nel dispositivo di condanna, che “dovrà detrarsi l’importo pari alla capitalizzazione della rendita -omissis- al mese per il periodo successivo al marzo 2008”.
Quindi, ai fini della coerente applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, dal quantum risarcitorio deve essere defalcata la capitalizzazione dei ratei di rendita maturati successivamente al marzo 2008, per evitare inutili duplicazioni e arricchimenti ingiustificati.
Ciò posto, il Consiglio di Stato si è interrogato sul limite temporale da applicare alla misura compensativa dei ratei di rendita. Sotto questo profilo il TAR Toscana avrebbe errato nello statuire l’inammissibilità del ricorso d’ottemperanza per genericità dei criteri dettati dal G.O. in merito ai criteri da applicare per la capitalizzazione della rendita ex l. n. 210 del 1992.
La Sezione III del Consiglio di Stato ha ritenuto che la sentenza del giudice civile si prestasse a essere “riempita” nella fase esecutiva, al fine di realizzare le esigenze di effettività e di concentrazione della tutela, oltre che per motivi di ragionevole durata del processo, evitando alla ricorrente di dover adire nuovamente il G.O. per ottenere il bene della vita.
Infatti, la concreta definizione operativa del meccanismo della capitalizzazione non apparterrebbe al nucleo sostanziale del diritto oggetto di accertamento nel giudizio civile di cognizione, ma agli aspetti tecnico-esecutivi della sentenza oggetto di ottemperanza. Quindi, secondo il Consiglio di Stato, accertato il diritto al risarcimento del danno, l’identificazione dei criteri per la quantificazione della capitalizzazione – a effetto compensativo – dell’assegno ex art. 1, l. n. 201 del 1992 rientra tra i poteri cognitori del giudice dell’ottemperanza che, come noto, tende all’attuazione e non alla semplice esecuzione del comando giudiziale, in considerazione della natura “mista” – cognitoria ed esecutiva – del rito ex art. 112 e ss. c.p.a.
Pertanto, al fine di individuare il corretto criterio regolatore del meccanismo compensativo, la Sezione ha deciso di demandare la risoluzione della questione a un organo tecnico apposito, da investire quale Commissario ad acta, affinché proceda all’esatta capitalizzazione dell’assegno ex art. 1, l. n. 201 del 1992.
Sul tema si segnalano i contributi raccolti nel volume Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della LUISS Guido CArli (6 febbraio 2018), a cura di B. Capponi e A. Storto, ESI, Napoli, 2018.
Giudizi, Ingiustizie e Palinsesti Giudiziari di Sebastiano Addamo*
di Alessandro Centonze
sommario: 1. Sebastiano Addamo e il “senso di ingiustizia” immanente della sua narrativa. – 2. La formazione giuridica di Sebastiano Addamo e la forma del conte philosophique delle sue opere narrative. – 3. Il giudizio della sera e il “senso di ingiustizia” di una generazione “senza padri”. – 4. L’ingiustizia del potere e gli “uomini senza qualità” di Un uomo fidato. – 5. Gli uomini di legge di Sebastiano Addamo e i palinsesti giudiziari di Non si fa mai giorno.
1. Sebastiano Addamo e il “senso di ingiustizia” immanente della sua narrativa.
Intervenire su uno scrittore come Sebastiano Addamo, a vent’anni dalla sua morte, avvenuta a Catania il 9 luglio del 2000, è una sfida impegnativa[1].
La difficoltà del cimento deriva anzitutto dal fatto che Sebastiano Addamo, che è certamente uno dei più grandi scrittori siciliani del secondo dopoguerra, è un autore di culto tra gli addetti ai lavori, che gli hanno tributato, soprattutto dopo la sua morte, doverosi riconoscimenti. A questa, meritata, fama letteraria, però, non corrisponde un’adeguata diffusione delle sue opere presso il grande pubblico, che ha sempre considerato Addamo un intellettuale più che un narratore; inquadramento che, del resto, sembra essere confermato dalla sua notorietà nel campo della saggistica.
Sebastiano Addamo, invero, appartiene a quella ristretta cerchia di grandi scrittori, molto apprezzati dagli storici della letteratura italiana, ma non altrettanto conosciuti dal grande pubblico, peraltro sempre meno numeroso e sempre più distratto. In questa cerchia, naturalmente, Addamo è in eccelsa compagnia, trovandosi insieme ad alcuni indimenticabili “minori”, come Carlo Morselli, Tommaso Landolfi, Francesco Lanza, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente; e però la diffusione non capillare della sua vasta produzione comporta la difficoltà ad avvicinarsi alla sua linea autoriale – soprattutto quella collegata alle opere narrative – e di renderla interessante per i possibili, auspicabili, nuovi lettori di questo scrittore.
Accanto a queste difficoltà se ne accompagnano altre, collegate al tema con cui mi voglio confrontare, costituito dall’idea di giustizia di Sebastiano Addamo e dallo speculare senso di ingiustizia che condiziona i protagonisti delle sue narrazioni, che sono la conseguenza dell’atteggiamento nichilista dei suoi personaggi di fronte alla storia, alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano; atteggiamento, che, in fondo, è il riflesso dell’ingiustizia delle scelte, antisociali e prevaricatorie, degli uomini di potere raccontati dall’autore.
2. La formazione giuridica di Sebastiano Addamo e la forma del conte philosophique delle sue opere narrative.
L’attenzione di Sebastiano Addamo a questi temi, probabilmente – ma la mia è soltanto un’opinione personale –, è la conseguenza del suo percorso formativo, che è quello di un giurista e non quello di un letterato, pur non essendo il nostro autore mai diventato, nemmeno all’apice della sua fama, stricto sensu, uno scrittore di tematiche giuridiche.
La sua biografia e i suoi primi passi nel mondo accademico, a ben vedere, mi sembrano una conferma di queste affermazioni sul rapporto inscindibile tra le tematiche filosofico-giuridiche delle sue opere narrative e la sua formazione giovanile.
Sebastiano Addamo nasce il 18 febbraio 1925 da una famiglia originaria di Carlentini – un paese della Piana di Catania, di verghiana memoria – ed è il primo di cinque figli; trascorre in questo piccolo centro del siracusano la sua giovinezza, mentre nel paese limitrofo, Lentini, compie gli studi liceali.
Sebastiano Addamo, quindi, si laurea il 12 marzo 1948 in giurisprudenza nell’Università di Catania, discutendo una tesi di filosofia del diritto su Adriano Tilgher[2] – un pensatore oggi sostanzialmente dimenticato – dal titolo Tilgher Adriano: il suo pensiero e il suo concetto del diritto. Dopo la laurea diventa assistente del relatore della sua tesi, il professor Orazio Condorelli[3], ma non intraprende mai la carriera universitaria a causa delle condizioni economiche della sua famiglia.
La sua formazione filosofico-giuridica, però, non lo abbandonerà mai, essendo la sua scrittura caratterizzata da uno sguardo indagatore, lucido e privo di indulgenze, tipico dei giudici-storici o, se si vuole, degli storici-giudici, descritti da Carlo Ginzburg[4].
Diventato insegnante di filosofia e storia nei licei, dopo oltre un ventennio d’insegnamento, trascorso tra le provincie di Catania e Siracusa, Sebastiano Addamo diventa il preside di due istituti superiori del paese dove, nel frattempo, era andato ad abitare, Lentini; professione per la quale Addamo è fondamentalmente ricordato nel suo ambiente cittadino e per la quale io stesso lo ricordo con nostalgica ammirazione – con il suo sguardo timido e i suoi occhi chiari penetranti –, essendo stato il preside del Liceo Classico “Gorgia”, che ho frequentato tanti anni addietro.
Dopo il suo pensionamento, Sebastiano Addamo si trasferisce a Catania, dove muore il 9 luglio del 2000.
In parallelo a questa pluriennale attività didattica, Sebastiano Addamo intraprende la carriera di scrittore, esordendo con il libro di racconti intitolato Violetta[5], pubblicato nel 1963 da Arnoldo Mondadori Editore, che lo fa subito apprezzare dall’ambiente letterario.
A questo esordio narrativo fanno seguito due romanzi, entrambi editi da Garzanti: Il giudizio della sera[6] pubblicato nel 1974 e Un uomo fidato[7] pubblicato nel 1978.
Dopo Un uomo fidato, Addamo torna alla forma del racconto, pubblicando le raccolte I mandarini calvi[8], edita nel 1978; Le abitudini e l'assenza, edita nel 1982[9]; Palinsesti borghesi[10], edita nel 1987; Piccoli dei[11], edita nel 1994; Non si fa mai giorno[12], edita nel 1995, che è la sua ultima opera narrativa.
Come si è detto in apertura, Sebastiano Addano è stato anche uno straordinario saggista e un altrettanto straordinario poeta, anche se delle opere che riguardano questi settori della sua produzione letteraria non mi occuperò in questa sede, essendo incentrato il mio intervento sulle sue, per me ineguagliabili, narrazioni sul “senso di ingiustizia” che tormenta i suoi protagonisti.
Le narrazioni di Addamo, infatti, sono impregnate di considerazioni e spunti filosofico-giuridici, di cui sono esemplare rappresentazione i romanzi Il giudizio della sera e Un uomo fidato, pubblicati negli anni Settanta, nel pieno della sua maturità intellettuale, dei quali mi occuperò nelle prossime pagine, unitamente a uno dei racconti della raccolta Non si fa mai giorno, intitolato La mano tagliata.
3. Il giudizio della sera e il “senso di ingiustizia” di una generazione “senza padri”.
La forma del conte philosophique, probabilmente, ricollegandoci alla formazione filosofico-giuridica di Sebastiano Addamo, è quella che meglio ci fa comprendere le spinte culturali e le istanze espressive che animano Il giudizio della sera, che è il suo romanzo di esordio ed è la sua opera narrativa più conosciuta.
Il giudizio della sera è un romanzo scoperto tardivamente dai lettori e, soprattutto, è un’opera di straordinario interesse per la letteratura siciliana del secondo dopoguerra.
Con questo romanzo Addamo, con il suo sguardo impietoso e demistificatorio, descrive la crisi del sistema di valori dell’epoca in cui vivono i suoi protagonisti, che attraversano il dramma della seconda guerra mondiale da un osservatorio periferico e angosciato, inserendo i loro dilemmi giovanili nel crollo del mondo fascista in cui sono cresciuti. Tuttavia, da questa crisi di valori i protagonisti del romanzo escono quasi rafforzati, costretti dall’esigenza di un rinnovamento etico delle loro esistenze, che è lo specchio della sfida che il Paese, di lì a poco, si troverà impegnato ad affrontare.
Il giudizio della sera è un romanzo di formazione, in cui si inseriscono spunti autobiografici, che si rispecchiano nel travagliato percorso formativo dei suoi giovani protagonisti; anzitutto Gino, che è il riflesso romanzesco dell’autore, ma anche Pippo, Carletto, Gianni e Morico, che agiscono sotto un’incessante spinta vitalistica, che si contrappone agli scenari di morte di cui è espressione l’area urbana etnea di San Berillo, dove è ambientata una parte significativa del romanzo; scenari che costituiscono una sorta di metafora del degrado materiale e morale di una città e di un’epoca, travolte dal secondo conflitto mondiale. Come acutamente evidenziato da Sarah Zappulla Muscarà[13], che ha curato la fortunata riedizione del romanzo, i protagonisti del racconto si muovono in un “febbrile desiderio di sperimentazione”, che è ostacolato dall’atmosfera catanese soffocata dal ventennio fascista ormai al crepuscolo e dalla situazione bellica, anch’essa, per l’Italia, crepuscolare.
Immersa nella rassegnazione e nell’indolenza malinconica, tipicamente siciliane, la Catania di Sebastiano Addamo, che è quasi materica e sembra fuoriuscire dalle pagine del romanzo, si mostra con i sintomi di quella malattia che è la guerra, che si esprime nei volti di un’umanità cittadina derelitta, composta da uomini disperati, in preda a un’inedia ancestrale, che non riescono a superare, finendo per essere dominati da sentimenti di alienazione e di angoscia.
Ne emerge un’umanità negativa, che viene ritratta con tonalità sconsolate crescenti, benché accompagnate dalla forte partecipazione emotiva dell’autore, che aveva vissuto quegli anni e descrive il dramma della città, le cui vicende dolorose sono, allo stesso tempo, il simbolo della guerra: quella guerra che aveva distrutto Catania, descritta da Sebastiano Addamo, con esiti ineguagliabili, raggiunti forse dal solo Don Giovanni in Sicilia di Brancati.
L’ambiente urbano etneo e i cittadini che lo animano diventano, allora, per Sebastiano Addamo lo strumento narrativo per mostrare le ferite di una città meridionale sconfitta e ribadire il suo atto di accusa nei confronti dell’abiezione della guerra e dell’ingiustizia del potere, che è espressione degli uomini ingiusti che lo hanno esercitato nel ventennio che precede le vicende vitalistiche di Gino e dei suoi giovani amici; ingiustizia che è testimoniata dalle morti sempre più numerose dei catanesi e dai lutti che colpiscono le loro famiglie.
Accentuando, in questo modo, una naturale ispirazione letteraria, favorita dalla sua formazione filosofico-giuridica, Sebastiano Addamo, nel suo romanzo d’esordio interviene sulle vicende narrate come il giudice-storico di Carlo Ginzburg[14], rendendo evidenti la tensione morale e il pessimismo ontologico, espressi dal suo racconto. Queste caratteristiche, a loro volta, sono descritte attraverso una trama narrativa intessuta del sostrato filosofico che alimenta il romanzo, attraverso continui rimandi agli autori amati da Addamo, come Kirkegaard, Schopenhauer, Heidegger e Husserl, che accompagnano, quasi silenziosamente, il procedere del racconto di Gino e dei suoi giovani e vitali amici.
Queste connotazioni del racconto, sotterranee ma evidenti, dunque, si innestano nella trama romanzesca, che procede su due piani paralleli: il primo è quello della memoria e dei ricordi di Gino, venati di autobiografismo; il secondo è quello della riflessione filosofica dell’autore sulla società ingiusta in cui vivono i giovani protagonisti, esplicitata attraverso i continui richiami ai punti di riferimento ideologico di Addamo, mediante i quali si esprimono i suoi giudizi severi sull’ingiustizia di un’epoca e sui suoi sfortunati personaggi.
Come ha detto Enrico Iachello in un bellissimo intervento sul tessuto urbano in cui si sviluppano gli avvenimenti del romanzo d’esordio di Sebastiano Addamo, che è il deuteragonista del racconto: «Crollano sotto le bombe le case così come sono ‘caduti’ sotto la fame gli abitanti, che sembrano d’un tratto muoversi quasi disarticolati via via che il dramma si compie, e si perdono ruoli e dignità […]»[15].
Il giudizio della sera, così, diventa un vero e proprio manifesto, intellettuale e sentimentale, dell’autore, che descrive, attraverso una sorta di conte philosophique, il disastro etico di un’epoca e il disagio dei loro giovani protagonisti, che sono l’unico elemento di speranza del suo straordinario romanzo.
4. L’ingiustizia del potere e gli “uomini senza qualità” di Un uomo fidato.
Il percorso narrativo di Sebastiano Addamo trova, a mio avviso, il suo vertice letterario nel romanzo Un uomo fidato, che è la narrazione maggiormente contestualizzata tra le sue opere, essendo collocata cronologicamente tra il 1975 e il 1976, che sono gli anni immediatamente successivi al referendum sul divorzio – svoltosi nel 1974 – e alle elezioni politiche del 1976, in cui le forze parlamentari di sinistra raggiunsero la maggioranza parlamentare.
Occorre premettere che il romanzo Un uomo fidato, nel percorso letterario di Sebastiano Addamo, è importante per molteplici ragioni, delle quali mi limito a segnalare le due più significative.
Un uomo fidato, innanzitutto, è la prosecuzione delle riflessioni condotte da Sebastiano Addamo sull’ingiustizia del potere, che è espressione degli uomini ingiusti che lo esercitano, avviato con Il giudizio della sera e, in quest’opera, sviluppato con risultati espressivi esemplari.
Un uomo fidato, inoltre, è il romanzo più sciasciano di Sebastiano Addamo, come vedremo, anche alla luce del suo anomalo finale; caratteristica, questa, che non è di secondaria importanza, essendo Leonardo Sciascia, probabilmente, l’autore più vicino, umanamente e culturalmente, allo scrittore car-lentinese.
Con questo romanzo Sebastiano Addamo ci racconta una storia di trasformismi umani, tipicamente italiani, che si presentano con caratteri marcatamente gogoliani.
Il protagonista, Marco Trigillo è un impiegato catanese, che per ragioni di sopravvivenza abdica alla sua coscienza e alle sue scelte ideologiche, accettando di diventare democristiano.
Il racconto inizia con la descrizione delle abitudini di Marco Trigillo, che ogni giorno si reca nel suo ufficio, portando con sé il quotidiano l’Unità; però, il suo capoufficio, il dottor Foti, non accettando le sue scelte, politiche e ideologiche, comincia a sottoporlo a un crescente processo di condizionamento psicologico, fino a quando non gli dice chiaramente che un “comunista” nel suo ufficio non lo vuole. Marco Trigillo, del resto, come ci riferisce Leonardo Sciascia in un suo intervento sul romanzo «vagamente comunista per dottrina e comportamento, lo è profondamente per istinto e condizione»[16].
Il dottor Forti, invece, è una figura esattamente speculare a quella di Marco Trigillo e incarna perfettamente il modello degli uomini di potere “ingiusti” della narrativa di Addamo. Così ce lo descrive l’autore: «Conosceva e frequentava le persone importanti della città, dal vescovo ai professori di università e ai giornalisti, ma aveva l’astuzia di non mascherare la sua rozzezza intellettuale, ed era forse presunzione di identità, di essere quel che si è nel bene e nel male»[17].
Il protagonista di un Un uomo fidato, dunque, rinuncia progressivamente alla sua amata lettura quotidiana e alla sua ideologia, fino a quando, allo scopo di assecondare il dottor Foti, si iscrive alla Democrazia Cristiana, completando il suo processo di palingenesi negativa e snaturando la sua identità. In questo modo, l’Unità diventa, per Marco Trigillo, come il cappotto di Akakij Akakievič, il protagonista dello straordinario racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol, appunto intitolato Il cappotto[18]; entrambi gli impiegati dei due racconti, infatti, non trovano pace e fanno di un episodio, apparentemente marginale della loro vita, un pretesto per trovare una loro giustizia e percorrere anomale strade alla ricerca dell’agognata e non soddisfatta sete di giustizia.
Il pretesto per dare soddisfazione alla sua sete di giustizia, infine, Marco Trigillo lo trova nelle successive scelte politiche del suo capoufficio, il quale, per ragioni di opportunismo, collegate ai risultati delle elezioni politiche del 1976, comincia a leggere, inaspettatamente l’Unità, il “suo” giornale.
Questo avvenimento fa vacillare il mondo di abitudini consolidate in cui vive Marco Trigillo, che inizia a nutrire sentimenti di odio nei confronti del suo capoufficio, fino a quando, mentre era impegnato in una delle sue abituali letture filosofiche – tra le quali spiccavano quelle di Immanuel Kant – elabora un piano per sbarazzarsi della causa delle sue sofferenze interiori, collegate al “senso di ingiustizia” che ha sviluppato nel corso degli anni, progettando di uccidere il dottor Foti.
Marco Trigillo, in questo modo, mette in moto un piano criminoso perfetto e si trasforma in giustiziere, provocando la caduta del dottor Foti dal quarto piano del suo ufficio e causandone la morte, proprio mentre il suo capoufficio, dedicandosi alla lettura quotidiana del suo nuovo giornale – come detto l’Unità – era immerso nella sua trasformistica dimensione burocratica.
Ma, a questo punto, anche Marco Trigillo si è definitivamente trasformato, concretizzando la palingenesi giustizialista che caratterizza Un uomo fidato, di cui è testimonianza la frase che conclude il libro, pronunciata tra sé e sé dopo l’omicidio del dottor Foti, in occasione di una conversazione che riguardava la vittima: «Li avrebbe uccisi tutti!»[19].
Questo romanzo, dunque, si conclude alla maniera di Todo Modo[20] di Sciascia, atteso che è tale l’odio, il furore verso il trasformismo del dottor Foti, che è l’espressione dell’opportunismo del potere politico italiano, che alla fine il protagonista del racconto – che pure, all’inizio della narrazione, è descritto come un uomo mite – arriva all’omicidio.
Un uomo fidato è un romanzo straordinario che, come diceva Leonardo Sciascia, si incentra su un personaggio «cui consapevolmente stinge la profonda e congeniale affezione dell’autore ai grandi scrittori russi»[21], che merita di essere riscoperto, in un processo di rivalutazione complessiva di questo grande scrittore siciliano.
5. Gli uomini di legge di Sebastiano Addamo e i palinsesti giudiziari di Non si fa mai giorno.
Si colloca su una linea narrativa similare a quella descritta in Un uomo fidato anche il racconto di apertura della raccolta intitolata Non si fa mai giorno, intitolato La mano tagliata, assistendosi, anche in questo caso, a un processo di evoluzione personale che passa attraverso la personale palingenesi giustizialista del protagonista della narrazione, che è un magistrato siciliano.
Occorre precisare che La mano tagliata è il racconto di apertura di una raccolta che comprende, nell’ordine di esposizione narrativa, anche i racconti intitolati Noia a Catania, Fine di una giornata, Il muro davanti a noi e Nel cuore della legge, il quale ultimo affronta, anch’esso, tematiche giudiziarie, però trattate con un tono leggero, quasi atipico per Addamo, che non ce lo rendono utile ai nostri fini.
In questo racconto si descrive la storia di un magistrato autorevole, rispettato e temuto, che si trasforma, inconsapevolmente, in un feroce assassino, attraverso una sorta di sdoppiamento della personalità, che viene descritto mirabilmente da Addamo attraverso le riflessioni filosofico-giuridiche che costituiscono la trama insostituibile delle sue narrazioni, portate avanti con una forma assimilabile a quella del conte philosophique. La narrazione appassionante di questo racconto, quindi, in linea con i precedenti interventi narrativi dell’autore, è intessuta di riferimenti filosofici e culturali, collegati alle scelte del protagonista, che rendono La mano tagliata un altro tassello delle indimenticabili parabole umane descritte da Addamo.
Ci si trova, dunque, di fronte, analogamente a quanto si è visto per Un uomo fidato, a una sorta di palingenesi giustizialista, che travolge il protagonista del racconto La mano tagliata, che, nel corso della narrazione, si trasforma, non del tutto consapevolmente, da magistrato probo e giusto in uomo improbo e ingiusto, fino all’inaspettato e bellissimo finale, anch’esso di matrice gogoliana, che viene riecheggiato nel titolo del racconto. Il racconto di Addamo, pertanto, costituisce una sorta di parabola sulla giustizia irraggiungibile e sullo speculare senso di ingiustizia che condiziona in negativo i protagonisti delle sue opere narrative – su cui ci si è già soffermati nell’esaminare Il giudizio della sera e Un uomo fidato – che è la conseguenza dell’atteggiamento di impotenza dei suoi personaggi di fronte alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano.
Nel racconto La mano tagliata, pertanto, Sebastiano Addamo, descrivendo – come li avrebbe probabilmente chiamati lui – i palinsesti giudiziari della vita di un magistrato – torna su un tema a lui molto caro, che è quello del “senso di ingiustizia”, che gli uomini sviluppano venendo a contatto con le istituzioni e gli uomini di potere che le rappresentano, incarnati in questo caso dai magistrati.
(*) Questo intervento è stato pubblicato sull’opera collettanea Sebastiano Addamo a vent’anni dalla sua morte, a cura di M. Grasso, Prova d’Autore, Catania, 2020, edita nel ventennale della morte di Sebastiano Addamo.
[1] È possibile documentarsi sui profili biografici, professionali e letterari di Sebastiano Addamo, acquisendo le informazioni presenti sul suo sito ufficiale, www.addamosebastiano.it.
[2] Adriano Tilgher (1887-1941) è stato un filosofo, saggista e giornalista italiano, di estrazione non accademica.
[3] Orazio Condorelli (1897-1969) ha insegnato filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania; della stessa Università di Catania è stato anche il rettore.
[4] I riferimenti del testo, naturalmente, rimandano a C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino, 1991.
[5] S. Addamo, Violetta, Mondadori, Milano, 1963.
[6] Id., Il giudizio della sera, Garzanti, Milano, 1974.
[7] Id., Un uomo fidato, Garzanti, Milano, 1978.
[8] Id., I mandarini calvi, Scheiwiller, Milano, 1978.
[9] Id., Le abitudini e l’assenza, Sellerio, Palermo, 1982.
[10] Id., Palinsesti borghesi, Scheiwiller, Milano, 1987.
[11] Id., Piccoli dei, Il Girasole, Valverde, 1994.
[12] Id., Non si fa mai giorno, Sellerio, Palermo, 1995.
[13] S. Zappulla Muscarà, Come i neofiti dell'oscuro, introduzione a S. Addamo, Il giudizio della sera, Bompiani, Milano, 2008.
[14] Vedi supra, nota 4.
[15] E. Iachello, Storia e letteratura. Catania, il fascismo e la guerra nel racconto di Sebastiano Addamo, in Mediterranea, Agosto 2018, n. 43, p. 341.
[16] Così si esprime L. Sciascia, Nero su nero, in Opere (1971-1983), Mondadori, Milano, 1989, p. 812.
[17] S. Addamo, Un uomo fidato, cit., pp. 23-24.
[18] N. Gogol, Il cappotto (1842), BUR Rizzoli, Milano, 1987.
[19] S. Addamo, Un uomo fidato, cit., p. 148.
[20] L. Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.
[21] L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 811.
Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning – 3. Considerazioni conclusive
1. Premessa
La pronuncia in commento presenta diversi profili di interesse, in quanto il Consiglio di Stato, analizzando la questione ha ritenuto elusiva del provvedimento di interdittiva antimafia la misura di self cleaning posta in essere, da un’associazione, successivamente al provvedimento antimafia.
Il Consiglio di Stato, adito dopo lo svolgimento di un giudizio innanzi al T.A.R. per la Campania sede di Napoli, ha espresso dubbi in merito alla compatibilità delle statuizioni del giudice di primo grado che annullava la conferma dell’interdittiva a seguito di operazioni di self cleaning stabilendo che le misure - seppur aventi come fine quello di eludere la normativa antimafia - da sole non risultavano abbastanza adeguate a sorreggere l’annullamento provvedimento prefettizio.
Nello specifico, l’associazione resistente si avvaleva di un consulente legale condannato per il reato di corruzione elettorale ordinaria oltre ad avere nella stessa compagine associativa dei dipendenti vicini agli ambienti malavitosi: da ciò discendeva l’emanazione del provvedimento di interdittiva.
Di conseguenza, la società, in risposta all’adozione della misura interdittiva, attuava delle misure volte a stabilire una netta censura dei rapporti contestati, revocando l’incarico di rappresentanza legale precedentemente conferito e licenziando i dipendenti inquinati, chiedendo poi un aggiornamento del provvedimento interdittivo.
Ciononostante, per i giudici di Palazzo Spada, la mera censura dei rapporti non ha comunque garantito una totale estraneità dalla stessa dagli ambienti deviati, in quanto tale agire è contrastante con la normativa della documentazione antimafia contenuta nel libro II, capo II del D.lgs. 159/2011[[1]] ed è quindi è legittimo il diniego di aggiornamento del provvedimento interdittivo opposto per elusività della misura di self cleaning.
2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning
L’art. 84, comma 3 del D. lgs. n. 159 del 2011[[2]], riconosce quale elemento fondante dell’informazione antimafia la presenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”[[3]].
Il legislatore, in riferimento ad una situazione potenzialmente dannosa, ha concesso alle prefetture il beneficio di emanare misure di prevenzione basate, anche, sulla sola potenzialità di condizionamenti[[4]] e perciò il Prefetto, in forza di un pregresso accertamento di pericolosità, agisce in chiave probabilistica[[5]], formulando un giudizio di tipo preventivo-prognostico: una volta accertato il pericolo può procedere ad interdire l’impresa interrompendo ogni rapporto con le pubbliche amministrazioni.
Nel caso di specie, i giudici di Palazzo Spada, seppur concordi col Tar nel ritenere che ciò che occorre verificare, nel caso di adozione di misure di self cleaning, non è lo scopo soggettivamente perseguito dall’ente attinto dall’informativa e dai suoi esponenti, bensì l’effettiva idoneità delle misure stesse a recidere quei collegamenti e cointeressenze con le associazioni criminali che hanno fondato l’adozione della precedente informazione antimafia, contrariamente a quanto assume lo stesso giudice di primo grado ritengono, però, che nella fattispecie siano stati individuati gli elementi in base ai quali dovesse ritenersi persistente il condizionamento.
Sul merito, la Sezione ha chiarito in ordine all’elusività del self cleaning, sostenendo la tesi secondo cui già ab origine l’amministratore della società destinataria dell’interdittiva avrebbe potuto e dovuto conoscere il ruolo e la figura complessiva del consulente, peraltro facilmente riconducibile ad ambienti inquinati, ed è proprio tale atteggiamento che ha spinto il giudice di secondo grado a ritenere elusiva la misura adottata.
Occorre ricordare che, il fondamento dommatico che sorregge l’intero impianto del sistema preventivo antimafia trova espressione nella formula del “più probabile che non” che opera valutando il rischio di alterazione alla luce di una regola di giudizio di tipo probabilistico, vale a dire, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso. In tal senso, il criterio del “più probabile che non” si pone in una veste proteiforme di regola, garanzia e strumento di controllo[[6]].
Ciò posto, la presenza di dette personalità ambigue, seppur rimosse, costituiscono un dato ancora attuale che pienamente giustificano la valutazione, compiuta dalla Prefettura in ordine a quegli elementi sintomatici e indiziati del probabile coinvolgimento dell’associazione in situazioni limite e ragionevolmente, dunque, il Prefetto ha ritenuto che fosse ancora “più probabile che non” la vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata; non è certamente l’allontanamento, intervenuto a soli pochi giorni di distanza dall’adozione della stessa interdittiva, a dare piena garanzia dell’effettiva netta cesura dai contesti mafiosi ed in tale contesto, l’organo periferico del Ministero dell'Interno, effettuando una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, ha ritenuto "più probabile che non" il pericolo di infiltrazione mafiosa”.
Ciò premesso, il pericolo dell'infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un semplice sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, "a condotta libera", sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell'autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell'art. 91, comma 6, del D. Lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali "unitamente a concreti elementi da cui risulti che l'attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata".
Sul tema, il Consiglio di Stato ha rimarcato più e più volte la propria posizione in ordine alle condotte sintomatiche caratterizzate da elementi in parte tipizzati ed in parte lasciati al libero apprezzamento discrezionale, ma che in comune devono avere la concordanza degli elementi indizianti, cosi come prevista dall’art. 2729 c.c.
3. Considerazioni conclusive
Orbene, il consolidato indirizzo interpretativo dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con il passato continuando a subire, consapevolmente o non, i tentativi di ingerenza ben si prestano ad essere adattate al caso in questione [[7]].
Ha ancora chiarito la Sezione [[8]] che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati”, ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
La P.A., invece, in ossequio ai principi di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito[[9]].
In ultimo, giova sottolineare come la funzione di "frontiera avanzata" dell'informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, dovrà arrestarsi [[10]].
[[1]]Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 - Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136.
[[2]] L’art. 84 comma 3, D.lgs. 159/2011, recita testualmente che “l'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4.”
[[3]] Sul punto, Consiglio di Stato sez. III, 30 gennaio 2019, n. 759.
[[4]] Cfr. Consiglio di Stato sez. III, 6 gennaio 2019, n.1553.
[[5]] Quanto alla concezione probabilistica, il Consiglio di Stato nella sentenza n. 4483 del 2017 stabiliva che caso di adozione di misura interdittiva “l'interprete è sempre vincolato a sviluppare un'argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l'ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale".
[[6]] Il Consiglio di Stato ha affermato che “l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la necessaria prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2342/2011; n. 5019/2011; n. 5130/2011; n. 254/2012; n. 1240/2012; n. 2678/2012; n. 2806/2012; n. 4208/2012; n. 1329/2013; sez. VI, n. 4119/2013; sez. III, n. 4414/2013; n. 4527/2015; n. 5437/2015; n. 1328/2016; n. 3333/2017, 2343/2018, 26/2017, n. 1923/2017 e n. 3173/2017).
[[7]] Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386.
[[8]] Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[[9]] Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111.
[[10]] Cons. St., sez. III, 6 marzo 2019, n.1553.
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