ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU.Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera)
di Marina Castellaneta
Con la sentenza depositata il 6 ottobre 2020 nella causa Jecker c. Svizzera (ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato un ulteriore tassello per rafforzare la libertà di stampa, questa volta attraverso la protezione della confidenzialità delle fonti. Con la pronuncia in esame, infatti, la Corte ha accolto il ricorso di una giornalista stabilendo che, in via generale, l’articolo 10 della Convenzione europea, che assicura la libertà di espressione[1], compresa, quindi, la libertà di stampa, include la protezione del giornalista in ogni fase della sua attività e con riguardo agli strumenti che servono a garantire l’effettivo esercizio della libertà di stampa, come la tutela della segretezza delle fonti, che svelano notizie al giornalista con garanzia dell’anonimato[2]. Per la Corte, inoltre, gli Stati non possono obbligare un giornalista a rivelare la fonte malgrado ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato.
Prima di passare ad esaminare le questioni giuridiche affrontate dalla Corte, è utile ricostruire brevemente la vicenda che ha portato alla pronuncia in esame.
Una giornalista aveva pubblicato un articolo sulla vendita non autorizzata di droghe leggere. Nell’articolo, la cronista aveva fornito notizie esclusive avvalendosi delle informazioni reperite da una fonte che aveva accettato di svelare alcuni retroscena a condizione che la sua identità non fosse svelata. Le autorità inquirenti svizzere, che stavano conducendo un’indagine sulla vendita illecita di droghe leggere, avevano convocato e interrogato la giornalista, ordinandole di fornire il nome dell’informatore. La giornalista si era rifiutata: il Tribunale cantonale di Basilea aveva dato ragione alla cronista ritenendo che l’interesse allo svolgimento dell’inchiesta non doveva prevalere sul diritto alla protezione delle fonti, ma il Tribunale federale svizzero aveva ribaltato il verdetto. Per detto Tribunale, infatti, in base alla legislazione interna, nei casi in cui sussiste un interesse pubblico rilevante come è quello dell’accertamento di un reato, un giornalista non può invocare la segretezza delle fonti (che viene, tra l’altro, classificata come un interesse privato della ricorrente). E’ opportuno ricordare che l’art. 28a del codice penale svizzero, relativo alla protezione delle fonti dei giornalisti, stabilisce che in caso di rifiuto del giornalista di testimoniare sull’identità o sul contenuto delle fonti di informazione, il cronista non può essere punito ad eccezione del caso in cui la testimonianza sia necessaria per prevenire un attentato imminente alla vita o all’integrità fisica di una persona o nel caso in cui detta testimonianza serva per accertare alcuni reati indicati, al par. 2, lett. b) di detta norma. Il diritto di rifiutarsi di testimoniare è indicato anche all’art. 172 c.p.p.
Il ricorso della giornalista a Strasburgo ha permesso alla Corte europea di chiarire fino a che punto si spinge la tutela delle fonti dei giornalisti nel contesto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sin dal leading case sul diritto alla segretezza delle fonti rappresentato dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito del 27 marzo 1996, la Corte europea ha riconosciuto che, proprio per il ruolo di watchdog svolto dal giornalista, centrale in una democrazia, gli Stati devono garantire alcuni “privilegi” ai reporter. Ed invero, poiché per informare su notizie di interesse pubblico, il giornalista deve cercare notizie e deve farlo anche – e diremmo soprattutto – ricorrendo a fonti non ufficiali, la segretezza delle fonti è un elemento essenziale per lo svolgimento dell’attività giornalistica. Se informatori e fonti non ufficiali che si rivolgono al cronista, fornendo notizie e documenti, non fossero protetti dalla segretezza e dall’obbligo, anche deontologico, del giornalista di non svelare l’identità delle stesse fonti, esse non comunicherebbero notizie di interesse generale, con la conseguenza che l’intera collettività sarebbe privata di informazioni necessarie all’esercizio, non solo del diritto di ricevere informazioni, ma anche di altri diritti essenziali per la democrazia. La mancata protezione dell’anonimato potrebbe spingere il giornalista a non divulgare fatti danneggiando l’intera collettività e impedendo al singolo di ricevere informazioni, finanche utili per esercitare le proprie scelte politiche (il principio è stato confermato in diverse occasioni, anche dalla Grande Camera, con la sentenza del 14 settembre 2010, nel caso Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, ricorso n. 38224/03)[3].
Nel caso Jecker, la Corte ha confermato questa conclusione: l’ingerenza era prevista dalla legge, in linea con quanto richiesto dal par. 2 dell’art. 10 della Convenzione, ma non necessaria in una società democratica. La Corte, infatti, ha ribadito l’importanza della tutela della confidenzialità delle fonti per i giornalisti e, di conseguenza, per la collettività: obbligare un giornalista a rivelare l’identità della sua fonte ha un effetto negativo non solo sul singolo cronista, al quale altre ulteriori fonti potrebbero non rivolgersi più per comunicare fatti di interesse generale, ma anche per le future potenziali fonti del quotidiano e di altri giornalisti, con un effetto negativo diretto sull’interesse del pubblico a ricevere informazioni di interesse generale e un sicuro vantaggio per coloro che intendono nascondere attività illecite. La Corte ammette che la ricorrente poteva essere particolarmente utile per individuare l’autore dell’illecito e che proprio quest’ultimo aveva fornito le informazioni alla cronista, con la conseguenza che il fine perseguito dalle autorità nazionali era senza dubbio legittimo (punire la commercializzazione di droghe leggere, obiettivo perseguito dal legislatore), ma questo doveva essere rapportato al contenuto dell’articolo che riguardava fatti di interesse pubblico. Inoltre – precisa la Corte europea – le autorità nazionali non hanno dimostrato il preponderante interesse pubblico alla divulgazione della fonte. Non basta, infatti, che il legislatore consideri alcuni reati particolarmente pericolosi per la collettività poiché è necessario, nel caso specifico, giustificare l’esito del bilanciamento tra i diritti in gioco perché la sola circostanza che l’ordine di divulgazione della fonte serva per individuare l’autore del reato non può giustificare la mancata protezione delle fonti, essenziale per la libertà di stampa. Così, constatato l’interesse pubblico della notizia al centro dell’articolo e che se la giornalista avesse svelato l’identità della fonte avrebbe compromesso anche la reputazione del giornale, la Corte ha accertato la violazione dell’art. 10 da parte della Svizzera. “Considerata l’importanza che ha la protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica – osserva la Corte europea – l’obbligo imposto al giornalista di rivelare l’identità della sua fonte non si potrebbe conciliare con l’articolo 10 della Convenzione”, salvo nei casi in cui non sussista un preponderante imperativo di interesse pubblico. Che, però, non deve essere considerato in astratto e neanche sulla base delle sole scelte effettuate dal legislatore, ma con riferimento al singolo caso concreto, con un obbligo del tribunale competente di indicare le ragioni per imporre la divulgazione della fonte in rapporto all’altro diritto in gioco.
La tutela delle fonti assicurata sentenza dopo sentenza dalla Corte europea e ribadita da ultimo nella sentenza Jecker, dovrebbe avere, a nostro avviso, una ricaduta anche nell’ordinamento italiano e in particolare sull’art. 200 c.p.p. in base al quale i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale non possono essere obbligati a deporre “relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione”[4]. Tuttavia, la norma prevede, aprendo il varco ad attenuazioni nella garanzia del diritto, che se le notizie sono indispensabili per la prova del reato e la loro “veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice può ordinare di indicare le fonti delle sue informazioni”[5]. La formulazione della norma, alla luce delle pronunce della Corte, non sembra del tutto compatibile con l’art. 10 della Convenzione, sia sul piano soggettivo sia su quello oggettivo. Sotto il primo profilo, perché il diritto alla protezione delle fonti è limitato unicamente ai giornalisti professionisti, così escludendo i praticanti e i pubblicisti (tenuti, però, a non svelare la fonte in base alla legge n. 69/1963). Sotto il secondo profilo perché, a differenza di quanto previsto per gli altri professionisti, il segreto è limitato ai soli nomi. Se la Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha interpretato la norma nel senso che la tutela deve ritenersi necessariamente estesa a tutte le indicazioni che possono condurre all'identificazione di coloro che hanno fornito fiduciariamente le notizie[6], ci sembra, in ogni caso, necessaria una modifica legislativa. Tuttavia, il disegno di legge n. 812 (approvato dalla Commissione giustizia del Senato il 25 giugno 2020), d’iniziativa del senatore Giacomo Caliendo, contenente “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato” non sembra andare nella giusta direzione perché l’art. 4 del disegno di legge include i pubblicisti tra coloro che possono avvalersi del segreto (ma sono ancora esclusi i praticanti), ma la tutela è comunque limitata al nome della fonte (a differenza degli altri professionisti) ed è mantenuto l’ordine dei giudici di divulgazione della fonte qualora ciò possa servire come prova del reato, malgrado ciò non sia in linea con diverse sentenze della Corte europea.
Pertanto, la modifica dovrebbe essere ripensata e inclusa nel nuovo, necessario, testo di legge sulla diffamazione che è stato richiesto dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 132 del 9 giugno 2020, con la quale la Consulta, invece di pronunciarsi immediatamente sulla contrarietà della legge italiana in materia di diffamazione a mezzo stampa all’art. 117 della Costituzione (e al suo parametro interposto di cui all’art. 10 della Convenzione), ha dato tempo al legislatore, fino al 22 giugno 2021, per procedere all’adozione di una nuova disciplina conforme ai principi costituzionali e convenzionali. In questo nuovo testo, anche se l’ordinanza della Corte costituzionale riguarda solo la questione dell’incompatibilità con la Convenzione europea del carcere nei casi di diffamazione a mezzo stampa, dovrebbe rientrare anche la tutela delle fonti.
[1] Cfr. G.E. Vigevani, La libertà di manifestazione del pensiero, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, p. 3 ss.; Id., L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, ivi, p. 25 ss.; R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 2017, n. 3, p. 37 ss., reperibile nel sito http:///www.penalecontemporaneo.it; M. Oetheimer, A. Cardone, Articolo 10, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 397 ss.; G. Resta, Trial by Media as a Legal Problem, Napoli, 2009; M. Lemonde, Justice and the media, in European Criminal Procedures, a cura di M. Delmas-Marty, J.R. Spencer, Cambridge, 2002, p. 688 ss.
[2] Sulla protezione delle fonti si veda D. Banisar, Silencing Sources: an International Survey of Protections and Threats to Journalists’ Sources, reperibile nel sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1706688; G. Resta, La giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla libertà d’informazione e la sua rilevanza per il diritto interno: il caso dei processi mediatici, in Dir. inf. e inf., 2012, p. 163 ss.
[3] Si veda anche la sentenza Görmüs e altri contro Turchia, depositata il 19 gennaio 2016. In quell’occasione, la Corte ha stabilito l’incompatibilità con la Convenzione di misure come le perquisizioni nelle redazioni dei giornali e il sequestro di materiale cartaceo e informatico, disposte dall’autorità giudiziaria, funzionali a individuare la fonte che ha svelato al giornalista fatti scottanti. Per la Corte, anche quando è certo che le notizie arrivano al giornalista da documenti confidenziali che non possono essere diffusi, la tutela delle fonti va assicurata. Tra la numerosa giurisprudenza. cfr. la sentenza del 22 novembre 2007, Voskuil contro Paesi Bassi, ricorso n. 64752/01; la sentenza del 15 dicembre 2009, Financial Times Ltd e altri contro Regno Unito, ricorso n. 821/03; Becker contro Norvegia, sentenza del 5 ottobre 2017, ricorso n. 21272/12 (sulla quale si veda G. De Gregorio, Disclosing journalistic sources already revealed. The Becker v. Norway case, in mediaLaws, 2018, n. 3, p. 386 ss.). Per un esame delle sentenze della Corte di Strasburgo rinviamo a M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012.
[4] Cfr. C. Melzi d’Eril, G.E. Vigevani, Informazione e giustizia, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, 65 ss.; C. Malavenda, C. Melzi d’Eril, G.E. Vigevani, Le regole dei giornalisti, Bologna, 2012;
P.P. Rivello P.P., Segreto (profili processuali), in Dig. pen., Torino, 1997, vol. XII, p. 93 ss.; G. Spangher, Art. 200 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di M. Chiavario, Torino, 1990, II, p. 464 ss.; A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, parte speciale, Padova, 1982, p. 386 ss.; F. Abruzzo, Il diritto di cronaca e il segreto professionale dei giornalisti alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione della Repubblica italiana, reperibile nel sito http://www.francoabruzzo.it; A. Chelo Manchia, Segreto giornalistico: un segreto tutelato davvero?, in Cass. pen., 2005, n. 5, p. 1544 ss.
[5] P. Spagnolo, Il segreto giornalistico nel processo penale, Milano, 2014, p. 29 ss.; A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, Padova, 2012, p. 28 ss.
[6] Si veda, tra le altre, la sentenza del 29 dicembre 2011, seconda sezione penale, n. 48587/11.
La riforma della magistratura onoraria: forum
Giustizia Insieme apre un forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria.
Oggi l'introduzione alla quale seguiranno i primi interventi al forum : "Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari" del Prof. Giualiano Scarselli, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1374-brevissime-note-sulle-ultime-proposte-di-riforma-della-normativa-sui-giudici-onorari
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
Introduzione del Prof. Bruno Capponi
1. Qualsiasi discorso sulla magistratura onoraria muove dall’art. 106 Cost., secondo cui la legge sull’ordinamento giudiziario (trasparente il riferimento alla giurisdizione ordinaria: art. 1 c.p.c.) può ammettere la nomina […] di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli».
La norma è da sempre oggetto di vari fraintendimenti. Alcuni vi ravvisano talune caratteristiche della magistratura onoraria – la gratuità, la temporaneità, l’impiego a tempo parziale, il carattere non professionale e non continuativo dell’attività prestata, il conseguente regime indennitario e pensionistico etc. – che sono piuttosto lo specchio di come la previsione costituzionale è stata in concreto attuata (o, addirittura, di come la magistratura onoraria venisse impiegata anche prima dell’approvazione della Carta)[1].
Stranamente, al tempo stesso, la norma viene malintesa nella sua diretta portata testuale: chiarissima nel vietare l’impiego, specie nei gradi di impugnazione, dei magistrati onorari quali componenti di collegi decidenti (così come nelle magistrature speciali); il malinteso ha reso possibile, col decreto c.d. “del fare” (DL 69/2013, convertito dalla legge 98/2013), inserire un congruo numero di giudici “ausiliari” nei collegi delle corti d’appello (400), mentre in occasione della presentazione del successivo DL 168/2016 (convertito, con modificazioni, dalla legge 197/2016) s’è discussa la possibilità di inserire gli “ausiliari” addirittura nei collegi della sezione tributaria della Suprema Corte (scegliendoli tra i magistrati ordinari a riposo). Nel testo finale, approvato in Consiglio dei Ministri, la proposta è stata poi stralciata, ma il fatto stesso che essa sia stata concepita nei gabinetti ministeriali offre seria materia di riflessione. Ora, l’utilizzo dei giudici “ausiliari” nei collegi d’appello è andato sotto la lente della stessa Cassazione, che ha interrogato la Consulta [2] «vista la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 62-72 della legge 9 agosto 2013 n. 98 in riferimento all’art. 106, secondo comma, Cost.».
Quale significato ha, nella norma costituzionale, il riferimento ai giudici singoli e, prima, all’ordinamento giudiziario? La risposta sembra di immediata evidenza: s’è inteso limitare l’utilizzo della magistratura onoraria all’interno della giurisdizione ordinaria e per le sole funzioni che, nel 1948, erano proprie dei giudici singoli di primo grado, il giudice conciliatore e il pretore (uffici entrambi consegnati, ora, alla memoria storica). Ciò equivale, relativizzando la questione, ad affermare che l’àmbito elettivo della giustizia onoraria è lo stesso della giustizia c.d. minore: quella cioè che, allora, non attingeva in primo grado la competenza del tribunale (in quanto) giudice collegiale. Ritengo quindi che, per la corretta interpretazione della norma costituzionale, non occorra guardare (sarebbe anzi fuorviante) all’attuale competenza del giudice monocratico di tribunale, bensì a quella che era la competenza propria dei giudici singoli quando la Carta è stata redatta ([3]).
Si dirà che con ciò il problema è soltanto altrimenti collocato, o rimandato: dovendosi poi stabilire – e non si tratta di operazione facile – cosa sia, allora come ora, la c.d. giustizia minore. Il punto può essere discusso a lungo, coinvolgendo questioni non soltanto giuridiche. Tuttavia, sembra importante riaffermare che, nelle chiare intenzioni del costituente, l’utilizzo della magistratura onoraria non poteva essere indiscriminato, come attualmente si tende invece a ritenere [4].
Sembra anzi questa la giusta base di partenza per ogni discorso ulteriore: nel disegno del costituente, il giudice onorario era soltanto monocratico e poteva conoscere delle controversie civili di modesta entità, esclusivamente in primo grado [5].
2. Prendere atto della portata del testo costituzionale non significa, però, disattendere la qualifica di “ordinario” che certamente compete al magistrato onorario, con tutto quanto ne consegue. Va distinta la questione dello stato giuridico dalle funzioni in concreto esercitate: perché i provvedimenti del giudice onorario non sono strutturalmente diversi da quelli del giudice professionale, né è diverso il “potere” esercitato [6].
Sullo stato giuridico, in passato gli equivoci non sono stati pochi. Il GOT è stato visto come un magistrato a tempo parziale, che svolgeva o poteva svolgere un’altra attività (anche la professione forense, con le relative incompatibilità), che percepiva non uno stipendio ma un’indennità, che non aveva lo stato giuridico del lavoratore “dipendente” e che soprattutto aveva un impiego temporaneo. Un giudice “di complemento”, al quale tuttavia poteva essere affidato un intero ruolo decisorio: all’atto pratico, il suo impegno poteva non distinguersi da quello di un giudice professionale che operasse all’interno della stessa sezione del tribunale.
La realtà è che l’impiego a tempo parziale e la temporaneità delle funzioni sono spesso rimaste sulla carta e dunque, di proroga in proroga, è frequente trovarsi oggi di fronte a magistrati onorari che garantiscono da più di vent’anni lo stesso impegno di lavoro del giudice professionale, senza però avere in cambio nessuno dei diritti del lavoratore dipendente: ferie, malattia, maternità, pensione ed elettorato sono rimasti lontane chimere.
Alle domande di queste figure di giudici “minori”, quantomeno per il passato, il legislatore deve dare una risposta che rispetti la dignità e l’indipendenza delle funzioni svolte non occasionalmente né temporaneamente.
3. Il futuro non è chiaro, ed è soprattutto di questo che dobbiamo preoccuparci.
A far tempo dalla riforma sul giudice unico di tribunale (processo a tappe, concluso dal d.lgs. 51/1998) si sono moltiplicate le figure di giudice onorario, passando dalla legge sulle sezioni stralcio (n. 276/1997) e la connessa creazione dei GOA. Gli acronimi si sono moltiplicati (GOT, VPO, GACA), e con essi i problemi legati alle disparità di trattamento, retributivo e previdenziale. La legge delega sulla riforma organica della magistratura onoraria (la n. 57/2016) ha previsto, a regime, un’unica figura di magistrato onorario (almeno in primo grado), che viene denominato «giudice onorario di pace» (una sorta di catarsi delle sigle ora esistenti: GOP) e che dovrà essere inserito, con funzioni varie, in un unico ufficio di pace non più autonomo, com’è stato sinora, ma alle strette dipendenze del tribunale.
L’art. 5 della legge n. 57 assegna il coordinamento dell’ufficio del giudice di pace al presidente del tribunale.
La legge delega parla senza mezzi termini di «superare la distinzione tra giudici onorari di tribunale e giudici di pace facendoli confluire tutti nell’ufficio del giudice di pace» [art. 2, comma 1, lett. a)]. Tutti saranno poi destinati a confluire anche nell’ufficio per il processo costituito presso il tribunale ordinario (art. 50 DL 90/2014, convertito dalla legge 114/2014) per svolgere compiti di ausilio del giudice professionale: atti preparatori [lett. a) n. 1), che il legislatore delegato dovrà dettagliare]; atti delegati sulla base di direttive generali impartite dal «giudice professionale titolare del procedimento» (che non potrà quindi essere lo stesso giudice onorario) [n. 2)]; atti definitivi del procedimento, purché “semplici” [n. 3)]; applicazione al collegio giudicante civile e penale, in caso di significativa scopertura degli organici dei giudici professionali, ma con esclusione delle sezioni specializzate [lett. b)]; applicazione per la trattazione di procedimenti civili e penali, con esclusione delle materie di cui all’art. 43 bis dell’ord. giud., già in vigore quanto ai GOT, e per la materia del lavoro e previdenziale [lett. c)].
Lasciando da parte gli aspetti ordinamentali, che sono diretta conseguenza del maggior impegno richiesto ai GOP, la conclusione che se ne trae è che i giudici onorari di pace costituiranno l’ufficio del giudice di pace, e in più saranno addetti all’ufficio per il processo del tribunale ordinario. Vengono dunque meno, sempre più, le caratteristiche di “onorarietà” come tradizionalmente concepite (almeno quanto ai giudici di pace), per fare sempre più dell’onorario un giudice semi-professionale, vera “stampella” del magistrato di carriera e “costola” del tribunale. Del resto, i giudici onorari di ultima generazione saranno più tecnici del diritto, che cittadini esperti e saggi destinati a raccogliere il consenso della comunità: essi saranno reclutati preferibilmente tra magistrati anche onorari, avvocati, notai e docenti universitari (art. 2, comma 3, legge 57).
Insomma, sempre più aderente alla realtà è il gioco di parole che faceva del giudice di pace, quando ancora non era il giudice onorario di pace, un giudice istituito “per la pace dei giudici”[7].
Come sarà possibile realizzare questa “piccola” rivoluzione, che, d’altra parte, per gli aspetti strettamente legati allo stato giuridico dei magistrati onorari continua a perpetrare l’equivoco della temporaneità e sostanziale gratuità delle funzioni?
[1] Per tutti, Picardi, voce Conciliatore, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, vol. VII.
[2] Ord. della Sez. III del 9 dicembre 2019, pres. Amendola, est. Graziosi (GU 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n.34 del 19-8-2020).
[3] Per più ampio discorso v. Capponi – Tiscini, Introduzione al diritto processuale civile, Torino, 2014, 68 ss.
[4] V. il recente volume di Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Aracne, Canterano (RM), 2019, che parla della magistratura onoraria come del bubbone che sta per esplodere, evidenziando il problema di fondo che è l’inadeguatezza e la scopertura degli organici.
[5] Cfr. Luiso, La magistratura onoraria, in Riv. dir. proc., 2008, 355 ss.
[6] «Il potere giurisdizionale esercitato da un magistrato onorario non è in alcun modo diverso da quello esercitato da un magistrato di carriera»: così Luiso, op. cit., 362.
[7] Chiarloni, in Il giudice di pace, cit.
La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus
Il quotidiano La Stampa il 24 ottobre 2020 ha dato notizia del protocollo adottato dalla Svizzera per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive che “ha messo nero su bianco” i criteri da seguire in caso di insufficienza delle risorse disponibili.
La scelta elvetica riaccende l’attenzione sul tema drammatico della possibilità di limitazione o bilanciamento con altri diritti del diritto fondamentale alla vita umana.
Il tema è stato seguito con attenzione da GiustiziaInsieme nei mesi scorsi, ripubblicando l’intervista al filosofo Jürgen Habermas e al teorico del diritto Klaus Günther apparsa sul settimanale Die Zeit il 9 maggio 2020, seguita dalla sua rilettura da parte della cultura giuridica italiana, sia sotto il profilo gius-pubblicistico, che civilistico e penalistico, con altrettante interviste curate da Roberto Conti, Fabio Francario, Vincenzo Militello e Roberto Natoli.
Per gentile concessione dell’Editore, riproduciamo di seguito l’articolo a firma di Fabio Poletti pubblicato su La Stampa il 24 ottobre 2020 e, a seguire, il link alle interviste già ospitate da GiustiziaInsieme sul tema.
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La Stampa, 24 ottobre 2020, Fabio Poletti
La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus
Protocollo per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive. Il presidente dei medici: «È pesantissimo, ma così le regole sono chiare»
MILANO. Ben 6.592 contagi e 10 morti solo ieri. Con un rapporto di 494,9 casi ogni 100 mila abitanti. Il doppio che in Italia e in Austria, cinque volte più che in Germania. La Svizzera sta per essere travolta dal picco della pandemia e corre ai ripari. Il documento elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva è in vigore dal 20 marzo, anche se ufficialmente non è stato ancora adottato. Il titolo è preciso: «Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse». Ad una domanda che si stanno facendo in tutti gli ospedali del mondo, la Svizzera mette nero su bianco una risposta: «Al livello B, indisponibilità di letti in terapia intensiva, non andrebbe fatta alcuna rianimazione cardiopolmonare».
I limiti di età per le cure
A pagina 5 del documento sono indicate le tipologie di pazienti destinati a non essere ricoverati in Terapia Intensiva: «Età superiore a 85 anni. Età superiore a 75 anni accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi». A livello A, letti in Terapia Intensiva disponibili ma risorse limitate, i criteri per non essere ammessi alla rianimazione sono più gravi. Tra gli altri: «Arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a 12 mesi, demenza grave, insufficienza cardiaca di classe NYHA IV, malattia degenerativa allo stadio finale».
Come in guerra
Essere curati o meno, sarà prerogativa dei medici. O piuttosto dal numero di letti ospedalieri. A lunedì scorso, ultimo dato disponibile, in Svizzera c’erano 22 mila 301 posti letto, di cui 6 mila e 353 ancora liberi. Con 586 pazienti ricoverati per Covid-19, di cui 97 in terapia intensiva e 29 intubati. Ma la progressione del virus è veloce. Le decisioni che potrebbero prendere a breve i medici svizzeri, sono le stesse con cui si sono confrontati a marzo i medici di Bergamo, travolti dalla prima ondata di pandemia. Tredici di loro avevano scritto una lettera al New England Journal of Medicine che aveva fatto il giro del mondo: «I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative».
In Svizzera, lo stesso problema diventa criterio medico. Con una premessa scritta dagli stessi accademici e rianimatori: «Le decisioni vanno prese nell’ottica di contenere il più possibile il numero di malati gravi e morti». Eppure, anche nella pragmatica Svizzera, la cosa ha destato molta impressione, ammette Franco Denti, il presidente dell’Ordine dei Medici del Canton Ticino: «Quando è uscita questa direttiva siamo saltati sulla sedia. Decidere chi rianimare e chi no è pesante, pesantissimo per qualsiasi medico. Ma questo documento, che è pubblico, è a garanzia dei medici e degli stessi pazienti che potrebbero non aver voglia di essere sottoposti a ulteriori cure».
Nel comunicato di presentazione del protocollo, gli accademici parlano della necessità di «prendere decisioni di razionamento». Un termine militare che riporta alla medicina di guerra. Inevitabile secondo il presidente dei medici del Ticino: «Ogni decisione spetta ai comitati etici degli ospedali. Non mi risulta che sia già successo, ma siamo molto preoccupati».
Scelte tragiche e Covid-19 (24/03/20)
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Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza. (note a Consiglio di Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485) di Esper Tedeschi
Sommario: 1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.; 2. La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata; 3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
1. Il giudice dell’ottemperanza ex art. 113 c.p.a.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5485/2020 offre l’occasione di riflettere in ordine alla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 113, co. 1, c.p.a.
Come noto, la disposizione in parola individua il giudice dell’ottemperanza, attribuendone la competenza funzionale all’autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, con la precisazione, tuttavia, nel secondo periodo, che “la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Nella pronuncia in commento, il Consiglio di Stato ha fatto applicazione della regola processuale da ultimo richiamata, declinando la propria competenza a decidere, per avere individuato nel T.A.R. che aveva pronunciato la sentenza di primo grado il giudice competente, in quanto la sentenza di appello non ne aveva modificato il contenuto dispositivo e conformativo, sebbene avesse motivato in modo parzialmente diverso su un aspetto della controversia.
La vicenda deve essere inquadrata nell’ambito della regola processuale della quale è stata fatta applicazione.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. non introduce novità nel panorama processuale amministrativo.
Già l’art. 37 della legge T.A.R. – che per la prima volta ha normato l’assoggettabilità a giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice amministrativo[1] – aveva individuato, quale giudice dell’ottemperanza, l’organo della giustizia amministrativa che ha emesso la decisione di cui si chiedeva l’adempimento e, del pari, aveva introdotto una disposizione apparentemente derogatoria (rispetto alla appellabilità delle sentenze T.A.R., emesse nei giudizi di ottemperanza ex art. 37, co. 1) sostanzialmente coincidente con la disposizione ora contenuta nel co. 1, secondo periodo, dell’art. 113, c.p.a.[2].
Tuttavia – mentre l’art. 37 della legge T.A.R., si limitava a dire, al co. 4, che “la competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello” – l’art. 113, co. 1, secondo periodo, c.p.a. si esprime precisando che, affinché la competenza resti radicata nel primo giudice, occorre anche che la pronuncia confermativa del giudice di appello “abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Quella che potrebbe apparire soltanto una precisazione grammaticale, costituisce, invero, il “valore aggiunto” della disposizione codicistica (corrispondente alle indicazioni interpretative nel frattempo formatesi in materia[3]), in quanto chiarisce la volontà del legislatore, di modellare la ripartizione della competenza funzionale, fra Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato (nella rispettiva veste di giudici di primo e di secondo grado), sulla “paternità” del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale della cui ottemperanza si tratta, incardinandola nel Consiglio di Stato ogni qual volta, ancorché confermato il contenuto dispositivo della sentenza di accoglimento di primo grado, ne diverga il contenuto conformativo[4].
Quest’ultimo, si concreta in quel vincolo comportamentale che, sulla base delle argomentazioni che sorreggono il contenuto dispositivo, incombe sull’Amministrazione soccombente, la quale – come sarà chiarito da recente giurisprudenza[5] – finisce con l’esserne astretta anche oltre i limiti temporali e processuali di esecutibilità della pronuncia giurisdizionale, nel senso che “il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto”. Il che è quanto dire che il provvedimento che l’Amministrazione adotta in contrasto con la pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata resta operante alla stregua di “misura ideale” del corretto e legittimo uso del potere discrezionale tipico, così che la sua violazione è idonea ad emergere sub specie di “eccesso di potere”, quale vizio del successivo provvedimento, in qualunque ragionevole tempo.
La correlazione della competenza funzionale alla paternità del contenuto “dispositivo” e “conformativo” delle pronunce giurisdizionali affonda le proprie radici nel coessenziale “pre-giudizio” legislativo che, nelle materie appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo, nessuno meglio del giudice al quale deve farsi risalire lo iussus conformativo è in condizione di individuarne il significato e la portata, nell’esercizio di quella particolare cognizione estesa al merito che è propria del giudizio di ottemperanza e alla quale si correla anche il potere sostitutivo, esercitabile, se occorre, mediante la nomina di un commissario ad acta (art. 114, co. 4. lett. d)) quale ausiliario del giudice (art. 21) che tenga le veci dell’amministrazione reiteratamente inottemperante[6].
Riflettendo su tale aspetto, ci si avvede che il criterio adoperato dal codice del processo si muove nell’ottica della valorizzazione la nozione di “giudice naturale”[7] e le esigenze di tutela che vi sono sottese, e che hanno fatto dire, ai costituenti, che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”[8].
Peraltro, è stata rinvenuta, in tale opzione, una deroga alla regola del doppio grado[9], ora espressamente fissata, per il giudizio di ottemperanza, in linea generale, dall’art. 114, co. 8 e 9, c.p.a., idonea a ingenerare, per tale profilo, disparità di trattamento fra quanti possono avvalersi del doppio grado e quanti, invece, sono costretti a subire l’inappellabilità delle pronunce del Consiglio di Stato, operante, nel caso, in qualità di giudice di unico grado[10].
La questione non è di poco momento.
Se pure è vero, infatti che la garanzia del doppio grado della giurisdizione fissata nell’art. 125 Cost. opera soltanto nel senso della appellabilità delle sentenze T.A.R.[11] – senza che dall’anzidetta disposizione, o dagli artt. 100 e 111, o da altra disposizione della Carta fondamentale possa desumersi che (nell’ambito della funzione giurisdizionale propria) il Consiglio di Stato non possa mai essere investito di competenza di unico grado – altri principi, altrettanto vincolanti, operano nel senso che, anche in tale ipotesi, l’ordinamento debba individuare misure idonee a garantire l’effettività della tutela della parte soccombente, attuativa di diritti costituzionali (artt.24, 111 e 113 Cost.) e di principi sovranazionali[12].
Tuttavia, l’osservanza di tali principi, ora scolpiti positivamente nell’art. 1 c.p.a., non vincola il legislatore nazionale nella individuazione dello strumento processuale con il quale perseguirli, purché esso sussista e si riveli efficace[13].
2. La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5485 del 2020 e la soluzione ivi adottata.
Venendo, ora, all’esame della sentenza in commento, occorre muovere dal “caso”, che, sebbene non scevro di complessità, può essere sintetizzato come segue.
Il T.A.R. per il Molise, con sentenza n. 448 del 2016, ha accolto il ricorso per risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, instaurato dall’ex presidente del comitato dei revisori dei conti di un I.A.C.P. molisano, con ricorso notificato alla Regione Molise e all’I.A.C.P. entro il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del medesimo T.A.R.
Nell’accogliere la domanda risarcitoria (con condanna in solido delle amministrazione intimate sulla base di puntuali criteri di liquidazione anche relativi alle spettanze accessorie), il T.A.R. molisano ha, previamente, dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione dell’azione, proposta dall’I.A.C.P., in quanto tardiva, e ha respinto la coincidente eccezione della Regione Molise, basando il proprio convincimento sull’assunto che il termine quinquennale opposto dalla Regione a fondamento della propria deduzione, dovesse farsi decorrere dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, al quale il suddetto giudice ha fatto risalire la giuridica azionabilità, in sede giurisdizionale, dell’autonoma pretesa risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
La Sez. V del Consiglio di Stato – investita dell’appello principale dello I.A.C.P. e di quello incidentale autonomo della Regione Molise, entrambi volti a sindacare le conclusioni alle quali era pervenuto il T.A.R. in ordine alla decorrenza del termine per la proposizione l’azione risarcitoria (mentre il solo appello principale dello lo I.A.C.P. era anche volto caducare la condanna in solido a suo carico, sull’assunto della esclusiva responsabilità della Regione per il danno provocato all’interessato dai provvedimenti illegittimi del Commissario straordinario dell’Istituto) – ha respinto entrambi gli appelli con sentenza n. 1496 del 2018, nel cui contesto era, peraltro, precisato che “la sentenza di primo grado deve […] essere confermata, sia pure sulla base di una motivazione in parte diversa da quella contenuta nella sentenza appellata”.
Per la precisone, il giudice di appello, esaminando la riproposta eccezione di prescrizione (ed espressamente prescindendo dalla tardività riguardante la sola deduzione dell’I.A.C.P.), ha ritenuto erroneo il procedimento logico-giuridico attraverso cui il T.A.R. era pervenuto al convincimento della tempestività della proposizione dell’azione, sulla considerazione che “l’azione risarcitoria autonoma era già esperibile [prima dell’entrata in vigore del c.p.a.] e ad essa si applicava il termine di prescrizione quinquennale (come definitivamente chiarito anche da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3/2011)”. Ciò malgrado, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sostanziale irrilevanza dell’errore del primo giudice, nella individuazione della norma applicabile nella specie, stante, di fatto, la tempestività dell’azione risarcitoria alla stregua del principio in forza del quale “la domanda, proposta al giudice amministrativo, di annullamento del provvedimento lesivo è idonea, per la durata del processo amministrativo, ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, con la conseguenza che la prescrizione già interrotta può iniziare a decorrere nel giudizio risarcitorio dal passaggio in giudicato della statuizione del giudice amministrativo (cfr., ex multis, Cass. 10395/2012; Cass. 4874/2011”.
Nelle specie, e sulla base dell’intervallo temporale fra passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dei provvedimenti lesivi e la proposizione della domanda risarcitoria (con riferimento alla notificazione del ricorso, poi successivamente ritualmente e tempestivamente depositato), doveva comunque escludersi il compimento del temine prescrizionale.
Successivamente al deposito della sentenza in parola e alla sua notificazione a cura dell’interessato, persistendo l’inerzia dei coobbligati in solido, quest’ultimo ha proposto ricorso per l’ottemperanza dell’anzidetta sentenza del medesimo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1496 del 2018, nel convincimento che il giudice di appello – pur avendo lasciato invariato il contenuto dispositivo del provvedimento decisorio del primo giudice – ne avesse modificato, ampliandolo, il decisum sostanziale, dichiarandosi confortato, in tale convincimento, dalla statuizione con la quale, in appello, il Consiglio di Stato aveva compensato le spese del giudizio.
Con la sentenza n. 5485 del 2020 in discorso, la Sez. V del Consiglio di Stato (fra l’altro espressamente accogliendo, sul punto, l’eccezione della Regione Molise, costituitasi in giudizio) ha declinato la propria competenza in favore del T.A.R. per il Molise, con concisa, ma lodevole esposizione delle conclusioni esegetiche in tema di individuazione del giudice funzionalmente competente alla stregua del disposto dell’art. 113, co. 1, del codice del processo amministrativo.
Osserva sostanzialmente il Consiglio – nell’indicare le tappe del percorso interpretativo da compiere per l’individuare il giudice competente in materia – che la giurisprudenza ha ormai sviscerato (da tempo, in un decennio dalla entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, e della operatività del suo art. 113, co. 1) le linee guida da seguire, ovvero:
a) esame del “contenuto dispositivo” (o anche dell’“indice testuale (reso) nel dispositivo della sentenza “, per usare una espressione adoperata dallo stesso Consiglio, nella sentenza della Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612);
b) ciò fatto, l’approccio successivo sarebbe nel senso che “la competenza funzionale è del Tribunale amministrativo regionale” ove vi si ravvisi “identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado”, il che si verifica nell’ipotesi di “dispositivo di mero rigetto dell’appello principale o incidentale (così Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489)”;
c) operare – peraltro – il confronto richiesto dallo stesso art. 113, co. 1, del “contenuto conformativo” dei provvedimenti giurisdizionali di primo e di secondo grado, rinvenendone la sede nella motivazione, e dal cui esame può conseguire che:
c.1) la competenza del Consiglio di Stato se la motivazione della sentenza d’appello rechi una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, in senso (variamente) ampliativo o restrittivo della condotta richiesta per dar attuazione alla pretesa, così da incidere sull’obbligo conformativo dell’Amministrazione soccombente (Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871) o, anche, quando si ravvisi “un quid novi sul piano del giudicato” (Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2051);
c.2) (oppure, al contrario) la competenza resta radicata nel primo giudice (il T.A.R. di provenienza), nel caso in cui la differente motivazione si concreti nel “mero arricchimento della motivazione a supporto di un medesimo decisum”.
L’avvertimento che la sentenza in esame sente, a questo punto, di dover dare all’interprete (nel caso, la parte vittoriosa dell’esecutando provvedimento giurisdizionale) è nel senso di una particolare cautela nella individuazione del “contenuto conformativo”, nelle maglie della motivazione della sentenza d’appello e nel confrontarlo con il dictum di prime cure, in quanto una sentenza di appello non può mai riproporre un percorso motivazionale identico (ovvero addirittura ripetitivo) a quello della sentenza impugnata, “non foss’altro per la necessità di confrontarsi con censure differenti da quelle proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (in tal senso già Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2183)”.
La controprova è nella constatazione che un differente modo di procedere finirebbe a riconoscere sempre competenza funzionale del giudice di appello, perché si finirebbe per attribuire al differente percorso argomentativo “(sempre) un contenuto conformativo diverso”.
Il vero, per i fini che interessano il corretto confronto dei “contenuti conformativi” dei due provvedimenti appartenenti a giudici di differente grado è nel modus operandi che si richiede all’Amministrazione per dare effettiva e concreta attuazione al comando giuridico, cosicché, in conclusione, al cospetto di un identico contenuto dispositivo, l’indagine sul contenuto conformativo consiste nel chiedersi se le due pronunce (di primo e di secondo grado) abbiano posto all’Amministrazione vincoli operativi identici o differenti.
Per venire al caso concreto, la sostanza della vicenda sulla quale è intervenuta la differente motivazione della sentenza di appello (inoperatività della prescrizione opposta) era del tutto “pre-giudiziale” rispetto alla questione di merito, da cui doveva farsi dipendere (con l’effetto dispositivo), l’effetto conformativo della pronuncia giurisdizionale. Sicché, una volta accertato che il termine prescrizionale non era decorso al tempo della proposizione della domanda risarcitoria e che, dunque, il giudice era legittimato a “entrare nel merito” della pretesa risarcitoria, era da ritenere del tutto irrilevante il differente percorso normativo attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alle medesime conclusioni del primo giudice, in ordine alla inoperatività della prescrizione.
Infatti, la correzione, sul punto, della motivazione della sentenza di primo grado non ha minimamente intaccato il decisum sul merito della domanda risarcitoria, né in ordine alla sussistenza del danno, alla taxatio o alla aestimazio dell’obbligazione relativa, né per ciò che riguarda le indicazioni operative espressamente rivolte alle Amministrazioni soccombenti, né, infine, circa gli impliciti e residui doveri conformativi (quali, in ipotesi, quello di correttamente attenersi ai criteri di liquidazione indicati dal primo giudice, di adoperarsi per rendere disponibili i fondi necessari per l’erogazione degli importi dovuti e, infine, di emettere, il mandato di pagamento necessario alla riscossione del dovuto). Ciò in quanto, fra l’altro, è stato respinto l’appello proposto dall’I.A.C.P. avverso la condanna in solido, con totale conferma, sul punto, della sentenza T.A.R.
In conclusione, la sentenza in commento appare apprezzabile per aver messo a fuoco orientamenti consolidati con costruzione logica chiarificatrice (ancorché sintetica), così da fornire anche un input di tipo didattico per la comprensione della materia.
Probabilmente, uno sforzo ulteriore poteva essere compiuto, per chiarire, anche brevemente, l’ininfluenza della statuizione sulle spese del giudizio, posto che, per espressa ammissione dell’interessato, l’equivoco del ricorrente era stato alimentato proprio dalla suddetta compensazione[14].
3. Il contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
Ciò detto, un qualche chiarimento richiedono ancora la nozione di “contenuto dispositivo” e “contenuto conformativo” (la legge propriamente parla di “effetti”, dispositivo e conformativo) il più delle volte non espressamente enunciato, che dalla sentenza del giudice amministrativo deriva (o può derivare) in capo all’Amministrazione soccombente.
L’idea di un “contenuto conformativo”, ulteriore rispetto a quello dispositivo, afferisce alla sentenza amministrativa di accoglimento di un ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e lesivo della sfera giuridica del ricorrente[15].
È, d’altronde, manualistico l’insegnamento secondo cui l’effetto (o contenuto) conformativo costituirebbe un elemento “tipico” di tali decisioni (ancorché eventuale), in quanto presuppone che, dopo l’annullamento giurisdizionale residuerebbe, in capo all’Amministrazione soccombente “il potere” (o, a seconda dei casi e sulla base di quanto dispone il diritto sostanziale, “il dovere”) di provvedere in ordine alla fattispecie che ha costituito oggetto del giudizio,, con un nuovo atto[16].
L’effetto conformativo si concreterebbe nell’obbligo, per l’Amministrazione soccombente, di tenere conto, nella sua azione, delle indicazioni e dei limiti desumibili dall’accertamento giurisdizionale, come esplicitati nella motivazione del provvedimento giurisdizionale del quale di stratta[17].
In tale ottica, l’effetto conformativo rinverrebbe la sua tipicità nel meccanismo impugnatorio, che definisce anche i limiti del contenuto conformativo della pronuncia giurisdizionale, in quanto esige la specificazione dei motivi di impugnazione da parte del ricorrente e non consente al giudice di spingere il suo potere di controllo giurisdizionale oltre i limiti delle censure dedotte.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato[18] ha, pressocché testualmente, ribadito i superiori concetti[19].
Se ne potrebbe dedurre che di contenuto conformativo possa, ancora oggi, parlarsi soltanto con riguardo alle sentenze di merito emesse nel tipico giudizio di legittimità e che, solo con riferimento alle anzidette sentenze di accoglimento, esso debba ricercarsi nelle maglie della motivazione, della pronuncia favorevole,
Sennonché, rispetto al suo atto di nascita, potrebbe dirsi, oggi, che il giudizio di ottemperanza ha cambiato pelle.
Già l’art. 33, della l. n. 1034 del 1071, con il comma 4 (aggiunto dall’art. 10, l. 21 luglio 2000 n. 205), ne ha ammesso l’esperibilità per le sentenze T.A.R. non ancora passate in cosa giudicata e non sospese dal Consiglio di Stato; sulla base del combinato disposto degli artt. 112, co. 5 e 114, co.7, il giudizio di ottemperanza può essere proposto per fornire chiarimenti sulle modalità di esecuzione, anche da parte dello stesso commissario ad acta; l’art. 112. co. 1 e 2, c.p.a, ha notevolmente ampliato l’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza, in correlazione anche alla pluralità di azioni che possono essere proposte davanti al giudice amministrativo e il successivo co. 3 dello stesso articolo, modificato dal primo correttivo di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, ha reso possibile la proposizione “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza” dell’azione “di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza”, oltre che di quella “di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”[20].
Inoltre, il “nuovo” codice del processo amministrativo (con le modificazioni apportate, all’originario d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, dai correttivi di cui ai d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e 14 settembre 2012, n. 160, ma anche per effetto di successivi aggiustamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni) sembra propendere, non soltanto verso una più puntuale ed esplicita enunciazione del contenuto conformativo dei provvedimenti giurisdizionali, anche con riferimento a pronunce con oggetto differente dal tipico sindacato di legittimità[21].
In tale contesto, la formula dell’art. 113, comma 1, c.p.a., in tema di giudizio di ottemperanza, induce a interrogarsi sulla possibilità che il legislatore abbia anche intenzionalmente ritenuto di dover accedere a una nozione di “contenuto conformativo” non rigorosamente ancorata ai soli effetti ulteriori della pronuncia definitiva di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, nella parte in cui, nel recepire interamente il riparto di competenza funzionale fra T.A.R. e Consiglio di Stato (nella funzione giurisdizionale di giudice di appello) già fissata nell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971 (istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), ha valorizzato la rilevanza processuale del “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”, senza tenere in alcun conto la pluralità di azioni previste dal codice e dell’altrettanto variegata tipologia di “provvedimenti” giurisdizionali finali, suscettibili di ottemperanza.
Tale convincimento è avvalorato dal comma 1 dell’art. 112 c.p.a.
Il contenuto conformativo delle pronunce amministrative, che aveva fatto dire “il sindacato di legittimità diventa una misura di giustizia in senso distributivo nei rapporti intersoggettivi”[22], nel nuovo assetto del processo amministrativo, sembra dunque emergere, a tutto tondo, nella generalità delle statuizioni di merito del giudice amministrativo, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, co. 1, Cost.[23].
Esso è da considerarsi di tale rilevanza che, secondo l’orientamento recentemente messo a fuoco dal Consiglio di Stato[24], l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Verrebbero così a scindersi, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’Amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
Detto questo, deve darsi atto che, ai fini e per gli effetti del giudizio di cui all’art. 113 c.p.a. - al cospetto di una decisione di appello che confermi il contenuto dispositivo della sentenza di primo grado con motivazione non del tutto conforme alla pronuncia di prime cure - l’individuazione del giudice al quale fare risalire la paternità del contenuto conformativo può essere complicato dallo sviluppo argomentativo della pronuncia, la cui complessità affonda le proprie radici nelle connotazioni stessa del giudizio di appello, nel contempo impugnatorio e devolutivo (nei limiti di quanto dedotto nel giudizio di primo grado ed oggetto di gravame in appello).
La vicenda che è alla base della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3485/2020 (oggetto di esame nel paragrafo che precede) costituisce un esempio tipico di “equivoco”, nel quale non sarebbe dato incorrere, se soltanto si tenesse conto che il differente percorso argomentativo - che si sostanzi in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado - non modifica, di per sé, né il contenuto dispositivo né quello conformativo della sentenza di primo grado[25], per di più nel caso in cui investa un profilo pregiudiziale (di rito o di merito) rivelatosi poi ininfluente sulla cognizione di merito richiesta al giudice dell’ottemperanza, in ordine alla pronuncia favorevole.
Altra cosa è che il giudice di appello ampli il contenuto conformativo della pronuncia di primo grado o vi imprima una differente portata: è solo in tal caso che può parlarsi di un contenuto conformativo proprio della sentenza di appello, idoneo a incardinare nel Consiglio di Stato la competenza funzionale ai fini del giudizio di ottemperanza, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, c.p.a., che individua nel giudice che ha posto l’obbligo conformativo, quello naturalmente idoneo a garantire il corretto collegamento tra cognizione ed esecuzione, attraverso l’interpretazione della portata effettiva del proprio dictum[26].
La conclusione parrebbe semplice, se non fosse che su tale argomento sono scorsi fiumi di inchiostro[27].
* * *
[1] Quasi sottovoce – con la l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali – il legislatore nazionale ha implicitamente conferito dignità normativa all’applicazione pretoria dell’istituto processuale di cui all’art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa. Ciò ha fatto con disposizioni (contenute nell’art. 37, co. 3 e 4, della legge citata) aventi a oggetto la distribuzione della competenza funzionale fra giudice di primo e di secondo grado (rispettivamente i T.A.R. di nuova istituzione e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale) che, implicitamente, danno per acquisito all’ordinamento l’istituto processuale, con l’anzidetta funzione espansiva (rispetto alla formula contenuta nel T.U.). E invece – sebbene al tempo della emanazione del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, fosse superata (anche a livello legislativo) la vexata questio della natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dagli interessati per l’annullamento dei provvedimenti definitivi viziati da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere – nell’art. 27 del T.U. fu trasfuso l’originario art. 4, co. 4 della c.d. legge Crispi, senza ampliarne la portata applicativa. O. Quarta, Discorso del procuratore generale della Corte di cassazione di Roma, del 4 gennaio 1910, nel quale si rinviene (pp. 46 e ss.) un’ampia ed argomentata prolusione a sostegno della natura giurisdizionale delle decisioni della Sez. IV del Consiglio di Stato, dà conto di quanto fosse sentito, al tempo, il problema. Alla fine fu la storica sentenza del Consiglio di Stato, n. 181 del 2 marzo 1928, che per la prima volta estese il rimedio di cui all’art. 27 del T.U., anche alle sentenze amministrative, dando avvio a quella che – a distanza di anni – fu tacciata di essere una “bruta normazione giurisprudenziale” (M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Milano 1983, p. 65).
[2] Art. 37, co. 4. l. n. 1034 del 1971.
[3] Fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6767; sez. VI, 20 luglio 2009, n. 4554, nelle quali si rinviene il principio (poi confermato da Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2011, n. 3316) secondo cui la competenza del T.A.R., in sede di ottemperanza al giudicato, resta sempre preclusa quando la pronuncia del Giudice di appello ha diversamente definito una questione di natura cognitoria, ovvero ha diversamente connotato l’esatto significato e la portata della sentenza da eseguire, modificando quindi l’assetto degli interessi definiti in primo grado.
[4] Il che si verifica, come sarà meglio precisato oltre, quando il percorso decisionale attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alla conferma del contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale di primo grado, sulla base di un di percorso argomentativo che si discosta significativamente da quello seguito dal giudice di primo grado. Si veda sul punto Cons. di Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489, citata nella sentenza in commento.
[5] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[6] Per un approfondimento in ordine alla figura del commissario ad acta, V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Milano, 2002, Agg. VI, pp. 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001, pp. 1 e ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, Roma, 2001, Fasc. 1, II, pp. 1 e ss.
[7] V. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2017, n. 5058, punto 2.5 del “diritto”, in cui si afferma che il giudice amministrativo in sede di ottemperanza è il “giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 6 novembre 2017, n. 26259, ma, ancor prima, Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, punto 2 del “diritto”. Sul punto si veda l’approfondimento di F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, in particolare pp. 208 e ss.
[8] Art. 25, co. 1, Cost.
[9] Il problema era emerso già in vigenza della l. n. 1034 del 1971 in assenza, ivi, di regole procedurali sul giudizio di ottemperanza. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 23 del 14 luglio 1978 (su ordinanza di remissione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana), aveva affermato il principio della inappellabilità dei “provvedimenti” emessi dal T.A.R. nell’ipotesi di cui all’art. 37, co. 1, l. n. 1034, desunto, oltre che dalla coordinata lettura delle regole procedimentali di cui all’art. 90 del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907 n. 642, dalle finalità proprie della misura e dal criterio di ripartizione funzionale della giurisdizione fra T.A.R. e Consiglio di Stato, che vedeva, appunto quest’ultimo giudice operare come giudice unico nei giudizi attribuiti alla sua competenza in base ai commi 3 e 4 del medesimo art. 37. Tale rigida impostazione incontrò critiche della dottrina (per tutti, F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, pp. 4 e ss. e, più recentemente, C. E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1264) e ripensamenti giurisprudenziali. Il medesimo Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 2 del 1980, ebbe a precisare che le sentenze dei T.A.R. emesse ai sensi dell’art. 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 non sono appellabili là dove contengono mere misure attuative del preesistente giudicato, sempre che queste ultime non si sostanzino in statuizioni aberranti o comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza; mentre l’appello contro le dette sentenze è consentito là dove il T.A.R. abbia pronunciato – ovvero abbia illegittimamente omesso di pronunciarsi – sulla regolarità del giudizio di ottemperanza, sulla ammissibilità dell’azione esperita, nonché sulla fondatezza della pretesa azionata: dunque, l’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del T.A.R. era ammissibile, ma solo quando questa non si limitava a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell’azione e sulla fondatezza della pretesa azionata. A sua volta le S.U. della Suprema Corte di Cassazione, con sent. 24 novembre 1986, n. 6895 – ribadito l’orientamento espresso nelle sent. nn. 175 del 1984 e 648 del 1982 – ha alfine sciolto ogni dubbio, con articolata motivazione che ha valorizzato, innanzitutto, la natura pienamente giurisdizionale delle sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza e l’applicazione alle medesime della ordinaria appellabilità contemplata per le sentenze T.A.R., indipendentemente dalla circostanza che l’art. 37 della l. T.A.R. demandasse il giudizio di ottemperanza ai T.A.R. solo per talune specifiche ipotesi, affidando le altre ipotesi direttamente al Consiglio di Stato, in unico grado.
[10] È il caso di ricordare, al riguardo, che la Corte Costituzionale, con sentenza 31 dicembre 1986 n. 301, ha affermato che “le garanzie del doppio grado di giurisdizione assurgono ad oggetto di norma costituzionale soltanto nell'area dell'art. 125 Cost. riflettente l’appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze dei tribunali amministrativi di primo grado”.
[11] V. nota che precede.
[12] Ci si riferisce ai principi euro-unitari e a quelli CEDU e alla loro vincolatività nell’ordinamento interno. Sul tema, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 17 novembre 2015, n. 35532, sulle quali pone anche l’accento C. Deodato, I possibili rimedi avverso la sentenza di ottemperanza contrastante con il giudicato, in giustizia-amministrativa.it, 2017, note 8 e 9. Ma è di chiovendiana provenienza il principio della effettività della tutela giurisdizionale, dovuto proprio ai lungimiranti insegnamenti di cui siamo debitori all’illustre Maestro della processualistica italiana, che l’elaborò, ben prima che divenisse “valore” di portata costituzionale. Sul punto, G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1930, Vol. I, pp.101 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, ora Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 81, dove si legge che “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire”.
[13] Il pensiero sembra condiviso da C. Deodato, (op. cit. nella nota che precede, pp. 7 e ss.), nell’individuare “i possibili rimedi” avverso le sentenze pronunciate dal Consiglio di Stato, in unico grado, implicante anche il convincimento della sostanziale equivalenza di tali rimedi. Per la precisone, pur non nascondendo l’esistenza di criticità, l’Autore individua come utilizzabili nella fattispecie considerata il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione per contrasto con un precedente giudicato, fornendone poi illustrazione sufficientemente convincente.
[14] Soltanto incidentalmente, si ricordano in questa sede gli interessanti contributi, in tema di spese del giudizio, di M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574; nonché, Corte Cost. sent. n. 77 del 2018.
[15] G. Barbagallo, Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, p. 233 fa un dettagliato excursus su stile e funzioni delle decisioni del Consiglio di Stato italiano, indicando (come connotazione tipica delle argomentazioni contenute nella “sentenza amministrativa” la funzione “di conformare il futuro comportamento della Pubblica Amministrazione”, con evidente riferimento alle decisioni di accoglimento dei ricorsi giurisdizionali volti all’annullamento del provvedimento lesivo.
[16] C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), VII, Torino, 2017, p. 611.
[17] Vd. nota che precede.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[19] Testualmente, la sentenza citata nella nota che precede precisa che “il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce, normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione”.
[20] Per una visione panoramica dei processi evolutivi, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, in particolare pp. 287 e ss.; F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, pp. 171 e ss.; Id., Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, pp. 52 e ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 976 e ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, pp. 226 e ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, pp. 369 e ss.
[21] Vd., al riguardo, art. 34, c.p.a.
[22] A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. Amm., 2003, p. 757, con particolare riferimento alla nota n. 63.
[23] Al riguardo, su tutti, si veda M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, pp. 280 e ss.
Una singolare corrente di pensiero, sostenuta dalla Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana (pareristica a cura dell'Avvocatura generale dello Stato), ha propugnato la necessità di codificare una sorta di c.d. “schema conformativo” delle pronunce giurisdizionali di merito, corrispondente a quello inaugurato dal T.A.R. Piemonte, nel periodo 2010/2011 (si vedano le sentt. T.A.R. Piemonte, Sez. I, nn. 1488/2010, 385/2011,785/2011). Eloquente, al riguardo, E. Michetti, Una nuova prospettiva per la giustizia amministrativa – Lo schema conformativo, Montecompatri, 2012, nel cui ambito in particolare si segnalano, F. Bianchi, Prefazione, pp. 2 e ss.; del medesimo Autore, E. Michetti, Prefazione, pp. 6 e sss, nonché, nel volume, Conclusioni – Sperimentazione schema conformativo: obiettivi e finalità per una giustizia “misura”, pp. 151 e ss.
[24] Cons. Stato, Sez. V, 11marzo 2020, n. 1738, cit.
[25] In questo senso, si vedano, fra i più recenti precedenti giurisprudenziali, Cons. di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2017 e Sez. IV, 1° febbraio 2017, n. 409 e 2 luglio 2014, n. 3331.
[26] Oltre le sentenze citate nella nota che precede, e la stessa sentenza Cons. di Stato, Sez. VI, n. 5485 del 2020 che ha ispirato il presente contributo, v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612 e A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
[27] Vanno infatti ad intersecarsi, con la questione in esame, problematiche di più ampio respiro, quali derivanti dalla natura mista del giudizio di ottemperanza, di cognizione ed esecuzione, che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva. Il giudizio di ottemperanza si caratterizza in modo diverso a seconda della tipologia di provvedimento di cui si chiede l’attuazione e del peculiare contenuto dello stesso. Ad esempio, ove il contenuto conformativo investa il comportamento che l’amministrazione dovrà tenere in seguito ad una sentenza emessa sul silenzio serbato dall’amministrazione in relazione a un’istanza sulla quale il giudice amministrativo ha riconosciuta la sussistenza dell’obbligo di provvedere, lo iussus conformativo deve essere relazionato al tipo di azione e di tutela che l’ordinamento ha consentito di apprestare con tale azione con necessario adattamento degli insegnamenti dottrinali in ordine alla funzione tipica del giudizio di ottemperanza, come. d es., fra gli altri, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, pp. 1025 e ss.
Idee controcorrente sullo spettro della “patrimoniale” [1]
di Andrea Manzitti
Sommario: 1. Premesse - 2. I tradizionali difetti delle imposte patrimoniali - 3. I pregi delle imposte patrimoniali - 4. ...e i difetti dell’imposizione patrimoniale vigente in italia - 5. Le alternative possibili per un aumento del gettito - 6. Ipotesi sul design di una nuova imposta patrimoniale, in sostituzione delle vigenti imposte patrimoniali.
1.Premesse
Il 13 luglio 2020, in piena pandemia, 83 tra le persone più ricche del mondo hanno sottoscritto un appello chiedendo di pagare più tasse. L’appello chiude così: “diversamente da decine di milioni di persone, un po' ovunque nel mondo, noi non temiamo di perdere il lavoro, la casa o la capacità di supportare le nostre famiglie. Non siamo in prima linea a fronteggiare l’emergenza. Assai difficilmente ne saremo vittime. Quindi, per favore, tassateci. Tassateci. Tassateci. È la scelta giusta. È l’unica scelta.”
Questa è solo una tra le tante recenti iniziative volte a stimolare una discussione sull’opportunità di aumentare l’imposizione sul patrimonio per fronteggiare l’enorme costo dell’emergenza pandemica e contribuire al progressivo riequilibrio dei bilanci pubblici.
Che sia necessario aumentare la pressione fiscale complessiva – almeno per qualche anno - pare dunque scontato, anche se nessun politico ha interesse ad ammetterlo. D’altro canto, in politica si hanno molte idee su quali imposte ridurre, ma quando si tratta di indicare quelle da aumentare la discussione si fa rarefatta.
Le imposte patrimoniali paiono essere le meno gradite, in assoluto. Anzi, chi non le esclude “senza se e senza ma” viene marcato da una sorta di “lettera scarlatta” riservata a chi offende la “moralità pubblica”.
Le tasse piacciono solo a chi non le paga, con poche eccezioni. Chi (Tommaso Padoa Schioppa) ha ricordato che sono “un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute", è stato però bollato come un folle da chi, descrivendole come un modo per “mettere le mani in tasca agli italiani”, le assimila ad un furto con destrezza.
Detto questo, bisogna capire perché le imposte patrimoniali paiono essere molto in alto nella speciale classifica del disgusto sociale. Come ricorderò più avanti, in Italia esistono parecchie imposte patrimoniali e non mi pare che siano detestate più delle altre. È peraltro vero le tasse, meno sono visibili meno si rendono odiose. Si pensi all’IVA: la pagano tutti, in modo proporzionale ai propri consumi, ma nessuno si lamenta. Questo perché è quasi sempre inglobata nel prezzo di acquisto di un bene o di un servizio e la si paga senza accorgersene.
Montesquieu suggeriva ai governi di adottare le imposte sui trasferimenti perché, se saggiamente calibrate, “il popolo non si accorgerà neppure di quel che sta pagando”. In tempi moderni, l’inclusione dell’IVA nel corrispettivo di tanti consumi privati maschera perfettamente l’onere tributario agli occhi del reale contribuente. Tanto che quello stesso contribuente neppure sa di essere un evasore quando accetta di pagare 80 euro “in nero” invece di 100 euro “con fattura”, non percependo che quello sconto è più o meno pari all’IVA che avrebbe dovuto pagare.
Una tassa nuova o percepita come nuova, soprattutto se di applicazione generale, è più difficilmente accettata di una tassa abilmente nascosta o dell’aumento di una tassa esistente.
C’è anche da dire che le imposte patrimoniali vengono percepite come una minaccia all’integrità di risparmi accumulati lentamente e con grande fatica. Andrebbe corretta anche questa prospettiva. Già oggi quei risparmi sono, almeno in parte, intaccati dalle imposte patrimoniali. Anzi, come vedremo in seguito, l’imposizione patrimoniale esistente è fortemente sperequata (poiché si tassano principalmente i fabbricati, ma non la “prima casa”) e fondamentalmente regressiva (poiché risultano tassate ad aliquote ridotte, se non esenti, le ricchezze diverse da quella immobiliare, e sono soli i contribuenti abbienti a potersele permettere) .
Riorganizzando l’intero comparto impositivo, il sistema risulterà molto più equo di quello attuale e l’imposizione si concentrerà sui contribuenti con maggiore capacità contributiva. Così spiegata, l’idea della “patrimoniale” potrebbe cessare di provocare reazioni così negative.
Fatte queste premesse, credo sia utile esaminare pregi e difetti delle imposte patrimoniali non già in assoluto, ma (a) in contrapposizione con altre forme di prelievo e (b) in relazione all’attuale congiuntura economica.
La domanda a cui mi penso sia opportuno dare risposta è la seguente: assumendo che sia necessario aumentare il livello della pressione fiscale per riequilibrare i conti pubblici sfiancati dal debito e dalla pandemia, dove può essere concentrato l’aumento in modo che risulti equo e meno dannoso per la crescita economica?
Una nuova imposta patrimoniale di tipo personale, con una ampia base imponibile ampia e di tipo progressivo è, a mio parere, una buona risposta a questa domanda.
Vediamo perché, iniziando con lo sfatare le obiezioni tradizionalmente sollevate da chi è contrario alle imposte di questo tipo.
2. I tradizionali difetti delle imposte patrimoniali
La principale obiezione è che l’imposta patrimoniale è ordinata in funzione del patrimonio e si paga con il reddito del patrimonio stesso. Dunque, l’imposta patrimoniale si aggiunge alle imposte che già gravano sul reddito. Se per pagare l’imposta patrimoniale il contribuente è costretto a vendere parti del patrimonio, il capitale verrebbe sistematicamente “distrutto”.
L’argomento è serio ma non deve essere sopravvalutato. In primo luogo, se esistono ragioni costituzionali perché l’ordinamento tributario aiuti ed incoraggi la conservazione del capitale (art. 47, Cost.) certamente non si tratta dell’unico obiettivo costituzionalmente tutelato e va quindi armonizzato con molti altri, primi fra tutti i doveri solidaristici e tributari.
Inoltre, il fatto che l’imposta patrimoniale possa aggiungersi a quella sul reddito non vale solo per questa imposta. Consumando, ognuno di noi paga l’IVA, ma consumiamo quel che ci resta del reddito dopo averci pagato le imposte, oppure usando il risparmio, che ben potrebbe essere già “tassato”. Alcune imposte sono dovute anche senza in mancanza di reddito. L’IRAP si deve spesso pagare anche quando l’impresa è in perdita. Anzi, questa caratteristica ha fatto insorgere i suoi molti detrattori, che però non hanno compreso che non si tratta di una imposta sul reddito, ma ha un presupposto diverso ed autonomo. Infine, le imposte sui trasferimenti (registro, ipotecaria catastale, successione e donazione) si applicano anche su capitali formati con redditi già tassati. E nessuno grida allo scandalo.
Il problema della liquidità – quando cioè il contribuente non ha il denaro con cui adempiere all’obbligo di pagare le imposte e non riesce a vendere i propri beni - può essere in gran parte risolto fissando una soglia di esenzione adeguata. Infatti, le tensioni di liquidità sono più facilmente risolvibili man mano che aumenta la dimensione del patrimonio netto.
Inoltre, la scarsa liquidità di un bene patrimoniale dovrebbe essere riflessa nel suo minor valore, ciò che aiuterebbe ulteriormente a ridurre l’inconveniente. La base imponibile dell’imposta patrimoniale dovrebbe essere il valore di mercato dei beni, cioè il prezzo al quale quel bene può essere scambiato con il denaro. Se un bene non è vendibile, o lo è solo a condizioni svantaggiose, il suo valore scende, e questo riduce la base imponibile e l’imposta dovuta. Infine, si potrebbero prevedere congrue dilazioni nel pagamento dell’imposta in caso di situazioni di comprovate difficoltà a monetizzarne la parte necessaria al pagamento del tributo.
Un altro argomento tradizionale è quello secondo cui l’imposta patrimoniale potrebbe essere facilmente evasa, trasferendo all’estero il patrimonio “mobile”, così nascondendolo agli occhi dell’amministrazione finanziaria.
L’obiezione non tiene in conto gli straordinari progressi nella creazione di una rete internazionale di scambi di informazioni tra le amministrazioni fiscali, così fitta da aver reso estremamente pericoloso spostare o detenere capitali all’estero senza dichiararli al fisco. Guardando avanti, il rischio di essere scoperti (o che ad esserlo sia l’intermediario a cui ci si deve necessariamente affidare) aumenterà di certo.
Il vero rischio, dunque, non è tanto che si verifichi una fuga di capitali, quanto piuttosto che fuggano all’estero i “capitalisti” con i loro capitali al seguito. È un rischio obiettivo, ma non irrimediabile (ad esempio, con una congrua “exit tax”) e certamente non tale da consigliare di abbandonare l’idea, soprattutto se il nuovo tributo patrimoniale risulterà equilibrato e non tale da spingere all’esilio fiscale un numero significativo di contribuenti.
Un’altra obiezione ricorrente è che l’imposta potrebbe essere elusa intestando i beni a società o enti di comodo. A questo inconveniente si può facilmente ovviare tassando le partecipazioni sociali e il patrimonio degli enti diversi dalle società.
Un’altra obiezione - corretta - è che in Italia esistono già varie forme di imposte di tipo patrimoniale e non ci sarebbe spazio per una in più. Questa è l’obiezione di gran lunga più sensata. Tuttavia, è vero che abbiamo già molte imposte patrimoniali (IMU, bollo-auto, registro, ipotecarie e catastali, successione e donazione, bolli sui conti bancari, IVAFE, ecc.) ma il comparto dell’imposizione patrimoniale ha bisogno urgente di una revisione, che porti alla sostituzione di tutte le imposte patrimoniali esistenti con un’unica imposta applicabile sull’intero patrimonio del contribuente.
3. I pregi delle imposte patrimoniali
Venendo ai pregi, quello più comunemente attribuito all’imposizione del patrimonio è la sua attitudine a contribuire alla riduzione delle disuguaglianze di reddito e di patrimonio.
La ricchezza è uno dei principali indici di capacità contributiva. Il suo accumulo, tuttavia, è un fenomeno che rinforza sé stesso. In mancanza di un adeguato prelievo fiscale patrimoniale, la dimensione dei patrimoni aumenta in modo naturale. Le imposte sul reddito costituiscono, per definizione, una frazione del reddito stesso. Se il prelievo sulle rendite finanziarie è fissato al 26%, per ogni 100 euro di rendita incassata, al contribuente ne rimangono 74. Se non è spesa, la parte residua del reddito si cumula al patrimonio esistente, che dunque aumenta. I contribuenti ad alto reddito (da lavoro, impresa o capitale) hanno maggiore capacità di risparmio e quindi di accumulazione patrimoniale.
Inoltre, i rendimenti del patrimonio tendono ad aumentare con l’aumento del patrimonio stesso. Oltre a valutare opportunamente rischi e rendimenti, chi dispone di patrimoni elevati può contare sui consulenti migliori oltreché, talvolta, avere accesso a notizie riservate capaci di migliorare il rendimento del portafoglio investito. Si tratta di risorse inaccessibili ai meno abbienti, destinatari invece della indispensabile tutela normativa contro gli abusi.
Molti studi recenti hanno dimostrato che la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza aumenta nei periodi di crisi ed in quelli successivi. Altri studi suggeriscono che la diseguaglianza di redditi e patrimoni e la concentrazione dei patrimoni sono stati fattori causali importanti nella crisi finanziaria globale. Altri ancora suggeriscono che, storicamente, tutte le pandemie hanno acuito le diseguaglianze di reddito e di patrimonio. Non c’è motivo di credere che oggi sia diverso.
Insomma, se una maggiore uguaglianza nella distribuzione della ricchezza è un obiettivo desiderabile (e non è così per tutti, ovviamente) non esiste momento migliore per pensare di avvicinarsi ad essa aumentando l’imposizione patrimoniale e rendendola moderatamente progressiva.
4. ...e i difetti dell’imposizione patrimoniale vigente in Italia
Più di due terzi dell’intero gettito italiano delle imposte patrimoniali deriva dal comparto immobiliare, il che è comprensibile se si considera la maggiore dimensione del patrimonio immobiliare degli italiani (circa 6500 miliardi) rispetto a quello mobiliare (circa 3500 miliardi).
Nell’ambito della fiscalità immobiliare, la casa di abitazione gode di un trattamento estremamente favorevole. Su di essa non è dovuta né l’IMU né (fino a quando esisteva) la TASI, tranne quando l’abitazione è considerata di lusso. Il suo trasferimento sconta imposte sui trasferimenti con aliquote ridotte. Gli interessi passivi sul mutuo cd. “prima casa” danno diritto ad una generosa detrazione fiscale, nonostante sia stata abrogata la tassazione del reddito figurativo della casa di abitazione.
Pertanto, il peso effettivo delle imposte che gravano sulla proprietà immobiliare si concentra sulle seconde case e sugli immobili detenuti dalle imprese.
Il motivo delle generose esenzioni riservate alla “prima casa” è comprensibile e, per certi versi, condivisibile. Si comprende meno perché non siano previste analoghe facilitazioni per chi decide di destinare il proprio “primo risparmio” ad impieghi diversi, ad esempio, un cd. “giardinetto” di titoli azionari.
La base imponibile dell’IMU e degli altri tributi sul trasferimento di proprietà immobiliare è per lo più determinata sulla base delle rendite catastali, che conducono a “valori fiscali” sempre più distanti ed erraticamente diversi dai valori di mercato. Si stima che il valore effettivo di tutti gli immobili (terreni e fabbricati) sia complessivamente circa il doppio del loro valore catastale, ma il differenziale tra i valori effettivi di mercato e quelli catastali tende ad aumentare per i segmenti più ricchi (in termini di ricchezza abitativa posseduta) dei proprietari. Nei centri storici delle grandi città, i valori catastali sono anche 10 volte inferiori ai valori di mercato, e soltanto i più abbienti possono permettersi in proprietà o in affitto. Nei piccoli e piccolissimi centri, per effetto del loro progressivo svuotamento, accade esattamente il contrario.
Ma c’è di più. Le imposte che colpiscono il possesso o il trasferimento del patrimonio oggi esistenti (con l’eccezione delle imposte di successione e donazione) sono applicate sul valore lordo del bene posseduto o trasferito, senza tenere conto delle passività. Non esiste alcuna giustificazione logica perché la proprietà di un immobile acquistata accendendo un mutuo sconti la medesima IMU dell’immobile acquistato senza ricorso all’indebitamento. Nel primo caso, infatti, il patrimonio netto del possessore è assai minore di quello del secondo possessore ma l’imposta dovuta è la stessa.
L’imposizione al lordo delle passività è ancor più iniqua se si pensa che sono i contribuenti meno abbienti quelli più probabilmente costretti a indebitarsi per acquistare gli immobili, mentre per i più abbienti l’accensione di un mutuo è spesso frutto di una scelta di convenienza finanziaria. Dato che, salvo il caso di lasciti ereditari o donazioni, il patrimonio cresce con l’età, questa caratteristica dell’attuale sistema tributario penalizza inoltre le fasce più giovani della popolazione.
La tassazione immobiliare è quindi iniqua, sotto molteplici punti di vista.
Le cose non sono molto migliori guardando alle imposte patrimoniali su beni diversi dagli immobili. Alcuni sono esclusi da qualsiasi imposta (opere d’arte, gioielli, ecc.). Gli investimenti finanziari scontano generalmente una imposta del 2 per mille, meno di un quarto dell’aliquota base dell’IMU (8,5 per mille), con una soglia di esenzione assai modesta (5.000 euro di giacenza media).
La ricchezza finanziaria è privilegio di pochi rispetto ai tanti, spesso piccoli, proprietari immobiliari. Quindi, la minore imposizione patrimoniale su chi ha la fortuna di potersi permettere investimenti di tipo finanziario, normalmente oltre a quelli immobiliari, rende il sistema regressivo.
Per chi non crede nelle virtù della cd. “flat tax”, una dei maggiori difetti dell’attuale sistema tributario è la sua mancanza di progressività. Il tasso di progressività è in continua attenuazione anche nel settore dell’imposizione del reddito, quello in cui, tradizionalmente, esisteva una progressività più marcata che in altri comparti impositivi.
Per effetto di aggiustamenti susseguitisi nel tempo, forse senza grande consapevolezza strategica, il nostro sistema dell’imposizione reddituale ha ormai sposato il modello della dual income tax. La sua caratteristica fondamentale è la separazione tra il reddito da capitale e il reddito da lavoro (dipendente o autonomo). Quest’ultimo è tassato ad aliquote progressive, mentre il reddito da capitale è tassato ad aliquota proporzionale.
L’abbandono della tassazione progressiva sulle rendite finanziarie e sugli altri redditi aventi natura analoga (come la cd. “cedolare secca” sulle locazioni immobiliari) genera effetti distorti che meritano molte riflessioni.
Si prenda il caso di tre persone fisiche il cui unico reddito è costituito dal rendimento di un capitale investito in titoli obbligazionari che generano un interesse del 5% annuo.
Tizio ha 200.000 euro, Caio 2.000.000 e Sempronio 20.000.000.
La tabella che segue mostra le imposte sostitutive (oggi all’aliquota del 26%) dovute da ognuno di loro e le imposte (arrotondate) che sarebbero dovute qualora le rendite finanziarie fossero assoggettate alle aliquote progressive dell’IRPEF.
|
Reddito |
Imposta |
IRPEF teorica |
Differenza |
in percentuale |
Tizio |
10.000 |
2.600 |
1.300 |
1.300 |
+100>#/b### |
Caio |
100.000 |
26.000 |
36.200 |
-10200 |
-39>#/b### |
Sempronio |
1.000.000 |
260.000 |
423.200 |
-163.200 |
-63>#/b### |
Il risultato è sconcertante. Tizio, il contribuente meno abbiente, finisce per pagare il doppio delle imposte sul reddito che avrebbe pagato in un sistema progressivo. Quello più abbinete (Sempronio) risparmia paga il 63% in meno. Caio paga il 40% di imposte in meno di chi ha prodotto lo stesso reddito con il proprio lavoro e non ha patrimonio.
L’esempio vale anche nel caso di investimento in immobili invece che in titoli obbligazionari. Basta rifare i calcoli utilizzando l’aliquota del 21%.
Sono storture degne di essere affrontate e risolte. L’imposta annuale sul patrimonio netto è uno dei modi per farlo.
5. Le alternative possibili per un aumento del gettito
Questo scritto muove dalla premessa che sia prima o poi necessario aumentare la pressione fiscale e che sia necessario farlo in modo sostenibile, duraturo e non traumatico.
Prima di pensare alle imposte patrimoniali, si devono esaminare le alternative.
Qualcuno ritiene che bisognerebbe aumentare le aliquote IRPEF, non per tutti ma soltanto per i redditi elevati. Così è stato recentemente proposto in Italia.
Così facendo si rischia di rendere il sistema ancor più discriminatorio. Infatti, l’IRPEF è applicata con aliquote progressive soltanto sui redditi da lavoro e di impresa. I titolari di reddito d’impresa e i lavoratori autonomi dotati di organizzazione scontano anche l’IRAP. L’aliquota marginale su questi redditi, tenuto conto anche delle addizionali, sfiora il 50%. Non sembra esserci spazio per ulteriori aumenti.
Ma la vera discriminazione nasce dal confronto con l’imposizione delle rendite finanziarie e immobiliari, che sono i redditi tipici di chi ha la fortuna dei possedere un patrimonio. I redditi di questa natura sono soggetti ad aliquote IRPEF proporzionali e non progressive, e non scontano né IRAP né addizionali.
Bisognerebbe quindi ricondurre le rendite nell’alveo della progressività e poi, semmai, innalzare le aliquote progressive sui redditi complessivi più elevati. Non è né facile né giusto per tutte le rendite. Non è facile perché bisognerebbe spostare il peso dell’adempimento tributario dagli intermediari finanziari (che hanno obblighi di sostituzione e che possono prelevare imposte solo se queste sono proporzionali) al contribuente, aumentando quindi gli obblighi dichiarativi per tutti. Ma, soprattutto, non sarebbe giusto poiché alcune rendite (i dividendi, ad esempio) derivano da utili già tassati; la loro imposizione deve essere ridotta per evitare fenomeni di doppia imposizione economica sugli utili d’impresa, deleteri per l’intero sistema produttivo.
Ad ogni modo, molti “super ricchi” hanno patrimoni considerevoli e redditi imponibili risibili, e non perché evadono. Si prenda il caso di Warren Buffet, che da decenni figura nella parte alta della classifica degli uomini più ricchi del mondo. Nel 2015 gli veniva attribuito un patrimonio di 62 miliardi di dollari, costituito principalmente dalla partecipazione di maggioranza nella Berkshire Hataway, una gigantesca società di investimento quotata in borsa. Considerando un rendimento annuo del 5% sul valore del patrimonio, Buffet dovrebbe poter contare su un utile annuo di circa 3 miliardi di dollari. Ebbene, nel 2015 ha pagato imposte per “soli” 1,8 milioni di dollari, equivalenti allo 0,058% del suo reddito teorico. Il fatto è che la Berkshire Hataway non paga dividendi ai suoi azionisti e reinveste sistematicamente tutti i propri utili. Altrettando fa fare alle società di cui acquista il controllo. Così facendo, e grazie ovviamente ad una politica di investimento di successo, anno dopo anno il valore delle azioni Berkshire Hataway aumenta: una azione vale oggi circa 300.000 dollari, 30 volte tanto quanto valeva 30 anni fa. Per provvedere alle sue necessità, ogni anno Buffett può vendere poche azioni. Vendendone anche solo 50, ricaverebbe 15 milioni di dollari, sui quali pagherebbe le imposte. Ma non sul resto. Anche se Warren Buffet pagasse imposte progressive, e se l’aliquota fosse del 50%, l’incidenza delle sue imposte personali rispetto alla dimensione del suo patrimonio rimarrebbe irrisoria.
Quindi, oltre a risultare quasi predatorio, l’aumento delle aliquote IRPEF per i redditi elevati o l’aumento dell’imposizione sulle rendite non porterebbe a granché.
Si potrebbe allora pensare di aumentare le imposte sugli utili societari. Questa non pare un’opzione valida, per svariate ragioni e, soprattutto, nell’attuale congiuntura.
Le imposte sugli utili societari (nominali ed effettive) sono, più di altre, dipendenti dalla concorrenza fiscale internazionale. Quest’ultima ha contribuito in modo decisivo alla drastica riduzione delle aliquote di questa imposta. L’OCSE ha calcolato che nell’ultimo ventennio, la media mondiale dell’aliquota dell’imposta sulle società è scesa dal 28,6% del 2000) al 21,4% del 2018. Nei Paesi OCSE, la diminuzione è stata ancor più marcata, passando dal 32,5% del 2000 al 23,9% del 2018. Con il 37% di IRPEG nel 2000 e il 24% dell’IRES nel 2018, l’Italia si collocata sopra alla media.
È dibattuto se ed in quale misura le aliquote d’imposta effettive (non tanto quelle nominali) influiscano sulle decisioni di investimento. Senza voler entrare in questo dibattito, mi pare intuitivo che l’aumento delle imposte sulla produzione di ricchezza scoraggi la ripresa economica più di un aumento di altri tipi di imposte. Non a caso, dopo la crisi finanziaria della fine del decennio scorso, tutti i principali istituti internazionali di ricerca, l’OCSE e il Fondo Monetario Internazionale suggerivano ai governi di non ostacolare la ripresa economica aumentando e imposte sulla produzione ma facendo piuttosto ricorso alle imposte indirette e/o patrimoniali.
Esiste ampio consenso sul fatto che le imposte sui redditi hanno effetti assai più distorsivi sulla crescita rispetto ad altre forme di imposizione.
L’idea di aumentare in modo significativo il gettito con prelievi speciali sui redditi societari come la “web tax” è priva di fondamento. L’Italia non può pensare di agire al di fuori di un contesto internazionalmente condiviso. Il consenso su questo tema ancora non esiste e le stime disponibili sull’aumento di gettito per un Paese come il nostro non autorizzano alcun ottimismo.
Da ultimo, si potrebbe pensare di aumentare il peso delle imposte sui consumi, in particolare, l’IVA. L’IVA e le altre imposte sui consumi, come le accise, sono infatti considerate meno distorsive di quelle sul reddito. E’ vero che l’aumento delle imposte sul consumo riduce il potere d’acquisto (e dunque i consumi) ma è altrimenti neutrale sulla produzione. Quindi, un aumento delle imposte sui consumi avrebbe minori effetti negativi sulla produzione rispetto ad un aumento delle imposte dirette.
Inoltre, l’Italia ha un sistema IVA tra i meno performanti d’Europa, in termini sia di policy gap (cioè la perdita di gettito derivante dalle scelte legislative principalmente sulle aliquote ridotte) sia di compliance gap (sostanzialmente coincidente con il perimetro dell’evasione).
C’è dunque opportunità e spazio per irrobustire il contributo dell’IVA al gettito complessivo, aggredendo il compliance gap, cioè l’evasione IVA al consumo e le frodi carosello. Su questo fronte, tuttavia, molto è già stato fatto e si ha l’impressione che l’ottenimento di ulteriori significativi progressi richiederebbe interventi strutturali assai pesanti.
La riduzione del policy gap – ed il conseguente aumento strutturale del gettito - può avvenire mediante l’aumento delle aliquote ridotte e/o dell’aliquota ordinaria. Il consenso verso questa ipotesi sarebbe assai difficile da ottenere.
Quel che più importa è che le imposte sul consumo non sono per nulla progressive; anzi, sono tendenzialmente regressive. L’IVA colpisce infatti i consumi ed incide quindi molto di più sui consumi necessari dei meno abbienti rispetto ai consumi anche voluttuari degli altri. L’aumento dell’IVA ridurrebbe ulteriormente la progressività del sistema tributario nel suo complesso. Questo fatto, unito agli effetti negativi sul potere di acquisito e dunque sui consumi delle famiglie, rende questa ipotesi largamente sub-ottimale.
6. Ipotesi sul design di una nuova imposta patrimoniale, in sostituzione delle vigenti imposte patrimoniali
L’aumento della pressione tributaria concentrato sulle imposte patrimoniali pare dunque essere una ipotesi seria e praticabile.
La proposta è l’introduzione di una imposta personale sul patrimonio netto complessivo sostitutiva di tutte le imposte patrimoniali esistenti, con una congrua fascia di esenzione, elementi di progressività e oggetto di dichiarazione annuale al pari dell’imposta sui redditi delle persone fisiche.
Le sue principali caratteristiche dovrebbero essere le seguenti.
I soggetti passivi saranno le persone fisiche, residenti e non residenti. I residenti dovranno includere nell’imponibile anche i beni detenuti all’estero. Per i non residenti, la base imponibile sarà invece costituita solo dai beni che si trovano fisicamente nel territorio dello Stato (in pratica, solo gli immobili o le quote di società prevalentemente immobiliare).
Dovranno essere inclusi tra i soggetti passivi anche gli enti non commerciali che detengono beni patrimoniali a beneficio diretto o indiretto di persone fisiche, identificate anche per classi (come ad esempio i trust e le fondazioni di famiglia), con esclusione degli enti del terzo settore.
La base imponibile deve essere comprensiva dell’intero patrimonio posseduto dal contribuente, valutato a valori di mercato (laddove questo sia accertabile) o al costo di acquisto, al netto dei debiti specificamente insistenti sul bene stesso. Tendenzialmente, resterebbero esclusi soltanto i beni di consumo o di utilizzo corrente.
In mancanza di meglio e in attesa del nuovo “catasto dei valori” gli immobili saranno valorizzati sulla base del loro valore catastale. Per i beni acquisiti a titolo oneroso in tempi recenti, si potrebbe tuttavia utilizzare il prezzo di compravendita, che risulterà valido per la base imponibile del venditore e del compratore.
Penso che sia massimamente opportuno stabilire una congrua soglia di esenzione, in modo da evitare che l’imposizione gravi sui patrimoni netti di ammontare modesto e sia così sfavorito il risparmio.
Per motivi di equità, le aliquote dovranno essere moderatamente progressive e valide per tutto il territorio nazionale, non fosse altro che per impedire la concorrenza fiscale tra enti territoriali che si scatenerebbe altrimenti. Ciò impone di esaminare e risolvere il problema di come ripristinare il potere impositivo degli enti locali, attualmente destinatarie del gettito di molte imposte patrimoniali che, nel nuovo scenario, saranno abrogate.
La misura delle aliquote e la soglia di esenzione dovranno essere stabilite in base agli obiettivi di gettito, alla struttura e distribuzione della ricchezza dei soggetti passivi e al numero delle imposte da sostituire.
Purtroppo, le informazioni disponibile sulla distribuzione attuale della ricchezza non sono sufficientemente granulari per consentire stime affidabili sul gettito della nuova imposta sul patrimonio netto e sui suoi effetti distributivi. Uno dei benefici collaterali della nuova imposta sarà proprio la disponibilità di masse di dati assai utili per le future scelte di politica fiscale.
Si potrebbe considerare l’introduzione graduale della nuova imposta, ad esempio introducendo per prima cosa l’obbligo della dichiarazione annuale, con una aliquota “di controllo” (ad esempio, l’uno per mille), magari detraibile dalle imposte patrimoniali esistenti, che nel frattempo dovranno essere mantenute. Una volta che sia disponibile il quadro della composizione dei patrimoni individuali, potranno essere effettuate le opportune valutazioni circa la struttura delle aliquote della nuova imposta che, come detto, dovrà sostituire quelle esistenti.
Come ricordato, il patrimonio netto dovrà essere oggetto di dichiarazione annuale, da presentarsi unitamente alla dichiarazione dei redditi o, in caso di assenza di redditi oggetto di dichiarazione, in una dichiarazione separata.
Ciò consentirebbe la verifica della sostanziale correttezza anche della dichiarazione dei redditi. Infatti, la differenza tra il patrimonio finale e quello iniziale di cui non fosse provata l’origine non reddituale dovrà essere coerente con il reddito dichiarato.
La variazione dei dati della dichiarazione patrimoniale annuale non potrà certo consentire di quantificare l’eventuale evasione con la precisione dei preparati galenici. Non dovranno quindi essere consentiti automatismi accertativi basati solo sull’incremento del patrimonio, potenzialmente ingiusti quanto l’evasione fiscale.
Tuttavia, in presenza di scostamenti rilevanti tra reddito "teorico" e reddito dichiarato si giustificherebbe quanto meno un controllo più approfondito, con la richiesta al contribuente di giustificare in modo plausibile la differenza.
La sempre maggiore disponibilità di dati sui patrimoni degli individui consentirà la predisposizione di dichiarazioni patrimoniali pre-compilate, che il contribuente dovrà soltanto controllare, apportando le necessarie variazioni.
Con le caratteristiche sopra descritte, la “patrimoniale” potrebbe forse cessare di essere la forma più odiosa di tassazione e se ne potranno apprezzare i pregi, soprattutto la sua capacità di contribuire alla diminuzione delle disuguaglianze.
[1] Questo scritto sintetizza, in larga parte, quanto contenuto nel mio articolo “Per una nuova imposta italiana sul patrimonio netto”, pubblicato sulla rivista Rassegna Astrid nell’agosto di quest’anno.
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