ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La semplice verità di Michele Taruffo
di Andrea Apollonio e Carlo Vittorio Giabardo
In questo ultimo frammento d’anno ci ha raggiunto la notizia della scomparsa del Professor Michele Taruffo; un autentico Maestro, di quelli, per davvero, in grado di fare la differenza per chi avesse avuto l’occasione, e il privilegio, di incontrarlo sulla propria strada.
Ci lega, in particolare, un ricordo molto nitido di Michele Taruffo; lo conoscevamo, ciascuno per averlo incontrato su strade diverse: ma lo incontrammo insieme, in una fredda giornata milanese del 2015, nel suo studio, dove ci siamo messi a parlare fino a perdere la cognizione del tempo. Parlammo di diritto certo - egli stava preparando una conferenza in lingua spagnola sul ruolo della verità nella transitional justice, cioè dell’importanza sociale dell’accertamento veritiero dei fatti nei momenti successivi a una dittatura, tema poco ortodosso per un processualista, ma di fondamentale importanza nel dibattito internazionale - ma anche di vita; e discorrendo con lui ci fu evidente che, tra le due cose, non vi era opposizione, ma mutuo arricchimento. Il diritto, per Michele Taruffo, non è mai stato, nemmeno per un momento, statico formalismo, vuoto dogmatismo, ma autentica esperienza piena di complessità (declinata storicamente, comparativamente, filosoficamente, politicamente, ecc.). Poi passammo nella sua abitazione, attigua, e chiacchierammo fino a sera inoltrata assieme alla Professoressa Cristina De Maglie, moglie devota e innamorata (lo erano molto, l'uno dell'altra), incontrata tempo prima nei corridoio dell'Università di Pavia.
Lo avremmo incontrato poi altre volte (a Pavia, a Girona), ma questo piccolo grande ricordo congiunto di quella giornata, terminata con un gin-tonic, che Taruffo preparava - sotto gli occhi indulgenti della moglie - in maniera eccellente, forse troppo forte, rimane speciale.
Della figura di Michele Taruffo un aspetto in particolare non ha smesso di affascinarci: la sua enorme influenza al di fuori dai confini italiani, dall’Europa, specialmente in Spagna, all’America latina intera (dove era letteralmente osannato[1]), dagli Stati Uniti (dove aveva co-autorato, tra le altre cose, un fortunato manuale di American Civil Procedure[2]) fino, ultimamente, alla Cina (dove era stato Professore presso l’Institute of Evidence Law & Forensic Science, a Pechino), egli aveva dato un contributo fondamentale alla scienza giuridica. Cosa rarissima per un giurista italiano, e doppiamente complicata per un processualista: primo, perché già di per sé il diritto, si sa, è un campo di studio inevitabilmente connesso al proprio Paese di origine, e secondo, perché – tra tutte le materie – il diritto processuale civile, avendo a che fare (nell’immaginario collettivo, certo!) con corti nazionali e prassi giudiziali, appare quella più di altre legata al proprio contesto domestico, la meno “universalizzabile” di tutte.
Ebbene: leggere Michele Taruffo, conversare con lui, ascoltarlo, aveva la stessa funzione dell’aprire una finestra e fare entrare una ventata di aria fresca e ventosa nella stanza chiusa e appesantita del diritto (processuale civile) inteso principalmente come insieme di regole tecniche e pratiche forensi. Forse i fogli ordinati sulla scrivania ne risultano scompigliati, ma almeno si respira. I problemi ai quali egli si era dedicato erano infatti slegati dal qui e ora, ma parlavano a tutti, ai giuristi di tutte le latitudini, perché toccavano i nodi cruciali del mondo della giustizia civile. Basti pensare a un “suo” tema, tra i molti, che ci ha fatto pensare, riflettere, discutere più di altri: quello della Verità (non della verità processuale, giacché non esistono più verità, ma solo una), specialmente con riferimento al ragionamento probatorio e quindi al giudizio di fatto, alle cui infinite pieghe e ai cui infiniti risvolti epistemologici, logici, e poi anche politici, Taruffo aveva dedicato praticamente tutta la sua vita. Un tema che a noi - inizialmente, digiuni - appariva semplice, e che semplice, infatti, è – come del resto Taruffo stesso ha messo in luce nel suo assai filosofico libro La semplice verità[3]– ma che, nella sua semplicità appunto, ha aperto (e ci ha aperto) un mondo. Per noi, Taruffo era, e rimarrà, il teorico della Verità.
I temi della giustizia così trattati trascendono la dicotomia processo civile/processo penale, ed è per questo che abbiamo trovato nella Sua opera un terreno comune. Quando si parla della funzione del giudicare, del giudizio inteso come attività logica, della prova nella sua dimensione epistemica, e poi del ruolo del giudice e delle corti nella società, è chiaro che la distinzione perde di importanza (d’altronde, sia in Spagna sia in molte parti dell’America latina esiste il professore di diritto processuale senza ulteriori specificazioni, proprio a indicare l’assoluta somiglianza, se non identità, di molte delle questioni che si agitano nel processo civile e in quello penale). I suoi insegnamenti, quindi, si rivolgono tanto al processualcivilista come al processualpenalista, all’accademico tanto quanto al magistrato – anzi, forse soprattutto a quest’ultimo, chiamato direttamente a compiere quei complessissimi giudizi di fatto e di diritto, la ricostruzione dei fatti di causa e l’interpretazione e applicazione del diritto, al fine di rendere una decisione giusta (non a caso, l’ultimo libro di Taruffo, pubblicato simultaneamente nel 2020 in italiano e in spagnolo, e che tratta precisamente questi temi, si intitola Verso la decisione giusta[4]).
La sua eredità, per chi lo ha conosciuto, e certamente per noi, è quindi innanzitutto metodologica. Ci ha indicato come guardare al diritto. Fare diritto processuale (ma possiamo tranquillamente generalizzare l’affermazione: studiare qualsiasi diritto) significa guardare in alto, guardare al significato profondo delle istituzioni, della loro funzione sociale così come storicamente determinatasi alla luce di una specifica tradizione storica e all’interno di certe premesse filosofiche, che devono esser indagate, rese esplicite. Diritto, tradizione, storia, cultura, filosofia, analisi del linguaggio, scienza, epistemologia, antropologia, sociologia, sono un tutt’uno, quasi un continuum che non può, né deve, essere sminuzzato. L’ambizione enorme del Giurista (sì, con la G maiuscola) è quella di guardare sempre al tutto, e non alle singole parti (come invece fa colui che Taruffo ha polemicamente chiamato il «processualista tipico», innamorato della «microesegesi» e il cui lavoro è dominato da una «maniacale analisi del dettaglio»[5]: ed egli in questo era genuinamente, e nobilmente, a-tipico).
L’autoreferenzialità è un vizio (naturale?), forse anche una tentazione, dalla quale il giurista, nel suo lavoro quotidiano, deve però cercare di fuggire con forza. E Michele Taruffo ci ha insegnato a guardare sempre alla bigger picture, alle questioni in tutta la loro ampiezza teorica, che non conosce spazi; ad aprirsi sempre e sempre di più, non incurvarsi sulla propria confort zone, non rinchiudersi dentro lo spazio artificiale della propria disciplina, o del proprio settore, o del proprio problema: e riflettere laicamente su ciò che ci circonda, magari con un gin-tonic in mano.
[1] La grandissima e inarrestabile diffusione dell’opera di Michele Taruffo nel mondo di lingua spagnola si deve, innanzitutto, alla traduzione in castigliano, nel 2002, a cura del filosofo del diritto dell’Università di Girona Jordi Ferrer Beltrán, della sua opera La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992.
[2] G. Hazard – M. Taruffo, American Civil Procedure. An Introduction, Yale University Press, 1993.
[3] La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009.
[4] Giappichelli, 2020; la versione spagnola è Hacia la décision justa, Zela (Perù) 2020 (ma già in precedenza, ex multis, v. il suo Idee per una teoria della decisione giusta, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 219 ss.
[5] Taruffo, L’insegnamento accademico del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 551 ss.
Michele Taruffo
di Bruno Sassani, Bruno Capponi e Andrea Panzarola
La scomparsa di Michele Taruffo lascia un vuoto nell’ampia comunità degli studiosi del processo che si proietta ben oltre i confini italiani. La straordinaria diffusione della sua opera in tutto il mondo lo aveva infatti, col tempo, elevato alla posizione universalmente riconosciuta di Maestro di diritto e processo per i giuristi di ogni continente. Questa anima grande della cultura giuridica ha esercitato per ogni dove il suo alto magistero utilizzando tutti i mezzi coi quali si alimenta la vita dello Studioso, ora con lo scritto ora con la parola ora con entrambi, sempre con l’inconfondibile impronta della sua poliedrica personalità.
Gli incarichi di Visiting Professor presso prestigiose Università (dalla Cornell Law School allo Hastings College of the Law della University of California); l’infaticabile attività di relatore in convegni internazionali; l’appartenenza alle più importanti associazioni italiane e straniere di diritto processuale e di teoria del diritto (dall’American Law Institute al Bielefelder Kreis, dalla International Association of Procedural Law – di cui è stato pure Segretario Generale – all’Instituto Brasileiro de Direito Processual e all’Academia Brasileira de Direito Constitutional, dall’Association Henri Capitant des Amis de la Culture Juridique Française alle Associazioni italiane di Diritto Comparato e fra gli Studiosi del Processo Civile); la partecipazione ai comitati scientifici di riviste giuridiche e filosofiche; i libri dedicati a temi cruciali della esperienza processuale: tutto questo e molto altro ha concorso a diffondere il pensiero di Taruffo e a consolidarne la posizione di primazia nel panorama tanto italiano (suggellata dalla nomina nel 2005 a Socio Corrispondente della Accademia Nazionale dei Lincei) quanto internazionale.
Non a caso, il volume scritto nel 1993 con Geoffrey C. Hazard su “La giustizia civile negli Stati Uniti” è stato pubblicato, oltre che in inglese, pure in cinese e giapponese. In spagnolo è stato pubblicato nel 2002 il libro del 1992 su “La Prova dei fatti giuridici”. I volumi su “La motivazione della sentenza civile” (1975), su “Il vertice ambiguo (Saggi sulla Cassazione civile)” (1991), “Sui confini (Scritti sulla giustizia civile)” (2002) sono stati rispettivamente pubblicati in Messico, Perù e Colombia. Altrettanto significativamente, Taruffo è stato editor dell’opera fondamentale del 1999 su “Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural Fairness” (frutto dell’International Colloquium svoltosi nell’ottobre 1998 presso la Tulane Law School di New Orleans ed organizzato dalla International Association of Procedural Law). Pure le “Cinco lecciones mexicanas: Memoria del Taller de Derecho Procesal” del 2003 (in https://www.te.gob.mx/publicaciones/sites/default/files//archivos_libros/Cinco%20Lecciones%20Mexicanas-%20Memoria%20del%20Taller%20de%20Derecho.pdf) restituiscono appieno l’influenza del suo insegnamento in Messico (ed in generale nell’America latina tutta). A distanza di mezzo secolo dalle conferenze messicane di Piero Calamandrei del 1952 (poi pubblicate un paio di anni dopo sotto il titolo “Processo e democrazia”), le lezioni del marzo del 2002 – tenute da Taruffo di fronte al “Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación” e incentrate su tematiche essenziali nella riflessione del Maestro (dalla teoria generale della decisione al precedente, dalla decisione “giusta” alla funzione dimostrativa della prova, etc.) – furono precedute da una dettagliata presentazione da parte del Presidente del “Tribunal Electoral” dell’attività scientifica dell’ospite pavese, che venne al contempo descritto – e vale la pena ripeterne le parole che riassumono un sentire condiviso – come “un grande processualista e filosofo del nostro tempo”, “heredero de la tradición italiana de Chiovenda, Carnelutti, Calamandrei y Denti”.
Le specifiche competenze di diritto comparato, e la fama acquisita nel contesto internazionale, hanno aperto a Taruffo il ruolo di co-reporter del progetto dell’American Law Institute su “Principles and Rules of Transnational Civil Procedure”. Ed è grazie all’inusuale combinazione della padronanza degli strumenti teorici generali e delle conoscenze analitiche dei singoli modelli processuali, che egli ha potuto cimentarsi nell’arduo compito di organizzare il sistema dei principi e delle regole generali a portata “transnazionale” al fine di armonizzare discipline troppo spesso orgogliose della loro “municipalità”.
Michele Taruffo imboccò giovanissimo la sua strada, sulle orme del suo Maestro Vittorio Denti e nel clima culturale della Scuola pavese, particolarmente fecondo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nato nel 1943, si era laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Pavia nel 1965, nella quale ha finito per ricoprire per molti anni (a partire dal 1976) il ruolo di professore ordinario di diritto processuale civile (insegnandovi altresì diritto processuale comparato e diritto processuale generale). La vocazione comparatistica dello studioso è rispecchiata impeccabilmente nel libro del 1979 dedicato a “Il processo civile ‘adversary’ nell’esperienza americana”. A quella data Taruffo aveva già dato alle stampe due volumi: il primo – “Studi sulla rilevanza della prova” – pubblicato a soli ventisette anni, nel 1970; il secondo – “La motivazione della sentenza civile” (1975) – destinato a diventare un punto di riferimento su un tema tumultuosamente irrisolto. Da queste monografie emergono le direttive delle ricerche degli anni successivi, e prendono forma i tratti distintivi della sua opera complessiva: il marcato sincretismo metodologico che alla prediletta analisi comparatistica associa la sensibilità filosofica e quella storica. Di lì a pochi anni Michele Taruffo offrirà il suo contributo di storico pubblicando “La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi” (1980), un libro che – per la completezza della informazione, la pluralità dei punti di vista e nondimeno la nettezza delle interpretazioni – è comprensibilmente assurto a testo di riferimento per i cultori della storia del processo.
L’indagine storica fa da sottofondo anche al successivo libro del 1991 su “Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile”. Già soltanto il fatto che il titolo del volume – “Il vertice ambiguo” – sia divenuto, nella discussione pubblica sulla Corte Suprema, un vero e proprio topos argomentativo, la dice lunga sull’impatto che l’opera ha avuto su una tematica delicata e divisiva. I meriti del volume, che ha guadagnato negli anni la dignità di vero e proprio “classico” sul giudizio di cassazione, sono d’altra parte risaputi. Non è qui il caso di indugiarvi, se non per dire che rappresentazioni stereotipate da una lunga e comoda tradizione interpretativa, irrigidite nelle semplificazioni di polarità (jus constitutionis-jus litigatoris) che parevano non ammettere vie d’uscita, sono oggetto di radicale rivisitazione critica. Taruffo risale alle origini della ricezione della Cassazione in Italia (mettendo l’accento sulla vivace polemica, in larga parte rimossa, fra i fautori del modello della Cassazione, da un lato, e i sostenitori del modello della Terza Istanza della tradizione nazionale, dall’altro lato) e, ridiscutendo la lezione di Calamandrei, rilegge l’idea di un modello “puro” di Corte Suprema capace di proiettare sul presente la sua forza plasmatrice. Dall’esame delle ragioni della ibridazione nella Cassazione italiana di istituti di eterogenea ascendenza, emerge così il tema del “precedente” (tema che un suo valoroso allievo ha recentemente discusso criticamente nella chiave del “precedente impossibile”).
Michele Taruffo non ha mai smesso negli anni di sviluppare gli argomenti che formano il nucleo pulsante della sua attività speculativa e che vertono – per limitarsi a una estrema sintesi – sulla prova e sulla ricerca dei fatti in funzione di una decisione giusta. Al libro del 1992 su “La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali”, si ricongiungono, idealmente, la curatela del volume del 2012 su “La prova nel processo civile” (nel Trattato di diritto civile e commerciale di Giuffrè) e, in buona parte, il contributo del 2011 sui “Poteri del giudice” nel Commentario al codice di procedura civile di Zanichelli. Non sembra azzardato tuttavia ipotizzare che la massima diffusione delle sue idee su queste tematiche (ben al di là del recinto degli studiosi del processo civile) si sia avuta in occasione della pubblicazione, nel 2009, del volume su “La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti”. L’originale impostazione metodologica di questo volume (innestata sulla rimarcata interdipendenza di prospettive investigative le più diverse) è messa in evidenza dalla trasparenza espositiva, agevolata dalla chiarezza e fluidità di dettato.
Con l’opera di Michele Taruffo si è confrontata la comunità senza confini degli studiosi del processo. Il suo contributo investe l’esperienza integrale della tutela e la complessiva cultura del diritto che vi si accompagna.
Lascito fecondo per le generazioni future.
La questione di giurisdizione - Atti del convegno del 9 dicembre 2020 - Giornate di studio sulla giustizia amministrativa
Nell’ambito delle “Giornate di studio sulla Giustizia Amministrativa – Modanella 2020” il 9 dicembre 2020 si è tenuto il convegno sul tema “La questione di giurisdizione” al quale hanno partecipato come relatori la Prof.ssa Chiara Cacciavillani, dell’Università di Padova, il Presidente Claudio Contessa, del Consiglio di Stato, il Consigliere Antonio Scarpa, della Corte di Cassazione e il Prof. Romano Vaccarella, emerito de La Sapienza. I lavori, introdotti dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, sono stati presieduti da Filippo Patroni Griffi, Presidente del Consiglio di Stato e conclusi dal Prof. Fabio Francario dell’Università di Siena.
Giustiziainsieme mette a disposizione dei propri lettori la video registrazione del convegno.
La rappresentanza di genere nel CSM *
di Donatella Ferranti
Sommario: 1. Perché è necessaria una riforma – 2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017 – 3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM.
1. Perché è necessaria una riforma della legge elettorale
Le ragioni che mi hanno spinto a presentare nella XVII legislatura in cui ho svolgo l’incarico di Presidente della Commissione giustizia alla Camera, la proposta di legge AC 4512, che fu sottoscritta da altri 57 deputati, appartenenti a diversi gruppi parlamentari e che è stata riproposta nella XVIII legislatura, sia alla Camera che al Senato, sono facilmente intuibili, visto che è ormai da diversi anni che si dibatte sulla necessità di un maggior equilibrio di genere nella rappresentanza togata all’interno del Consiglio superiore della magistratura.
Ci sono due dati ineludibili. Il primo è un dato normativo, di principio costituzionale. L’articolo 51, primo comma, della Costituzione, così come innovato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003 n. 1, nel sancire il principio secondo il quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (secondo i requisiti stabiliti dalla legge), prevede che a tal fine la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Credo sia ormai pacifico, alla luce di successive pronunce della Consulta (penso in particolare alla sentenza n. 4 del 2010) che hanno ricondotto il nuovo articolo 51 al principio di uguaglianza sostanziale, ritenere che azioni positive in materia elettorale siano non solo consentite, ma esplicitamente prescritte dalla Costituzione. E’ la Costituzione, quindi, che sollecita l’impegno alla promozione fattiva delle pari opportunità, indicando una direzione pressoché “obbligata”, che impone di affrontare il problema del deficit della rappresentanza di genere nelle istituzioni democratiche. Quella della parità di genere è una battaglia certamente culturale, ma anche politica, perché in gioco sono i valori stessi della democrazia partecipativa e l’avanzamento complessivo della società.
C’è poi un dato fattuale, evidenziato in modo plastico dalle ultime statistiche (aggiornate al marzo 2017) diffuse nel documento “Distribuzione per genere del personale di magistratura” messo a punto dal Csm: su 9.408 magistrati in organico, 4.900 sono donne. Il 52 per cento: più della metà. Ma ancora più interessante è il dato sui magistrati ordinari in tirocinio, su un totale di 666 le donne sono 411, quasi il 62 per cento. Ciò significa non solo che le donne magistrato sono ormai più degli uomini e sono mediamente più giovani, ma significa soprattutto che il divario di genere è destinato a crescere. E come si traducono queste percentuali in rappresentanza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura? I dati reali non sono consolanti. Una sola donna togata eletta nella consiliatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014; una nella scorsa consiliatura e sei in questa attuale. Insomma, un sistema elettorale, quello introdotto con la riforma del 2002, che si è rivelato scarsamente incisivo ed inadeguato anche per quel che riguarda la rappresentanza femminile.
La proposta di legge, che fu presentata alla Camera dei deputati il 25 maggio 2017 a mia prima firma, aveva voluto dare concretezza normativa alle riflessioni che in convegni e in sedi istituzionali da anni ruotano attorno alla necessità di superare questa macroscopica ‘sottorappresentazione’ delle donne nell’organo di autogoverno della magistratura. Lo stesso Csm aveva di ciò avuto piena consapevolezza, come testimoniato da diverse risoluzioni. Nella risoluzione approvata il 26 luglio 2010 (Riflessione sulle modalità organizzative del governo autonomo in ordine alla presenza delle donne negli organi di autogoverno e sulla conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze di cure), ad esempio, si constatava che «ancora oggi sono necessarie “politiche di genere” dirette a rimuovere gli ostacoli culturali per una reale partecipazione egualitaria di uomini e donne al governo autonomo della magistratura». E si affermava che la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale sulla legittimità della preferenza di genere rafforzava «il convincimento della necessità di un sereno e compiuto confronto in ordine all’opportunità di un intervento normativo, il quale, preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di ineleggibilità ma a fattori culturali, economici e sociali, introduca “misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”».
Ma ci si spinge anche più avanti. Nella risoluzione adottata il 2 aprile 2014 (Introduzione delle quote di risultato negli organismi rappresentativi) le quote di genere sono giudicate un «indispensabile arricchimento della rappresentanza democratica» deliberando di proporre al ministro della Giustizia «una modifica del sistema di elezione del Csm che preveda: non solo la 1) la doppia preferenza di genere nella elezione della componente togata; 2) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 per la componente togata; 3) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 della componente laica». Aperture e prospettive ribadite nella delibera consiliare del 7 settembre 2016 (Risoluzione sulla relazione della commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) dove, quanto al tema della rappresentanza di genere, si esprime «apprezzamento per l’affermazione, contenuta nella relazione della Commissione Scotti, circa l’ importanza del rispetto del principio della parità di genere», rilevando però che «il sistema proposto non garantisce una necessaria rappresentanza effettivamente paritaria, che si potrebbe raggiungere solo attraverso l’adozione di quote di risultato. Tale obiettivo sarebbe conseguito con la previsione della indicazione obbligatoria di un secondo candidato di genere diverso in entrambe le fasi elettorali ipotizzate nella relazione».
E comunque, più in generale, si afferma che «la riforma dovrebbe tendere a favorire un rapporto meno rigido tra componente associativa ed eletto, da un lato, e, dall’altro, ad aumentare il ventaglio di scelte dell’elettore. In proposito, si potrebbe riflettere su un diverse meccanismo, quello del voto singolo trasferibile (che la Commissione ministeriale ammette di non avere avuto la possibilità di approfondire): in collegi plurinominali si presentano liste (con alternanza di genere) e l’elettore può indicare in ordine decrescente di preferenza i vari candidati, dando così rilievo sia al progetto di giurisdizione preferito, sia a candidati di altre liste premiati per qualità personali».
2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017
La proposta di legge presentata e discussa nella XVII legislatura in Commissione Giustizia, alla Camera dei deputati, fu il frutto delle elaborazioni dell’Associazione donne magistrato italiane (Admi) e voleva essere un segnale politico in questa direzione, mettendo nero su bianco alcune modifiche alla vigente legge elettorale, fissando almeno un punto di partenza su cui dibattere, superare le accuse di inerzia del legislatore e invitare le parti interessate a dare il proprio fattivo contributo.
Si prefiggeva di introdurre misure di riequilibrio di genere e antidiscriminatorie che consentissero infatti – in attesa della più ampia riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, che è in realtà la via maestra per un compiuto riassetto anche nel senso di una reale democrazia paritaria – di superare l’attuale situazione nella quale la componente femminile del Consiglio risulta in numero assolutamente inadeguato e rimessa a una sorta di occasionalità.
Era una proposta di riforma che non giungeva a garantire direttamente il risultato della presenza paritaria fra donne e uomini nella componente togata del Consiglio, ma intendeva ottenere un incremento della presenza femminile attraverso l’introduzione di una norma di principio generale così sintetizzata: «Il sistema di elezione favorisce un’equilibrata rappresentanza di donne e di uomini» – e mediante il meccanismo della doppia preferenza di genere, già adottato e sperimentato nell'ambito della rappresentanza politica e valutato positivamente anche dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 4 del 2010. In sostanza aveva previsto una doppia preferenza facoltativa cioè la possibilità per l’elettore di esprimere tanto un voto di preferenza senza vincoli di genere quanto un doppio voto di preferenza a condizione che ne avessero beneficiato un uomo ed una donna, pena la nullità della seconda preferenza (tanto che si era suggerito di conformare la scheda con due righe numerate per l’espressione della preferenza così da rendere chiaro all’elettore e a chi avrebbe provveduto allo scrutinio quale preferenza dovesse essere considerata prima e quale seconda).
Più nel dettaglio, intervenendo sull’articolo 25, commi 3 e 5, si consente ai sottoscrittori delle candidature di presentare anche due candidature in ciascun collegio purché sia rispettata l’alternanza tra i sessi e si dispone che l’elenco dei candidati segua un ordine alternato per sesso e, per ciascun sesso, l’ordine alfabetico. In secondo luogo, sostituendo il comma 3 dell’articolo 26, si stabilisce che l’elettore esprime uno o due voti su ciascuna scheda elettorale e che l’eventuale secondo voto indichi un candidato di sesso diverso dal primo. E’ nullo il secondo voto nel caso sia attribuito a un candidato dello stesso sesso del primo. Infine, modificando il comma 2 dell’articolo 27, si dispone che, in caso di parità di voti tra candidati di sesso diverso, prevale il candidato del sesso meno rappresentato nel precedente Consiglio, prevalendo altrimenti il candidato più anziano nel ruolo.
Non si tratta, dunque, di «quote di risultato», ma di una seria misura di riequilibrio, nel rispetto della volontà degli elettori.
La doppia preferenza di genere facoltativa ha già superato, come accennavo, il vaglio della Corte costituzionale: nella citata sentenza n. 4/2010 il giudice delle leggi ha chiarito che quel particolare meccanismo non comprime la libertà dell’elettore limitandosi a fissare criteri per le scelte che questi voglia effettuare, al contrario dà a chi vota una possibilità in più rispetto alla preferenza unica e non prefigura un risultato finale( nessun genere risulta avvantaggiato dallo strumento della doppia preferenza in sé ) a differenza della doppia preferenza obbligatoria.
Quella proposta di legge pure condivisa da tutti i gruppi parlamentari e che aveva avuto la condivisione anche di autorevoli costituzionalisti in realtà poi non è giunta in Aula non solo per il finire della legislatura ma anche perché da parte degli organi rappresentativi della magistratura sono state mosse alcune perplessità, sottolineando che la doppia preferenza di genere avrebbe finito con l’avvantaggiare il gruppo di maggioranza, perché l’indicazione del secondo candidato di genere avrebbe potuto assicurare, ad esempio, solo a quel gruppo entrambi i seggi riservati ai candidati di legittimità, estromettendo così dal Csm i candidati delle altre correnti minoritarie e tale effetto poteva riguardare anche al rappresentanza dei Pubblici Ministeri.
3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM
Ora sappiamo che è in corso di elaborazione da parte del Legislatore la riforma organica e complessiva del sistema elettorale del Csm. Occorre allora saper imboccare la strada giusta che rappresenti un punto di equilibrio tra l’importanza della scelta, per così dire ideologica riferibile al pluralismo culturale e l’esigenza che sia lasciata all’elettore una maggiore libertà di scegliere non solo con riferimento al ‘gruppo’, ma anche e soprattutto alle persone. Per dirla tutta, proprio la necessità – in piena attuazione del dettato costituzionale – di introdurre meccanismi di riequilibrio della rappresentanza di genere nell’organo di autogoverno della magistratura dovrebbe stimolare convergenze e iniziative, per ripensare sinergicamente il modello elettorale, superando il rigido rapporto tra elettori e dirigenza nazionale delle correnti. Ciò che a mio avviso occorre tener presente è che la questione della rappresentanza femminile nel CSM non è da inquadrare tanto nel tema della discriminazione quanto in un tema politico: si tratta di rappresentare nel modo migliore e più completo il corpo della magistratura e dunque anche la differenza di genere. Oggi la rappresentanza dei magistrati nel CSM rischia di essere soprattutto rappresentanza di gruppi che sono nati con propri connotati politico-culturali ma che a volte hanno rischiato di trasformarsi e di operare come gruppi di potere. Occorre perciò mirare a un sistema elettorale che rispecchi le caratteristiche e le diversità anche di genere presenti nel corpo della magistratura e che riesca a garantire che ciascun componente che lo rappresenta agisca nell’interesse dell’istituzione, secondo la propria competenza e sensibilità culturale.
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17
Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia.
Nota critica all’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione 18 settembre 2020 n. 19598[1]
di Marco Lipari
Sommario: 1. Il ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e l’art. 111, comma ottavo, della Costituzione. Un punto fermo: la decisione della Corte costituzionale n. 6 del 2018. Il concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione” e l’applicazione uniforme delle Sezioni Unite - 2. Il caso concreto e le tre distinte questioni sollevate dall’ordinanza - 3. La posizione della Corte costituzionale: la critica alla teoria della giurisdizione dinamica e la risposta della Cassazione. L’opinabile scelta del rinvio alla CGUE - 4. La non improbabile valutazione della CGUE di non intromettersi nel dibattito interno tra le Corti nazionali - 5. L’analisi del primo quesito. La Cassazione come giudice di ultimo grado sulle violazioni del diritto UE e il chiaro disegno della Costituzione. L’irrilevanza della questione per l’ordinamento europeo. Gli argomenti espressi dall’ordinanza. L’assenza di critiche alla decisione della Corte costituzionale - 6. La violazione del diritto UE integra sempre un’ipotesi di carenza di potere per esercizio di un potere normativo con contestuale violazione della sovranità dell’Unione europea? L’abbandono della tesi del rifiuto, o arretramento di giurisdizione - 7. L’asserita minaccia alla sovranità delle istituzioni europee e la posizione istituzionale della Cassazione - 8. Il potere-dovere di prevenire la violazione del diritto UE, immanente fino a quando il giudizio non è definito dal giudicato. Il ruolo del giudizio di revocazione e l’asserito favore per il sindacato della cassazione - 9. Il nodo centrale dell’argomentazione della Cassazione: L’autonomia procedurale degli Stati membri non giustificherebbe la soluzione dell’ordinamento italiano; non sarebbero rispettati i principi-cardine di equivalenza e di effettività della tutela giurisdizionale - 10. L’assetto italiano viola il principio di effettività nella tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche protette dal diritto UE? L’equivoco della asserita necessità della verifica in concreto - 11. La soluzione indicata dalla Costituzione italiana minerebbe la certezza del diritto - 12. L’oggetto della questione: l’illegittimità comunitaria dell’art. 111, comma ottavo, della Costituzione - 13. Il potere della Cassazione giustificato dalla finalità di prevenzione delle violazioni del diritto dell’Unione europea prima del passaggio in giudicato della sentenza e la responsabilità patrimoniale dello Stato - 14. Il problema della riparazione in forma specifica delle accertate violazioni giurisdizionali del diritto UE: i limiti del sistema delineato dalla legge 117/1988 e la revocazione. Le possibili correzioni, a normazione vigente e nell’ottica di una ipotetica riforma - 15. Il giudice nazionale unico della nomofilachia europea? Esiste una previsione UE in tal senso? Il favore per il controllo giurisdizionale diffuso sull’applicazione del diritto UE - 16. La prospettiva europea della CEDU: Cassazione e Consiglio di Stato come Corti di ultima istanza, paritariamente garanti dell’attuazione nazionale del diritto convenzionale, abilitati a sollevare la questione pregiudiziale facoltativa davanti al giudice di Strasburgo - 17. La seconda questione proposta dalla Cassazione: la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e i suoi rimedi. L’applicabilità dell’art. 111, comma ottavo. Dubbi sull’autonomia del problema e della sua rilevanza nella precedente vicenda, in assenza di un motivo di ricorso sul punto - 18. L’individuazione dei casi in cui si verifica la violazione dell’obbligo del rinvio. Le conseguenze secondo l’ordinamento comunitario e secondo il diritto interno. la difficile conciliazione logica tra la posizione di giudice di “ultima istanza” e la sindacabilità della decisione negativa davanti a un altro giudice - 19. La ricerca della delimitazione dei casi di violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. I possibili rimedi: revocazione per errore sul “fatto processuale”; la tesi del ricorso per violazione dei limiti della giurisdizione nazionale: la natura meramente procedimentale del vizio - 20. Il terzo quesito: il problema della legittimazione al ricorso e la complessità delle diverse fattispecie sostanziali, anche in relazione allo sviluppo processuale del contenzioso concreto - 21. La riapertura del dibattito sull’ambito del sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato.
1. Il ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e l’art. 111, comma ottavo, della Costituzione. Un punto fermo: la decisione della Corte costituzionale n. 6 del 2018. Il concetto di “motivi inerenti alla giurisdizione” e l’applicazione uniforme delle Sezioni Unite
L’ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 delle Sezioni Unite ha bruscamente acceso i riflettori sul tema dell’interpretazione dell’art. 111, comma ottavo, della Costituzione: “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”[2].
La questione, seppure di evidente complessità[3], sembrava definitivamente chiusa, in modo coerente e lineare, dopo l’intervento chiarificatore della sentenza della Corte Costituzionale 18 gennaio 2018 n. 6. In tale occasione la Consulta ha affrontato il tema in modo approfondito, superando radicalmente alcune precedenti oscillazioni giurisprudenziali e smentendo perentoriamente l’orientamento minoritario emerso nella più recente – ma non univoca - giurisprudenza della Cassazione, favorevole ad un certo ampliamento del concetto di “motivi inerenti la giurisdizione”, letto in una chiave asseritamene dinamica od evolutiva, volta ad estendere il perimetro del controllo della Cassazione in ulteriori ambiti, variamente definiti dalle singole pronunce, anche in funzione dei percorsi argomentativi prescelti[4].
Nella tendenza ampliatrice si possono inscrivere le pronunce che, muovendo dalla nuova formulazione dell’art. 111, comma primo, della Costituzione, secondo cui “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, hanno, di volta in volta:
- dilatato il concetto di “rifiuto di giurisdizione”, comprendendovi il caso in cui il giudice amministrativo affermi, erroneamente, l’esistenza di una preclusione processuale tale da impedire la valutazione del merito della domanda;
- ipotizzato la possibilità di sindacare pronunce del Consiglio di Stato giudicate “abnormi”, in quanto caratterizzate dalla asserita evidenza di un errore sull’applicazione della disciplina sostanziale o processuale;
- hanno ritenuto che la violazione di norme di derivazione europea (siano esse dell’UE o della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo) comporti il travalicamento dei confini dei poteri di cognizione del giudice amministrativo, sia pure con riguardo al contrasto evidente con una decisione, anche successiva, della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE)[5].
Secondo la Corte costituzionale, nessuna di queste ipotizzate letture evolutive è compatibile con la ratio e con la lettera dell’art. 111, co. 8, della Costituzione.
In particolare, con la decisione n. 6/2018, la Consulta, confutando analiticamente i diversi argomenti espressi dai nuovi filoni ermeneutici emersi nella giurisprudenza della Cassazione, ha riaffermato la tesi più tradizionale e rigorosa, fedele alla lettera e allo spirito della disposizione costituzionale, tenuta ferma per oltre un settantennio[6] dalle stesse Sezioni Unite, che delinea la portata dello strumento del ricorso per Cassazione, in conformità al disegno pluralistico delle giurisdizioni, voluto dal Costituente.
In questo senso, quindi, il decisum della Corte costituzionale, lungi dal rappresentare una svolta “restrittiva” del precedente diritto vivente, non fa che riprendere il filo ininterrotto di una lettura omogenea dell’art. 111 della Costituzione, sufficientemente chiara e certa nel suo funzionamento pratico[7].
La Corte costituzionale afferma perentoriamente che la tesi estensiva, secondo cui il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione dovrebbe comprendere anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando in cui sia eventualmente incorso il giudice amministrativo di ultimo grado, non può affatto qualificarsi "evolutiva" e "dinamica", perché essa è comunque incompatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale.
Ne consegue, pertanto, che deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione che consenta una più o meno completa assimilazione del ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per "motivi inerenti alla giurisdizione" con il ricorso in Cassazione per violazione di legge, previsto dalla Costituzione solo in relazione alle decisioni dei giudici speciali.
La sentenza n. 6/2018 chiarisce, poi, che l'intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla prospettata violazione di norme dell'Unione europea o della CEDU, non essendo peraltro chiaro, nell'ordinanza di rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o della Corte di Strasburgo, caso in cui la giurisprudenza costituzionale auspica la previsione di un nuovo caso di revocazione ai sensi dell'art. 395 c.p.c., mediante un intervento legislativo idoneo.
In questa rigorosa prospettiva, pertanto, la nozione di "eccesso di potere giudiziario", sindacabile mediante il ricorso ex art. 111, comma 8, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull'erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché alle fattispecie del difetto relativo di giurisdizione[8].
La posizione coerente della Corte costituzionale si svolge anche attraverso la chiara affermazione secondo cui il concetto di controllo di giurisdizione affidato dalla Costituzione alla Cassazione, così puntualmente delineato, non ammette nemmeno soluzioni intermedie, come quella pure proposta dal giudice a quo, espressione di un indirizzo minoritario e “moderato” delle Sezioni Unite, secondo cui la lettura estensiva dell’art. 111, co. 8, dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze "abnormi" o "anomale", ovvero di un ipotizzato "stravolgimento", a volte definito “radicale”, delle "norme di riferimento". Infatti, attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive[9].
La lettura dell’art. 111, co. 8 esposta dalla Corte costituzionale è stata costantemente confermata dalla successiva giurisprudenza delle Sezioni Unite[10], senza riserve o limiti[11], sino alla pronuncia dell’ordinanza n. 19598/2020, la quale, invece, manifesta un netto e motivato dissenso nei confronti delle conclusioni raggiunte dalla decisione n. 6/2018, seguendo un originale percorso argomentativo e procedimentale.
La divergenza dalla Corte costituzionale espressa dall’ordinanza in commento non si riduce alla mera riproposizione di tutti od alcuni degli indirizzi riconducibili alla tesi della “giurisdizione dinamica”, perché l’ordinanza prefigura una nuova definizione dell’ambito applicativo dell’art. 111, co. 8, corrispondente alla verifica della corretta applicazione del diritto europeo.
In questo modo, l’auspicata dilatazione del sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato è, al tempo stesso, più ampia e più ristretta, rispetto a quanto preteso, a suo tempo, dagli orientamenti della giurisprudenza “evolutiva” delle Sezioni Unite, stigmatizzati dalla Corte costituzionale:
- Più ampia, perché, se bene si intende il ragionamento espresso dall’ordinanza, il sindacato esteso della Cassazione dovrebbe riferirsi, indistintamente, a qualsiasi ipotizzata violazione del diritto UE, sia essa di natura sostanziale o processuale. Non si tratterebbe, quindi, dei soli casi in cui l’errata applicazione del diritto UE determini un “rifiuto di giurisdizione”[12], oppure consista in “abnorme errore”, o discenda dalla disapplicazione di una puntuale decisione della CGUE. Inoltre, il largo potere di controllo sulle pronunce del Consiglio di Stato esercitato dalla Cassazione dovrebbe estendersi anche alle fattispecie del mancato rinvio di una questione pregiudiziale alla CGUE, ai sensi dell’art. 267 del TFUE[13].
- Più ristretta, perché l’ordinanza si riferisce, indiscutibilmente, alla sola problematica riguardante il potere della Cassazione di sindacare la violazione del diritto dell’Unione europea, senza considerare altre eventualità disciplinate dal solo diritto nazionale[14].
In coerenza con l’impostazione interpretativa e con il mezzo processuale prescelti, l’ordinanza non spiega quali ulteriori conseguenze applicative “di sistema” potrebbero derivare dalla auspicata pronuncia della Corte di Giustizia, qualora essa dovesse risultare favorevole ad una estensione del sindacato sulle pronunce del giudice amministrativo violative delle norme UE.
Ma è ragionevole prevedere che, qualora la CGUE dovesse, per avventura, ritenere illegittimo il sistema costituzionale italiano, allargando il sindacato della Cassazione sulle pronunce del Consiglio di Stato a tutte le violazioni del diritto UE, le Sezioni Unite potrebbero sostenere la necessità di rimeditare globalmente la lettura dell’art. 111, co. 8, secondo una sorta di inversione logica del principio di equivalenza nella tutela di posizioni giuridiche riconosciute deal diritto UE e dal diritto nazionale, espresso dalla CGUE. E, in effetti, restando sul piano delle supposizioni, resterebbe difficile spiegare il diverso trattamento delle altre violazioni: in primis del diritto della CEDU e, in secondo luogo, dell’intero diritto nazionale, in forza del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Cost.[15]
Come già rilevato dai primi commenti[16], l’ordinanza della Cassazione n. 19598/2020 è certamente molto motivata ed articolata[17] (forse anche troppo motivata, dal punto di vista quantitativo, per gli standard redazionali della CGUE, che, se confermasse la propria prassi, potrebbe anche procedere a vigorosi tagli dell’ordinanza in sede di traduzione nelle altre lingue ufficiali).
E la pronuncia è senz’altro animata dal lodevole scopo di assicurare la massima tutela giurisdizionale del cittadino, nella prospettiva di assicurare il più incisivo ed armonico ingresso del diritto europeo nell’ordinamento interno, correggendo gli errori commessi nei gradi precedenti di giudizio[18].
Ha anche l’ulteriore pregio di approfondire l’aspetto del rapporto tra giurisdizione e verifica della corretta applicazione del diritto UE, secondo i parametri dell’art. 111, comma ottavo, della Costituzione.
La decisione, però, si espone a numerose obiezioni e, con ogni probabilità, non permetterà di ottenere i risultati sperati.
Anche le stesse Sezioni Unite, con la pronuncia 30 ottobre 2020 n. 24107, resa da un diverso collegio, del resto, hanno vistosamente preso le distanze dall’ordinanza in commento, manifestando un motivato e significativo dissenso, per quanto cauto e parzialmente giustificato dalla asserita diversità dei casi esaminati[19].
2. Il caso concreto e le tre distinte questioni sollevate dall’ordinanza
Per analizzare in modo puntuale l’ordinanza in commento, è utile schematizzare subito il caso concreto, salvi alcuni ulteriori approfondimenti di fatto, connessi alla valutazione del terzo quesito formulato dalla Cassazione.
Un operatore economico partecipa alla gara per l’affidamento di un servizio.
Nella fase di valutazione tecnica delle offerte, svolta da una commissione giudicatrice, secondo il metodo del confronto a coppie, l’operatore ottiene un punteggio “insufficiente” rispetto alla cosiddetta soglia di sbarramento.
Pertanto, la sua offerta è esclusa dall’ulteriore corso della procedura selettiva e non è valutata in relazione alla componente economica. L’appalto è quindi affidato all’impresa collocata al primo posto della graduatoria di merito.
L’operatore escluso propone un ricorso al TAR, con cui censura gli atti di gara, articolando una pluralità di vizi:
- L’erroneità del giudizio di insufficienza della sua offerta tecnica, determinante l’esclusione dalla fase di valutazione delle offerte economiche;
- L’illegittima composizione della commissione giudicatrice, sotto distinti profili;
- L’irragionevolezza dei criteri di assegnazione dei punteggi, compresi quelli relativi alla valutazione delle offerte tecniche;
- L’illegittimità della mancata suddivisione in lotti dell’appalto.
A fronte delle difese articolate dalle parti resistenti e controinteressate, il TAR, dopo avere confermato la legittimità della esclusione del ricorrente, dichiara espressamente ammissibili tutte le altre censure, ma le respinge nel merito, giudicando tardivo il motivo riguardante la mancata suddivisione in lotti, perché a suo dire, la relativa clausola del bando doveva ritenersi immediatamente lesiva.
All’esito del giudizio di appello, il Consiglio di Stato:
- Giudica infondato il primo motivo riproposto con l’appello principale dall’operatore economico escluso, riferito alla valutazione insufficiente dell’offerta tecnica;
- In accoglimento dell’appello incidentale proposto dall’aggiudicatario dell’appalto, riforma parzialmente la sentenza di primo grado e dichiara inammissibili i restanti tre motivi, senza esaminarli nel merito, con assorbimento – implicito - della questione relativa alla tardività del motivo concernente la mancata suddivisione in lotti.
La pronuncia di inammissibilità dei motivi si basa su un preciso argomento:
il concorrente che non ottiene un punteggio sufficiente per l’offerta tecnica (e quindi non supera la soglia di sbarramento) è escluso dalla procedura.
Pertanto, una volta accertata in giudizio la legittimità dell’esclusione, questo soggetto è privo della legittimazione a proporre altre censure avverso gli atti di gara, ancorché finalizzati alla caducazione dell’intera procedura, poiché perde la posizione differenziata derivante dalla partecipazione al procedimento, diventando titolare di un mero interesse di fatto a far valere censure il cui accollamento che potrebbero determinare il travolgimento della gara e la sua riedizione.
L’operatore impugna la decisione del Consiglio di Stato, richiamando la giurisprudenza della CGUE, orientata, a suo dire, a riconoscere un’ampia legittimazione al ricorso, anche in capo al concorrente legittimamente escluso da una gara.
Ma le altre parti, oltre a difendersi nel merito, replicano che le censure non sono ammissibili, alla luce del chiaro indirizzo espresso dalla Corte costituzionale n. 6/2018 e della conforme giurisprudenza delle Sezioni Unite, che non consente di sindacare le decisioni del Consiglio di Stato per motivi non attinenti alla giurisdizione, da intendersi in senso stretto e rigoroso.
L’ordinanza in commento espone con chiarezza il proprio avviso sul tema controverso tra le parti:
- Le censure proposte dal ricorrente mettono in luce l’esistenza di una violazione (qualificata come grave) del diritto UE, compiuta dalla sentenza impugnata;
- Tuttavia, l’ammissibilità di tali censure, mediante il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, andrebbe esclusa, in applicazione della “prassi interpretativa” inaugurata dalla pronuncia n. 6/2018;
- Questo assetto normativo, tuttavia, seppure ritenuto condivisibile in termini generali, riferiti al diritto interno, impedisce di riparare una grave violazione del diritto UE e, quindi, risulta di dubbia compatibilità con l’ordinamento eurounitario.
L’ordinanza solleva, quindi, tre distinte questioni pregiudiziali, ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
I) La prima, di portata più generale ed ampia, riguarda la compatibilità con il diritto europeo della normativa nazionale (anche di rango costituzionale e formata altresì dalla “prassi interpretativa”[20] imposta dalla Corte costituzionale e seguita dalle Sezioni Unite della Cassazione) che impedisce il ricorso per cassazione avverso le pronunce del Consiglio di Stato in contrasto con il diritto UE.
Non è mancato chi ha notato la singolarità dell’argomento della Cassazione che, per alcuni versi, sembra proprio voler censurare la legittimità comunitaria della propria “giurisprudenza consolidata”, seppure “vincolata” dal dictum della Corte costituzionale.[21]
Il quesito, pur originato, in concreto, da un ricorso che prospetta la lesione del diritto di difesa definito dalla normativa UE, pare assumere una dimensione estesa a qualsiasi contrasto con il diritto UE, sia esso sostanziale o processuale, senza ridursi, quindi, ai soli casi riconducibili alla nozione – peraltro controversa - di “rifiuto di giurisdizione” o di arretramento.
Non solo, ma il sindacato esteso ipotizzato dall’ordinanza dovrebbe riguardare non solo i casi di evidente contrasto frontale, desumibile da una pronuncia della CGUE, anteriore o successiva alla sentenza impugnata (ancorché alcuni passaggi della motivazione sembrino inclini a censurare la sentenza del Consiglio di Stato proprio per la sua ipotizzata contrarietà ad una serie di pronunce della CGUE), ma anche le circostanze in cui la denunciata violazione implichi un’operazione ermeneutica più complessa e articolata, come avviene quando sussiste un dubbio comportante la necessità di sollevare la questione pregiudiziale davanti alla stessa Corte di Giustizia. Detta situazione è quella che la Cassazione ritiene sussistere nella presente vicenda, poiché, pur partendo dal presupposto che si sia in presenza di una grave violazione del diritto UE, preferisce demandare un quesito interpretativo “di merito” alla Corte[22].
II) La seconda questione, di portata più limitata, riguarda la compatibilità comunitaria delle regole nazionali che impediscono di censurare, in cassazione, la violazione –“immotivata” – dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte UE. Si tratta, quindi, di un’ipotesi “specifica” di violazione del diritto UE.
Come si dirà meglio nei paragrafi successivi, però, non è chiaro quale sia il rapporto tra il primo e il secondo quesito. Pare di comprendere che il primo, concernendo qualsivoglia violazione del diritto UE, sia idoneo a comprendere anche il mancato rinvio, sia esso motivato o immotivato. Invece, il secondo quesito avrebbe senso solo se la CGUE dovesse respingere la prospettazione della Cassazione riguardante il generale sindacato delle violazioni UE: in tal caso, nell’ottica dell’ordinanza, potrebbe rilevare, allora, il rifiuto del rinvio, ma solo se immotivato, in quanto espressione di una gravissima trasgressione del potere di decisione riservato alla CGUE.
Tuttavia, l’ordinanza non esplicita questa posizione. Si potrebbe immaginare, allora, che il secondo quesito abbia una funzione per così dire “limitatrice”, del primo: la violazione dell’obbligo di rinvio dovrebbe essere sindacata solo se totalmente “immotivata”.
Resta però da osservare che, qualora la Corte dovesse accogliere la prospettiva “massimalista” del primo quesito formulato dall’ordinanza, il tema del sindacato del mancato rinvio perderebbe in ogni caso di consistenza, per due ovvie ragioni concorrenti.
1) Verosimilmente, la Cassazione, chiamata a verificare la corretta applicazione del diritto UE, non avrebbe ostacoli di sorta ad interrogare direttamente la CGUE, in presenza di dubbi interpretativi.
2) Ma, più in radice, non sarebbe nemmeno ipotizzabile la violazione dell’obbligo di rinvio in capo al Consiglio di Stato, perché il giudice di ultimo grado, in relazione alla corretta applicazione del diritto UE, diventerebbe la stessa Cassazione.
III) Infine, il terzo quesito – la cui ammissibilità, per come prospettato dalla stessa Cassazione, sembrerebbe assolutamente condizionato dalla risposta positiva al primo e al secondo - riguarda la coerenza con il diritto UE della “prassi interpretativa” del giudice amministrativo che nega all’operatore economico escluso da una procedura di gara il diritto di agire in giudizio per ottenere l’annullamento integrale della procedura e la sua riedizione, facendo valere il proprio interesse strumentale al conseguimento di un determinato appalto.
Senza potere affrontare dettagliatamente tutti i temi agitati dall’ordinanza, nelle loro molteplici implicazioni, costituzionali, comunitarie, processuali, amministrative, financo di diritto internazionale, è opportuno concentrare l’attenzione soltanto sui nodi essenziali del suo itinerario argomentativo, svolgendo le pertinenti notazioni critiche, relative ai seguenti punti.
a) La verifica della ritualità e utilità del percorso processuale del rinvio alla Corte GUE, prescelto dalla Cassazione e le effettive probabilità di un esito chiarificatore, nel senso voluto dalle Sezioni Unite;
b) La persuasività degli argomenti, nuovi e vecchi, esposti dalla Cassazione, per sostenere la ventilata tesi ampliatrice del sindacato sulle decisioni amministrative, con particolare riguardo alla enunciata finalità di “prevenire il consolidamento delle violazioni del diritto UE”;
c) La debolezza degli argomenti riguardanti il rispetto dell’autonomia procedurale degli Stati membri, in coerenza ai principi di equivalenza ed efficacia della tutela giurisdizionale assicurata dall’ordinamento italiano;
d) Le numerose criticità riguardanti la seconda questione proposta, concernente l’individuazione gli strumenti di reazione alla violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, imposto agli organi giurisdizionali di ultima istanza;
e) L’effettiva rilevanza e pertinenza delle questioni “sostanziali” sollevate dalla Cassazione con il terzo quesito, con specifico riferimento all’intima connessione con il merito della controversia e con le regole processuali del giudizio;
f) Le possibili implicazioni che la pronuncia in esame potrebbe determinare sullo sviluppo del dibattito in atto, anche al di fuori del solco del diritto UE.
3. La posizione della Corte costituzionale: la critica alla teoria della Giurisdizione dinamica e la risposta della Cassazione. L’opinabile scelta del rinvio alla CGUE
La prima riserva riguarda il mezzo processuale scelto dalla Cassazione per manifestare il proprio indirizzo frontalmente critico della lettura interpretativa consolidatasi per effetto della sentenza n. 6/2018: il rinvio pregiudiziale alla CGUE ex art. 267 TFUE, teso a denunciare la sospetta illegittimità comunitaria del vigente assetto costituzionale.
Il dubbio non attiene tanto alla astratta ritualità e legittimità della decisione adottata dal collegio, quanto alla opportunità, in relazione al consueto svolgimento del dialogo tra le Corti e alla effettiva idoneità dell’itinerario seguito a realizzare l’auspicato chiarimento interpretativo, consistente nell’allargamento del sindacato della Cassazione sulle pronunce del Consiglio di Stato.
La possibilità di rivolgersi alla CGUE è indiscutibilmente riconosciuta dall’ordinamento: infatti, se il collegio nutre ragionevoli e serie perplessità sulla compatibilità dell’ordinamento nazionale – anche di rango costituzionale - con quello europeo, il passaggio attraverso la valutazione pregiudiziale della CGUE è consentito, o addirittura doveroso, considerata la posizione della Cassazione, quale giudice di ultima istanza.
Tuttavia, per contrastare la lettura seguita dalla Corte costituzionale, anche soltanto in relazione al circoscritto tema della sindacabilità in cassazione delle violazioni del diritto UE, si potevano ipotizzare, ragionevolmente, altre due principali strade alternative.
La prima, sicuramente molto rischiosa, avrebbe potuto essere quella di contrapporsi, in tutto o in parte, all’orientamento della Corte costituzionale, attraverso decisioni di sostanziale riproposizione degli indirizzi ruotanti intorno all’idea della “giurisdizione dinamica”, rafforzata, o perfezionata, attraverso la necessaria enunciazione di nuovi argomenti critici e l’affermazione perentoria del ruolo attribuito dalla stessa Costituzione alla Cassazione, quanto meno in concorrenza a quello del giudice delle leggi, nella interpretazione del concetto di giurisdizione ex art. 111.
Una tale immediata “ribellione” della Cassazione, tuttavia, avrebbe potuto comportare una deleteria crisi istituzionale nel rapporto con la Corte costituzionale, esponendosi anche all’ulteriore pericolo di suscitare un possibile conflitto di attribuzioni azionato dal Consiglio di Stato, a tutela delle prerogative assegnategli dalla Costituzione.[23]
La seconda strada, decisamente più trasparente e lineare, benché non priva anch’essa di incognite, sarebbe stata quella di interrogare proprio la Corte costituzionale, provocando una nuova decisione sul tema, basata su una confutazione puntuale e circostanziata degli argomenti espressi nella decisione e sull’illustrazione di eventuali ragioni nuove. E tra queste si potrebbero certamente annoverare anche quelle derivanti dall’approfondimento del quadro eurounitario, illustrati dall’ordinanza, salva la verifica della loro effettiva pertinenza e persuasività.
Una tale opzione, del resto, avrebbe consentito di comprendere se le Sezioni Unite intendano conformarsi, o meno, al dictum della Corte costituzionale nella sua dimensione generale, riferita al diritto interno, e se il loro dissenso riguardi, o no, il solo tema della violazione del diritto UE.
Questa via procedimentale sembrerebbe coerente con l’atteggiamento più recente della Corte costituzionale, favorevole all’esercizio di un “doppio sindacato” sulle norme nazionali sospettate di illegittimità comunitaria (e quindi, incostituzionali in base all’art. 117 della Cost.), e ormai propensa ad utilizzare essa stessa lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, qualora entri in gioco un problema interpretativo della disciplina UE.
Anche questa via, peraltro, si espone a notevoli insidie, perché molte ragioni, anche non strettamente giuridiche, indurrebbero a ritenere che la Corte costituzionale, nel momento attuale, potrebbe essere propensa a non smentire sé stessa, nemmeno per limitati aspetti, a così breve distanza dal proprio precedente e meditato decisum, innestando confusione e incertezza in una materia che esige regole precise e prevedibili nella loro applicazione.
Una seconda “bocciatura” della idea estensiva della giurisdizione propugnata dalla Cassazione, inoltre, potrebbe comportare una cristallizzazione, pressoché definitiva, della lettura seguita dai giudici della Consulta, chiudendo ogni ragionevole spiraglio di apertura od “evoluzione”, cui potrebbe anelare una parte degli interpreti.
L’ordinanza in commento, invece, un po’ a sorpresa (ma forse pienamente consapevole delle difficoltà dei due indicati percorsi alternativi), sceglie una terza opzione e ritiene di coinvolgere la Corte di Giustizia dell’UE, prospettando l’idea che l’art. 111, comma 8, così come interpretato dalla Corte costituzionale, si ponga in contrasto con svariate regole e numerosi principi di matrice europea, impedendo di contrastare efficacemente le violazioni del diritto UE – anche particolarmente gravi – asseritamente commesse dal giudice amministrativo.
La pronuncia, peraltro, lungi dal prospettare un mero ammorbidimento dei severi e nitidi principi espressi dalla Consulta, sembra voler sostenere un concetto di motivi inerenti alla giurisdizione sensibilmente più ampio[24] di quello affermato dalla tradizionale giurisprudenza della Corte di Cassazione ascrivibile ai filoni della giurisdizione dinamica, quanto meno con riferimento ai casi in cui si tratti di sindacare la corretta applicazione del diritto europeo, sia esso sostanziale o processuale.
4. La non improbabile valutazione della CGUE di non intromettersi nel dibattito interno tra le Corti nazionali
Prima di entrare nel merito del ragionamento sviluppato dalla Cassazione, e dei nuovi argomenti proposti, potrebbe essere azzardata subito una previsione sulla scarsa probabilità che la CGUE adotti una decisione conforme ai desiderata della Cassazione.
È assai prevedibile, infatti, che la Corte comprenderà agevolmente la portata tutta “interna” all’ordinamento italiano del contrasto interpretativo in atto e che, contrariamente alle aspettative della Cassazione, non si appassionerà affatto al dibattito in corso nell’ambiente nazionale.
Pur apprezzandone l’importanza, infatti, la CGUE non lo dovrebbe considerare particolarmente rilevante ai fini delle valutazioni di sua stretta competenza.
La CGUE non ha motivo per assumere una posizione rigida, di accoglimento o di reiezione della prospettazione della Cassazione, destinata a segnare la sconfitta per una delle due Corti, con riflessi ordinamentali rilevantissimi anche sul ruolo della giurisdizione superiore amministrativa. Alimentare la crisi nei rapporti interni tra le giurisdizioni non potrebbe che danneggiare la stessa armonica e lineare applicazione del diritto UE.
La previsione di una soluzione misurata e leggera della CGUE deriva da due ragioni solo apparentemente contraddittorie: la questione sollevata dalla Cassazione è, al tempo stesso, troppo semplice e troppo complicata per giustificare un’analisi approfondita del concetto di giurisdizione nel sistema italiano, e del correlato ambito del sindacato della Cassazione ex art. 111, co. Ottavo, della Cost.
Troppo semplice, perché, in fondo, dal punto di vista del diritto europeo, si tratta solo di stabilire se nella propria autonomia procedurale, l’ordinamento italiano abbia rispettato gli standard europei di equivalenza ed efficacia, garantendo strumenti di tutela idonei a garantire la piena attuazione del diritto UE.
Al riguardo, tuttavia, l’ordinanza della Cassazione non menziona precedenti della giurisprudenza della CGUE che potrebbero giustificare l’esito interpretativo auspicato.
Anzi, in senso contrario alla tesi sostenuta dall’ordinanza, potrebbe essere sufficiente richiamare un precedente particolarmente calzante della CGUE, secondo la quale “il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri, conformemente al principio dell’autonomia processuale, limitino o subordinino a condizione i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purché siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza” (Corte di giustizia, sezione prima, 17 marzo 2016, Abdelhafid Bensada Benallal, C-161/15).
Ma la questione delineata dalla Cassazione è anche troppo complicata, per giustificare l’impegno della Corte, perché investe gli equilibri istituzionali nel sistema della giustizia italiana. E non è certo pronosticabile che la CGUE intenda “arbitrare” il conclamato dissidio tra la Corte di cassazione e la Corte costituzionale, né che desideri occuparsi del possibile contrasto tra la Costituzione italiana e il diritto UE.
La CGUE, poi, non si sentirà in alcun modo vincolata alla prospettazione dell’ordinanza, secondo la quale l’ammissibilità del terzo quesito “di merito” sarebbe subordinato all’esito dei primi due quesiti. Infatti, la Corte, con ogni probabilità, dirà semplicemente che il suo compito è quello di garantire la corretta interpretazione generale del diritto UE, mentre la rilevanza del principio espresso dovrà essere vagliata dal giudice nazionale nel giudizio a quo [25].
Dunque, in estrema sintesi, molteplici elementi lasciano presagire che la CGUE potrebbe adottare una pronuncia del seguente contenuto:
- Una neutrale presa di posizione sulla legittimità del sistema costituzionale italiano riferito ai poteri della Cassazione, in conformità al criterio dell’autonomia procedurale degli Stati membri, demandando però al giudice nazionale il compito di svolgere una serrata verifica del pieno rispetto dei principi di equivalenza ed efficacia della tutela;
- Una decisione di merito sul terzo quesito, orientata a riconoscere, in termini molto generali e assai distaccati dalla peculiare situazione concreta oggetto di contenzioso, la piena legittimazione al ricorso del concorrente escluso in qualsiasi fase, che faccia valere il proprio interesse strumentale alla ripetizione della gara, purché la legittimità della sua esclusione non sia già stata definitivamente accertata con decisione già passata in giudicato[26].
A tale ultimo riguardo, va precisato che, secondo l’ordinanza di rinvio, l’esame del terzo quesito è subordinato all’esito dei primi due.
Tuttavia, è molto probabile che la Corte non si sentirà affatto condizionata da questa “subordinazione” e, anche per ragioni di opportunità ed economia processuale, deciderà comunque il terzo quesito.
A sostegno di questa conclusione la Corte, inoltre, potrà aggiungere, quasi certamente, che il suo compito è quello di affermare principi di carattere generale, in relazione alle sollecitazioni derivanti dalle iniziative del giudice nazionale. Sicché, l’utilizzabilità dell’esito interpretativo del terzo quesito da parte del giudice di rinvio resta una questione riservata alla disciplina processuale dell’ordinamento nazionale.
Occorre riflettere attentamente su questo futuro scenario, perché esso risulta, allo stato, fortemente probabile e, al tempo stesso, foriero di possibili incertezze, sia sul giudizio in corso, sia, in generale, sull’orientamento che assumeranno le Sezioni Unite.
La Cassazione avrebbe dinanzi a sé varie opzioni, correlate, tuttavia, anche alle possibili iniziative delle parti, che dovrebbero essere messe in grado, evidentemente, di precisare le rispettive posizioni.
A stretto rigore, la Cassazione, restando coerente con l’impostazione dell’ordinanza, a fronte di una pronuncia della CGUE che non affermi la prospettata illegittimità comunitaria del sistema italiano, dovrebbe dichiarare comunque l’inammissibilità del ricorso per cassazione, non avendo ricevuto lo sperato avallo della CGUE, circa la lettura ampliatrice ed evolutiva dell’art. 111, comma ottavo[27].
La pronuncia della CGUE sul terzo quesito conserverebbe rilevanza soltanto ai fini dell’eventuale azione di responsabilità della parte interessata, ai sensi della legge n. 117/1988.
La situazione così creata, tuttavia, apparirebbe davvero singolare[28], ancorché destinata a non ripetersi più, una volta appurato che la Cassazione non ha il potere di sindacare la violazione del diritto UE e, conseguentemente, di attivare il rinvio pregiudiziale su questioni riservate alla cognizione del giudice amministrativo[29].
Vero è che l’appassionata e ampia motivazione dell’ordinanza di rinvio descrive una situazione che potrebbe allarmare un lettore distratto e pare destinata a colpire la stessa Corte: si ha quasi l’impressione che la Cassazione sia rimasto, in Italia, l’unico baluardo di difesa del diritto dell’Unione europea, e che la sua funzione di estremo garante del diritto eurounitario le sia impedito da una Corte costituzionale, inspiegabilmente arroccata sulla difesa formale dell’art. 111, comma ottavo, a suo dire male applicato e interpretato, con la conseguente moltiplicazione delle violazioni del diritto UE da parte del giudice amministrativo, a sua volta ritenuto oggettivamente non adeguato al compito di tutelare la piena e corretta attuazione della normativa UE.
Ma la Corte del Lussemburgo ha ben compreso che già troppe volte è stata impropriamente tirata in ballo dai giudici nazionali che, a torto o ragione, intendono contrastare la giurisprudenza degli organi di appello e di cassazione.
Sia chiaro, come ha opportunamente rilevato TRAVI, la tecnica del rinvio alla Corte di giustizia, per porre in discussione orientamenti non condivisi di altri giudici non è, di per sé, illegittima o inopportuna. “Questa tecnica spesso è stata criticata, anche di recente, quasi fosse ‘eversiva’, per la tendenza dei giudici di merito a ricorrere al giudice di Lussemburgo per porre in discussione orientamenti non condivisi delle nostre giurisdizioni superiori. La rimessione alla Corte di giustizia è una prerogativa riconosciuta dal Trattato anche ai giudici di merito: di conseguenza non è criticabile di per sé la rimessione, se realmente giustificata dal diritto dell’Unione; piuttosto dovrebbe far riflettere la circostanza che talvolta solo l’intervento della Corte di giustizia abbia consentito di superare incrostazioni giurisprudenziali insostenibili e che senza tale intervento la giurisprudenza interna non sarebbe riuscita ad emendarsi.”[30]
La Corte conosce altrettanto bene le criticità emerse in alcune realtà giurisdizionali dei Paesi membri, nei quali i giudici di ultima istanza hanno manifestato atteggiamenti smaccatamente ostili alla penetrazione del diritto europeo, a fronte di indirizzi più aperti dei giudici di merito.
Ma non sembra questo il caso dell’ordinamento italiano: anche negli ambienti delle istituzioni europee, il giudice italiano (ordinario e amministrativo) è unanimamente apprezzato per la sua capacità di far vivere il diritto europeo nell’ordinamento nazionale, in modo efficace e costante.
Sarebbe del tutto ingeneroso ed errato sospettare che la Corte costituzionale italiana abbia assunto una posizione “culturale” di resistenza al diritto europeo. Quando sono emersi oggettivi problemi di coordinamento tra la Costituzione e il diritto UE, la Consulta ha percorso la strada costruttiva del dialogo, come dimostra esemplarmente la delicata vicenda del caso Taricco, affrontata cercando –ed ottenendo – la convergenza e non lo scontro con la CGUE.
E sarebbe profondamente sbagliato rappresentare il Consiglio di Stato come un giudice poco sensibile al diritto dell’UE o addirittura “ribelle” alle sentenze della CGUE.
Al riguardo, basterebbe considerare l’elevatissimo numero (assoluto e relativo) delle ordinanze di rinvio pregiudiziale pronunciate dal giudice amministrativo[31].
Ed anche il delicato tema della legittimazione al ricorso, alla base dell’ordinanza in commento, seppure fa emergere un problema di non uniformità di vedute tra la CGUE e il Consiglio di Stato, testimonia la tendenza all’armonizzazione degli ordinamenti e delle decisioni. La semplice lettura dell’ordine in cui sono intervenute le principali decisioni in materia evidenzia che il giudice amministrativo si è sempre uniformato, tempestivamente e compiutamente, ai mutamenti della giurisprudenza della Corte del Lussemburgo.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2011, che aveva affermato il difetto di legittimazione del ricorrente illegittimamente ammesso alla gara, infatti, risultava pienamente conforme al diritto eurounitario all’epoca vigente, espresso dalla decisione della Corte 19 giugno 2003, Hackermüller, C 249/01.
La successiva sentenza 4 luglio 2013, Fastweb, C100/12, originata da un caso particolarissimo, probabilmente non rientrante nello spettro applicativo della sentenza n. 4/2011, ha segnato, comunque, un mutamento di indirizzo della giurisprudenza della CGUE.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9/2014 ha puntualmente recepito il nuovo indirizzo della Corte, estendendone la portata anche al di là dei limiti indicati espressamente definiti dalla pronuncia del giudice europeo.
La sentenza della CGUE 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13 ha ulteriormente dilatato la nozione di legittimazione al ricorso, segnando una nuova modifica dell’orientamento del giudice europeo, provocando, però, alcune obiettive difficoltà applicative, linearmente esposte dal Consiglio di Stato, la quale ha sollecitato un nuovo intervento della Corte, attuato con la sentenza della CGUE 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18.
Insomma, nella vicenda, sicuramente articolata e complessa, non pare esatto riscontrare un’ostilità del giudice amministrativo al diritto dell’Unione europea.
Quale che sia la valutazione sulla correttezza dell’uno o dell’altro orientamento, emerso attraverso il dialogo tra le Corti, anche in relazione ai valori in gioco e alla bontà dei contrapposti argomenti proposti, resta indiscutibile un dato. Il Consiglio di Stato non ha mai ostacolato la piena operatività del diritto UE, formato dalla giurisprudenza della CGUE, progressivamente formatasi sul tema della legittimazione al ricorso.
Quando ha riscontrato significativi ed oggettivi dubbi interpretativi sulla portata della normativa europea, il Consiglio di Stato ha seguito la strada lineare del rinvio pregiudiziale, adeguandosi, poi, senza difficoltà o resistenze, al dictum della CGUE[32].
5. L’analisi del primo quesito. La Cassazione come giudice di ultimo grado sulle violazioni del diritto UE e il chiaro disegno della Costituzione. L’irrilevanza della questione per l’ordinamento europeo. Gli argomenti espressi dall’ordinanza. L’assenza di critiche alla decisione della Corte costituzionale
La prima questione sollevata dall’ordinanza occupa la parte più consistente della motivazione, anche in considerazione del suo asserito carattere pregiudiziale rispetto all’ammissibilità del terzo quesito e, sotto altri profili, anche rispetto al secondo.
La pronuncia in esame prende una posizione piuttosto netta, nel senso della affermata prevalenza della normativa europea, la quale dovrebbe imporre la correzione dell’orientamento ermeneutico espresso dalla Corte costituzionale.
Pertanto, elenca una serie di argomenti diretti a sostenere la tesi della illegittimità comunitaria dell’assetto nazionale.
Non sono esposti particolari dubbi in ordine alle possibili opzioni alternative.
In questo senso, va notata l’assenza non solo di una contestazione specifica degli argomenti esposti dalla Corte costituzionale, ma anche la stessa mancanza di un’analitica illustrazione delle ragioni espresse dall’ordinanza n. 6/2018.
La sottovalutazione degli argomenti espressi dalla Corte costituzionale potrebbe essere in parte giustificata dalla scelta di affrontare il tema dal solo angolo visuale del diritto eurounitario, che non richiederebbe di approfondire gli altri profili “interni”.
D’altro canto, la Cassazione intende rafforzare il proprio punto di vista, come à certamente legittimo, piuttosto che segnalare una oggettiva incertezza ermeneutica.
Gli argomenti indicati dall’ordinanza, per sostenere il primo quesito, sono molteplici.
Non tutti, peraltro, sembrano riallacciarsi con evidenza ad aspetti di sicura rilevanza comunitaria, riguardando, piuttosto, la ricostruzione del diritto interno.
In particolare, sul piano del diritto UE potrebbero richiedere approfondimento soltanto gli argomenti incentrati sulla asserita posizione di “sovranità” assegnata agli organi deputati alla formazione e all’applicazione del diritto europeo, nonché quelli riguardanti l’asserita violazione dei principi di equivalenza ed efficacia dei mezzi di tutela previsti dall’ordinamento nazionale.
Si può tentare di vagliarli analiticamente, nel loro ordine di esposizione.
6. La violazione del diritto UE integra sempre un’ipotesi di carenza di potere per esercizio di un potere normativo con contestuale violazione della sovranità dell’Unione europea? L’abbandono della tesi del rifiuto, o arretramento di giurisdizione
Anzitutto, l’ordinanza sostiene la tesi secondo cui la decisione del Consiglio di Stato che viola il diritto UE è emessa, sempre, in carenza di potere giurisdizionale, perché si risolve nell’attività di diretta produzione di norme, riservata al legislatore comunitario.
Per la Cassazione, il giudice nazionale il quale faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali o processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell’Unione, come interpretate dalla Corte di giustizia, «esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione — per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale — censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione».
Questa tesi è suggestiva e si riallaccia ad un certo filone teorico, non del tutto nuovo, portato alle sue estreme conseguenze. Ma risulta visibilmente assiomatica nella sua perentorietà e non dà conto delle numerose e fondate obiezioni che le si oppongono, pure alla stregua delle valutazioni espresse al riguardo dalla dottrina, assai attenta a distinguere il procedimento di interpretazione delle norme dallo stravolgimento operato dal giudice che si sostituisca al legislatore, inventando una norma inesistente.
Va comunque evidenziato che la Corte europea non sembra mai essersi spinta ad affermare una siffatta tesi, ritenendo che la violazione del diritto UE integri indefettibilmente un’usurpazione del potere normativo delle Istituzioni comunitarie, anche perché tale ricostruzione del sistema non pare in alcun modo influenzare il problema dei gradi di impugnazione che gli ordinamenti nazionali devono prevedere per assicurare l’applicazione corretta del diritto europeo.
Né si vedono particolari differenze tra la violazione di legge nazionale e la violazione del diritto UE: l’operazione logica compiuta dal giudice che interpreta erroneamente la normativa è identica in entrambi i casi[33]: essa può qualificarsi, o meno, come sostanziale produzione di norme, in entrambi i casi.
Non è chiaro, poi, se la Cassazione intenda affermare che questa inammissibile “invasione” del potere normativo si verifichi solo in presenza della creazione di un “diritto vivente”, correlato ad una reiterata e consolidata “prassi giurisprudenziale” seguita dal Consiglio di Stato, o derivi, comunque, pure da un’isolata decisione errata.
Questa incertezza emerge anche in relazione al terzo quesito, in maniera ancora più vistosa: l’ordinanza sottopone alla verifica di compatibilità con il diritto eurounitario non una disposizione di legge specificamente individuata, ma una asserita “prassi giurisprudenziale” nazionale, quasi a voler dire che, in tal modo, il Consiglio di Stato ha creato una norma nazionale consuetudinaria, contrastante con il diritto UE.
Il passaggio argomentativo è piuttosto delicato, correlandosi anche alla valutazione del modo in sui si esprime la giurisprudenza del Consiglio di Stato, giudice amministrativo di ultimo grado, che cumula le funzioni dell’appello con quelle di legittimità e nomofilattiche.
Al riguardo, va rammentato che l’esplicita formulazione di un “principio di diritto”, vincolante secondo specifici limiti procedurali, è stabilita solo dall’art. 99 del CPA[34]. Non è invece previsto che le pronunce delle Sezioni semplici statuiscano un puntuale principio di diritto, nemmeno nei casi in cui la decisione si concentri su un aspetto di interpretazione del diritto e non su una questione di fatto.
Va da sé che la CGUE non avverte la necessità di sottilizzare troppo in ordine all’oggetto del diritto nazionale sottoposto al vaglio di compatibilità con la normativa UE, poiché intende conservare un controllo esteso sulla corretta applicazione del diritto dell’Unione europea e, pertanto, non pone seriamente in discussione la prospettazione del giudice comune.
Quindi, per la CGUE può costituire diritto nazionale non solo una norma scritta, ma anche una “prassi giurisprudenziale”, se il giudice di rinvio prospetta la questione in questi termini. Men che mai il giudice del Lussemburgo si attribuisce il compito di appurare se si sia effettivamente in presenza di una prassi giurisprudenziale derivante dal consolidarsi di un indirizzo ermeneutico. Per la CGUE è utile affermare il principio, quale che sia l’effettiva incidenza sulla vicenda in corso e il carattere isolato o reiterato della lamentata violazione.
La Corte considererà inammissibili solo questioni pregiudiziali che si strutturino, anche formalmente, come esplicite richieste di soluzione del caso concreto, senza delineare un problema interpretativo.
Ciò chiarito, resta ferma, però, la criticità dell’argomento speso dall’ordinanza, secondo la prospettiva del diritto interno. Una prassi giurisprudenziale non è “produzione di norme”, effettuata invadendo il potere legislativo. A maggior ragione non lo è una sporadica, singola, o minoritaria, tesi giurisprudenziale.
Ma ancor meno persuasiva potrebbe essere l’affermazione secondo cui l’enunciazione di un principio di diritto (da parte dell’Adunanza Plenaria, o anche per ipotesi, di una Sezione semplice), in ipotetica violazione del diritto UE, consista nell’usurpazione di un potere normativo, dal momento che si tratterebbe pur sempre di una funzione espressamente assegnata al giudice dal CPA. Si può anche discutere, in astratto, se la decisione dell’Adunanza Plenaria sia, o meno, esercizio di una funzione materialmente normativa, con effetti parzialmente vincolanti, ma è chiaro che essa è prevista e regolamentata espressamente dalla legge: pertanto essa non può mai considerarsi, ex se, invasiva di un potere spettante ad altri organi.[35].
7. L’asserita minaccia alla sovranità delle istituzioni europee e la posizione istituzionale della Cassazione
Un secondo argomento espresso dall’ordinanza è il seguente: la decisione contrastante con il diritto UE determina una lesione della sovranità comunitaria. In tale eventualità, si dice, il giudice invade il potere riservato non solo ad un altro organo, ma addirittura si intromette nelle prerogative di un distinto ente sovrano, titolare di poteri propri, nell’ordinamento internazionale, o, quanto meno, in quello eurounitario.
Questo argomento risulta oggettivamente nuovo e affascinante, ma anche francamente piuttosto oscuro, nella sua formulazione, e, inevitabilmente, poco persuasivo nelle sue implicazioni, vuoi di diritto nazionale processuale, vuoi di diritto internazionale ed europeo.
Secondo l’ordinanza diversamente “dalla sentenza affetta da semplice violazione di legge in fattispecie regolate dal diritto nazionale, ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, di regola (tranne in casi eccezionali), pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato, nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell’Unione.”
Ora, anche ammettendo che sia effettivamente così, e cioè che la violazione del diritto UE determini – automaticamente – una lesione della sovranità riservata alle Istituzioni europee, non si comprende quale riflesso potrebbe determinarsi in ordine alla definizione dei rimedi giurisdizionali di diritto interno e alla proclamata necessità di realizzare un’espansione del ruolo assegnato alla Cassazione.
Né risulta chiaro perché il potere di tutelare la sovranità dell’Unione debba essere intestato alla Cassazione, che è, indiscutibilmente, organo di vertice della sovranità giurisdizionale statale. Né si comprende per quale ragione la funzione di protezione della sovranità eurounitaria debba essere svolta attraverso l’estensione del ricorso ex art. 111, comma ottavo, della Cost.
Non sembra che la Corte di Cassazione, sotto l’aspetto strutturale, sia titolare di una particolare legittimazione eurounitaria, quale “garante naturale” della sovranità europea, diversa da quella spettante al Consiglio di Stato, nel quadro costituzionale del pluralismo delle giurisdizioni.
Né pare convincente la prospettata contrapposizione funzionale tra l’applicazione del diritto nazionale e quella del diritto europeo, perché entrambe le attività sono riconducibili ad una funzione giurisdizionale unitaria.
Sul piano culturale, prima ancora che giuridico, il giudice tende ad armonizzare diritto interno e diritto europeo in un unico sistema multilivello, valorizzando le convergenze, anziché esaltare ipotetiche antitesi.
L’idea di una doppia anima del giudice comune, emanazione dell’Unione europea o dello Stato, a seconda della norma applicata, appare davvero forzata e non corrisponde affatto dal fisiologico modo di pensare del giudice. Senza dire che, in concreto, non sono poi così frequenti le materie regolate, alternativamente, solo dal diritto europeo o solo dal diritto nazionale.
Da ultimo va ricordato che la violazione del diritto europeo è pienamente equiparata, ormai, alla violazione del diritto nazionale, in relazione al regime di invalidità dell’atto amministrativo.
Dopo qualche iniziale incertezza ermeneutica, nessuno sostiene più che l’atto amministrativo in contrasto con il diritto UE possa provocare una lesione della sovranità dell’Unione, determinante una reazione speciale dell’ordinamento, concretantesi nella sanzione della nullità. Infatti, la violazione del diritto UE non è un’ipotesi di carenza di potere e non comporta la necessità di una disciplina processuale speciale e “rafforzata”.
A tutto concedere, allora, impostata in termini di lesione della sovranità eurounitaria, incidente sui rapporti internazionali tra Stato e Unione, la violazione del diritto europeo potrebbe giustificare l’attribuzione ad un organo extrastatale il compito di accertare tale illegittimità, ma non l’assegnazione di tale compito ad un’autorità giurisdizionale nazionale, investita di un potere capace di derogare alla regola fissata dall’art. 111, co. 8, della Costituzione.
8. Il potere-dovere di prevenire la violazione del diritto UE, immanente fino a quando il giudizio non è definito dal giudicato. Il ruolo del giudizio di revocazione e l’asserito favore per il sindacato della Cassazione
Un terzo argomento esposto dall’ordinanza richiama il dovere del giudice di intervenire per contrastare la violazione del diritto UE in atto, finché la decisione non è passata in giudicato. La Cassazione sottolinea, al riguardo, «l’esigenza di scongiurare il consolidamento di una violazione del diritto comunitario da parte del Consiglio di Stato tramite lo strumento del ricorso per cassazione è ineludibile fintanto che ciò sia possibile, come accade quando il giudicato non si sia ancora formato, essendo pendente il giudizio di impugnazione della sentenza amministrativa cui sia imputata quella violazione».
La pronuncia aggiunge che, altrimenti, verrebbe eluso l'obbligo, imposto agli Stati membri dall'articolo 1, terzo comma, della direttiva ricorsi[36], di garantire che «le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile».
Questo passaggio della motivazione muove da una premessa incontrovertibile, ma non ne trae le corrette conseguenze applicative.
Infatti, il potere-dovere di intervento del giudice deve esser strettamente correlato proprio alle regole che disciplinano lo svolgimento del processo, nei suoi vari gradi, definendo l’ambito della cognizione riservata, di volta in volta, al giudizio di impugnazione.
Si tratta, quindi, di un potere che sussiste solo nella misura in cui non si siano verificate preclusioni processuali che impediscono la cognizione del profilo della vicenda regolato dal diritto UE.
È certamente vero che il ricorso per cassazione impedisce che la decisione del Consiglio di Stato passi in giudicato, ma questo non significa affatto che, per tale ragione, la Cassazione possa automaticamente estendere il proprio sindacato a questioni non rientranti nel concetto di motivi inerenti alla giurisdizione, ampliando i suoi poteri di cognizione oltre i limiti costituzionali.
La stessa ordinanza, poi, evidenzia che la direttiva ricorsi esige la massima rapidità del giudizio relativo alla violazione del diritto UE. In questa prospettiva, allora, l’aggiunta di un terzo grado comporterebbe un palese rallentamento della definizione del giudizio, senza necessariamente garantire una maggiore efficacia nella tutela.
Tale esito, inoltre, comporterebbe anche una evidente violazione del principio di equivalenza, poiché determinerebbe un appesantimento del processo riguardante il diritto dell’Unione europeo, non prevista, invece, nei casi in cui entri in gioco il solo diritto nazionale[37].
Né si deve dimenticare che, seguendo la prospettiva della Cassazione, il terzo grado del processo non è necessariamente destinato a garantire l’applicazione del diritto eurounitario che si assume disconosciuto dal Consiglio di Stato. Al contrario, il ricorso per cassazione, così allargato, finirebbe per costituire l’arma dilatoria con cui le parti soccombenti davanti al giudice amministrativo potrebbero dedurre che la sentenza del Consiglio di Stato abbia erroneamente applicato il diritto europeo.
La Cassazione anticipa la scontata obiezione, derivante anche da un preciso spunto contenuto nella sentenza n. 6/2018, la quale non disconosce l’utilità di un possibile rimedio processuale di diritto interno per reagire alle violazioni delle norme UE: il passaggio in giudicato è impedito anche dal ricorso per revocazione avverso le pronunce del Consiglio di Stato; pertanto, potrebbe essere questo giudizio e non il ricorso per cassazione, lo strumento migliore per garantire la riparazione dell’errore.
Secondo l’ordinanza, invece, l’esigenza di una tutela processuale preventiva non può essere soddisfatta mediante lo strumento della revocazione, sia per la sua configurazione attuale, che per suoi non modificabili limiti strutturali[38], non potendosi escludere che «anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione».
Ora, non sembra contestabile che, secondo la disciplina nazionale vigente, il ricorso per revocazione sia attualmente limitato a determinati vizi della sentenza del Consiglio di Stato, tra i quali non è prevista espressamente la violazione del diritto UE.
Ma la stessa situazione si verifica, in modo ancora più netto, anche per il ricorso per cassazione, che l’ordinamento vigente limita ai soli motivi inerenti alla giurisdizione. Non si comprende allora perché andrebbe accordata prevalenza al giudizio per cassazione, caratterizzato, a ben vedere, da limiti intrinseci assai più stringenti, attesa la radicale preclusione costituzionale di un sindacato sul merito della sentenza del Consiglio di Stato.
I vigenti limiti strutturali della revocazione, del resto, dipendono esclusivamente dalla conformazione di diritto positivo stabilita dalla legge ordinaria e non già dalle prescrizioni di livello costituzionale racchiuse nell’art. 111 che modellano inderogabilmente i poteri della Cassazione. Ne consegue che gli attuali limiti della revocazione potrebbero essere superati non solo attraverso una ipotizzabile pronuncia additiva della Corte costituzionale, superando alcuni ostacoli manifestati dalla stessa Consulta, con riguardo al limitrofo tema della violazione della Convenzione CEDU, ma anche, più semplicemente, mediante un intervento legislativo ad hoc, come meglio si illustrerà infra.
È appena il caso di sottolineare, infine, la scarsa consistenza dell’argomento secondo cui la decisione pronunciata in sede di revocazione potrebbe risultare anch’essa emessa in contrasto con il diritto UE, perché questa eventualità, evidentemente, potrebbe verificarsi anche per le sentenze della Cassazione. A meno che non si voglia affermare che esistano dati oggettivi capaci di far prevedere che la Cassazione abbia un minore tasso di fallibilità.
9. Il nodo centrale dell’argomentazione della Cassazione: L’autonomia procedurale degli Stati membri non giustificherebbe la soluzione dell’ordinamento italiano; Non sarebbero rispettati i principi-cardine di equivalenza e di effettività della tutela giurisdizionale
Finalmente, poi, l’ordinanza affronta il punto centrale di tutta l’argomentazione, riguardante la verifica del rispetto del canone di autonomia procedurale degli Stati membri, nella determinazione degli strumenti, anche giurisdizionali, attraverso cui va data attuazione e garanzia al diritto dell’Unione europea.
A ben vedere, infatti, i precedenti argomenti, più o meno convincenti, non mettono in luce apprezzabili profili di contrasto con il diritto UE, perché si risolvono, in ultima analisi, nella affermazione di una preferenza, secondo l’organizzazione italiana, di un controllo esteso della Cassazione sull’applicazione del diritto UE.
Il tema dell’autonomia procedurale degli Stati membri è affrontato dalla Cassazione forse in modo troppo sintetico, sia per quanto riguarda la ricognizione della giurisprudenza UE che definisce il principio, sia con riferimento alla individuazione degli argomenti in forza dei quali l’autonomia procedurale nazionale dovrebbe cedere il passo a regole europee sul funzionamento della giustizia.
E va notato come l’atteggiamento dell’ordinanza sia visibilmente sbilanciato verso una sola opzione interpretativa. Da parte del giudice nazionale italiano, titolare del potere di nomofilachia generale, ci si poteva aspettare, probabilmente, una posizione almeno equidistante tra le possibili soluzioni ermeneutiche, se non una maggiore attenzione verso la difesa delle prerogative ordinamentali sancite dalla Costituzione italiana[39].
L’ordinanza in commento parte dal rilievo, assolutamente pacifico, secondo cui l’autonomia procedurale riconosciuta agli Stati membri, in base alla quale è rimessa ad essi l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione, può essere sempre invocata, ma soltanto alla duplice condizione che le modalità prescelte non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).
Nell’enunciazione di questa esatta premessa interpretativa, peraltro, l’ordinanza trascura di evidenziare che la giurisprudenza della Corte è stata molto attenta a verificare il rispetto dei limiti dell’autonomia procedurale, verificando le regole procedurali “oggettive”, assumendo, invece, un atteggiamento molto più prudente con riguardo al sindacato della organizzazione strutturale dei sistemi di giustizia degli Stati membri.
Ed è molto indicativa la già citata specifica giurisprudenza della CGUE, la quale ha ritenuto perfettamente compatibile con il diritto eurounitario proprio una normativa interna che non prevede specifici mezzi di impugnazione ulteriori delle sentenze, per la sola violazione del diritto UE.
L’ordinanza in commento, pur consapevole della decisività del passaggio argomentativo relativo all’autonomia procedurale, fornisce elementi di giudizio alquanto esigui, sia sul piano qualitiativo che su quello quantitativo: e gli argomenti indicati non sembrano evidenziare il paventato rischio di violazione dei criteri di equivalenza ed efficienza.
Anzitutto , l’ordinanza sostiene che nel caso di specie, il principio di equivalenza non sarebbe rispettato, poiché nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto nazionale è ammesso il ricorso per cassazione per difetto di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato, «cui si imputi di avere svolto un’attività di produzione normativa invasiva delle attribuzioni del legislatore», mentre, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto dell’Unione, sarebbero inammissibili i ricorsi per cassazione «volti a denunciare il difetto di potere giurisdizionale del giudice che, elaborando ed applicando regole processuali di diritto nazionale, eserciti poteri di produzione normativa preclusi allo stesso legislatore nazionale, essendo esclusivamente riservati al legislatore comunitario sotto il controllo della Corte di giustizia».
Ora, una siffatta rappresentazione della stessa giurisprudenza della Cassazione, che sarebbe caratterizzata da una irrazionale divaricazione tra le due situazioni, a detrimento del diritto UE, non è affatto convincente e la stessa ordinanza non cita le pronunce che manifesterebbero l’ipotizzata contrapposizione.
A ben vedere, non pare proprio che, dopo la sentenza n. 6/2018, le Sezioni Unite abbiano mai riproposto l’idea secondo cui la violazione di legge interna si concretizzi sempre in un difetto assoluto di giurisdizione, per invasione del potere normativo spettante al legislatore.
Meno che mai si riscontrano decisioni che abbiano teorizzato la possibilità di riservare alla violazione del diritto UE un trattamento addirittura deteriore rispetto alle violazioni del diritto interno, sostenendo l’opinione riportata dall’ordinanza.
Ma se anche così fosse, resterebbe evidente che spetta alla Cassazione il compito di definire in modo omogeneo la propria posizione, eliminando le ventilate incertezze applicative e correggendo ingiustificate asimmetrie di interpretazione.
E, in tale prospettiva, riesce davvero difficile sospettare che le Sezioni Unite possano mai affermare, o addirittura consolidare, una così clamorosa e arbitraria trasgressione del principio di equivalenza.
Va ricordato, comunque, che la CGUE, nello spettro fisiologicamente limitato del proprio giudizio, ben potrebbe attestarsi sulla rappresentazione fornita dal giudice remittente. Dunque, non è da escludere che la CGUE possa anche affermare, in via ipotetica, che se, effettivamente, la Cassazione ha consolidato un singolare indirizzo interpretativo penalizzante il diritto UE, il sistema processuale nazionale italiano deve essere riallineato, consentendo il ricorso per cassazione diretto a censurare una violazione del diritto UE alle medesime condizioni previste per la proposizione del ricorso che lamenti la trasgressione del diritto nazionale. Una eventuale pronuncia di tale contenuto, tuttavia, sarebbe inutiliter data, dal momento che l’ipotizzata mancanza di equivalenza non sembra sussistere nella realtà.
Sarebbe preferibile, comunque, che il giudizio dinanzi alla Corte non sia caratterizzato da fraintendimenti e deformazioni dei suoi presupposti. Allo stato, non sembra proprio che, nella normativa vigente e nella prassi delle Sezioni Unite, vi siano minacce, anche remote, o solo potenziali, al principio di equivalenza.
10. L’assetto italiano viola il principio di effettività nella tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche protette dal diritto UE? L’equivoco della asserita necessità della verifica in concreto
Sgombrato il campo da una insussistente violazione del principi di equivalenza, non resta che esaminare il breve passaggio motivazionale dell’ordinanza riguardante la compatibilità tra l’autonomia procedurale degli Stati membri e il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Non vi è dubbio che la CGUE, qualora decida di affrontare il merito del quesito, ancorché in modo sommario, concentrerà l’attenzione su questo essenziale aspetto e non sugli altri argomenti, considerando la loro scarsa persuasività e l’assenza di sufficiente pertinenza rispetto alla logica del diritto eurounitario.
Pertanto, ci si sarebbe potuti attendere dall’ordinanza un’analisi ampia e diffusa del problema, accompagnata dalla chiara enunciazione dei punti ritenuti critici del vigente sistema processuale italiano, per la parte in cui prevede due gradi fi giurisdizione amministrativa, oltre al ricorso in cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
L’ordinanza in esame, invece, risolve la propria argomentazione nell’assiomatico enunciato secondo cui non sarebbe rispettato il principio di effettività, poiché esso, inteso «non in astratto ma in concreto, in relazione al procedimento di formazione della decisione giurisdizionale» (punto 43 della motivazione), dovrebbe sempre imporre un esame del merito della controversia, in relazione agli aspetti di rilevanza comunitaria, anche nel giudizio di cassazione, in seguito alla proposizione del ricorso ex art. 111, comma ottavo.
Sembra di capire che l’ordinanza svolga questo ragionamento: poiché, nella concreta vicenda in esame, il motivo di ricorso proposto dall’interessato ha messo in luce una violazione del diritto UE, che la Cassazione stessa ritiene “grave”, in quanto incidente sul diritto di azione, compiuta dall’impugnata decisione del Consiglio di Stato, il principio di effettività risulta per ciò solo compromesso, giacché la parte interessata ha diritto ad una decisione su questo aspetto del contenzioso, ora al vaglio della Cassazione.
In altri termini, secondo questo assunto, poiché il doppio grado del giudizio amministrativo non ha impedito la consumazione dell’asserita violazione del diritto UE, risulterebbe dimostrato, per tabulas, che il sistema italiano non ha saputo garantito l’effettività della tutela di posizioni giuridiche di rilevanza comunitaria. Ciò sarebbe possibile, invece, assicurando all’interessato la possibilità di far valere la violazione dinanzi alla Cassazione.
Non vi è bisogno di sottolineare l’erroneità di questo argomento.
La necessità di una verifica per così dire “sostanziale” della efficacia delle regole processuali interne è fuori discussione. Occorre comprendere, infatti, il funzionamento pratico del processo, in tutti i suoi aspetti. Ma non è certamente condivisibile l’idea secondo cui il sistema si dimostra inefficace solo perché si è verificata, in concreto, una violazione.
Occorre verificare, semmai, se l’ordinamento processuale abbia garantito, o meno, la possibilità di tutelare posizioni giuridiche protette dal diritto europeo, senza frapporre ostacoli od ingiustificate preclusioni.
Ed allora, in questo senso, l’esistenza di un doppio grado di giudizio amministrativo, con un appello pienamente devolutivo, in questo senso, è condizione pacificamente idonea a ad assicurare l’effettività della tutela. Anzi, determina un livello di protezione superiore a quello richiesto dagli standard europei, considerando che la CGUE non ha mai dubitato della legittimità di sistemi processuali caratterizzati da un unico grado di giudizio.
Il rispetto del principio di efficacia della normativa europea in ordine all’articolazione del giudizio in due gradi, anziché in tre, ovviamente, lascia impregiudicata la distinta questione relativa alla legittimità comunitaria dalla normativa italiana che stabilisce i presupposti della legittimazione al ricorso.
Forse l’ordinanza in commento ha equivocato proprio su questo punto, sovrapponendo i due temi. Ma è chiaro che l’eventuale affermazione della illegittimità comunitaria della norma nazionale che restringe la legittimazione al ricorso non ha nulla a che vedere con la diversa questione riguardante il numero dei gradi di giudizio in cui, secondo il diritto interno, tale questione deve essere esaminata e decisa, nel rispetto del diritto di difesa delle parti.
Insomma, non sembra che la proposta argomentativa sviluppata dall’ordinanza in esame possa determinare significativi dubbi circa l’efficacia complessiva del sistema italiano di giustizia amministrativa.
11. La soluzione indicata dalla Costituzione italiana minerebbe la certezza del diritto
L’ordinanza aggiunge un ulteriore argomento, in forza del quale l’assetto italiano non garantirebbe nemmeno la certezza del diritto e lederebbe l’affidamento dei cittadini, così minando uno dei principi cardine del diritto eurounitario.
Si sostiene, al proposito che un “analogo dubbio di legittimità comunitaria può essere avanzato con riguardo ai principi di certezza del diritto e di affidamento dei cittadini, se si considera che analoghi ricorsi per cassazione, in controversie similari aventi ad oggetto l'impugnazione degli atti di esclusione e aggiudicazione di gare di appalto disciplinate dal diritto dell'Unione, sono stati dichiarati ammissibili e accolti quando decisi dalle Sezioni Unite prima del 18 gennaio 2018 (data della sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018), mentre sono stati dichiarati inammissibili quando decisi dopo tale data (v. Cass., Sez. Un., n. 13243 del 2019), pur se presentati in epoca precedente.”
Non emerge, tuttavia, né la pertinenza di questo argomento e, né, tanto meno, la sua esattezza.
Infatti, a partire dalla sentenza n. 6/2018, l’assetto italiano è caratterizzato senz’altro da certezza e da omogeneità. L’intervento della Corte è stato motivato, fra l’altro, proprio dall’esigenza di ripristinare l’ordine messo in crisi dalle oscillazioni giurisprudenziali determinate dalle teorie della giurisdizione dinamica. In questo senso, è significativa la contestazione delle tesi “intermedie”, pure a suo tempo sostenute da un certo indirizzo delle Sezioni Unite, ma fortemente stigmatizzate dalla Corte, proprio per la loro attitudine a generare confusione.
La decisione della Corte costituzionale può essere contestata, ovviamente, ma non le si possono imputare vizi di indeterminatezza[40]. Senza dimenticare che, come già ricordato, la decisione della Corte costituzionale, lungi dal comportare inaspettati capovolgimenti di indirizzi interpretativi risalenti nel tempo, non ha fatto altro che ripristinare il consolidato orientamento ermeneutico, circa la portata dell’art. 111, comma ottavo, della Cost.
In ogni caso, la vicenda del mutamento di giurisprudenza non può considerarsi lesiva di alcun principio di diritto eurounitatio, a meno che non si voglia sostenere che la nomofilachia consista nella pietrificazione dell’interpretazione affermata dalla Corte superiore.
12. L’oggetto della questione: l’illegittimità comunitaria dell’art. 111, comma ottavo, della Costituzione
Da ultimo, la Cassazione tocca un altro aspetto nevralgico della propria opzione interpretativa: la dimensione costituzionale della norma nazionale di cui dubita la compatibilità con il sistema eurounitario.
Al paragrafo 45, si afferma quanto segue. «Infine non sembra che possa assumere rilievo determinante la natura costituzionale della disposizione (art. 111, ottavo comma, della Costituzione), la cui interpretazione da parte della Corte costituzionale italiana (con sentenza n. 6 del 2018) ha determinato la prassi giurisprudenziale che è oggetto della questione pregiudiziale in esame.»
«È infatti inammissibile che norme di diritto nazionale, quand'anche di rango costituzionale, possano menomare l'unità e l'efficacia del diritto dell'Unione.»
Secondo l’ordinanza, tutte queste considerazioni, pertanto, porterebbero a ritenere che l’estremo rimedio a tutela del diritto dell’Unione violato dai giudici amministrativi (e contabili) sia dato dal ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, senza che rilevi la sua ristretta conformazione voluta dalla Costituzione (a tutela della pluralità delle giurisdizioni), perché anche le norme costituzionali devono essere disapplicate se lesive dei principi di primazia ed efficacia diretta del diritto dell’Unione.
Questa parte della motivazione suscita senz’altro riflessioni di carattere più generale.
Come sottolineato da TRAVI, in questa parte l’ordinanza non dà atto delle ragioni contrarie della Corte costituzionale e descrive come “prassi giurisprudenziale” l’orientamento delle Sezioni Unite, che, attraverso l’intervento della Corte di giustizia, si vorrebbe superare.
Proprio questa puntualizzazione induce a chiedersi, di nuovo, se non sarebbe stato preferibile manifestare queste gravissime perplessità alla stessa Corte costituzionale, prima di rivolgersi, direttamente al giudice del Lussemburgo.
In tale eventualità, la Corte, opportunamente investita dei dubbi ermeneutici affiorati nelle Sezioni Unite, avrebbe potuto stabilire se, alternativamente:
- Rimeditare autonomamente il proprio indirizzo, in tutto o in parte;
- Rinviare essa stessa la questione della compatibilità comunitaria dell’art. 111, comma ottavo, alla CGUE, eventualmente con argomenti “bilaterali”, capaci di difendere l’assetto costituzionale vigente, allo scopo di eliminare in radice le perplessità della Cassazione;
- Confermare integralmente il proprio orientamento espresso con la pronuncia n. 6/2018.
Solo in questa terza eventualità, il giudice nazionale avrebbe poi potuto valutare l’opportunità di rivolgersi direttamente al Lussemburgo, o di seguire, a sua volta, un diverso orientamento.
13. Il potere della Cassazione giustificato dalla finalità di prevenzione delle violazioni del diritto dell’Unione europea prima del passaggio in giudicato della sentenza e la responsabilità patrimoniale dello Stato
Fra i diversi argomenti espressi dalla Cassazione, meritano di essere ulteriormente approfonditi quelli incentrati sulla necessità di assicurare la riparazione rapida della violazione del diritto UE, anche in chiave di prevenzione dell’eventuale responsabilità patrimoniale dello Stato, ai sensi della legge n. 117/1988, come modificato dalla legge del 2014[41].
L’argomento espresso dalla Cassazione, presenta, a prima vista, notevoli elementi di suggestione.
Chi potrebbe negare il buon senso di regole volte a “prevenire” gli illeciti, anziché a sanzionarli soltanto ex post, realizzando direttamente e in forma specifica gli interessi delle parti, con significativo risparmio dello Stato, nonché, e si potrebbe aggiungere, con l’ulteriore non trascurabile vantaggio di proteggere i singoli magistrati autori delle violazioni, dalle azioni di rivalsa e disciplinari?[42]
Tuttavia, il ragionamento della Cassazione non è idoneo a dimostrare la lamentata illegittimità comunitaria, per una serie di motivi convergenti.
Ancora una volta, è assorbente il rilevo riguardante la piena compatibilità comunitaria dell’assetto definito dal sistema italiano. Le esigenze “di opportunità” descritte dall’ordinanza, per quanto significative nel dibattito de iure condendo, non si traducono in alcun modo in fondati sospetti di illegittimità comunitaria.
A) Anzitutto, è vero che anche le Istituzioni comunitarie caldeggiano regole nazionali volte ad assicurare la più incisiva operatività del diritto europeo già nella fase di “prima applicazione” in sede giurisdizionale. Tuttavia, i vincoli puntuali imposti al legislatore nazionale sono soltanto quelli relativi alla previsione di efficaci rimedi riparatori[43], senza alcuna necessità di stabilire anche ulteriori mezzi processuali preventivi altrettanto precisi e rigorosi.
E, in ogni caso, tra i mezzi indispensabile per garantire la piena efficacia della tutela giurisdizionale, non pare certo compresa la necessità di istituire, per il contenzioso affidato alla giurisdizione amministrativa, un terzo grado davanti alla Cassazione, una volta riconosciuto che il sistema nazionale conosce due gradi di cognizione piena della controversia.
Né, tanto meno, il diritto UE impone che la previsione di un ulteriore grado di impugnazione, a cognizione limitata, secondo le regole costituzionali interne, debba dilatarsi in un giudizio esteso all’esame del rispetto del diritto UE.
Se la CGUE “limita” la tutela risarcitoria alla ricorrenza di determinati presupposti sostanziali, questo non può significare affatto la necessità di colmare, attraverso la moltiplicazione dei rimedi interni “preventivi”, l’asserita insufficienza dei mezzi di reazione successiva.
B) Questa obiezione vale anche dall’angolo visuale della coerenza del diritto interno. La previsione di un rimedio “successivo” tipico, per il caso della violazione del diritto europeo, rappresentato dalla tutela risarcitoria, introdotta dal legislatore del 2014, proprio al conclamato scopo di uniformarsi alle prescrizioni dell’ordinamento UE, non può certo significare la contestuale necessità di prevedere anche un ulteriore rimedio pretorio, costituito dallo stravolgimento del ricorso per cassazione ex art. 111, comma ottavo, non previsto dall’ordinamento.
Il legislatore nazionale avrebbe potuto forse introdurre anche dei rimedi processuali preventivi, ma, al momento, ha scelto di limitarsi alla codificazione nazionale di una nuova fattispecie di responsabilità patrimoniale, imposta dal diritto UE.
C) Seguendo il ragionamento “funzionale e finalistico” della Cassazione, la dilatazione del ricorso ex art. 111 Cost., allora, dovrebbe predicarsi in relazione a tutte le fattispecie contemplate dalla legge n. 117/1988, compresi i casi di errori di fatto del giudice ordinario, tradizionalmente esclusi dalla cognizione della Cassazione. Ma questo significherebbe riscrivere tutto il sistema delle impugnazioni, con ricadute sistemiche catastrofiche.
D) Come si è detto, l’obiettivo della “prevenzione” dell’illecito comunitario, se anche ritenuto praticabile in via interpretativa, non necessariamente dovrebbe passare attraverso il ricorso per cassazione, che ha “limiti” intrinseci evidenti, non meno di altri strumenti, volti a sterilizzare gli effetti di una decisione violativa del diritto UE. Anzi, i confini del sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato sono stabiliti dalla Costituzione, e, quindi, sono assai più difficili da superare.
In ogni caso, una volta ritenuta l’opportunità di rimedi processuali preventivi, non sarebbe più semplice, come ventilato proprio dalla Corte costituzionale, l’estensione dello strumento della revocazione, che consente di entrare nel merito della controversia in modo assai più efficace?[44]
14. Il problema della riparazione in forma specifica delle accertate violazioni giurisdizionali del diritto UE: i limiti del sistema delineato dalla legge 117/1988 e la revocazione. Le possibili correzioni, a normazione vigente e nell’ottica di una ipotetica riforma
Ferma restando l’assenza di una illegittimità comunitaria della legislazione italiana, va riconosciuto che la Cassazione ha individuato un problema reale, tutto di diritto interno e di opportunità, la cui soluzione, però andrebbe ricercata in una direzione completamente diversa da quella ipotizzata dall’ordinanza. Si tratta di evidenziare le palesi incongruenze dell’impianto attuale della legge n. 117/1988, ulteriormente aggravate dall’affrettato intervento modificativo del 2014.
A fronte di una violazione del diritto europeo commessa dal giudice amministrativo, il diritto al risarcimento del danno può esercitato attraverso un percorso lungo e accidentato, affidato alla cognizione di un organo che non sembra possedere la fisionomia del giudice naturale della controversia.
La complessità del tema è evidente e, al riguardo, la discussione è aperta.
Ma è certo singolare che, dopo la pronuncia del Consiglio di Stato che definisce il giudizio, si possa riaprire lo stesso contenzioso, ma davanti ad un altro plesso giurisdizionale.
Al di là del contenuto formale dell’azione risarcitoria, è indiscutibile che il nocciolo della domanda con cui si prospetta l’errata applicazione del diritto UE, concerne, né più, né meno, la revisione, nel merito, della decisione del giudice amministrativo, il cui esito è considerato violativo del diritto UE.
Per quale ragione tale compito di revisione sostanziale della decisione amministrativa, sia pure ai soli fini risarcitori, spetta al giudice ordinario?
Si potrebbe affermare che l’oggetto “reale” sia la contestazione della funzione giurisdizionale in sé considerata, a fronte della quale si pongono solo “diritti”, con la conseguente giurisdizione ordinaria “fisiologica”.
Ma nemmeno questa interpretazione convince. A parte la considerazione secondo cui si tratterebbe, allora, del sindacato di un “potere pubblico”, ancorché non amministrativo, resta il dato indiscutibile che la lesione lamentata non si riferisce, genericamente, al patrimonio della parte attrice, ma riguarda la posizione giuridica azionata nel giudizio amministrativo e, si ripete, risulta attuata attraverso l’inesatta applicazione delle norme che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto considerare.
Molto probabilmente, l’assetto normativo attuale deriva da fattori storici che ora dovrebbero reputarsi superati dall’evoluzione dell’ordinamento.
La sofferta costruzione del sistema della responsabilità patrimoniale dello Stato originata dall’attività giurisdizionale non aveva potuto affatto prevedere lo scenario futuro, in cui la maggior parte del contenzioso originato da azioni di responsabilità dello Stato riguarda proprio le pronunce del giudice amministrativo, quasi sempre in relazione ad asserite violazioni del diritto UE.
Inoltre, la legge del 1988 era ampiamente condizionata dai noti principi della irrisarcibilità sostanziale degli interessi legittimi. Pertanto, non sarebbe stata nemmeno concepibile, per assenza di un danno risarcibile, la contestazione di una decisione del giudice amministrativo, tranne i limitati casi della lesioni di diritti soggettivi compresi in ambiti tipizzati di giurisdizione esclusiva.
Infine, l’azione risarcitoria non poteva che competere al giudice ordinario, dal momento che il potere di condanna al risarcimento del danno del giudice amministrativo era consentito solo in casi eccezionali.
La riforma del 2015 non ha in alcun modo corretto questa impostazione, perdendo l’occasione di un esame sereno ed obiettivo delle problematiche correlate alla particolarissima fattispecie della responsabilità dello Stato derivante dalla violazione del diritto UE concretizzata in una pronuncia del giudice.
A ciò si deve aggiungere che, per una serie di motivi “politici”, la legge sembra indirizzata a “sanzionare” i singoli magistrati, piuttosto che a ristorare colui che è stato vittima di un errore oggettivo.
Pertanto, oggi resta difficilmente comprensibile come mai chi si ritenga leso da una decisione amministrativa contrastante con il diritto europeo debba intraprendere un giudizio articolato in tre gradi, davanti ad un giudice ordinario, che non si occupa affatto di quella materia.
Né si può dire che si faccia valere il “diritto soggettivo” al risarcimento, posto che, come chiarito dalla sentenza n. 204/2004 della Corte cost., la tutela risarcitoria è mezzo di tutela della posizione giuridica, sia essa di interesse legittimo o diritto soggettivo, affidata alla cognizione del giudice amministrativo.
Ed ancora più ingiustificata appare la mancata previsione di un agile strumento di reazione che consenta di ottenere tutela in forma specifica, sulla falsariga della revocazione.
Al contrario, la dilatazione del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione, ora portato a ben tre anni dal verificarsi dell’illecito, appare di dubbia razionalità: se la decisione del giudice fonte di responsabilità si pone in “contrasto evidente” con il diritto UE e quindi è agevolmente percepibile, sembrerebbe molto più logica, anche nell’interesse della certezza del diritto, prevedere un termine più breve, insieme alla individuazione di uno strumento efficace di tutela “in forma specifica”.
E) Si può aggiungere, ancora, che il legislatore del 2014, eliminando la fase del cosiddetto “filtro” di ammissibilità del giudizio di responsabilità dello Stato, ha inteso velocizzare i tempi per l’accesso alla giustizia, ferma restando la regola secondo cui l’azione risarcitoria è proponibile solo dopo l’esaurimento dei mezzi di impugnazione. Sicché, la prospettata introduzione di un terzo grado in Cassazione, con tempi non certo brevi, quale passaggio necessario prima dell’esercizio dell’azione risarcitoria, si pone in contrasto con la scelta acceleratoria, magari discutibile, ma chiara, della riforma.
F) A questo riguardo, occorre un chiarimento. Come era logico aspettarsi, l’ordinanza della Cassazione, manifestando un apprezzabile – ma trasparente - orientamento decisamente “filoeuropeista”, implicitamente dà per scontato che il terzo grado di giudizio svolto attraverso il ricorso ex art. 111, comma ottavo, non possa che assicurare la corretta interpretazione e applicazione del diritto europeo. Il che è certamente auspicabile e anche molto probabile.
Insomma, sembrerebbe ipotizzarsi che la desiderata estensione del sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato sia destinata ad operare solo “unilateralmente”, nel duplice senso che:
- il sindacato della Cassazione si attiverebbe solo di fronte a sentenze del giudice amministrativo che disconoscono posizioni giuridiche protette dall’ordinamento europeo;
- la decisione della Cassazione sarebbe inevitabilmente conforme al diritto europeo, consentendo la correzione delle decisioni del Consiglio di Stato in chiave europea, a difesa del ricorrente vittima di un’errata pronuncia.
Questa premessa non esplicitata, del resto, si connette alla prospettiva ermeneutica “intermedia” dell’indirizzo emerso dalla Cassazione, collegata alla estensione del concetto di “rifiuto di giurisdizione”: la violazione del diritto europeo sarebbe sindacabile in Cassazione solo nelle ipotesi in essa cui si risolve nella sostanziale negazione di una posizione giuridica tutelata dal diritto UE[45]. Sarebbe escluso, o, quanto meno, difficilmente configurabile l’opposto caso di “eccesso di giurisdizione”, configurabile quando il giudice amministrativo accolga erroneamente una domanda, a tutela di una posizione giuridica non protetta dall’ordinamento europeo.
Ma, evidentemente, la prospettiva unilaterale non potrebbe funzionare, se si volesse garantire coerenza al sistema.
Se si ammette il ricorso per cassazione in relazione a qualsivoglia violazione del diritto europeo, il rimedio, ovviamente, dovrà operare anche, a parti invertite. Pertanto, esso sarà praticabile pure quando, per esempio il ricorrente lamenti che la decisione del Consiglio di Stato abbia dichiarato tutelabile una posizione non riconosciuta dall’ordinamento (eccesso di giurisdizione).
Né può trascurarsi che il ricorso per cassazione potrebbe allora proporsi, con finalità dilatorie, dalla parte che denunci l’erroneità dell’applicazione del diritto europeo da parte del Consiglio di Stato, in chiave per così dire ampliatrice della posizione del ricorrente.
L’esecutività delle sentenze del Consiglio di Stato non sospese potrebbe attenuare solo in parte le conseguenze perverse di una dilatazione indiscriminata dell’ambito di ammissibilità del ricorso per cassazione,
Quindi, non si può escludere con assoluta certezza che anche la stessa decisione della Cassazione potrebbe risultare, anch’essa, pronunciata in violazione del diritto europeo, perpetuando l’errore della sentenza impugnata, o, persino, provocandolo, autonomamente, per la prima volta[46].
Insomma, il terzo grado di giudizio potrebbe aumentare le probabilità di una decisione giusta, ma potrebbe anche moltiplicare le occasioni di errore[47].
In questo caso, quale potrebbe essere il rimedio preventivo? Si obietta: un quarto grado sarebbe davvero troppo e risulterebbe difficile individuare l’organo competente alla decisione.
Ma proprio queste obiezioni dimostrano che la suggestiva idea di rafforzare gli strumenti di tutela preventiva, seppure astrattamente condivisibile, non riesce affatto a convincere della necessità, e persino della utilità di un terzo grado definitivo in cassazione e non spiega perché sia reputato del tutto insufficiente un doppio grado di giudizio (a cognizione piena) e perché non si debba prevedere, allora, un ulteriore quarto grado, allo scopo di controllare la correttezza della decisione della Cassazione.
15. Il giudice nazionale unico della nomofilachia europea? Esiste una previsione UE in tal senso? Il favore per il controllo giurisdizionale diffuso sull’applicazione del diritto UE
In una prospettiva di carattere più generale e astratto, ci si potrebbe chiedere se sia opportuna, o meno, una nomofilachia comunitaria accentrata in un unico organo giurisdizionale nazionale[48], fermo restando che nessun argomento induce attualmente a ritenere che ciò sia imposto dal sistema UE.
La dottrina ha già notato che “La violazione del diritto dell’Unione non rappresenta, di per sé, una ragione valida per violare il rapporto fra le giurisdizioni stabilito nell’ordinamento nazionale.
La circostanza che l’ordinamento nazionale non avesse prodotto una decisione giurisdizionale conforme al diritto dell’Unione può costituire un titolo di responsabilità, ma non può introdurre un grado di giudizio non ammesso dall’ordinamento interno, anzi, nel nostro caso, non ammesso da una norma costituzionale.
Il ragionamento può forse non apparire di piena evidenza se si considera solo il modello italiano, che ammette uno spazio, peraltro puntualmente circoscritto, per il ricorso alla Cassazione contro le sentenze in ultimo grado del giudice amministrativo, ma può risultare più chiaro se si considerano anche altri ordinamenti, come quello francese, che non consente ricorsi, tanto meno alla Corte di cassazione, contro le decisioni del Conseil d’État.”[49]
Ora, contro l’astratta prospettiva di un giudice unico della nomofilachia eurounitaria, realizzata attraverso un’ipotizzata modifica costituzionale, si pongono diverse obiezioni.
I) Dal punto di vista dell’ordinamento europeo non sembra affatto che vi sia un vincolo in tal senso, sicché il problema ha una connotazione tutta interna al nostro sistema.
II) Una visione superficiale potrebbe portare ad affermare l’opportunità di una “specializzazione”, diretta alla creazione di un giudice superiore, esperto di diritto UE, che potrebbe garantire maggiore omogeneità di esiti interpretativi. Ma è inevitabile osservare che il diritto dell’Unione europea, se è vero che si regge su alcuni principi trasversali, non può considerarsi una materia unitaria a sé stante, contrapposta al diritto amministrativo nazionale.
Al contrario, il diritto comunitario si articola, ormai, in molteplici normative speciali. Inoltre, il diritto UE si intreccia con le discipline nazionali dei diversi settori. Non avrebbe senso, allora, affidare la nomofilachia a organi diversi, a seconda della fonte della norma. A ciò si aggiunga che proprio l’asserita “specialità” del diritto UE potrebbe comportare proprio l’effetto opposto a quello auspicato, rallentando, anziché assecondando, l’integrazione tra le discipline.
III) Se proprio si vuole notare una tendenza del diritto europeo verso l’una o l’altra soluzione organizzativa, si potrebbe notare che la CGUE incoraggia notevolmente il sindacato diffuso sulla compatibilità tra diritto interno e diritto UE esercitato dal giudice comune di merito. L’accentramento presso un unico organo nomofilattico è considerato un filtro alla più ampia operatività del diritto europeo[50].
IV) D’altro canto, non deve trascurarsi che la nomofilachia europea è assicurata istituzionalmente, dal ruolo della CGUE. E questo ridimensiona notevolmente il problema concreto.
16. La prospettiva europea della CEDU: Cassazione e Consiglio di Stato come Corti di ultima istanza, paritariamente garanti dell’attuazione nazionale del diritto convenzionale, abilitati a sollevare la questione pregiudiziale facoltativa davanti al giudice di Strasburgo
Prima di approfondire l’analisi dei problemi posti dal secondo quesito formulato dall’ordinanza in commento, può essere utile segnalare un argomento di carattere sistematico, idoneo a lumeggiare il rapporto tra Consiglio di Stato e la Cassazione, con riguardo alla corretta applicazione del diritto di matrice europea, destinato a prevalere sulle fonti interne.
Si tratta delle chiare scelte compiute dai progetti di legge concernenti la ratifica e l’esecuzione del Protocollo 16 della CEDU. Come è noto, la norma convenzionale contiene la previsione secondo ciascuno Stato che decide di ratificare il Protocollo può attribuire alle giurisdizioni superiori la facoltà di richiedere alla Corte di Strasburgo un parere non vincolante sull’interpretazione della normativa convenzionale rilevante nella controversia[51].
L’ordinamento europeo legittima alla richiesta le sole giurisdizioni superiori, positivamente indicate da ciascuno Stato membro.
Ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo “Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente, designate conformemente all’articolo 10, possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”. Il successivo e richiamato art. 10 prevede invece che “Ciascuna Alta Parte contraente della Convenzione indica, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, per mezzo di una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, quali autorità giudiziarie nomina ai fini dell’articolo 1, paragrafo 1, del presente Protocollo. Tale dichiarazione può essere modificata in qualsiasi momento nello stesso modo.”
Ebbene, nella scorsa legislatura è stato approvato da un ramo del Parlamento il ddl di ratifica disegno di legge n. AC-2801[52], il quale indica chiaramente che il Consiglio di Stato è giurisdizione superiore: cioè organo chiamato ad avere “l’ultima parola” sulla questione sottoposta al suo esame.
Tale impostazione è stata confermata anche nella presente legislatura (DDL AC-1124). Secondo il comma 1 dell’art. 3 dello schema presentato dal Governo all’esame del Parlamento, “La Suprema Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana possono presentare alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo richieste di parere ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Protocollo di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), della presente legge”.
Per opinabili ragioni politiche, riguardanti l’impianto complessivo della normativa convenzionale, nella presente legislatura, il DDL, si è ora arenato e la ratifica italiana del Protocollo 16 si è allontanata.
Ma nessuno mette in dubbio che, nei riguardi della CEDU, Consiglio di Stato e Cassazione sono considerati paritariamente, come organi di ultima istanza, titolari del potere nomofilattico nazionale, per tutto ciò che concerne l’applicazione della CEDU nei rispettivi ambiti di giurisdizione.
La portata sistematica di scelte pacifiche e condivise, quindi, non può essere trascurata.
17. La seconda questione proposta dalla Cassazione: la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e i suoi rimedi. L’applicabilità dell’art. 111, comma ottavo. Dubbi sull’autonomia del problema e della sua rilevanza nella precedente vicenda, in assenza di un motivo di ricorso sul punto
Il secondo quesito proposto dall’ordinanza della Cassazione in commento, riguarda la compatibilità con il diritto comunitario della disciplina nazionale che impedisce di censurare, mediante il ricorso per cassazione, la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, previsto dall’art. 267 del Trattato.
La formulazione proposta suscita diversi interrogativi.
Anzitutto, andrebbe verificata la complessiva coerenza della motivazione dell’ordinanza: si intravede una certa frizione tra l’affermazione, assai perentoria, della esistenza, nella vicenda in esame, di una “grave violazione” del diritto UE, che rappresenta uno degli spunti da cui muove l’argomentazione del primo quesito e la contestuale statuizione della sussistenza di un dubbio interpretativo tale da imporre l’obbligo del rinvio pregiudiziale.
Tale contraddizione, forse, potrebbe essere sciolta, immaginando che, secondo la valutazione interlocutoria della Cassazione:
- in prima battuta, l’impugnata pronuncia del Consiglio di Stato abbia concretizzato una sicura violazione del diritto europeo;
- solo in linea subordinata, sia quanto meno dubbia la lamentata violazione del diritto UE.
Pur con questa precisazione, peraltro, il quesito formulato non sembra presentare autonomia rispetto al primo, risolvendosi, in fondo nella semplice specificazione di una tra le tante possibili violazioni del diritto UE, che l’ordinanza ritiene non sindacabili in cassazione, alla luce del vigente ordinamento nazionale.
Ed infatti, nell’ordinanza non sembrano profilarsi argomenti diversi, od ulteriori, a sostegno della asserita illegittimità comunitaria del sistema nazionale, che definisce i “motivi inerenti alla giurisdzione”.
Forse, tra le righe dell’ordinanza potrebbe intravedersi la convinzione, peraltro non sviluppata esplicitamente, secondo cui la violazione dell’obbligo del rinvio sarebbe addirittura “più grave” della altre (per ipotesi, perché incidente in modo vistoso sul ruolo nomofilattico assegnato alla CGUE), giustificando un trattamento speciale e più severo.
In altri termini, l’eventuale accoglimento della proposta interpretativa formulata dalla Cassazione, con riguardo al primo quesito, determinerebbe l’automatico assorbimento del secondo quesito. Solo nel caso in cui la CGUE dovesse riconoscere, invece, la complessiva legittimità eurounitaria dell’assetto ordinamentale nazionale, emergerebbe un problema riguardante specificamente l’obbligo di rinvio pregiudiziale.
L’esigenza della prospettazione di un autonomo quesito, poi, potrebbe dipendere dalla considerazione che, prima dell’intervento della Corte costituzionale n. 6/2018, l’orientamento basato sulla teoria della giurisdizione dinamica, pur ritenendo sindacabile la violazione del diritto UE traducentesi in un “rifiuto di giurisdizione”, escludeva espressamente la possibilità di censurare in cassazione il mancato rinvio pregiudiziale[53].
Pur con queste precisazioni, tuttavia, l’impostazione seguita dall’ordinanza di rinvio non riesce persuasiva.
L’argomento centrale svolto dalla cassazione consiste nell’affermare che l’ordinamento europeo prevede una serie di severe conseguenze derivanti dall’inadempimento dell’obbligo, tra le quali rientra la già citata responsabilità risarcitoria dello Stato: la regola UE, derivante dalla giurisprudenza della CGUE, è stata trasposta nella legge n. 117 del 1988, come novellata nel 2014.
Pertanto, a dire della Cassazione, l’ordinamento dovrebbe prevedere anche dei mezzi processuali volti a rimediare immediatamente alla violazione, prima del passaggio in giudicato della sentenza.
La replica a questo primo argomento può riprendere quanto già osservato in relazione alle ragioni che l’ordinanza adduce a supporto del primo quesito:
a) L’ordinamento UE si limita ad imporre il rimedio risarcitorio e non richiede ulteriori strumenti di diritto interno;
b) Proprio la tipizzazione del mezzo di reazione introdotto dal legislatore nazionale indica con chiarezza la scelta compiuta: forse opinabile sul piano dell’opportunità, e magari migliorabile sul piano dell’efficacia, ma lineare nel suo contenuto.
18. L’individuazione dei casi in cui si verifica la violazione dell’obbligo del rinvio. Le conseguenze secondo l’ordinamento comunitario e secondo il diritto interno. la difficile conciliazione logica tra la posizione di giudice di “ultima istanza” e la sindacabilità della decisione negativa davanti a un altro giudice
Il secondo quesito formulato dall’ordinanza, poi, disvela altre criticità.
La prima riguarda la difficoltà di accertare con precisione la concreta violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale.
L’altra attiene a quello che potrebbe configurarsi come il paradosso del giudice di ultimo grado, insieme alla difficoltà del funzionamento del rimedio endoprocessuale per riparare l’accertata violazione dell’obbligo del rinvio.
Contrariamente a quanto traspare dall’ordinanza della Cassazione, non è affatto chiaro quando possa ritenersi violato, in concreto, l’obbligo del rinvio pregiudiziale, ancorché la stessa CGUE, a partire dalla decisione Cilfit del 6 novembre 1982, abbia codificato il noto principio secondo il quale affinché una corte di ultima istanza possa considerarsi esentata dall’obbligo di rinvio pregiudiziale devono sussistere particolari condizioni, tra le quali rientrano la non rilevanza della questione, il fatto che la medesima disposizione di diritto europeo sia già stata interpretata dalla Corte o che la sua interpretazione non lasci adito a ragionevoli dubbi interpretativi.
Sembra quasi che la Cassazione muova dal rilievo secondo cui ogni violazione sostanziale del diritto della UE contenga sempre, al suo interno, anche la violazione procedimentale dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Schematizzando, si potrebbe sostenere che l’errore interpretativo sia dipeso causalmente proprio dalla violazione dell’obbligo di adire preventivamente la CGUE, la quale, se ritualmente interpellata, avrebbe potuto fornire la risposta preventiva determinante per decidere la controversia, in senso conforme al diritto UE[54].
Va ricordato che il Consiglio di Stato, in alcune occasioni, ha ritenuto utile e opportuno interrogare la stessa CGUE, allo scopo di ottenere criteri direttivi sicuri in ordine alla portata dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, con particolare riguardo alle deduzioni delle parti, al principio della domanda e alle preclusioni processuali consumate nel secondo grado del giudizio. Le risposte della Corte, forse non esaustive, individuano un principio alquanto elastico, correlato alla duplice esigenza di valutare le deduzioni delle parti e di motivare la scelta di non adire la Corte del Lussemburgo[55].
È quindi assai significativo che l’ordinanza della Cassazione limita il quesito alla sindacabilità della pronuncia in cui si verifichi un caso di “omissione immotivata” del rinvio, fermo restando, però, che l’omissione “motivata” sarebbe in sostanza censurabile nel quadro della generale deduzione della violazione del diritto UE, come esposta nel primo quesito.
Pur così precisato il quadro, tuttavia, ci si deve chiedere se, nel caso in esame, siamo davvero in presenza di questa evenienza.
Non è dubbio che, nella motivazione della pronuncia del Consiglio di Stato, manca, in radice, qualsiasi spiegazione del mancato rinvio alla CGUE.
Ma ciò si spiega agevolmente: da quanto si evince dalla lettura della sentenza impugnata e dalla stessa ordinanza della Cassazione, il tema dell’applicazione del diritto europeo non ha mai formato oggetto di discussione.
Non lo hanno menzionato le parti. Non lo ha considera la sentenza di primo grado. E la decisione del Consiglio di Stato non si occupa affatto il diritto europeo e della sua applicazione, limitandosi a richiamare la normativa nazionale e qualche precedente della giurisprudenza interna.
Allora, si possono indicare alcuni elementi di riflessione.
L’omissione immotivata del rinvio sussiste con certezza quando il giudice:
a) Trascura totalmente le deduzioni delle parti, intese a proporre un dubbio interpretativo rilevante o, anche, a sollecitare l’applicazione del diritto UE;
b) Pur consapevole di un dubbio o di una incertezza ermeneutica, procede direttamente alla interpretazione del diritto europeo a alla formulazione di un giudizio di compatibilità del diritto nazionale, dimenticando di esplicitare l’assenza dei presupposti per il rinvio.
Più problematico è riconoscere la sussistenza della violazione dell’obbligo del rinvio quando la pronuncia si svolge – seppure per ipotesi erroneamente – tutta all’interno del diritto interno, alla luce delle deduzioni delle parti, che non invocano affatto il diritto UE, e del tema decisorio definito dalla sentenza di primo grado.
Non può trascurarsi che proprio nel caso in esame, i profili di compatibilità comunitaria della decisione del Consiglio di Stato sono emersi, per la prima volta, solo con il ricorso per cassazione, e che, a quanto consta, non è stato dedotto alcuno specifico motivo di impugnazione incentrato sull’asserita violazione dell’obbligo di rinvio[56].
19. La ricerca della delimitazione dei casi di violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. I possibili rimedi: revocazione per errore sul “fatto processuale”; la tesi del ricorso per violazione dei limiti della giurisdizione nazionale: la natura meramente procedimentale del vizio
Una volta delimitati i casi di violazione dell’obbligo di rinvio, riemerge, e si riacutizza la difficoltà di sostenere la “rimediabilità” dei vizi della decisione, attraverso lo strumento del ricorso per cassazione.
È palese, infatti, che l’omesso rinvio si risolve sempre in un vizio procedurale, ancorché esso, in base alle circostanze, possa essere ritenuto particolarmente grave.
Quali rimedi di diritto interno potrebbero essere attivati, secondo l’ordinamento vigente e in un’eventuale prospettiva di riforma del sistema?
Con riguardo alla omissione immotivata del rinvio pregiudiziale richiesto dalle parti non vi sono ostacoli di sorta per applicare i consolidati principi giurisprudenziali sulla rilevanza dell’errore di fatto sugli atti processuali, che legittima la proposizione del ricorso per revocazione, a nulla rilevando che la violazione riscontrata potrebbe risolversi astrattamente, al tempo stesso, anche in un “rifiuto di giurisdizione”, secondo la discussa concezione ampliatrice a suo tempo propugnata dalla Cassazione.
Più incerta sembra invece l’altra ipotesi, che si verifica nei casi in cui il giudice, d’ufficio, interpreta direttamente il diritto europeo, dopo avere constatato l’esistenza di un dubbio ermeneutico e trascura di esplicitare la sussistenza delle ragioni che esonerano dall’obbligo del rinvio[57].
Si è ipotizzato che, in una eventualità del genere sussisterebbe un’invasione del potere di cognizione riservato al giudice europeo, unico competente a risolvere il dubbio ermeneutico: quindi, si tratterebbe di un’ipotesi di difetto di giurisdizione relativa[58].
Ne conseguirebbe, allora che il vizio sarebbe denunciabile in cassazione, anche secondo le coordinate ermeneutiche delineate dalla sentenza n. 6/2018. Accedendo a questa impostazione, tuttavia, resterebbe da chiarire quale decisione dovrebbe assumere la Cassazione, una volta riscontrato il vizio della decisione.
Poiché l’accertamento riguarderebbe, a ben vedere, l’omessa motivazione e non l’omesso rinvio, in sé considerato, la Cassazione non potrebbe mai procedere direttamente ad operare in via surrogatoria, rivolgendo essa stessa il quesito alla Corte, ma dovrebbe limitarsi ad annullare la decisione del Consiglio di Stato, affinché esso, rivalutata la vicenda contenziosa, stabilisca se effettuare o meno il rinvio pregiudiziale, previa adeguata motivazione.
In tal modo, però, si metterebbe in evidenza la reale natura del vizio, che non riguarda il riparto di funzioni giurisdizionali tra i diversi organi, ma l’errore procedurale e motivazionale compiuto dal giudice amministrativo. E pare difficile negare che, sotto entrambi i profili, tale tipo di vizio sia irriducibile al concetto di difetto relativo di giurisdizione, denunciabile attraverso il ricorso per cassazione.
Le considerazioni che precedono consentono di esporre le ulteriori criticità relative al “paradosso” che deriverebbe dalla ipotizzata impugnabilità per cassazione della decisione del giudice di ultima istanza che omette il doveroso rinvio pregiudiziale.
A ben riflettere, se si stabilisse che la decisione di non proporre la questione pregiudiziale potrebbe essere sindacabile davanti a un giudice funzionalmente superiore, si determinerebbe una contraddizione logica difficilmente superabile.
Se si attribuisce alla Cassazione il compito di stabilire se sussiste, o meno l’obbligo del rinvio pregiudiziale, nella sostanza si prevede che questo organo giurisdizionale diventa la Corte di ultima istanza, con riguardo alla questione relativa alla corretta applicazione del diritto UE.
La contraddizione logica sarebbe solo attenuata in parte, ma non superata, prevedendo, per ipotesi, la limitazione della impugnabilità della decisione ai soli casi di totale assenza di motivazione insieme alla regola che, in caso di accoglimento del ricorso, la Cassazione dovrebbe rinviare la decisione finale al Consiglio di Stato.
20. Il terzo quesito: il problema della legittimazione al ricorso e la complessità delle diverse fattispecie sostanziali, anche in relazione allo sviluppo processuale del contenzioso concreto
La Cassazione ritiene di rivolgere alla Cassazione un terzo quesito, giudicato direttamente collegato alla soluzione della specifica controversia sottoposta al suo esame.
Nella prospettiva dell’ordinanza, una volta riconosciuta la fondatezza del primo quesito, riguardante la sindacabilità in cassazione delle violazioni del diritto UE, non vi sarebbe alcun ostacolo per investire direttamente la CGUE della questione ritenuta dubbia.
Per altro aspetto, l’ordinanza lascia intendere che anche l’ipotizzata violazione dell’obbligo di rinvio, di cui al secondo quesito, possa essere riparata attraverso l’intervento surrogatorio della stessa Cassazione.
Si è già sottolineato che, a stretto rigore, secondo i desiderata dell’ordinanza di rinvio, la CGUE dovrebbe pronunciarsi su tale terzo quesito solo rispondendo positivamente ad entrambi o anche ad uno soltanto dei due precedenti quesiti.
Ma è prevedibile, come si è detto, che, invece, la CGUE preferirà “accantonare”, o circoscrivere l’esame delle prime due questioni, fornendo una risposta generica ed interlocutoria. Insomma, verosimilmente la Corte potrebbe vagliare nel merito solo il terzo quesito, lasciando al giudice comune il compito di verificare se poi, in concreto, il principio affermato potrà essere applicato, o meno, nel giudizio a quo[59].
Prima di svolgere alcune considerazioni sul contenuto del quesito proposto devono svolgersi alcune considerazioni di carattere generale.
Ad una prima lettura veloce dell’ordinanza, si potrebbe ricavare l’impressione che l’impugnata pronuncia del Consiglio di Stato costituisca un esempio eclatante di ingiustificata ritrosia del giudice amministrativo a considerare attentamente la portata del diritto europeo, in un contesto già particolarmente arato dalla giurisprudenza del Lussemburgo, nel fitto dialogo con l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
La vicenda controversa, infatti, pare inquadrarsi, con poche peculiarità, nella risalente problematica relativa alla legittimazione al ricorso dell’operatore economico escluso legittimamente da una gara per l’affidamento di un contratto pubblico, che faccia valere il proprio interesse strumentale alla caducazione dell’intera procedura e alla tutela della chance di ottenere l’appalto, all’esito di una nuova procedura di affidamento.
Insomma, la vicenda metterebbe in luce la profonda “crisi” del sistema italiano di giustizia amministrativa, incapace di arginare la violazione del diritto europeo, concretizzata non in una isolata decisione asseritamente sbagliata, ma, addirittura, in una prassi interpretativa ritenuta contraria alla granitica giurisprudenza della CGUE.[60]
Resterebbe da chiedersi, allora, perché l’ordinanza, pur sembrando vistosamente orientata a ritenere che l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato non sia conforme ai parametri sanciti dal diritto UE, manifesti, al tempo stesso, l’esigenza di sottoporre un quesito alla CGUE, ancorché formulato in termini schematici ed assertori.
La scelta, che potrebbe apparire contraddittoria, sembra finalizzata ad ottenere una statuizione di principio da parte della CGUE, capace di vincolare, per il futuro, il giudice amministrativo[61]. Dunque, in questa prospettiva, la strada seguita dalla Cassazione appare pienamente apprezzabile.
Sia consentita, però, una considerazione critica.
Nella materia della legittimazione al ricorso, l’impostazione decisamente ampliatrice voluta dalla CGUE risulta sufficientemente consolidata, sicché potrebbe risultare poco utile promuovere interrogativi specifici, riferiti a fattispecie solo parzialmente diverse da quelle esaminate nei precedenti dalla Corte, a meno che non si vogliano evidenziare con chiarezza le ragioni del dubbio. Nella formulazione del quesito in esame, di contro, l’ordinanza non indica, nemmeno ipoteticamente, quali conseguenze potrebbe determinare la riscontrata differenza della fattispecie esaminata, rispetto ai casi già affrontati dalla giurisprudenza comunitaria.
E, come si dirà più avanti, molteplici elementi avrebbero potuto suggerire la proposizione di un quesito più articolato e maggiormente aderente al caso controverso.
Un altro aspetto che merita approfondimento riguarda l’individuazione della normativa italiana che si assume in contrasto con il diritto europeo.
L’ordinanza non menziona specifici articoli del codice del processo amministrativo, richiamando solo la “prassi interpretativa” del Consiglio di Stato.
Questa formulazione non è inusuale nelle ordinanze di rinvio, e viene utilizzata anche dalla stessa CGUE[62] ma è suscettibile di generare qualche equivoco[63].
Va detto, intanto, che la CGUE non dovrebbe porsi troppi problemi di ammissibilità di una questione formulata in questi termini, anche in considerazione della finalità di affermare comunque principi ermeneutici chiari e comprensibili, in ordine alla corretta lettura della disciplina di derivazione europea, anche se forse, avrebbe potuto gradire un’indicazione del quadro di insieme entro cui si colloca, per l’ordinamento italiano, il tema della legittimazione e dell’interesse ad agire.
In altre parole, la risposta al quesito da parte della CGUE si potrà risolvere agevolmente indicando la corretta interpretazione della normativa europea, tale da vincolare i giudici nazionali.
Pertanto, dal punto di vista del giudice del Lussemburgo potrebbe diventare irrilevante stabilire se la “prassi giurisprudenziale”, menzionata dall’ordinanza, costituisca davvero una fonte del diritto interno, suscettibile di verifica di compatibilità con il diritto UE.
A fortiori, per la CGUE non occorre accertare se, in concreto, si sia veramente in presenza di una “prassi” o se l’orientamento interpretativo dell’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, asseritamente contrastante con il diritto europeo, sia diffuso o isolato[64].
In sintesi, la CGUE, per giudicare della “pertinenza” e “rilevanza” del quesito si baserà sulla prospettazione del giudice nazionale, senza dovere indagare sui dettagli specifici della vicenda contenziosa.
Ciò chiarito, restano però seri dubbi in ordine alla adeguata formulazione del quesito, in relazione alla complessa vicenda sostanziale e processuale portata all’attenzione della Cassazione. Questo dipende dalla circostanza che il giudizio della Cassazione è sempre incentrato su una valutazione di legittimità e, nel caso dell’impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato, resta circoscritto alle sole questioni inerenti alla giurisdizione, ancorché dilatate, secondo l’auspicio dell’ordinanza di rinvio.
Ma la verifica della concreta violazione del diritto europeo, insieme alla decisione di rinvio alla CGUE si intreccia indissolubilmente con gli apprezzamenti del fatto sostanziale e delle tappe processuali attraverso cui si è snodato il giudizio nei suoi diversi gradi.
In tale ottica, si può notare che la decisione in commento non tiene in debito conto una serie di elementi particolarmente significativi. Alcuni di questi avrebbero potuto essere sottolineati, forse, per rafforzare i dubbi circa la conformità della decisione ai principi UE.
I) La determinazione di esclusione del ricorrente dalla procedura di gara si è verificata in una fase della procedura successiva a quella, preliminare, delle ammissioni dei concorrenti. È dunque una situazione certamente diversa da quella che si verifica quando un operatore economico è escluso, in limine, per carenza dei requisiti soggettivi o per manchevolezze oggettive dell’offerta, quali ad esempio, la tardività della sua presentazione.
II) Il giudizio di non sufficienza dell’offerta sotto l’aspetto tecnico è conseguito alla valutazione svolta da una commissione giudicatrice secondo il metodo del confronto a coppie. Ciò significa che il punteggio “insufficiente” deriva da una valutazione comparativa relativa, che non comporta necessariamente un giudizio di inidoneità tecnica assoluta dell’offerta.
III) La maggior parte delle censure non esaminate dal Consiglio di Stato riguarda aspetti della procedura influenti sulla stessa legittimità della determinazione di esclusione, involgendo la composizione della commissione giudicatrice e i criteri generali di assegnazione dei punteggi. In tal modo, la parte ricorrente non intende far valere un ulteriore interesse strumentale alla ripetizione della gara, ma vuole contestare, sotto molteplici profili, proprio il provvedimento di esclusione.
Sarebbe stato opportuno lumeggiare questi particolari aspetti, peraltro trascurati anche dall’impugnata decisione del Consiglio di Stato, per rendere più chiaro il quesito proposto alla Corte[65].
Emergono, però, anche altre peculiarità della vicenda, trascurate dall’ordinanza, che, al contrario, potrebbero attenuare l’evidenza del denunciato contrasto con il diritto UE.
A) Un primo aspetto riguarda la legittimazione alla proposizione delle singole censure, in correlazione alle ragioni dell’esclusione dell’operatore economico e del vizio lamentato. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se l’imprenditore escluso per assoluta inidoneità tecnica della propria offerta abbia un interesse giuridicamente protetto a lamentare la mancata suddivisione in lotti dell’appalto, dal momento che anche nell’eventualità di un corretto dimensionamento dell’appalto, la sua offerta, giudicata priva di requisiti tecnici essenziali, non avrebbe avuto alcuna chance di aggiudicazione.
B) Un secondo profilo riguarda l’approfondimento delle conseguenze derivanti dalla diversità delle posizioni processuali delle parti, a seconda che si versi in ipotesi di ricorsi incrociati reciprocamente escludenti o in casi di contestuale impugnazione della propria esclusione, dell’aggiudicazione e dell’intera procedura di gara. In un caso la verifica della legittimazione al ricorso si incentra sull’accoglimento o sulla reiezione di una domanda di parte. Nell’altro, invece, la legittimazione va verificata d’ufficio dal giudice.
C) Con particolare riguardo al tema della legittimazione al ricorso in relazione alla censura ella mancata suddivisione in lotti, andrebbe tenuto conto della circostanza che della questione si sono già occupate la Corte costituzionale[66] e la CGUE[67], esigendo il requisito della partecipazione alla procedura e precisando altresì che sussiste l’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando, ritenute immediatamente lesive[68].
Va peraltro osservato che nella formulazione del quesito, l’ordinanza in commento menziona tutte le censure non esaminate dal Consiglio di Stato, senza fare riferimento al motivo riguardante la mancata suddivisione in lotti. Non è chiaro se si tratti di una mera dimenticanza o di una scelta deliberata e se questa delimitazione del quesito potrà assumere rilevanza ai fini della pronuncia della CGUE.
D) Un ultimo aspetto riguarda il delicato problema dell’integrità del contraddittorio, in relazione alla domanda di annullamento dell’intera procedura di gara (e non della sola ammissione dell’aggiudicatario), che potrebbe travolgere anche le aspettative dei soggetti collocati in graduatoria[69]. A differenza del caso Puligienica, le parti collocate in graduatoria dopo l’aggiudicatario, non otterrebbero alcun beneficio potenziale dall’accoglimento del ricorso, ma perderebbero l’aspettativa ad un eventuale scorrimento della graduatoria. In altri termini, non sono cointeressati all’accoglimento del ricorso, ma potrebbero essere qualificati come (ulteriori) controinteressati.
Tutti questi interrogativi non solo mettono in rilievo lo scarto, non modesto, tra la concreta vicenda contenziosa e il quesito formulato, ma soprattutto dimostrano che il sindacato sulla violazione del diritto UE è normalmente intrecciato, in modo indissolubile, ad apprezzamenti sul merito della controversia, alla sua dimensione fattuale e alla peculiarità degli snodi processuali della vicenda: insomma, profili certamente estranei alla naturale fisionomia del giudizio di cassazione.
21. La riapertura del dibattito sull’ambito del sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato
In attesa degli esiti del giudizio dinanzi alla CGUE, ci si deve chiedere se l’ordinanza della Cassazione possa determinare, già nell’immediato, alcuni effetti di carattere sistematico, mettendo in discussione le certezze acquisite dopo la pronuncia n. 6/2018 della Corte costituzionale, in ordine all’assetto pluralistico delle giurisdizioni.
Il dibattito si è riaperto e, accanto a commenti prevalentemente critici sull’ordinanza in esame sono emerse anche alcune posizioni moderatamente favorevoli alla estensione del sindacato della cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato.
In questo quadro di generale ripensamento del sistema, si può certamente considerare l’utilità del sistema pluralistico delle giurisdizioni, sancito dalla vigente Costituzione. Secondo una dottrina condivisibile, “gli argomenti di Calamandrei, disattesi dall’Assemblea costituente, non hanno perso nulla del loro valore; anzi con gli anni, con l’estensione della giurisdizione esclusiva, con la revisione dei confini fra diritto amministrativo e diritto privato, con lo spazio maggiore riconosciuto oggi all’amministrazione consensuale, hanno acquisito un’attualità ancora più intensa. Il superamento del modello delle due giurisdizioni separate, a mio parere, si impone, nell’interesse innanzi tutto dei cittadini, e non è la meno importante o la meno urgente delle riforme che il nostro Paese meriterebbe. Nello stesso tempo, per rispetto dei ruoli definiti dalla Costituzione, è una riforma demandata al legislatore come appunto aveva richiesto Calamandrei, e non all’interpretazione dei giudici.”[70]
Ma è appena il caso di osservare che oggi gli argomenti nell’uno o nell’altro senso sono davvero tanti.
E, certamente, mettere mani sulle norme costituzionali che regolano la giurisdizione è operazione delicatissima, se non accompagnata da un’attenta e serena istruttoria politica ed istituzionale e condivisa dai protagonisti.
Come si è detto, invece, possono studiarsi alcuni aggiustamenti volti a rendere più omogena la disciplina processuale dei diversi ambiti.
Nel dibattito in atto meritano di essere segnalate, anche le interessanti ed articolate opinioni di chi, pur criticando l’impianto argomentativo delle Sezioni Unite, caldeggia una ragionevole apertura dell’ambito del ricorso per cassazione ex art. 111, comma ottavo, della Cost.
In questo senso va segnalata, la motivata posizione di chi ritiene che proprio nel caso di specie, considerato dall’ordinanza della Cassazione, si sia in presenza di un evidente rifiuto di giurisdizione, senza necessità di invocare i parametri del diritto UE. “Qui non ci si può trincerare dietro giri di parole, cercando di sostenere che è questione soltanto di assenza di presupposti processuali, di mancanza cioè di un interesse a ricorrere cha abbia i caratteri dell’attualità e dell’immediatezza. Affermare che il ricorrente è portatore di un interesse di mero fatto significa escludere che possa vantare la titolarità di un interesse che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela e che possa quindi agire per chiederne la protezione in sede giurisdizionale.”[71]
Il punto è che, per quanto convincente possa risultare questa opinione e possa considerarsi più o meno aderente alla corretta esegesi della norma costituzionale, essa sembra divergere dalla rigorosa posizione espressa, al momento, dalla Corte costituzionale e dal nucleo essenziale degli argomenti che la sorreggono.
Volendo schematizzare, si muove dal rilievo che l’eventualità di errori, anche gravi, del Consiglio di Stato non è affatto remota, giustificando l’estensione meditata dello strumento del ricorso per cassazione.
Si ricostruisce lo stesso indirizzo della Corte costituzionale, evidenziando che pure tale pronuncia apre importanti spiragli.
Si aggiunge che la tesi dell’ordinanza della Cassazione non convince affatto nella parte in cui predica una contrapposizione tra violazioni del diritto nazionale e del diritto europeo.
Le conclusioni meritano di essere analizzate con la massima attenzione.
Il rifiuto radicale di giustizia, sub specie di “arretramento” – aprioristico e astratto – dall’obbligo di fornire tutela giurisdizionale a una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento, adducendo ostacoli in rito manifestamente confliggenti con il sistema normativo primario, è una species, particolarmente grave, del genus “eccesso di potere giudiziario” nei confronti del potere legislativo[72].
La Corte di cassazione dovrebbe potere, e a mio avviso può e deve, cassare le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui “creino” un radicale e aprioristico vuoto di tutela, in frontale contrasto con il quadro legislativo interno.
Quindi, si ritiene che il problema tocca o dovrebbe toccare solo accidentalmente il diritto eurounitario, ovvero lo tocca soltanto se e in quanto il “rifiuto” si realizza rispetto a una fonte UE.
La dottrina in esame ne trae la convinzione secondo cui il rifiuto aprioristico di tutela di una posizione giuridica nelle forme stabilite dall’ordinamento non è una mera “violazione di legge”, ma è, incontrovertibilmente, una “questione di giurisdizione”.
Non è possibile entrare nel vivo degli argomenti proposti in tal senso e delle relative obiezioni: alcuni temi sono strettamente giuridici, altri toccano profili di opportunità e investono anche ipotesi di innovazioni legislative e costituzionali.
Possono indicarsi, però solo alcuni sintetici spunti di riflessione.
a) Le proposte ermeneutiche ampliatrici formulate dalla dottrina non sembrano trovare spunti negli argomenti eurounitari espressi dall’ordinanza delle Sezioni Unite.
b) Ma è davvero utile, nel momento attuale, prevedere una sorta di generalizzato intervento nomofilattico della Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo? Non vi è il rischio di una dilatazione dei tempi di definizione delle liti, con un uso strumentale del ricorso per cassazione? E il giudice ordinario è munito della strumentazione “specialistica” necessaria per penetrare nel profondo della giurisdizione amministrativa, considerando il carattere trasversale del diritto UE?
c) Se pure si decidesse di introdurre dei meccanismi di nomofilachia accentrata, non sarebbe allora inevitabile la costituzione di organi a composizione mista, come avviene, con successo, in altri ordinamenti e come auspicato, a suo tempo, dai vertici delle magistrature superiori?[73]
Se ciò appare ancora prematuro, non sarebbe utile intensificare la prassi, avviata con ottimi risultati, di coordinare la preparazione di interventi nomofilattici di comune interesse, come è avvenuto in materia di astreintes e di compensatio lucri cum damno.
d) Fino a che punto esiste un vero problema di “deficit” di tutela nella giurisdizione amministrativa, articolata in un doppio grado a cognizione tendenzialmente piena e devolutiva? Quali dati oggettivi dovrebbero indurre ad allargare l’ambito dei mezzi di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato?
e) Se proprio si ritiene opportuno rimediare agli errori (per avventura, anche gravi) in cui può cadere il Consiglio di Stato, più o meno sporadicamente, non sarebbe utile rivedere la logica distorta della legge n. 117/1988, prevedendo un agile e rapido strumento di reazione “in forma specifica”, davanti allo stesso giudice, modellato sul giudizio di revocazione?
f) Con riguardo ai temi più specifici della tutela giurisdizionale nel settore dei contratti pubblici, non potrebbe essere utile avviare una serena riflessione riguardante la messa a punto di un “diritto processuale europeo”, capace di chiarire i residui punti controversi, a cominciare dal nodo della legittimazione al ricorso? La direttiva ricorsi, nel suo nucleo essenziale, è rimasta ancorata all’impianto ormai “preistorico” del 1989: principi generici, riempiti di contenuto da una giurisprudenza pretoria non sempre lineare, come dimostra l’evoluzione della questione della legittimazione al ricorso.
g) Come si è detto, la strada imboccata dall’ordinanza delle Sezioni Unite, nonostante le sue lodevoli intenzioni, è destinata a realizzare pochi risultati sul versante del diritto eurounitario.
Gli argomenti esposti, in ogni caso, non sembrano capaci di mettere seriamente in discussione l’impianto argomentativo della decisione n. 6/2018 e la conforme giurisprudenza della Cassazione.
L’attuale sistema delle tutele è probabilmente migliorabile, sotto diversi profili.
Ma non pare davvero che vi sia un’urgenza di intervenire sulle scelte di fondo della Costituzione, modificando l’equilibrato assetto del pluralismo delle giurisdizioni, scolpito con chiarezza dalla Corte costituzionale.
[1] Le opinioni espresse in questo scritto non riflettono necessariamente la posizione del Consiglio di Stato e non intendono interferire sulla definizione del contenzioso in atto.
[2] Per l’indicazione di alcuni dei principali contributi sul tema, si rinvia a M.V. FERRONI,Il Ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato, Padova, Cedam, 2005 e I. ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007; M.A. SANDULLI, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. ed., 2006; R. VILLATA, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009); M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 2012, IV, p. 1677 ss.; A. CORPACI, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. Pubbl., I, 2013, p. 341 e ss.; R. VILLATA, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss.; P. PATRITO, I “Motivi inerenti alla giurisdizione” nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; R. DE NICTOLIS, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; F. FRANCARIO, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C.E. GALLO, Il controllo della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; M.A. SANDULLI, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi; A. PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2018; A. CASSATELLA, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2 del 2018; P. TOMAIUOLI, L’altolà della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in Consulta online, I, 2018; A. POLICE-F. CHIRICO, I «soli motivi inerenti alla giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Il Processo, I, 2019, 113 ss.
[3] Secondo M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, Giustiziainsieme, peraltro, “Il problema dell’ambito del potere di “cassazione” delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. non è nuovo e, soprattutto, non è legato ai rapporti con il diritto UE. Mario Nigro, nella sua “Giustizia amministrativa”, negli anni ’70, rappresentava l’esigenza di “precisare l’ambito della verifica che la Cassazione è chiamata a compiere”, riportando le diverse formule usate dal Codice processuale civile e dalla Costituzione, per rilevare che “nessuna di tali disposizioni, come si vede, è idonea a fornire precisazioni circa il detto ambito”.
[4] La sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008 delle Sezioni Unite, cassando la decisione dell’Adunanza Plenaria, che aveva affermato il principio della “pregiudiziale di annullamento quale condizione per poter promuovere l’azione risarcitoria a tutela degli interessi legittimi, per “rifiuto della giurisdizione”, afferma che, alla luce della “convergenza” degli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 111, primo comma (“che, mediante i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela giurisdizionale”), il termine “giurisdizione”, per quanto interessava ai fini della questione sottoposta alla Suprema Corte, “è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che l'ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento”. La conseguenza di tale ragionamento era che “Se attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce, vi attiene non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio”.
[5] Secondo la decisione n. 2242 del 6 febbraio 2015, pure largamente citata nell’ordinanza in commento, “in tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l'articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea, neppure sotto il profilo dell'osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ex articolo 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
[6] Come osserva esattamente TRAVI, op. cit.
[7] Su un altro terreno, si pongono le considerazioni sulla opportunità di una revisione costituzionale che attenui o cancelli il sistema pluralistico vigente. Il problema attuale consiste nel verificare quale spazio possano avere tesi interpretative “evolutive”, che superino il dato letterale della disciplina scritta.
[8] Si veda l’accurata ricostruzione di M.A. Sandulli, op. cit., la quale, richiamando M. Nigro, osserva che “le ipotesi di sconfinamento nel terreno di attività di organi legislativi e costituzionali si possono ritenere meramente teoriche e che lo sconfinamento nel campo legislativo si avrebbe quando il giudice non applica la norma esistente, ma una norma da lui creata e aggiungeva “ma è chiaro che di solito si tratta di mera e legittima attività interpretativa del giudice” (a sostegno dell’affermazione, citava le sentenze delle Sezioni Unite nn. 2543 del 1954 e 304 del 1967 e, in diverso senso, soltanto la sentenza n. 333 del 1946 che aveva annullato per eccesso di potere giurisdizionale una decisione della Commissione per i ricorsi in materia di proprietà intellettuale per avere applicato una norma che, a giudizio della stessa Suprema Corte, era incostituzionale per eccesso di delega. Lo stesso Autore riconduceva poi alla tipologia “sconfinamento in campo riservato ad altro organo costituzionale” l’ipotesi in cui il giudice esamina tanto a fondo una questione di legittimità costituzionale da superare i limiti di valutazione della non manifesta infondatezza, dando però atto della circostanza che la Suprema Corte aveva escluso un tale caso di sconfinamento con la sentenza n. 82 del 1968. Da ultimo, sottolineava che la tendenza a estendere il difetto giurisdizione al di là dei limiti in cui lo colloca l'articolo 37 aveva portato la Cassazione a comprendervi i vizi inerenti alla stessa posizione dell'organo giurisdizionale (organo privo della indipendenza) o alla sua costituzione (collegio composto da un numero di membri diverso da quello fissato dalla legge), nonché “la mancata motivazione” e aggiungeva che, con riferimento all’impugnativa di decisioni dei giudici amministrativi, la Cassazione aveva invece “giustamente negato” che rientrassero fra i motivi attinenti alla giurisdizione le denunce di vizi di extra o ultra petizione, di violazione del giudicato e di “improponibilità del ricorso per carenza di legittimazione ed interesse ad agire (Cass. 3145/1983) o per tardività del ricorso”.
[9] La Corte aggiunge che alla competenza naturale della Corte costituzionale, quale interprete ultimo delle norme costituzionali e di quelle che regolano i confini e l'assetto complessivo dei plessi giurisdizionali, spetta verificare l'affermazione delle sezioni unite della Cassazione (come organo regolatore della giurisdizione e non nell'esercizio della funzione nomofilattica), quale giudice rimettente, circa la sussistenza di un motivo di ricorso inerente alla giurisdizione, quale presupposto della legittima instaurazione del giudizio a quo.
In questo modo, la Corte costituzionale compie una duplice precisazione:
- la verifica del rispetto dell’art. 111, comma ottavo, va svolta anche ai fini dell’ammissibilità della questione incidentale di costituzionalità proposta dalle Sezioni Unite;
- trattandosi di stabilire il significato di una disposizione di rango costituzionale, tale compito è istituzionalmente attribuito alla Corte costituzionale, ancorché le Sezioni Unite siano chiamate ad applicare l’art. 111 e abbiano contribuito a delinearne il contenuto in relazione ai casi concreti sottoposti al loro vaglio.
[10] In tal senso: Cass., SS.UU., 6 marzo 2020, n. 6460; 17 dicembre 2018, n. 32622; 19 dicembre 2018, n. 32733, anche con specifico riguardo alla materia della esclusione e di aggiudicazione di appalti pubblici (Cass., SS. UU., 16 maggio 2019, n. 13243). In quest’ultima pronuncia le Sezioni Unite hanno ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione del concorrente escluso avverso la sentenza con cui il Consiglio di Stato aveva confermato la decisione di primo grado che aveva prioritariamente scrutinato e accolto il ricorso incidentale c.d. «escludente», con cui l’aggiudicatario deduceva profili di illegittimità dell’ammissione alla gara del ricorrente principale, non prima di aver sottolineato la «pregnanza e vincolante rilevanza della richiamata sentenza della Corte costituzionale » e affermato l’impossibilità di ricondurre «il vizio denunciato in relazione alla decisione del Consiglio di Stato in una violazione dei limiti esterni della giurisdizione».
[11] Basterebbe citare, fra le tante, la decisione delle Sezioni unite, 10 giugno 2020, n. 11125, secondo cui non è consentita «la censura della sentenza con la quale il giudice amministrativo adotti una interpretazione di una norma processuale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda ed in tal senso è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018), che ha ridimensionato drasticamente quell’ambito non solo escludendo in radice ogni legittimità dell'interpretazione estensiva (sulla base del concetto funzionale od evolutivo o dinamico della giurisdizione), ma pure circoscrivendo sensibilmente l’operatività della giurisprudenza maggioritaria. Il Giudice delle leggi ha invero statuito che la tesi che il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi “evolutiva” o “dinamica”, perché irrimediabilmente illegittima in quanto incompatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale. Pertanto, deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione che consenta una più o meno completa assimilazione del ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “motivi inerenti alla giurisdizione” con il ricorso in Cassazione per violazione di legge (punto 11 delle ragioni in diritto della qui esaminata sentenza della Consulta), visto che l’intervento delle Sezioni Unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della Cedu. Ne consegue che l’ “eccesso di potere giudiziario” va riferito alle sole ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, nonché a quelle di difetto assoluto di giurisdizione, cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermino la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghino sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento).
[12] In questo senso si pongono i dubbi di M.A.S. Sandulli, op. cit., secondo la quale la cassazione forse non aveva nemmeno bisogno di interrogare la Corte di Giustizia: “Si trattava, pertanto, di una ipotesi “classica” di “diniego di giustizia”, censura che, a partire dalle note pronunce gemelle del 13 giugno 2006 sulla cd pregiudiziale di annullamento della tutela risarcitoria, seguite, a fronte del perdurante orientamento del giudice amministrativa a favore di tale pregiudiziale, dalla – più netta e “severa” – sentenza n. 30254 del 2008, ha “turbato” il “dialogo” tra la Corte di cassazione e i giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), già messo a rischio dall’improvvida estensione della giurisdizione esclusiva su “gruppi di materie”, opportunamente frenata dalla “storica” sentenza n. 204 del 2004, ingenerando la preoccupazione dei secondi di subire la “cassazione” delle proprie sentenze (oltre che per l’invasione dell’ambito delle altre giurisdizioni e della sfera riservata al “merito amministrativo”) anche per il cd “arretramento” dalla propria potestas iudicandi.”
[13] Come si dirà infra, l’ordinanza in commento, nel secondo quesito proposto alla CGUE considera il caso del (solo) rinvio immotivato. Sembra, però, che questa formulazione non debba essere intesa in senso limitativo, perché il primo quesito, riguardando qualsiasi violazione del diritto UE, comprende, logicamente, anche il mancato rinvio (per quanto formalmente motivato).
[14] Poiché il mezzo processuale prescelto dalla Cassazione è quello del rinvio alla CGUE, il tema del sindacato ex art. 111, comma ottavo è riferito solo al diritto europeo. L’ordinanza, tuttavia, non afferma, espressamente, la propria adesione all’indirizzo rigoroso espresso, in termini generali, dalla Corte costituzionale n. 6/2018.
[15] Meno scontate sono le ricadute di una decisione della CGUE che affermi, espressamente, la compatibilità europea del sistema italiano, o che (ipotesi forse più probabile) decida di accantonare il tema (secondo il possibile itinerario argomentativo che sarà illustrato infra).
A stretto rigore, si potrebbe dire che la Cassazione, concentrando il proprio dissenso dalla Corte costituzionale solo sui profili di diritto UE, avrebbe implicitamente avallato il disegno interpretativo fissato dalla sentenza n. 6/2018.
Sicché, all’esito della decisione della CGUE non avrebbe altra strada che dichiarare inammissibile il ricorso e confermare la lettura tradizionale dell’art. 111 della Cost.
In senso opposto, tuttavia, si può pronosticare che la Cassazione possa comunque riaprire il dibattito sulla portata dell’art. 111 in un’ottica di (solo) diritto interno.
Va aggiunto che l’incertezza del quadro derivante dalla pronuncia della CGUE potrebbe complicarsi in dipendenza della risposta al terzo quesito proposto dalla Cassazione e delle conseguenti iniziative processuali delle parti del giudizio.
[16] M. Clarich, Giurisdizione: partita a poker tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Norme e Tributi, Il sole 24ore, 14 ottobre 2020; M.A.Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, Giustiziainsieme; G. TROPEA, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 7 ottobre 2020; A. TRAVI, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020; A. CARRATTA-G. COSTANTINO-G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020, si sono aggiunti quelli di B. CARAVITA, Postilla a S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione «fuori contesto»: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 195982, in federalismi, 4 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Ginevra GRECO, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; B. NASCIMBENE-P. PIVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 24 novembre 2020.
[17] B. Caravita, op. cit., osserva che “Certo, l’acribìa dimostrata dalla Cassazione nel costruire la questione di interpretazione avrebbe potuto essere esercitata per trovare una soluzione. Certo, si sarebbe potuto cercare ancora una strada interna alle giurisdizioni nazionali. Certo, dall’organo supremo di giustizia ci si sarebbe potuto attendere maggiore prudenza nell’indubbiare la Costituzione.”
[18] Come si spiegherà più avanti, la Cassazione imposta il tema in una prospettiva “unilaterale”, considerando l’ipotesi (corrispondente alla vicenda contenziosa in oggetto), in cui il ricorso per cassazione intenda far valere una situazione di “arretramento” o “rifiuto” della giurisdizione, derivante dall’errata disapplicazione del diritto europeo.
Questo atteggiamento potrebbe forse collegarsi all’esigenza di dimostrare che l’assetto normativo italiano è difettoso perché comporta concreti e seri rischi di inattuazione del diritto europeo.
Evidentemente, però, qualora si accedesse alla tesi estensiva propugnata dall’ordinanza, il sindacato della Cassazione dovrebbe operare anche in direzione inversa. Vale a dire che si potrebbe denunciare lo “sconfinamento” della giurisdizione amministrativa, la quale abbia erroneamente attribuito prevalenza al diritto europeo, accogliendo la domanda di tutela della parte attrice.
In altri termini l’estensione del sindacato della Cassazione a qualsivoglia violazione del diritto UE, non determina alcuna certezza che il giudizio si concluda in senso più favorevole alla posizione del ricorrente che invochi tutela giurisdizionale.
[19] Il punto riguarda il secondo quesito proposto dall’ordinanza n. 19598, concernente la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Come si spiegherà in prosieguo, peraltro, le argomentazioni relative al primo e al secondo quesito sono largamente coincidenti. L’unico elemento di significativa differenza potrebbe riguardare la certa praticabilità del ricorso per revocazione (e non per cassazione) nei casi (peraltro non frequenti), di omessa ingiustificata pronuncia sulla richiesta di rinvio ritualmente formulata dalle parti.
La differenza riguarderebbe la circostanza relativa all’assenza, o meno, di una motivazione del mancato rinvio.
[20] In questo caso, la Cassazione sembra profilare, gradatamente, due argomenti:
Il primo è che la Corte costituzionale, attraverso un’errata “prassi interpretativa”, avrebbe stravolto il significato dell’art. 111, comma ottavo.
Il secondo argomento è che l’art. 111, quand’anche fosse stato interpretato correttamente dalla Corte cost., entrerebbe in conflitto con il diritto di rango europeo.
Con riguardo al primo argomento, tuttavia, potrebbe essere utile richiamare i rilievi critici di TRAVI, op.cit.: “Di fronte a una norma costituzionale che risulta del tutto chiara nelle sue ragioni originarie, alla quale si è uniformato anche in codificazioni recenti il legislatore ordinario, che è stata oggetto di interpretazione costante fino ad anni recenti e di cui la Corte costituzionale ha puntualmente confermato la portata, mi pare che sia difficile, per giustificare un’interpretazione contrapposta, invocare gli spazi dell’interpretazione. In particolare non mi sembra si possa invocare un modo diverso, e più aggiornato, di esercitare la giurisdizione e di concepire la funzione giurisdizionale per giustificare una sostanziale disapplicazione dell’art. 111, ult. comma, Cost. A maggior ragione, da parte delle sezioni unite.
Né va trascurato che la lettura cristallizzata dalla Corte cost. si connette ad una tradizione interpretativa pluridecennnale, smentita solo in singoli casi e in tempi relativamente recenti, dal diverso indirizzo di alcune pronunce della Cassazione.
La ricostruzione dell’ordinanza, in questa parte, sembra quasi ipotizzare, invece, che la Corte costituzionale abbia improvvisamente arrestato l’evoluzione della giurisprudenza della cassazione.
Né può trascurarsi che l’ordinanza risulta eccessivamente sintetica, poiché non dà conto dei puntuali argomenti espressi dalla Corte costituzionale, anche con specifico riguardo alla sindacabilità delle violazioni del diritto UE.
[21] Nella vicenda in esame possono riscontrarsi differenze ed analogie rispetto al tema sollevato dal CGA siciliano dinanzi alla CGUE, risolto dalla nota sentenza Puligienica.
Anche in quel caso il giudice remittente lamentava che il codice del processo amministrativo comportasse un vincolo al rispetto della giurisprudenza della Plenaria, ritenuto in contrasto con il primato del diritto comunitario.
La decisione Puligienica ha forse frainteso la posizione del CGA in seno alla giurisdizione amministrativa, e il suo rapporto, istituzionale e procedimentale, con l’Adunanza Plenaria.
Le ricadute della decisione della CGUE, tuttavia, non sono particolarmente significative, anche sul versante della prassi. Le Sezioni semplici del Consiglio di Stato, in presenza di dubbi di compatibilità tra il diritto UE e i principi della Plenaria hanno compattamente scelto la strada del rinvio alla Plenaria.
La soluzione, oltre a rispecchiare meglio le caratteristiche unitarie dell’organo “Consiglio di Stato”, rafforza la corretta applicazione del diritto eurounitario, affidando all’organo nomofilattico il compito di dettare principi uniformi e solidi.
Nel caso in esame, al contrario, la Corte costituzionale risulta titolare di un potere vincolante, relativo alla interpretazione del parametro costituzionale di legittimità delle leggi.
E, tuttavia, se non può escludersi, a priori, la denuncia della illegittimità comunitaria di norme costituzionali, il giudice “comune” resta titolare del potere di sollecitare la stessa Corte costituzionale a verificare la correttezza del proprio indirizzo ermeneutico
[22] La Corte non esplicita se il rinvio, esposto nel terzo quesito, sia disposto perché ritenuto obbligatorio, o, semplicemente perché considerato opportuno, per ragioni di certezza ermeneutica generale.
Ma pare evidente che la Cassazione si sia ritenuta obbligata al rinvio.
Ciò per due motivi.
I) Alla luce del precedente secondo quesito, si evince che la Cassazione sia convinta che l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato abbia, a sua volta, violato l’obbligo.
II) La prospettata violazione del diritto UE non è palese, ma richiede una verifica della Corte.
[23] Non si può escludere che la questione della legittimità costituzionale della normativa, sul ricorso per cassazione, intrepretata secondo la tesi della giurisdizione dinamica potrebbe giungere alla Corte in via incidentale.
Si tratta di un’ipotesi più problematica, in considerazione della difficile dimostrazione della rilevanza del tema in sede di rinvio, quando si è ormai consumata la fase in Cassazione.
Ma potrebbe anche ventilarsi il caso, in cui, a fronte di un indirizzo della Cassazione contrastante con la sentenza n. 6/2018, siano le parti resistenti nel giudizio davanti alla Cassazione, a sollevare esse il dubbio di legittimità costituzionale, reclamando il rispetto della lettura voluta dalla Consulta.
In tale eventualità, la Corte sarebbe costretta a rinviare la questione alla Corte costituzionale, poiché la dichiarazione eventuale di manifesta infondatezza implicherebbe davvero una elusione del doveroso controllo della Corte costituzionale sul rispetto dell’art. 111, comma ottavo.
[24] Vedi M.A. Sandulli, op. cit., secondo la quale, la posizione della Corte costituzionale n. 6/2018 “ha però scatenato una reazione al “rialzo”, spingendo la Corte di cassazione a investire la Corte di Giustizia della ridefinizione del proprio ruolo di giudice ultimo di garanzia del rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi detentori del potere giurisdizionale nel nostro ordinamento.”
[25] Questo profilo sarà analizzato più diffusamente nei paragrafi successivi.
[26] Nell’ipotesi in cui la CGUE dovesse esplicitamente giudicare conforme al diritto UE la normativa nazionale, la Cassazione dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso, non emergendo più un tema di rilevanza comunitaria.
Sarebbe l’esito più semplice del contenzioso in atto. Ma, francamente, il quesito generale, per come formulato (ed al netto della sua corretta aderenza alla fattispecie concreta), pare destinato ad una diversa soluzione.
[27] Non sembra plausibile che la Cassazione, eventualmente chiamata ad approfondire il test di equivalenza ed efficacia della normativa italiana, possa concludere nel senso che l’autonomia procedurale italiana non sia rispettosa dei parametri euro unitari (vedi infra).
[28] Emerge, in tal modo, la “forzatura” compiuta dall’ordinanza in commento, forse preoccupata di dimostrare alla CGUE che si sarebbe in presenza di una violazione “sostanziale” del diritto al ricorso, previsto dall’ordinamento UE.
A stretto rigore, la Cassazione avrebbe dovuto fermarsi ai primi due quesiti. Solo se avesse ricevuto l’avallo della CGUE avrebbe potuto porsi gli ulteriori problemi applicativi. In tal senso, fra l’altro, la Cassazione avrebbe dovuto stabilire se la violazione dell’obbligo del rinvio pregiudiziale, comporti il potere della Cassazione di sostituirsi al Consiglio di Stato, mediante la diretta formulazione del quesito pregiudiziale alla CGUE o non determini, piuttosto, l’annullamento con rinvio al Consiglio di Stato, cui verrebbe restituito il potere di decidere, motivatamente, an e quomodo del rinvio pregiudiziale.
[29] Non va trascurato che se la CGUE mantenesse fermo il principio della sostanziale insindacabilità della legittimazione del giudice a comune a sollevare la questione pregiudiziale, secondo il diritto interno, la Cassazione, in futuro, potrebbe essere tentata – in punto di fatto – ad effettuare comunque il rinvio, magari allo scopo di vagliare la sussistenza del paventato vizio e dell’illecito ex lege n. 117/1988.
Ma si tratterebbe di una patologia, che potrebbe essere stigmatizzata davanti alla Corte costituzionale e, obiettivamente, poco probabile.
[30] TRAVI, op. cit.
[31] Le statistiche indicano che il Consiglio di Stato italiano è, in Europa, l’organo giurisdizionale che compie il maggior numero di rinvii pregiudiziali. E il dato è particolarmente significativo, considerando il rapporto con il numero dei ricorsi esaminati annualmente.
[32] La posizione istituzionale del Consiglio di Stato, favorevole all’incremento delle occasioni di dialogo, non può impedire in via assoluta che, in casi concreti, le decisioni possano risultare contrastanti con il diritto europeo.
E, tuttavia, non risultano, al momento, decisioni che abbiano accertato la violazione del diritto UE, ai sensi della legge n. 1117/1988. Né si conoscono procedure di infrazione originate dalla asserito illegittimo esercizio della funzione giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato.
[33] Ci si potrebbe chiedere se la formulazione di “principi di diritto” ad opera della Plenaria, o anche il semplice consolidarsi di prassi interpretative, possano configurarsi come “produzione di norme”, in senso molto lato.
In tali eventualità, però, l’eventuale contrasto con il diritto dell’Unione europea potrebbe derivare dal contenuto della decisione e non già dalla sua efficacia ex art. 99 del CPA.
[34] Art. 99, co. 3 del C.P.A: “Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall'adunanza plenaria, rimette a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.”
[35] Non è questa la sede per affrontare il problema se il meccanismo del vincolo procedimentale stabilito dalla disposizione determini una limitazione del potere di decisione del giudice.
[36] Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU 1989, L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007.
[37] Si potrebbe replicare che un grado ulteriore aumenti il livello di tutela del diritto UE e quindi, l’autonomia procedurale potrebbe liberamente esercitarsi in tale direzione. Ma il terzo grado potrebbe essere utilizzato proprio dalla parte che intenda rallentare la rapida operatività del diritto UE, diminuendo l’efficacia della tutela giurisdizionale,
[38] La Cassazione richiama anche la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale con sent. n. 93 del 2018, è pervenuta a conclusioni di tenore analogo a quelle raggiunte nella già citata sent. n. 123 del 2017, dichiarando infondata la questione di costituzionalità degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione della decisione del giudice amministrativo, quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame nel merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi a statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
[39] Un’analisi accurata del problema è svolta da Tropea, op cit., il quale rileva che “pare molto dubbio sostenere, come fanno le Sezioni unite, che il Consiglio di Stato abbia esercitato un potere giurisdizionale di cui sarebbe privo «per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale – censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione».
Il giudice amministrativo nostrano si è limitato, invece, proprio a dare una corretta interpretazione della norma europea vigente, mentre l’attività veramente creativa, sia in punto di individuazione delle posizioni legittimanti, che di (ri)perimetrazione della nozione di “motivi inerenti alla giurisdizione”, appare quella compiuta dalla Cassazione.”
[40] Alla Corte, semmai, qualcuno ha rimproverato l’eccessiva rigidità del principio espresso, che non consentirebbe alcuna modulazione in funzione delle peculiarità di determinate ipotesi.
[41] Già la sentenza n. 2242 del 6 febbraio 2015, citata nell’ordinanza di remissione alla CGUE, aveva fatto leva sull’argomento della prevenzione della responsabilità patrimoniale dello Stato, asserendo che vada cassata la sentenza del Consiglio di Stato a seguito di una sopravvenuta giurisprudenza della CGUE “al fine di "impedire, anche nell'interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria. In altri termini, la Cassazione, che deve decidere di un motivo di difetto di giurisdizione, applica, nel momento in cui decide, la regola che risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, se riscontra che la regola applicata dal Consiglio di Stato è diversa, cassa la decisione impugnata”.
[42] Senza sottovalutare il problema per così dire economico, si deve però ricordare che, proprio nella vicenda considerata dalla Cassazione si è in presenza di un interesse “strumentale”, la cui traduzione in termini di lesione patrimoniale concreta, è del tutto eventuale ed ipotetica.
Infatti, l’eventuale cassazione con rinvio della decisione lascerebbe aperti una serie di problemi applicativi in rito, che potrebbero comunque condurre ad un esito processuale della controversia. In ogni caso, la legittimità, nel merito, degli atti della procedura di gara contestata è tutta da verificare.
Dunque, in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione, l’eventuale azione risarcitoria proposta dall’interessato si appunterebbe sulla lesone di una chance, la cui ricorrenza in concreto dovrebbe però essere dimostrata in giudizio.
[43] Corte di giustizia, sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler c. Austria; Corte di giustizia, sentenza del 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo.
[44] In una prospettiva di più largo respiro, ci si potrebbe chiedere se la reazione alla violazione del diritto UE non possa essere allora attuata mediante l’ampliamento di altri strumenti processuali, quali, per ipotesi, il giudizio di ottemperanza (che ora, secondo il codice, può essere azionato anche dall’amministrazione soccombente), o mediante la proposizione di un autonomo giudizio di accertamento.
Sono palesi i limiti strutturali attuali di tali mezzi, ma questo non significa affatto che la dilatazione del sindacato della Cassazione costituisca necessariamente la via obbligata.
[45] Resta però da chiedersi in quali casi si potrebbe isolare il “rifiuto di giurisdizione” dalla decisione di merito o processuale.
[46] Anche volendo ritenere per ipotesi che, oggi, la Cassazione sia davvero più filo-europea del Consiglio di Stato, chi garantisce che, domani, non possa accadere il contrario?
[47] Senza voler semplificare un discorso di stampo, per così dire “culturale” molto delicato, non è possibile stabilire se il Consiglio di Stato sia più o meno filoeuropeista di quanto non lo sia la Cassazione.
[48] Ovviamente, il problema sarebbe superato qualora si optasse per una soluzione costituzionale incentrata sulla giurisdizione unica o sulla estensione del ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato a tutte le ipotesi di violazione di legge, nazionale, od europea.
[49] Travi, op. cit.
[50] Uno spunto importante al riguardo è fornito proprio dalla decisione Puligienica, che ha chiarito come il meccanismo previsto dall'articolo 99 del CPA, inteso ad assicurare la funzione nomofilattica dell’Adunanza Plenaria non può impedire alle Sezioni semplici di procedere direttamente all’applicazione del diritto europeo o al rinvio pregiudiziale.
La pronuncia non ha forse colto con esattezza il rapporto interno tra le sezioni semplici e la Plenaria, ma è chiaro lo sfavore per ordinamenti caratterizzati da un controllo accentrato sulla corretta applicazione del diritto europeo.
[51] Per un’illustrazione della disciplina convenzionale e dei progetti di legge di ratifica, sia consentito rinviare al commento di Lipari M., Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in Federalismi.it.
[52] Il DDL governativo concerne la “Ratifica ed esecuzione dei seguenti protocolli: a) Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013; b) Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013”.
[53] La Corte di cassazione ha costantemente escluso che anche la propugnata lettura “evolutiva” della nozione di “giurisdizione” possa legittimare l’attrazione al suo sindacato del mancato esercizio di detto obbligo di rinvio (sentenza n. 6605 del 2015, cit., che, confermando la propria linea di estrema cautela, osserva che, dal momento che “la suddetta Corte non opera, nell'esercizio del potere d'interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale (in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale), il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato a detta Corte non configura una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo).
[54] Specularmente, allora, la violazione dell’obbligo non si dovrebbe mai verificare qualora la giurisdizione superiore, pur consapevole del dubbio interpretativo, stabilisca di deciderlo autonomamente, e, tuttavia, pervenga ad una lettura ermeneutica corretta.
[55] Cons. Stato, sez. VI, n. 1244 del 5 marzo 2012 e Corte giust., C-136/12, del 18 luglio 2013.
[56] Si potrebbe discutere se, in via interpretativa, il motivo di ricorso riguardante al violazione del diritto UE comprenda, implicitamente, una censura riguardante il mancato rinvio. Ma questa opzione non è sviluppata dalla Cassazione e pare difficilmente conciliabile con i severi principi di specificità dei motivi di ricorso.
[57] In base alle circostanze, questa pronuncia potrebbe qualificarsi come decisione a sorpresa, emessa in violazione dell’art. 73, co. 3, del CPA, senza il prescritto contraddittorio verticale con le parti.
Poiché si tratterebbe di errore di diritto, però, non sembrerebbe costituire motivo di revocazione.
[58] È questa l’opinione diffusamente esposta da Ginevra Greco, op. cit.. Più problematica è la posizione di M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit.
[59] Nonostante le maglie molto larghe della valutazione sulla rilevanza normalmente operata dalla Corte di giustizia, sembra che a tale questione essa possa sentirsi chiamata a rispondere solo ove, improbabilmente, ritenga che la Corte di cassazione, in sede di motivi inerenti alla giurisdizione, debba sindacare il diritto dell’Unione e operare il rinvio pregiudiziale quale giudice di ultima istanza, mentre in caso contrario quella questione non avrebbe alcuna influenza concreta sulla soluzione (d’inammissibilità) del ricorso.
[60] La cronistoria della vicenda interpretativa potrebbe risultare complessa, così come è disagevole esprimere una valutazione sul perché il tema si sia così ingarbugliato.
Si rinvia a Tropea, op. cit., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche e di giurisprudenza.
Probabilmente, alla base del problema si pone la ricerca di un equilibrio tra la cultura “soggettivistica” della giurisdizione, radicata nel Consiglio di Stato e l’impostazione oggettivistica preferita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale, peraltro, ha visibilmente modificato la propria giurisprudenza nel corso degli anni, pronunciando decisioni, talvolta oscillanti, che, seppure condivisibili, hanno presentato evidenti limiti, che ne hanno reso problematica l’applicazione.
Sarebbe ingeneroso affermare, allora, che il Consiglio di Stato abbia manifestato un atteggiamento di contrapposizione frontale alla CGUE, poiché il dialogo tra le Corti si è svolto sempre in modo lineare e collaborativo.
[61] Non può trascurarsi, peraltro, che la proposizione del quesito, ha anche la funzione di richiamare l’attenzione della Corte sugli errori in cui può cadere il Giudice amministrativo, così rafforzando l’asserita necessità di intensificare il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, prospettata con il primo e il secondo quesito.
[62] Si veda, per tutte, la decisione 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18, la quale, nel proprio dispositivo, va riferimento esplicito alle violazione del diritto UE derivante “dalle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali”: “L’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un ricorso principale, proposto da un offerente che abbia interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono quest’ultimo, ed inteso ad ottenere l’esclusione di un altro offerente, venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorsi.”
[63] Si potrebbe sospettare che il riferimento alla “prassi interpretativa”, anziché alle norme nazionali, per come interpretate dal Consiglio di Stato, voglia realizzare due scopi.
a) Sottolineare una ipotizzata gravità della violazione, perpetuata dal Consiglio di Stato.
b) Dimostrare che l’indirizzo del Consiglio di Stato, sganciato da qualsiasi norma di diritto positivo, rappresenti un’indebita produzione di norme, che implicherebbe una violazione dei limiti della giurisdizione, persino nell’ottica della sentenza n. 6/2018.
[64] La sentenza impugnata richiama due precedenti pronunciati dalle Sezioni semplici.
Uno dei due (la sentenza n. 2852/2017), però, si limita ad un breve obiter dictum, nel contesto di una pronuncia di inammissibilità incentrata su una diversa assorbente ragione.
L’altro, invece (la sentenza n. 570/2018), riguarda, effettivamente, una vicenda analoga a quella esaminata dalla pronuncia impugnata.
Tale precedente, a sua volta, fa riferimento a due pronunce dell’Adunanza Plenaria (n. 4/2011 e n. 9/2014), riguardanti la questione specifica del rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale reciprocamente escludenti, ma dette pronunce non si occupano espressamente della questione riguardante la legittimazione del concorrente escluso per mancato superamento della soglia di sbarramento relativa alla valutazione dell’offerta tecnica.
[65] È certo che alla Corte non dovrebbero essere posti quesiti talmente dettagliati da risolversi, in ultima analisi, nella richiesta di indicare la decisione della controversia.
Né si può trascurare che la Cassazione deve in ogni caso riferirsi all’argomentazione giuridica utilizzata dall’impugnata decisione del Consiglio di Stato, ancorché non del tutto pertinente in relazione al caso concreto.
Tuttavia, sarebbe stato preferibile evidenziare la circostanza che la premessa giuridica della sentenza, anche se ritenuta coerente con il diritto UE, non dovrebbe avere influenza sulla decisione della controversia.
[66] Sentenza n. 245 del 22 novembre 2016.
[67] Corte giustizia Unione Europea, sez. III, sentenza 28/11/2018 n. C 328/17.
[68] Secondo la citata decisione della CGUE, “occorre ricordare che un ricorso siffatto non può, a pena di violare gli obiettivi di rapidità ed efficacia previsti sia dalla direttiva 89/665 sia dalla direttiva 92/13, essere presentato dopo che la decisione di aggiudicazione dell’appalto è stata adottata dall’amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2004, Grossmann Air Service, C 230/02, EU:C:2004:93, punto 37).
53 Inoltre, poiché è solo in via eccezionale che un diritto di proporre ricorso può essere riconosciuto a un operatore che non ha presentato alcuna offerta, non si può considerare eccessiva la richiesta che quest’ultimo dimostri che le clausole del bando rendevano impossibile la formulazione stessa di un’offerta.”
[69] Dalla lettura dell’ordinanza non risulta con chiarezza se le parti resistenti abbiano sviluppato questa difesa. Uno spunto in tal senso deriva dal passaggio della narrativa nel quale si dice che “la R. era unica ricorrente in giudizio all'esito di una gara cui avevano partecipato anche altri operatori economici che non avevano proposto impugnazione, con la conseguenza che l'aggiudicazione a favore del RTI S.-U. si sarebbe definitivamente consolidata.” (punto 13.2).
[70] TRAVI, op. cit.
[71] F. Francario, op. cit.
[72] Così M.A. Sandulli, op. cit. la quale aggiunge che “Ricostruito in questi termini – e davvero non si vede come possa non esserlo – il “rifiuto” è, tipicamente, una “questione di giurisdizione” e rientra, come tale, nell’ambito delle garanzie primarie dello Stato democratico che il Costituente ha inteso assicurare, anche, e direi proprio, nei confronti dei giudici amministrativi, che più facilmente, anche per la loro istituzionale vicinanza al potere normativo (come consulenti istituzionali e come componenti degli uffici legislativi), possono propendere allo sconfinamento).
[73] Si è consapevoli della netta contrarietà espressa dalla maggioranza degli attuali componenti della Cassazione e della serietà degli argomenti addotti, anche di rilievo costituzionale. E, tuttavia, la proposta meriterebbe approfondimento.
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