ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Regioni, scuola e COVID-19: il Giudice Amministrativo tra diritto allo studio e tutela della salute (Nota Cons. Stato 6453/2020)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. Le Regioni e la gestione del rischio pandemico nel “settore istruzione”. – 2. La Campania: il decreto del Consiglio di Stato e i suoi profili processuali. – 2.1. I profili sostanziali. – 3. La Basilicata. – 4. La Calabria. – 5. La Puglia. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Le Regioni e la gestione del rischio pandemico nel “settore istruzione”.
La gestione del rischio pandemico e del contagio interessa, come noto, tutti gli ambiti dell’agire pubblico, con inevitabili ripercussioni sulla vita privata dei cittadini. Uno di questi, oggetto di controversie a causa dei provvedimenti assunti dall’autorità amministrativa competente, è la scuola.
Le Regioni emanano ordinanze in successione in merito al rapporto tra diritto alla salute e diritto all’istruzione: i D.P.C.M. governativi si succedono allentando gradualmente le misure sul territorio nazionale, facendo tuttavia salve le prerogative regionali di introdurre disposizioni più rigide e restrittive, in relazione allo specifico contesto territoriale colpito dal virus.
Per avere un quadro complessivo della situazione, e delle problematiche che essa pone, è opportuno un esame della giurisprudenza che, da ultimo, si è pronunciata su alcune ordinanze regionali che sospendevano la didattica in presenza nelle scuole primarie.
Per l’analisi, da un punto di vista metodologico, si userà un criterio sistematico territoriale, passando al vaglio le pronunce dei Giudici di quelle regioni nelle quali sono nate controversie.
2. La Campania: il decreto del Consiglio di Stato e i suoi profili processuali.
La Regione Campania ha emanato una serie di ordinanze regionali[1] in materia di scuola, poi sfociate nella richiesta di tutela giurisdizionale dinanzi al Giudice di legittimità[2].
Il caso di questa regione è emblematico perché reca con sé due grandi questioni delle quali non può non farsi cenno: una di tenore processuale, concernente il doppio grado di giudizio sui decreti cautelari monocratici; l’altra, di natura sostanziale, riguardante invece la “forza” dei diritti in nome dei quali l’interpretazione delle regole processuali subisce una mutazione.
Il rapporto tra la giurisprudenza e l’emergenza pandemica corre infatti sul crinale di provvedimenti del Giudice amministrativo che sempre più frequentemente si occupano della tutela di diritti fondamentali e ad essa adattano l’interpretazione delle regole processuali[3].
Il provvedimento giurisdizionale ora segnalato[4] è uno dei pochissimi che si collocano in antitesi rispetto all’interpretazione consolidata e granitica del paradigma normativo ex art. 56 c.p.a., secondo la quale – nel silenzio del legislatore[5] – i decreti cautelari monocratici non sono impugnabili[6].
Con esso, infatti, il Presidente della III Sezione del Consiglio di Stato ha pronunciato in secondo grado su un decreto monocratico del TAR Campania, Napoli, con il quale il Giudice territoriale si era espresso in via cautelare in merito all’ordinanza della Regione Campania n. 89 del 5 novembre 2020.
Con quel provvedimento amministrativo, la Regione aveva provveduto alla conferma delle misure – già disposte con ordinanze nn. 86 del 30 ottobre 2020 e 87 del 31 ottobre 2020 – di sospensione delle attività didattiche ed educative nelle scuole primarie, secondarie e dell’infanzia.
Il tema è sensibile. Vengono in rilievo diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali quello degli alunni all’istruzione e quello dei genitori al lavoro: la protezione di questi diritti voga in direzione della riapertura delle scuole e, dunque, dell’annullamento (previa sospensione) dell’ordinanza regionale; viceversa, il diritto alla salute, in piena emergenza sanitaria, reclama la sua tutela inducendo le Amministrazioni territoriali regionali a disporre la chiusura degli istituti e l’erogazione di didattica a distanza.
Questo contrasto tra diritti è peraltro aggravato dalla temperie attuale: la quale, evidentemente, consente di accedere a uno strumento di cui il ricorrente, di regola, non può far uso, giusta l’interpretazione maggioritaria dell’art. 56 c.p.a.. Questo induce il Giudice di seconde cure a valutare positivamente l’ammissibilità dell’appello: nelle sue parole, «ricorre uno dei limitatissimi casi per i quali il Consiglio di Stato, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata del c.p.a., ammette l’istanza in appello, visto il pericolo affermato di irreversibile lesione di interessi che trovano diretto fondamento nella Carta».
2.1. I profili sostanziali.
L’ordinanza n. 89/2020, il cui gravame è giunto fino in Consiglio di Stato già in sede cautelare monocratica, recava misure abbastanza drastiche. In essa si prevedeva infatti la sospensione delle attività didattiche in presenza per le scuole primaria e secondaria, fatte salve situazioni concernenti alunni disabili; nonché la sospensione dell’attività in presenza nelle scuole dell’infanzia.
Questo sulla scorta di un’istruttoria svolta dall’Unità di crisi regionale la quale comunicava, nel suo report periodico, che «Dall’apertura delle scuole (private e pubbliche) si è avuto un progressivo incremento dei casi positivi nelle varie fasce di età interessate, con una correlazione positiva con il numero di casi in età adulta»; che tuttavia la chiusura delle scuole era stata in grado di contrarre i dati epidemiologici; sicché «al fine di continuare ad arginare la diffusione del contagio, appare utile e necessario continuare le attuali misure di contenimento già in essere mediante nuovo provvedimento che proroghi di almeno 7 giorni le precedenti misure».
Nello stesso report, l’Unità di crisi segnalava che «in un’ottica di prevenzione del rischio e non di rincorrere con misure postume il progressivo aumento del contagio, ormai in crescita esponenziale, la proroga delle misure fino ad ora messe in campo appare proporzionale ed indispensabile».
Sicché, la Regione ha provveduto con ordinanza alla proroga delle misure restrittive, ritenute – incorporando le parole del report – proporzionali e indispensabili[7] in un’ottica di prevenzione o, prima ancora, di precauzione[8].
La reazione è stata immediata, sicché il TAR Campania, adito in prime cure, si è pronunciato con un decreto cautelare che ha respinto la domanda dei ricorrenti. I quali hanno poi appellato quel provvedimento – come detto, contrariamente all’orientamento giurisprudenziale consolidato che non lo ammette – dinanzi al Consiglio di Stato.
Il Giudice, nel decreto monocratico qui in commento, si pronuncia anzitutto sui profili di ammissibilità, giustificata – come più sopra accennato – dal fatto che l’oggetto della tutela è costituito da diritti fondamentali, di rilievo costituzionale, in contrasto tra loro: all’istruzione, al lavoro, alla salute e all’incolumità.
Nel merito, poi, due sono i punti che emergono nitidamente al vaglio giurisdizionale:
Quanto al primo aspetto, il Consiglio di Stato esamina le posizioni degli appellanti e della Regione resistente circa l’idoneità del report dell’Unità di crisi regionale a costituire una base scientifica per una scelta tecnico-discrezionale tale da giustificare la prosecuzione delle misure di sospensione della didattica in presenza. L’aggiornamento dei dati – invero sin troppo celere, tanto da indurre le Amministrazioni a provvedere giorno per giorno, adeguando costantemente le misure – è il punctum dolens. Secondo la considerazione del Consiglio di Stato, anche se l’istruttoria è completa, e dunque la decisione amministrativa ragionevole, ciò non esaurisce «il dovere dell’Amministrazione di rendere conoscibili i dati scientifici nella loro interezza, con gli aggiornamenti giornalieri e con le indicazioni scientifiche prognostiche del minor impatto-contagio dovuto alla sospensione “in presenza” dell’attività didattica». Non v’è, tuttavia, un vizio d’istruttoria per il Giudice amministrativo. L’ordinanza della Regione reca tutti i dati a sua disposizione e la relazione dell’Unità di crisi, che ne costituisce la motivazione per relationem, non risulta essere manifestamente illogica, carente o contraddittoria: di conseguenza, nessuno di questi vizi affligge il provvedimento regionale gravato in prime cure.
Quanto, poi, al contemperamento degli interessi, il Giudice rileva che – in difetto di prova dell’illogicità della misura regionale – prevale senza dubbio alcuno la necessità di una più rigorosa prevenzione della salute pubblica nell’ambito territoriale di competenza della Regione: il Presidente ha il potere di provvedervi, e può farlo proprio in virtù del fondamento costituzionale del diritto alla salute che deve tutelare.
Resta il problema della conoscibilità[9] e dell’aggiornamento dei dati tecnico-scientifici a fondamento dell’ordinanza: questione che il Consiglio di Stato scioglie ordinando alla Regione – ai fini del prosieguo della fase cautelare innanzi al TAR – il deposito dei dati e della documentazione scientifica dell’Unità di crisi regionale aggiornati alla data dell’ordinanza e quello dei dati scientifici/medici prognostici sull’effetto positivo della sospensione scolastica “in presenza” ai fini della contrazione dei contagi.
L’appello cautelare è dunque rigettato. Le misure sostanziali sono peraltro confermate dall’ordinanza regionale n. 93/2020, vigente al momento della stesura di questo contributo.
3. La Basilicata.
Diversamente da quanto accaduto in Campania in prime cure – e innanzi al Consiglio di Stato in appello – la Regione Basilicata ha uno scenario che pare tutelare maggiormente il diritto all’istruzione.
Lo testimonia un articolato decreto presidenziale[10] di accoglimento d’istanza cautelare monocratica, pronunciato su un’ordinanza regionale[11] che impone la didattica a distanza nella scuola primaria e secondaria di primo grado.
Quanto al periculum, il ragionamento del Giudice s’impone per la peculiarità dell’interpretazione del lemma «estrema gravità e urgenza» di cui alla norma di riferimento: se – in un contesto ordinario – la impellenza dev’essere «estrema», e dunque deve avere un quid pluris rispetto alla tutela cautelare collegiale ex art. 55 c.p.a. – per invocare la quale è sufficiente paventare il «danno grave e irreparabile» –, è pur vero che la fattispecie concreta impedisce di giungere alla tutela collegiale. Il provvedimento regionale del quale i ricorrenti chiedono la sospensione cautelare ha invero una efficacia che si esaurisce il giorno successivo alla prima udienza collegiale utile. Sicché, il Giudice in veste monocratica, per accogliere la domanda cautelare sotto il profilo del periculum e del fumus, valuta questi elementi non alla stregua dell’art. 56 c.p.a., bensì come se i ricorrenti avessero invocato una tutela cautelare collegiale ex art. 55 c.p.a.: questo è richiesto da una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni processuali al fine di garantire l’effettività della tutela anche in via immediata e cautelare[12].
Quanto invece al danno, il Tribunale lucano sottolinea che deve escludersi la possibilità che il Presidente della Regione di modificare l’assetto organizzativo in via generalizzata dell’attività scolastica, alterando il quadro delle misure calibrate dal governo per effetto di un diverso apprezzamento dei parametri di rischio epidemiologico e delle misure di contenimento necessarie e sufficienti per fronteggiare la situazione quale risulta compendiata nei diversi “scenari” rappresentati e determinati dall’Autorità governativa centrale. La Regione può solo motivatamente derogare, introducendo misure più restrittive a favore della salute dei cittadini[13], ove giudichi queste restrizioni indispensabili in aree infraregionali per specifica situazione locale o per inadeguatezza delle misure di contenimento adottate nelle strutture scolastiche in particolari contesti; ciò, sempreché risulti insufficiente o inefficiente il ricorso a rimedi alternativi in grado di evitare o contenere l’applicazione delle restrizioni nella misura minima compatibile con le esigenze di sanità pubblica.
Sicché il TAR accoglie la istanza cautelare ma non sospende l’ordinanza: utilizza una misura alternativa, imponendo alla Regione un riesame del suo provvedimento per la parte oggetto d’impugnativa, ingiungendole di seguire le indicazioni del decreto cautelare nella ricerca di misure compatibili con il prosieguo delle attività didattiche secondo quanto previsto dal governo.
4. La Calabria.
Anche la Regione Calabria aveva emanato ordinanza con la quale sospendeva sull’intero territorio regionale le attività educative e didattiche in presenza in tutte le scuole di ogni ordine e grado, con ricorso alla didattica a distanza.
Anche questa ordinanza è stata impugnata con correlativa istanza di concessione di misure cautelari ex art. 56 c.p.a.: istanza accolta con decreto presidenziale.
Il Giudice territoriale spende pochissime parole sul periculum, ritenuto sussistente in relazione al «grave pregiudizio educativo, formativo e apprendimentale ricadente sui destinatari ultimi del servizio scolastico».
Sotto il profilo del fumus boni iuris, il TAR ha ritenuto sussistente il contrasto del provvedimento regionale con le misure governative[14], le quali introducono la possibilità di fare attività didattica “in presenza” nella scuola materna, in quella elementare e nella prima media. Rileva, invero, la necessità di assicurare a queste categorie di alunni, più piccoli e dunque in fase di primo sviluppo sociale, attività formative adeguate all’evoluzione della loro personalità non surrogabili da una eventuale – sempre qualora concretamente attivabile con carattere di generalità – didattica a distanza[15].
L’atto regionale sconta un difetto d’istruttoria: una misura generalizzata all’intero territorio regionale[16] di sospensione delle attività didattiche avrebbe dovuto esser basata su una «almeno verosimile indicazione di coefficienti e/o percentuali di contagio riferibili ad alunni e operatori scolastici»; l’ordinanza de qua, invece, fonda sulla mera rappresentazione della «problematica connessa ai numerosi contagi di studenti e operatori scolastici», senza certezza alcuna del nesso di causalità intercorrente fra lo svolgimento in presenza delle attività didattiche nella scuola materna, in quella elementare e media di primo grado (limitatamente al primo anno) e il verificarsi dei contagi. L’istruttoria procedimentale è ritenuta, pertanto, sommaria e carente.
5. La Puglia.
La situazione pugliese è piuttosto peculiare, se non altro perché le ordinanze del Presidente dell’Amministrazione territoriale regionale sono state oggetto di pronunce interinali diametralmente opposte da parte del Tribunale amministrativo barese e della sua sezione distaccata leccese.
L’ordinanza gravata – la n. 407 del 27 ottobre 2020[17] – prescriveva la sospensione delle attività in presenza in tutte le scuole di ogni ordine e grado con contestuale adozione della didattica digitale integrata e riserva delle attività in presenza esclusivamente ai laboratori (ove previsti dai rispettivi ordinamenti dal ciclo didattico) e alla frequenza degli alunni con bisogni educativi speciali.
Ciò sulla scorta del D.P.C.M. 24 ottobre 2020 – a mente del quale «fermo restando che l’attività didattica ed educativa per il primo ciclo di istruzione e per i servizi educativi per l’infanzia continua a svolgersi in presenza, per contrastare la diffusione del contagio […] le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica […] incrementando il ricorso alla didattica digitale integrata» – nonché dei report di monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), i quali rilevavano un incremento allarmante dei contagi nelle comunità scolastiche, rivelatisi potenziali cluster familiari e comunitari impeditivi del contact tracing territoriale. La Regione Puglia rilevava, dunque, l’insufficienza delle misure adottate con la precedente ordinanza del 25 ottobre 2020.
Il provvedimento regionale ha subìto una vicenda processuale anch’essa peculiare, essendosi pronunciate su di esso in via cautelare entrambe le sezioni dei Tribunali amministrativi della regione Puglia: Bari e Lecce[18]. Una circostanza – indubbiamente atipica e foriera d’incertezze – legata forse anche al diverso impatto che le misure amministrative di prevenzione avevano sulla zona delle province di Bari, BAT, Foggia e su quella – più specificamente salentina – di Lecce, Brindisi e Taranto[19].
Le decisioni monocratiche, praticamente contestuali, come detto, conducono a due orientamenti diametralmente opposti.
Il Giudice barese[20] – in accoglimento dell’istanza cautelare monocratica – rileva che il provvedimento gravato non è coerente con le misure governative frattanto sopravvenute (il D.P.C.M. 3 novembre 2020) e che, pertanto, si rende necessario l’intervento giurisdizionale immediato. Se il livello governativo prevede, infatti, la predisposizione di didattica in presenza, l’ordinanza regionale impugnata si colloca in netto contrasto con quelle disposizioni.
Ciò soprattutto in ragione dell’inadeguatezza del sistema scolastico pugliese ad attivare subito la didattica a distanza: con un effetto dell’ordinanza sostanzialmente interruttivo delle attività didattiche e dei servizi all’utenza scolastica.
Il fumus è poco indagato. Un veloce riferimento – anche qui – a un vizio motivazionale ictu oculi: «dalla motivazione del provvedimento impugnato non emergono ragioni particolari per le quali la Regione Puglia non debba allinearsi alle decisioni nazionali in materia di istruzione».
L’orientamento del Giudice leccese[21] conduce invece al rigetto dell’istanza cautelare monocratica avverso la medesima ordinanza regionale. Una motivazione stringata, essenziale, che fonda sull’importanza dei valori costituzionali contemperati dal provvedimento impugnato e sulla temporaneità delle rigide misure di sospensione dell’attività in presenza, le quali consentono comunque la didattica a distanza, che soddisfa parzialmente l’interesse all’istruzione.
Il bilanciamento degli interessi vede, pertanto, una netta prevalenza di quello alla salute e all’incolumità su quello «organizzativo delle famiglie coinvolte»: il provvedimento regionale non merita d’esser sospeso, dunque.
Il contrasto giurisprudenziale non è stato certo immune da conseguenze: con ordinanza immediatamente successiva[22], la Regione Puglia ha preso atto dei profili rilevati da entrambi i Giudici territoriali. Ha dunque rimodulato le proprie misure in modo da conciliare gli interessi così fortemente confliggenti: «il conflitto tra pronunce dello stesso TAR Puglia (sede di Lecce e sede di Bari) dimostra indiscutibilmente l’incertezza della stessa Magistratura a valutare in modo univoco il bilanciamento tra il diritto alla salute con il diritto allo studio, tanto che il TAR di Bari, accogliendo l’istanza di sospensione, se pur con un decreto cautelare destinato a perdere efficacia a seguito della pronuncia collegiale fissata per il 3 dicembre, ha operato una drammatica scelta tra il diritto alla salute – tutelabile con la didattica digitale integrata – e il diritto allo studio, decidendo di privilegiare quest’ultimo con la didattica in presenza». La Regione, in applicazione dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità, ha dunque disposto che il diritto alla salute ha una preminente esigenza di tutela. Ciò non deve condurre, tuttavia, all’interruzione della didattica: stanti le inadeguatezze tecnologiche, il diritto allo studio deve essere tutelato in modo alternativo. Sicché quell’ordinanza della Regione Puglia – confermata da ordinanza successiva[23], oggi vigente – rileva che le scuole devono garantire la didattica a distanza nelle scuole elementari e medie «per le famiglie che ne facciano richiesta».
Lasciando, dunque, ai genitori la facoltà di scegliere se mandare i propri figli a scuola oppure usufruire della didattica a distanza. Una decisione contrastata e che tuttavia parrebbe adeguatamente bilanciata per tentare di contemperare le esigenze del diritto alla salute e del diritto allo studio alla luce del sopravvenuto D.P.C.M. 3 novembre 2020.
6. Osservazioni conclusive.
Quelle che possono farsi in questa sede sono conclusioni parziali e transeunti: non si ha alcuna pretesa d’esaustività.
L’esame dei decreti cautelari impone di soffermarsi su due aspetti.
Quello processuale, anzitutto. Si percepisce dall’intelaiatura delle pronunce qui esaminate un’attenzione specifica del Giudice al ricorrere del periculum, più che del fumus. Vero è che – trattandosi di decreti monocratici – il requisito dell’urgenza dettata da ragioni temporali contingenti assume un rilievo maggiore: questo profilo diventa ancor più spiccato in tempi nei quali l’agire amministrativo segue ritmi così convulsi da modificare il corso degli eventi nell’attesa di pronunce cautelari collegiali, che poi finiscono per dichiarare i ricorsi improcedibili per sopravvenuta carenza d’interesse.
Il versante processuale si arricchisce di uno specifico tema: ne indica i contorni il decreto del Consiglio di Stato analizzato in apertura. Si è fatta strada, pur nelle ipotesi limitatissime dell’urgenza di una tutela di diritti previsti dalla nostra Costituzione, la possibilità del doppio grado di giudizio sul decreto cautelare monocratico. Una conseguenza del diritto dell’emergenza anche sul piano del processo[24]. I punti nevralgici che sorreggono il decreto monocratico del Consiglio di Stato si riferiscono proprio al contrasto tra diritti costituzionalmente tutelati: una rappresentazione di quanto i diritti fondamentali possano giustificare l’adattamento di interpretazioni consolidate delle regole processuali. Non v’è dubbio, però, che la categoria dei diritti fondamentali è di per sé sfuggente: come tale, rischia di diventare nebulosa anche la regola processuale dell’inappellabilità del decreto monocratico. Asserire che si può derogare all’interpretazione consolidata dell’art. 56 c.p.a. perché ci sono in gioco diritti tutelati dalla Costituzione genera dovuti interrogativi: non essendovi un catalogo certo e cristallizzato, non è agevole distinguere tra diritti fondamentali e non, poiché la Costituzione – in realtà – li tutela tutti; gli stessi diritti fondamentali per definizione (la salute, il lavoro, la vita) sono d’incerto e problematico bilanciamento[25], per cui la prevalenza dell’uno sugli altri non è di agevole affermazione. Ne consegue che la regola processuale relativa all’ammissibilità o meno di un appello a decreto cautelare dipende dal diritto fatto valere. Il sistema è così permeabile attraverso un oggetto d’incerta qualificazione e classificazione: rendendo le regole del processo sin troppo ambigue, con inevitabili riflessi sull’effettività della tutela.
Sul versante sostanziale, poi: sempre sui diritti in conflitto. Non è secondario per il Giudice amministrativo il fatto che vengano in rilievo diritti fondamentali (pur con le perplessità che chi scrive ha appena manifestato). Quello alla salute. Quello all’istruzione. Quello al lavoro.
Il bilanciamento si mostra complesso e non v’è un diritto che prevalga nettamente sugli altri: la portata del diritto alla salute viene limitata dall’Amministrazione tramite il principio di proporzionalità e il Giudice ne valuta la legittima applicazione. Serpeggia, infatti, nelle pronunce, non soltanto il diritto allo studio e all’istruzione del singolo: ma il dovere inderogabile della Repubblica di assicurare lo sviluppo della persona. Viene in rilievo, insomma, l’art. 2 Cost.[26]: uno dei pilastri fondativi della nostra Carta costituzionale.
Nessun decreto lo cita. Tuttavia, è evidente che il pericolo delle misure che tutelano (quasi) esclusivamente il diritto alla salute, sospendendo le attività didattiche ed educative in presenza, è quello di privare gli alunni – specie i più piccoli – del primo ambiente sociale esterno alla famiglia nel quale iniziano a sviluppare la propria personalità in relazione agli altri.
Questo richiede una solidità motivazionale e tecnico-scientifica delle ordinanze particolarmente forte. Di ciò il Giudice è perfettamente conscio: l’urgenza delle decisioni e l’affastellarsi di dati epidemiologici niente affatto rassicuranti lo fanno propendere – non escludendosi da questa considerazione nemmeno il decreto del TAR Bari[27] e quello del TAR Basilicata[28] – per una più marcata tutela del diritto alla salute.
Lo dimostra con una certa continuità l’iter motivazionale dei decreti che, pur con le dovute oscillazioni e l’unicità del percorso decisorio di ciascun Giudice territoriale, guardano ai dati scientifici ed epidemiologici a fondamento delle gravate ordinanze regionali: le misure sono drastiche, specie nelle Regioni più colpite, sicché è essenziale vagliarne da subito eventuali vizi d’istruttoria e motivazione.
È ciò che fa il Consiglio di Stato in appello sul TAR Campania; è ciò che fa il Giudice calabrese, rilevando la genericità del riferimento all’incremento dei contagi, di per sé non sufficiente a giustificare l’ordinanza di sospensione delle attività didattiche.
Fanno eccezione a questo iter motivazionale il Giudice amministrativo barese e quello lucano: i quali accolgono l’istanza cautelare senza alcuna contestazione dell’approfondimento istruttorio da parte della Regione. In quei casi le ordinanze sono state sospese monocraticamente perché la loro attuazione non poteva esser garantita dal sistema scolastico regionale, privo delle dovute infrastrutture e dotazioni tecnologiche per garantire la continuità della didattica a distanza. Non perché la sospensione delle attività in presenza fosse illogica o immotivata: il vaglio istruttorio non rileva l’insufficienza dei dati epidemiologici né la loro inconoscibilità o il loro mancato aggiornamento, ma guarda alla logicità del complessivo bilanciamento praticato dall’Amministrazione regionale tra tutela del diritto alla salute e salvaguardia di quello all’istruzione tramite garanzia della continuità didattica, pur a distanza.
È evidente, allora, che la complessità del quadro impone un attento vaglio giurisdizionale, che fa uso dei principi di precauzione e di proporzionalità, perché in gioco ci sono il diritto allo studio, all’istruzione, al lavoro, alla salute e alla vita. La compressione del diritto fondamentale di sviluppare la propria persona nelle formazioni sociali può essere giustificata dalla tutela del concorrente diritto alla salute: nondimeno, essa dev’essere comunque garantita tramite misure alternative, di matrice – inevitabilmente – telematica.
Ancora una volta, non v’è un diritto “tiranno” rispetto agli altri: nemmeno quello alla salute, in nome del quale non possono essere interrotte le attività educative e sociali, poiché le Amministrazioni devono garantirne l’erogazione continuativa e stabile, seppure in modo diverso e innovativo.
[1] Le ordinanze si susseguono a ritmi convulsi. Attualmente è in vigore la n. 93 del 28 novembre 2020, la quale, con decorrenza dal 30 novembre 2020 e fino al 7 dicembre 2020, fatte salve eccezioni ivi previste, restano sospese le attività didattiche in presenza delle classi della scuola primaria diverse dalla prima, quelle della prima classe della scuola secondaria di primo grado nonché quelle concernenti i laboratori. V. in proposito gli aggiornamenti costanti su www.regione.campania.it.
[2] Il TAR Campania annovera più pronunce cautelari sul punto, tutte in forma di decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a.: TAR Campania, Napoli, Pres. V Sez., dec. 19 ottobre 2020, n. 1921 e n. 1922; Id., 9 novembre 2020, n. 2025, n. 2026, n. 2027; Id., 10 novembre 2020, n. 2033.
[3] È emerso invero il problema dell’effettività della tutela cautelare monocratica e del doppio grado di giudizio su di essa. V. in proposito, amplius, M.A. Sandulli, La tutela cautelare, in Dir. proc. amm., n. 4/2010, pp. 1130 ss.
[4] Cons. Stato, Pres. III, dec. 10 novembre 2020, n. 6453.
[5] L’art. 56 c.p.a., come noto, concerne la tutela cautelare monocratica in corso di causa e non si esprime sui rimedi avverso il decreto che si pronuncia sull’istanza del ricorrente volta a invocarla. Nel silenzio del legislatore, il consolidato orientamento giurisprudenziale propende per la inappellabilità dei decreti cautelari monocratici. V. in proposito anche M.A. Sandulli, La tutela, cit.; E. Follieri, Le novità del codice del processo amministrativo sulle misure cautelari, in Dir. e proc. amm., n. 3/2011, pp. 733 ss.
[6] Analizza criticamente le ragioni fondative di quest’orientamento A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in Federalismi.it, n. 1/2020. Sulla capacità conformativa dei poteri giurisdizionali esercitata da parte dell’emergenza sanitaria v. da ultimo R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1428-emergenza-pandemica-e-tutela-cautelare-monocratica-di-raffaella-dagostino.
[7] Le decisioni amministrative farebbero dunque applicazione del principio di proporzionalità, sul quale v. tra gli innumerevoli autori, A. Sandulli,La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; Id., (voce) Proporzionalità, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. V, Milano, 2006, pp. 4643 ss.; D.-U. Galetta, La proporzionalità quale principio generale dell’ordinamento, Nota a Cons. Stato sez. V 14 aprile 2006, n. 2087, in Gior. dir. amm., n. 10/2006, pp. 1107 ss.; Id., Il principio di proporzionalità fra diritto nazionale e diritto europeo (e con uno sguardo anche al di là dei confini dell’Unione Europea), in www.giustizia-amministrativa.it, 2020; S. Villamena, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa, Milano, 2008; S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; E. Buoso, Proporzionalità, efficienza e accordi nell’attività amministrativa, Padova, 2012.
[8] È noto il discrimen esistente tra prevenzione e precauzione, la prima relazionandosi al pericolo (certo), la seconda invece al rischio (incerto). Lo spiega bene P. Savona, Il principio di precauzione e il suo ruolo nel sindacato giurisdizionale sulle questioni scientifiche controverse, in Federalismi.it, n. 25/2011: «Il pericolo (Gefahr) […] è una situazione in cui, se non si interviene per cambiare il corso degli eventi, ci si può aspettare con ragionevole probabilità che si verificherà un danno a beni giuridici protetti dall’ordinamento. […] il rischio [Risiko, n.d.r.] si riferisce a situazioni in cui non è valutabile la probabilità che certi eventi si verifichino (incertezza in senso ampio) o in cui non sono nemmeno valutabili i possibili sviluppi degli eventi e i loro effetti (incertezza in senso stretto). Detto in altri termini, mentre il pericolo rappresenta un evento dannoso futuro e incerto il cui verificarsi, alla luce dell’esperienza passata, può ritenersi ragionevolmente probabile, il rischio è un evento dannoso futuro e incerto, di cui non è possibile allo stato attuale delle conoscenze valutare in maniera sufficientemente sicura le probabilità (o anche solo le modalità) di avveramento. Il rischio ricorre pertanto in caso di sospetto di pericolo (Gefahrenverdacht), in situazioni di “non ancora pericolo” (noch nicht Gefahr), e può essere definito come il “pericolo della valutazione errata del pericolo” (“Gefahr einer Fehleinschaetzung der Gefahr”)».
V. in proposito anche C.R. Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, 2001, trad. it. Bologna, 2005. Sul tema, v. ovviamente F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Milano, 2005; Id., Il principio di precauzione, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, pp. 413 ss.; v. anche F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Riv. quad. dir. amb., n. 2/2011, spec. p. 25. L’A. ritiene che la giurisprudenza unionale non abbia offerto una buona delineazione del principio di prevenzione: ne ritiene difficile, pertanto, fissare il confine col contiguo principio di precauzione. All’inizio la dottrina tendeva infatti a sovrapporli – e a considerarli, pertanto, espressivi della stessa necessità di anticipare la tutela di un bene giuridico – a causa della loro comune derivazione dal Vorsorgeprinzip, tanto che il principio di precauzione era ritenuto mera «sub-funzione» del principio di precauzione: «Se si considera, però, che le valutazioni che giustificano l’applicazione del principio di precauzione sono connotate da rischio e incertezza, mentre quelle che consentono l’applicazione del principio di prevenzione risultano connotate da regole meno elastiche e probabilistiche, non si può non rimarcare che i due principi corrispondano ciascuno a presupposti differenziati ovvero che la precauzione costituisca uno sviluppo o una specificazione della prevenzione».
Sul punto, v. da ultimo, R. Ferrara, Il principio di precauzione e il “diritto della scienza incerta”: tra flessibilità e sicurezza, in Riv. giur. urb., n. 1/2020, pp. 14 ss.
[9] La conoscibilità dei dati è estrinsecazione del più generale principio di trasparenza amministrativa, di recente oggetto di riforme che ne hanno accentuato i profili di tutela per il privato. V. in proposito M.A. Sandulli, L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio della conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in Federalismi.it, n. 19/2020.
[10] TAR Basilicata, Pres. I Sez., 24 novembre 2020, n. 272.
[11] Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale di Basilicata n. 44 del 15 novembre 2020, reperibile su www.regione.basilicata.it.
[12] TAR Basilicata, n. 272/2020, cit.: «occorre seguire canoni interpretativi costituzionalmente orientati per ricavare il senso di una “estrema gravità ed urgenza” nel caso in cui il provvedimento lesivo abbia un orizzonte temporale che non raggiunge la data della prima camera di consiglio utile;
- in tale ipotesi, in cui è la durata stessa del provvedimento impugnato a “non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, i presupposti per accedere alla tutela cautelare in sede monocratica non possano essere sostanzialmente diversi da quelli usualmente considerati in sede collegiale, sotto il profilo sia del fumus boni iuris, sia del periculum in mora; ciò (sia chiaro) a condizione che la parte ricorrente non abbia adottato comportamenti processuali dilatori, ma abbia anzi attivato senza indugi (come nella specie) gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento».
[13] Sussistendo condizioni e presupposti di cui all’art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833, nonché condizioni e presupposti di cui alla normativa emergenziale per l’adozione di un’ordinanza recante misure più restrittive.
[14] D.P.C.M. 3 novembre 2020.
[15] Così, TAR Calabria, Catanzaro, Pres. I Sez., 23 novembre 2020, n. 609.
[16] Per il Tribunale amministrativo calabrese, il contrasto avrebbe potuto essere composto «con conseguente legittimo esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 32 comma 3 della legge n. 833/78 esclusivamente ove ricorrano situazioni sopravvenute o non considerate dal citato DPCM oppure in relazione a specificità locali».
[17] Tutte le ordinanze sono reperibili sul sito www.regione.puglia.it.
[18] La vicenda è singolare perché il TAR leccese, secondo i criteri di competenza inderogabile ex art. 13 c.p.a., non sarebbe stato competente a pronunciarsi. L’accaduto, dunque, non è irrilevante, perché il Tribunale che – in ossequio alle disposizioni – si è pronunciato in violazione di norme sulla competenza, ha creato una duplice conseguenza: ha anzitutto dato vita a un contrasto giurisprudenziale, contrariamente all’obiettivo posto proprio dalle norme sulla competenza inderogabile che vogliono evitare il forum shopping; di conseguenza, quel contrasto giurisprudenziale ha dato la stura a una nuova ordinanza della Regione Puglia, la n. 413/2020, che oggi dispone che siano i genitori a scegliere, per i propri figli, la didattica che preferiscono, se a distanza o in presenza.
[19] La differenziazione è vieppiù necessaria, avendo essa indotto il Presidente della Regione a emanare, poi, nuova ordinanza che modula le misure a seconda delle zone territoriali colpite e della loro curva epidemiologica: cfr. Regione Puglia, ord. 7 dicembre 2020, n. 448, in www.regione.puglia.it.
[20] TAR Puglia, Bari, Pres. III, dec. 6 novembre 2020, n. 680.
[21] TAR Puglia, Lecce, Pres. II, dec. 6 novembre 2020, n. 695.
[22] Regione Puglia, ord. 6 novembre 2020, n. 413, in www.regione.puglia.it.
[23] Emanata alla luce del D.P.C.M. 3 dicembre 2020: Regione Puglia, ord. 4 dicembre 2020, n. 444, in www.regione.puglia.it.
[24] Tra i numerosi e ricchi contributi sulla torsione della tutela cautelare nella temperie dell’emergenza pandemica, v. M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 31 marzo 2020; F. Francario, Il non-processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid-19, in www.giustiziainsieme.it; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell’emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? Come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 6 aprile 2020. Più in generale, sull’impatto dell’emergenza da Covid-19 sul processo amministrativo e sulle tecniche di tutela predisposte, di fondamentale rilevanza il Webinar di Modanella, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, svoltosi nei giorni 30 giugno - 1 luglio 2020, su «L’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro».
[25] L’esempio emblematico è dato dalla vicenda ILVA, sulla quale la Corte costituzionale pronunciò una celebre sentenza pilatesca: Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85.
[26] Sul dovere di solidarietà declinato anche come diritto, v. P.L. Portaluri, Lupus lupo non homo. Diritto umano per l’ethos degli animali?, in Dir. econ., n. 3/2018, pp. 17; Id., Spunti su diritto di ricorso e interessi superindividuali: “quid noctis, custos”?, in Riv. giur. ed., n. 5/2019, pp. 401 ss.
[27] Il TAR Bari invero non ha sospeso l’ordinanza regionale per ragioni d’illegittimità nel bilanciamento d’interessi, ma si è limitato a rilevare che strutturalmente la Puglia non riesce a garantire una continuativa ed efficace didattica a distanza. Se ne deduce che, ove la regione ne fosse stata dotata sin d’allora, probabilmente anche il Tribunale barese avrebbe propeso per il rigetto dell’istanza cautelare e, sul piano sostanziale, per la maggior tutela del diritto alla salute.
[28] Anche il TAR Basilicata ha disposto in via cautelare il riesame dell’ordinanza regionale perché la presenza di criticità nel sistema scolastico non consente di garantire la continuità dell’attività didattica a distanza: sicché il bilanciamento è fatto salvo dal punto di vista istruttorio.
La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20)
di Stefano Tocci
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina censurata – 3. Le censure – 4. La risposta della Consulta – 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’emergenza pandemica ha messo a dura prova l’intera dimensione esistenziale dei sistemi democratici ed un settore particolarmente sensibile, che ha risentito delle croniche difficoltà endemiche del nostro Paese, è stato quello carcerario.
Gli interventi governativi sul punto, in tutta obiettività, non potevano essere immediatamente risolutivi nella prospettiva di contemperare adeguatamente le esigenze di salute soggettiva e di sanità pubblica con la necessaria effettività della sanzione penale e della tutela di sicurezza sociale, e tanto meno potevano esserlo calandosi in una realtà perennemente in crisi per strutture, sovente turbata da interventi legislativi di carattere emotivo o sollecitati da difficoltà gestionali necessitanti provvedimenti urgenti (ad es.: la criticità del “sovraffollamento carcerario”).
A fronte dell’imperversare dell’epidemia da CONVID 19, da cui certo le strutture penitenziarie non potevano rimanere immuni, il Legislatore è intervenuto per adeguare il sistema normativo ad una situazione del tutto nuova e suscettibile di continue, rapide modificazioni, emanando i decreti-legge nn. 28 e 29 del 2020, poi “confluiti” nella legge di conversione n. 70; tra le tante soluzioni adottate sono state anche introdotte disposizioni finalizzate ad incidere sulla disciplina del differimento della pena ed in particolare della detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 ter O.P. per rendere quanto più possibile approfondite le informazioni necessarie alla decisione, nonché costante e ravvicinata la verifica del persistere delle condizioni legittimanti il momentaneo beneficio.
La normativa emergenziale, infatti, ha introdotto rivalutazioni ravvicinate e stringenti dei provvedimenti applicativi della detenzione domiciliare “in surroga”, del differimento della pena e della sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari. Tale disciplina è stata destinata a operare soltanto a fronte di decisioni specificamente assunte per motivi connessi all’emergenza sanitaria; inoltre, appare anche maggiormente circoscritta la platea dei soggetti coinvolti: il d.l. 29/2020 si riferisce a condannati, internati e imputati per delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis c.p. e 74, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, o per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, oppure commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., nonché, infine, ai sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis ord. penit.
2. La disciplina censurata
In particolare in caso di applicazione dei benefici de quibus, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna e del Procuratore nazionale antimafia per i soggetti già sottoposti al regime di cui all'art. 41-bis, valuta la permanenza dei motivi legati all'emergenza sanitaria entro il termine di 15 giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile.
La valutazione è invece effettuata immediatamente nel caso in cui il DAP comunichi la disponibilità di istituti penitenziari, o di reparti di medicina protetta, adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell'internato beneficiario della misura alternativa al carcere.
Prima di provvedere l'autorità giudiziaria sente l'autorità sanitaria regionale (Presidente della Giunta regionale) sulla situazione sanitaria locale e acquisisce dal DAP informazioni in merito all'eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il soggetto può riprendere la detenzione o l'internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute.
L'autorità giudiziaria provvede valutando se permangono i motivi che hanno giustificato l'adozione del provvedimento di ammissione al beneficio e la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell'internato. Il provvedimento di revoca della detenzione domiciliare o del differimento della pena è immediatamente esecutivo.
3. Le censure
Tale disciplina è stato oggetto di censure di illegittimità costituzionale, sotto diversi profili, che possono così essere sintetizzate:
- le disposizioni in questione invaderebbero la sfera di competenza dell’autorità giudiziaria e violerebbero il principio di separazione dei poteri, tanto più in quanto applicabili retroattivamente ai provvedimenti già adottati a decorrere dal 23 febbraio 2020. L’imposizione, ad opera della disciplina censurata, di un obbligo di periodica rivalutazione della permanenza delle condizioni che giustificano la misura, prima della scadenza del termine fissato nel relativo provvedimento di concessione, restringerebbe indebitamente la sfera di competenza riservata alla giurisdizione, orientando per di più la decisione nel senso della revoca del provvedimento;
- la disciplina censurata risulterebbe incompatibile con l’art. 3 Cost., in relazione alla sua applicabilità soltanto a specifiche categorie di detenuti, sulla base di una presunzione di pericolosità correlata esclusivamente al titolo del reato e al regime detentivo
- la normativa in esame contrasterebbe con l’art. 24, secondo comma, Cost., in ragione della limitazione che soffrirebbe il diritto di difesa del condannato nel procedimento di rivalutazione imposto dalla norma, nel quale «il contraddittorio viene completamente sacrificato in funzione di una decisione celere il più possibile», e nella quale «la partecipazione della difesa tecnica è limitata alla formulazione dell’istanza iniziale con allegazione di documentazione sanitaria di parte», mentre non sarebbe stato previsto nel d.l. «un diritto dell’interessato di prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo della rivalutazione ed eventualmente controdedurre nel merito delle risultanze istruttorie». Sarebbe altresì violato l’art. 111, secondo comma, Cost., sotto il profilo della garanzia del contraddittorio in condizioni di parità tra la difesa e la parte pubblica;
- il provvedimento di revoca pronunciato in esito alla rivalutazione disciplinata dalla norma censurata è immediatamente esecutivo, con conseguente ripristino della carcerazione e dei rischi alla salute ad essa connessi, in relazione ai quali «la rivalutazione collegiale di eventuale ripristino della misura diversa dalla detenzione potrebbe giungere ormai tardivamente», prefigurando altresì lo scenario di un possibile «alternarsi di reingressi in carcere e ritorni sul territorio che […] appaiono peculiarmente controindicati a fronte di persone affette da gravi condizioni di salute», ciò peraltro mediante un procedimento di rivalutazione, avanti il magistrato di sorveglianza, caratterizzato dall’assenza del coinvolgimento della difesa dell’interessato, posta in condizioni di squilibrio tra il proprio patrimonio conoscitivo e quello della parte pubblica.
4. La risposta della Consulta
La Corte costituzionale, rispondendo con una unica ed articolata sentenza alle perplessità di legittimità costituzionale formulate da più giudici di sorveglianza, ha chiarito l’infondatezza delle questioni semplicemente ripercorrendo i principi cardine della procedura di sorveglianza ed evidenziando come l’intervento legislativo in realtà non danneggia né le prerogative giurisdizionali della magistratura di sorveglianza né tanto meno l’interessato, sia sotto il profilo del diritto di difesa che di tutela della salute.
Quanto al profilo della denunciata “invasione di campo” la Consulta evidenzia che in realtà la disposizione legislativa non prevarica in alcun modo l’ambito decisionale del giudice, anche laddove agisce su provvedimenti già emessi, ma si limita ad imporre una rivalutazione del caso eventualmente più ravvicinata, senza che ciò menomi la sfera discrezionale dell’autorità giudiziaria, “mirando unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo sulla possibilità di opzioni alternative intramurarie o presso i reparti di medicina protetti in grado di tutelare egualmente la salute del condannato, oltre che sulla effettiva pericolosità dello stesso, in modo da consentire al giudice di mantenere sempre aggiornato il delicato bilanciamento sotteso alla misura in essere, alla luce di una situazione epidemiologica in continua evoluzione”.
Il diritto di difesa poi non può intendersi violato alla luce di procedimenti già esistenti nell’ordinamento, proprio in materia penitenziaria (procedimento di revoca ai sensi dell’art. 51 ter comma 2 OP) caratterizzati dal cd. “contraddittorio differito”, in quanto cioè instaurato in epoca successiva all’esecuzione di un provvedimento immediatamente incidente sulla libertà del soggetto, adottato in via d’urgenza secondo i canoni delle misure cautelari esecutive, ai fini della sua conferma. In definitiva, evidenzia la Consulta, un simile assetto normativo “non appare a questa Corte incompatibile con gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., in considerazione del successivo recupero della pienezza delle garanzie difensive e del contraddittorio nel procedimento avanti al tribunale di sorveglianza; procedimento che, oggi, il legislatore – accogliendo un suggerimento emerso in dottrina – ha opportunamente previsto debba concludersi entro il termine perentorio di trenta giorni, nell’ipotesi in cui il magistrato di sorveglianza abbia disposto la revoca della detenzione domiciliare precedentemente concessa ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-quater, ordin. penit.”
In alcun modo appare poi violato il diritto alla salute del condannato, atteso che la scansione temporale di verifica prevista dalla novella, “non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, imposti dall’art. 32 Cost. e dal diritto internazionale dei diritti umani anche nei confronti di condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ordin. penit. (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 ottobre 2018, Provenzano contro Italia, paragrafi da 126 a 141 e da 147 a 158)”.
La sussistenza di una differenziazione di trattamento dei detenuti in relazione al tipo di reato consumato (in relazione all’art. 3 Cost.) non appare incoerente all’ordinamento, “non potendo essere giudicata irragionevole la scelta del legislatore di imporre al giudice una frequente e penetrante rivalutazione delle condizioni che hanno giustificato la concessione della misura nei confronti di condannati per gravi reati, tutti connessi alla criminalità organizzata, e a fortiori per quelli giudicati di tanto elevata pericolosità da essere sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ordin. penit.”. La giurisprudenza costituzionale, del resto, non ha mai ritenuto illegittima una differenziazione di regime a seconda della gravità dei reati (si pensi all’art. 4 bis OP) ma solo, di recente, l’applicazione di ostatività secondo criteri “automatici”, problematica che non va evidentemente confusa con una scansione normativamente preordinata dei tempi di verifica dei presupposti della concessione ratione salutis di una misura alternativa.
5. Conclusioni
In sostanza l’attacco portato alla normativa emergenziale sotto il profilo della costituzionalità è risultato privo di concretezza ed efficacia, scontrandosi su un percorso argomentativo, articolato dalla Corte delle Leggi, assolutamente chiaro ed ineccepibile, peraltro fondato su rilievi interpretativi immediatamente attingibili dallo stesso ordinamento vigente. Per una volta l’emotività ha giocato un brutto scherzo non al Legislatore ma a chi, a torto o a ragione, non ne ha condiviso le scelte.
Note sul giudizio di appello penale d’emergenza (l’art. 23 del dl 149 del 2020).
Spunti problematici del primo giudizio di appello penale cartolare
di Carlo Citterio
Il ‘legislatore provvisorio’ si è accorto finalmente del giudizio penale di appello, dopo averlo del tutto ignorato nelle varie edizioni della disciplina emergenziale.
Basti pensare che la previsione che esclude il remoto per le discussioni, dettata per il primo grado, tagliava automaticamente fuori tutto l’appello, che ordinariamente è ‘solo’ discussione e decisione, pervenendo ad una apparentemente non consapevole esclusione proprio per un rito che tutt’altro che infrequentemente vede difensori assenti o richiedenti con frettolosi fax dell’ultimo minuto sostituzioni “d’ufficio ex art. 97 quinto comma” e discussioni fantasma (il solo riportarsi ai motivi con deposito delle note spese). Ergastolo o pena pecuniaria, omicidio volontario e minacce gravi, l’appello sulla responsabilità e quello sulle attenuanti generiche, l’appello dell’imputato condannato e quello della parte civile ad azione penale definita con proscioglimento irrevocabile: casi che si trattano con il medesimo rito, sempre: udienza partecipata. Così mai il giudizio penale d’appello potrà raggiungere la propria finalità: una ponderata (e collegiale: è l’unica legittimazione per mutare l’apprezzamento di merito del primo giudice) rivisitazione dei punti della decisione devoluti da atti di impugnazione seri che enunciano motivi specifici, con decisioni nel merito in tempi ragionevoli, e non in rito, possibilmente solo finché l’azione penale è attiva… Finalmente si prevedono riti diversi e si riconosce alle parti, che la gestiscono con le proprie valutazioni libere informate e discrezionali, la scelta del rito.
Certo non si poteva pretendere troppo, per questa prima volta. Così la prima volta dell’appello penale oggetto di una autonoma norma emergenziale si risolve nel riproporre lo schema strutturale e sistematico già predisposto pure da precedenti decreti per il giudizio di legittimità, con minimi accorgimenti. Peccato che quello è un giudizio di legittimità che si chiude con una sentenza non impugnabile, il giudizio d’appello è invece giudizio di merito che si definisce con deliberazione soggetta ad impugnazione (sicchè, ad esempio, prevedere la ‘comunicazione’ del dispositivo alle parti fisicamente assenti ha certo natura solo informativa nel giudizio di legittimità, ma crea gravi incertezze nel raccordo con la disciplina della decorrenza dei termini assegnati per il deposito della sentenza e quindi per quelli di impugnazione nel giudizio d’appello).
Ma cogliamo l’aspetto positivo. La prima volta di una pluralità di riti nell’appello penale, la cui scelta è lasciata alla responsabilità consapevole e informata delle parti. E allora un’occasione preziosa che sollecita l’approfondimento con due parallele prospettive: capire cosa accade dei processi dal 25 novembre al 31 gennaio e cosa si deve fare per bene fare; cogliere gli snodi e gli aspetti applicativi che un rito d’appello penale cartolare con il consenso o con la richiesta della parte privata porrebbe per un legislatore ordinario motivato. La presenza di una previsione specifica nel disegno di legge 2435 Camera dei Deputati (il cd Progetto Bonafede giunto nelle aule parlamentari: art. 7 lettera G) giustifica e sollecita l’approfondimento.
Sommario: 1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza – 2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti: la disciplina – 3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche – 4. L’udienza camerale – 5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti – 6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi – 7. Il rito con trattazione orale – 8. La rinnovazione dell’istruzione – 9. La richiesta di trattazione orale – 10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire – 11. Il rito per i processi già pendenti.
1. Il primo giudizio di appello penale dell’emergenza
L’art. 23 del dl 149, in vigore dal 09/11/2020 stesso giorno della sua pubblicazione sulla GU, detta per la prima volta nella disciplina emergenziale covid19 specifiche disposizioni per “la decisione” dei giudizi penali di appello.
Tale disciplina di eccezione riguarda esclusivamente “gli appelli proposti contro le sentenze di primo grado”.
Sono quindi escluse dalla normativa speciale tutte le altre procedure di competenza della corte di appello: esemplificativamente, tutti i procedimenti partecipati di esecuzione, riparazione ingiusta detenzione, mandati di arresto europei ed estradizioni, revisione, rescissione, prevenzione: in definitiva, tutti i procedimenti per i quali la corte d’appello è unico (salvo per i mae) giudice del merito.
E’ previsto in via generale il rito camerale senza partecipazione fisica delle parti, con tre sole eccezioni che determinano l’operatività del rito ordinario (nelle variabili della pubblica udienza per i procedimenti dibattimentali e del giudizio camerale partecipato fisicamente per i riti abbreviati o ex art. 599, comma 1, cod. proc. pen.); si tratta dei casi in cui: la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603), quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale, quando l’imputato manifesti la volontà di comparire (tuttavia formulando la sua richiesta solo a mezzo del difensore: comma 4, seconda parte).
La disciplina non sembrerebbe applicabile all’appello avverso le sentenze penali del giudice di pace, atteso che l’art. 23 fa esplicito ed esclusivo riferimento alla corte d’appello e, trattandosi di disciplina di eccezione, interpretazioni estensive non paiono possibili.
2. Il rito camerale senza la partecipazione fisica delle parti (art.23, commi 1, 2, 3): la disciplina
2.1. Regola generale è che dal 9/11/2020 al 31/01/2021[1] “per la decisione” la corte di appello “procede in camera di consiglio senza l’intervento del ‘pubblico ministero’ e dei difensori” [La norma non fa riferimento espresso all’imputato, ma deve sicuramente ritenersi che neppure l’imputato possa presenziare, in questa tipologia di rito].
Questi i tempi e le modalità della partecipazione delle parti alla decisione:
- entro dieci giorni (non ‘liberi’? [2]) prima dell’udienza il ‘pubblico ministero’ “formula le sue conclusioni” con atto trasmesso alla cancelleria della corte per via telematica [3]
- sempre per via telematica la cancelleria invia “immediatamente” l’atto “ai difensori delle altre parti”
- i difensori delle altre parti “possono” presentare le conclusioni SOLO con atto scritto trasmesso per via telematica alla cancelleria esclusivamente agli indirizzi di posta elettronica certificata dedicati [4]: ciò deve avvenire entro cinque giorni (‘non liberi’?) prima dell’udienza
- non è previsto che la cancelleria inoltri anche le conclusioni di una parte privata alle altre parti.
2.2. La diversità dei termini (“formula”, “possono”) indica inequivocamente che:
mentre la parte pubblica deve formulare le conclusioni per ciascuno dei processi fissati alla singola udienza, i difensori delle parti private possono presentarle ma non sono obbligati.
Così, l’essere stato previsto espressamente l’invio per via telematica alle altre parti (“immediatamente”) solo per le conclusioni del ‘pubblico ministero’ [5] comporta che:
deve escludersi che anche le (eventuali) conclusioni della singola parte privata debbano essere comunicate dalla cancelleria della corte alle altre parti [6].
2.3.1. Quanto alla natura dei termini per il deposito delle conclusioni scritte delle parti, considerando che nella stessa norma (l’art. 23 dl 149) è invece specificato il carattere perentorio del diverso termine per la richiesta di trattazione orale (comma 4), si impone la conclusione che:
i rispettivamente dieci e cinque giorni per la formulazione delle conclusioni sono termini NON perentori.
2.3.2. La non perentorietà dei termini di formulazione delle conclusioni e la previsione della comunicazione delle sole conclusioni del procuratore generale pongono problemi concreti, già presentati dall’esperienza in corso ma ignorati dal ‘legislatore’ e da risolvere in via interpretativa, nell’auspicabile attesa che la legge di conversione (o un nuovo decreto legge, stanti le possibili implicazioni in atto delle diverse soluzioni sulla ritualità del giudizio) possa chiarirli:
3. I problemi interpretativi: patologie della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica; la comunicazione delle conclusioni delle parti private; l’inadeguata disciplina del carattere ordinatorio dei termini per il deposito informatico delle conclusioni; le repliche
3.1. la struttura della comunicazione delle conclusioni della parte pubblica (con l’espressa previsione del loro invio “immediato” alle altre parti e del loro minor termine per il deposito delle proprie) parrebbe imporre la soluzione del possibile obbligo di rinvio dell’udienza camerale, quando la comunicazione delle conclusioni della parte pubblica al difensore di parte privata sia omessa o comunque avvenga oltre il sesto giorno prima della udienza. Rinvio tuttavia da disporsi solo su esplicita richiesta della parte privata interessata all’eccezione (trattandosi di vizio del contraddittorio disponibile: si tratterebbe di nullità ex art. 178 cod. proc. pen. ma intervenuta prima del giudizio e pertanto ex art. 180 con onere di espressa eccezione entro la deliberazione d’appello: quindi con la presentazione di conclusioni della parte privata ‘tardive’ ma precedenti il giorno dell’udienza);
3.2. tuttavia, se il termine di cinque giorni per le ‘altre’ parti è solo ordinatorio, ciò comporta che le conclusioni delle parti private parrebbero poter essere presentate anche entro i cinque giorni, con ciò, conseguentemente, tendenzialmente non sussistendo una certa, insuperabile e consumata, violazione del diritto di difesa nel caso di comunicazione tardiva delle conclusioni della parte pubblica: la dinamica ordinatoria della successione dei termini da un lato non parrebbe poter fondare un diritto delle parti private al termine utile minimo di cinque giorni dalla “immediata” comunicazione delle conclusioni del procuratore generale, dall’altro consentirebbe comunque il rispetto in ipotesi dei cinque giorni riducendo il secondo termine di cinque giorni che non è a garanzia delle parti ma del sistema (trattandosi di termine a favore della tempestiva conoscenza del giudice). Si tratterebbe in definitiva di una garanzia tendenziale per i vari beneficiari, ché altrimenti il ‘legislatore’ li avrebbe previsti perentori;
in definitiva, pare soluzione sistematicamente corretta quella di ritenere che l’eccezione di violazione del diritto di difesa (da proporsi specificamente con conclusioni ‘tardive’ rispetto ai cinque giorni prima dell’udienza) possa imporre il differimento della camera di consiglio, pur senza presenza fisica delle parti, solo quando in concreto le conclusioni del procuratore generale: a) non siano state inoltrate [7], b) siano state inoltrate a difensore diverso da quello effettivo al momento dell’inoltro, c) siano state inoltrate in tempi tali da non consentire oggettivamente la presentazione di proprie conclusioni ‘informate’ ai difensori delle parti private.
3.3. Sono connessi corollari della natura ordinaria del termine due altri conseguenti problemi:
quale è allora il momento ultimo di presentazione delle conclusioni delle parti private a pena di inefficacia/inammissibilità delle stesse?
Secondo problema/corollario:
sono possibili repliche scritte diverse dall’atto di conclusioni?
(fermo restando che l’atto con le conclusioni scritte, oltre che le eventuali note spese, pure contenenti la voce fase deliberazione, può fisiologicamente contenere argomentazioni a sostegno dell’accoglimento delle stesse che non si risolvano, per l’appellante, in motivi nuovi ex art. 585, a quel punto intempestivi [8]).
3.3.1. Due le soluzioni possibili:
a) il momento di effettivo svolgimento della camera di consiglio, con i magistrati sia in presenza che da remoto, incombente pertanto da tenersi non prima dell’orario originariamente programmato per la trattazione ordinaria in presenza;
b) almeno il giorno precedente quello della udienza.
La soluzione che individua come momento ultimo della presentazione di conclusioni quello di inizio dell’effettivo svolgimento della camera di consiglio dedicata al singolo procedimento, e conclusa con il deposito del dispositivo[9], è certo astrattamente coerente alla natura ordinatoria del termine, in assenza di alcuna indicazione specifica di un momento o termine finale diverso. Essa però non convince perché non pare tener conto di struttura, finalità e disciplina del rito camerale senza partecipazione fisica (modalità di trattazione che obiettivamente non è più correlata al rispetto di una fascia oraria prevista solo per tutelare esigenze assorbite dall’assenza fisica delle parti).
Si tenga in proposito presente che:
- il termine assegnato per il deposito ultimo delle conclusioni è in realtà a beneficio solo del giudice collegiale e delle incombenze di cancelleria [10]. Esso assolve anche all’obbligo di pertinente tempestiva conoscenza da parte del collegio giudicante il quale, per espressa disposizione speciale (art. 23, comma 3, dl 149 che richiama espressamente la disciplina dell’art. 23, comma 9, dl 137), potrebbe appunto riunirsi anche da remoto, quindi senza presenza fisica dei componenti, o di alcuno di essi, nell’ufficio. La precedente esclusione di tale facoltà, prevista dal dl 137 per le deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione, non rileva infatti per i procedimenti camerali con assenza fisica delle parti ex art. 23, comma 2, dl 149, proprio in ragione di tale rinvio esplicito operato da questa norma, che disciplina solo “la ‘decisione’ dei giudizi penali di appello”;
- le ‘conclusioni’ possono essere depositate SOLO per via telematica (art. 23, comma 2, dl 149), a differenza degli altri atti che ‘possono’ essere depositati per via telematica (art. 24, comma 4, dl 137) o con accesso fisico regolamentato alla cancelleria [11];
- manca l’autonoma (necessaria) articolata disciplina espressa del deposito telematico ‘in entrata’ nel penale, come del resto per il deposito fisico [12], con particolare riferimento all’ultimo momento utile della giornata per l’invio efficace che faccia contestualmente corrispondere la eventuale decorrenza di termini per provvedere.
Conseguentemente, se il termine dei cinque giorni è a beneficio ‘dell’Ufficio’, se il deposito può avvenire solo per via telematica, se la fissazione di orari per fasce è finalizzata all’organizzazione ordinata e rispettosa delle udienze trattate in presenza, dovrebbe ritenersi che l’invio ‘utile’ sia quello che perviene alla cancelleria dell’ufficio giudiziario entro il giorno precedente l’udienza ed entro la conclusione del normale orario di lavoro mattutino.
Sembra utile una considerazione finale: se il ‘legislatore’ avesse previsto, o prevedesse, che i cinque giorni (e quindi i dieci) dovessero essere ‘liberi’, più agevole sarebbe stato concludere sul piano sistematico per l’individuazione del giorno precedente l’udienza come momento ultimo del deposito delle conclusioni, a quel punto l’ordinarietà del termine comunque consentendo l’interpretazione della efficacia di un deposito più ravvicinato all’udienza ma non oltre il giorno precedente.
In ogni caso, nel dubbio della certa affidabilità di una sola delle soluzioni rimane l’opportunità prudenziale di depositare i dispositivi dei singoli procedimenti non prima dell’orario originariamente fissato per la trattazione ordinaria.
3.3.2. Quanto alle ‘repliche’, vanno escluse. Si considerino a sostegno dell’assunto: la ristrettezza del termine (cinque giorni ordinatori), la sua disciplina specifica di contenuto palesemente diverso da quelle delle situazioni procedimentali correlabili espressamente disciplinate (611, comma 1, ma con termini molto più ampi) e, con rilievo assorbente, la consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude l’applicabilità dell’istituto della replica (prevista, pur con rigorosi limiti, nella discussione di pubblica udienza ex art. 523) ai procedimenti camerali: per tutte, Sez.4 sent. 12482/2011 e 19200/2016, Sez.6 sent. 45182/2019 e 19810/2009. In altri termini, il diritto di replica sussiste solo quando il legislatore espressamente lo attribuisce alle parti, il che non è avvenuto con il dl 149/2020 [13].
Quindi, nel nostro caso, si comprende così la piena coerenza sistematica (e confermativa degli approdi giurisprudenziali di legittimità) della disciplina che prevede l’inoltro alle altre parti solo delle conclusioni del procuratore generale e non di quelle delle altre parti, nonché i due diversi termini ordinatori. Si conferma pertanto che le conclusioni delle parti private non devono essere comunicate dalla cancelleria alle altre parti, pubblica e private.
3.3.3. E’ doveroso dar conto di come il quadro ricostruttivo e le soluzioni pertinenti, che precedono, potrebbero astrattamente essere poste in crisi dal rilievo che, se a fronte dell’eventuale mancata presentazione delle conclusioni da parte del procuratore generale (vuoi per errore vuoi per altra ragione) si dovesse necessariamente rinviare, si sarebbe attribuito alla parte pubblica e in particolare al deposito delle sue conclusioni l’efficacia di una sorta di condizione di procedibilità. Ciò condurrebbe, paradossalmente e in situazioni patologiche, ad attribuire alla discrezionalità della parte pubblica la stessa possibilità di definire il processo, sicchè ciò che solo rileverebbe è che la parte pubblica sia stata nelle condizioni di presentare le proprie conclusioni.
La suggestività del rilievo (il cui accoglimento ‘sconvolgerebbe’ la ricostruzione che precede, in definitiva prospettando una ricostruzione alternativa per cui le parti, pubblica o private, concludono se vogliono, ciascuna nel termine proprio assegnatogli, 10 e 5 giorni prima dell’udienza) non conduce tuttavia a condividerlo. E’ la consapevole struttura della procedura con tre momenti essenziali e convergenti (l’obbligo di presentazione delle conclusioni solo per la parte pubblica: “formula”/”possono presentare”; la diversità dei termini: dieci, cinque giorni; la necessità di inoltrare solo le conclusioni del procuratore generale alle parti private) che in modo francamente inequivoco assegna alle conclusioni del procuratore generale una funzione obbligatoria indefettibile: del resto, a ben vedere, la patologia immaginata (non l’errore, che è rimediabile con il differimento anche brevissimo, ma il ‘rifiuto’ discrezionale) ben potrebbe verificarsi anche nel caso di conclusioni orali necessarie (rito con udienza pubblica). Ma sono situazioni eccentriche alla disciplina del rito che inevitabilmente innescano meccanismi sostitutivi di genere organizzativo/sanzionatorio.
Neppure risulta appagante il richiamo alla natura camerale del rito. E’ proprio la diversità palese di disciplina tra l’art. 127, comma 3 (il p.m. conclude se compare, altrimenti si procede oltre) e la ‘nostra’ struttura appena esposta ed espressamente prevista dall’art. 23, comma 2, dl 149 (il ‘pubblico ministero’ “formula” le sue conclusioni, i difensori delle altre parti “possono presentare”), che rende conto di una disciplina di eccezione, diversa da quella camerale ordinaria e con un proprio equilibrio interno autonomo.
4. L’udienza camerale
L’udienza camerale può essere svolta dai tre giudici in presenza nell’ufficio giudiziario ovvero da remoto (alcuno dei componenti del collegio o tutti). Nel secondo caso il collegamento deve avvenire con il sistema teams e ai fini formali il luogo da cui si collegano i singoli magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti (il già ricordato art. 23, comma 9, dl 137/2020, richiamato espressamente dall’art. 23, comma 3, dl 149).
All’udienza partecipa anche l’ausiliario del giudice, sempre dall’ufficio giudiziario (art. 23, comma 5, dl 137/2020, da ritenersi applicabile anche nel caso delle udienze camerali ex artt. 23, comma 3, dl 149 e 23, comma 9, dl 137): lo stesso annoterà nel singolo verbale la composizione del collegio e l’orario di inizio e conclusione della camera di consiglio, ricevendo altresì il dispositivo cartaceo nel caso di presenza fisica del collegio, o di un suo componente, nell’ufficio.
E’ indubbio che il collegio dovrà comunque preliminarmente accertare la regolare costituzione delle parti (pur senza qualificare la posizione dell’imputato in termini di assenza o contumacia) e verificare, con l’assistente di udienza, l’avvenuta presentazione delle conclusioni da parte di alcuna o tutte le parti, pubblica e privata, verificandone il contenuto, in particolare nel caso di parziali rinunce ai motivi ovvero di sollecitazione all’esercizio dei poteri d’ufficio previsti dall’art. 597, comma 5, al fine di evitare vizi di omessa motivazione.
5. La “comunicazione” del dispositivo alle parti
5.1 Il dispositivo della “decisione” deve essere comunicato “alle parti” (art. 23, comma 3, seconda parte, dl 149). Lo stesso, sottoscritto dal presidente o da uno dei componenti del collegio, è depositato in cancelleria “il prima possibile”. Nel caso di udienza svolta presso l’ufficio giudiziario il deposito avverrà in esito alla deliberazione.
La previsione della comunicazione del dispositivo riproduce l’analoga disposizione che l’art. 23, comma 8, dl 137 disponeva solo per il giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Tuttavia, aspetto essenziale che pare essere stato dimenticato dal ‘legislatore provvisorio’, mentre le decisioni della Corte di cassazione non sono impugnabili (anche il termine per eventuale richiesta di ricorso straordinario decorre dal deposito della sentenza), sicchè la comunicazione del solo dispositivo ha sicuramente una mera valenza conoscitiva/informativa (come il termine stesso “comunicazione”, in luogo della “notificazione”, sembrerebbe confermare), quelle di appello lo sono.
Diviene pertanto essenziale comprendere il significato sistematico della ‘comunicazione del dispositivo alle parti’ per il giudizio d’appello camerale senza presenza fisica delle stesse, in relazione alla disciplina delle impugnazioni con particolare riferimento agli articoli 544 e 585 cod. proc. pen. ed alla disciplina dell’assenza o della contumacia dell’imputato.
Il punto, molto rilevante anche per le implicazioni sul lavoro di cancelleria, purtroppo non è stato disciplinato e sarebbe auspicabile che già in sede di conversione del decreto legge 149/2020 venisse chiarito: a garanzia innanzitutto delle difese di parte privata, che rischiano di trovarsi dichiarati inammissibili per tardività gli eventuali ricorsi presentati facendo riferimento alla data della comunicazione all’imputato.
Il problema riguarda due aspetti: la decorrenza del termine di deposito della sentenza assegnato nel dispositivo e conseguentemente di quello per impugnarla per il procuratore generale e i difensori della parte privata e quella per l’imputato.
In particolare:
il termine assegnato nel dispositivo per il deposito della sentenza decorredalla data della deliberazione o da quella della comunicazione?
nel primo caso, cosa accade se la comunicazione del dispositivo all’imputato avviene oltre la scadenza del termine assegnato dal dispositivo per il deposito della sentenza e questa è stata effettivamente depositata in quel termine?
Va infatti notato che l’art. 23, comma 3, dl 149 non reitera la disciplina della notificazione solo al difensore di fiducia anche per conto dell’imputato, già presente nella disciplina di prima fase della emergenza covid19 (art. 83, comma 14, dl 18/2020 come convertito nella legge 27/2020: dove comunque rimaneva l’onere di autonoma ‘notifica’ all’imputato assistito da difensore di ufficio che non avesse efficacemente eletto domicilio presso di lui). Conseguentemente la ‘comunicazione’ dovrà essere inviata anche all’imputato (che il mero riferimento alle “parti” deve ritenersi comprendere, in mancanza di diversa specifica esclusione).
Nel caso di valenza solo genericamente informativa della comunicazione (come in concreto è per la Corte di cassazione), il termine per l’eventuale impugnazione decorrerebbe per tutte le parti, pubblica e private, compreso l’imputato, dal giorno della deliberazione tenendo conto dei termini per il deposito della sentenza in essa assegnati.
Se invece la comunicazione avesse una qualche efficacia ‘costitutiva’ della conoscenza, si dovrebbe ritenere che anche il decorso del termine per il deposito della sentenza assegnato nel dispositivo (e produttivo dei correlati diversi termini di cui all’art. 585 per l’impugnazione di tutte le parti) decorrerebbe dalla data di effettiva esecuzione della ‘comunicazione’.
Evidenti le implicazioni della seconda soluzione, specialmente pensando al fatto che la comunicazione all’imputato non eseguibile ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, o al difensore dichiarato domiciliatario, o ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., dovrebbe avvenire per le vie ordinarie con la tutt’altro che imprevedibile dilatazione dei tempi di effettiva, o ritualmente formale, conoscenza. Il che condurrebbe, nella prassi, alla frequente possibilità che la sentenza venga depositata dall’estensore, specialmente se il termine assegnato è quello dei quindici giorni o di un mese, prima ancora che sia compiuta la ‘comunicazione’ del suo solo dispositivo.
Peculiare è poi la situazione nel caso di sentenza redatta con motivazione contestuale, che dovrebbe allora determinare direttamente la ‘comunicazione’ della intera sentenza, con decorso dei quindici giorni per impugnare, quanto all’imputato, dalla sua positiva effettuazione.
5.2. A favore della prima soluzione concorrerebbero una considerazione formale (appunto il termine ‘comunicazione’ in luogo di ‘comunicazione e notificazione’, la prima per il procuratore generale, la seconda per difensori delle parti private e imputato) e due sistematiche: la previsione dell’incombente anche davanti alla Corte di cassazione che, per quanto prima argomentato, ha sicuramente solo una valenza informativa improduttiva di effetti processuali specifici; il fatto che anche il processo d’appello con rito camerale in assenza presuppone la compiuta informazione di difensori e parti della trattazione del processo in una determinata data, eventualmente solo la mancata deliberazione dovendo essere comunicata per il prosieguo (conclusione supportata dall’insegnamento recente di SU sent. 698/2020 per il rito abbreviato). In tal caso dovrebbe pertanto concludersi che in contesto di assenza o contumacia, il termine per il deposito della sentenza nei termini assegnati in dispositivo decorra per tutti (parti pubblica e private e loro difensori) comunque dalla data di deliberazione e non dalla data di (mera) ‘comunicazione’ del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale.
Si tenga infine conto che poiché la trattazione del processo in rito camerale con assenza fisica è esito di una specifica discrezionale scelta di tutte le parti interessate al singolo processo di non trattare oralmente la causa, nessun pregiudizio potrebbe addebitarsi agli effetti del rito in ipotetico danno sia del diritto di difesa, per le parti private, che dell’interesse pubblico ad un eventuale contraddittorio orale.
La delicatezza della questione, in relazione alle sue implicazioni in termini di modalità dell’esercizio dei diritti processuali e organizzativi delle cancellerie delle corti di appello, davvero sollecita un pronto chiarimento ed una eventuale integrazione della disciplina da parte del legislatore.
6. Il rito in assenza e il concordato sui motivi
La prima esperienza applicativa ha segnalato infine incertezze nell’attivazione delle parti, privata e pubblica, per l’eventuale definizione del processo con rito camerale in assenza attraverso il concordato per l’accoglimento dei motivi ex art. 599-bis cod. proc. pen.. Ci si è posti il tema del rapporto tra tale richiesta e la disciplina dei termini (dieci e cinque giorni, pur ordinatori) per il deposito delle conclusioni scritte.
Un’impostazione formale condurrebbe a concludere che l’accordo debba essere presentato dalla difesa (ultima a concludere) con tali conclusioni scritte, che rappresentano il momento di definizione della posizione della parte per la deliberazione. In realtà, ragioni di opportunità, con l’aggancio normativo alla previsione dell’art. 589, comma 4, cod. proc. pen. (che per i riti camerali indica il termine ultimo della rinuncia a “prima dell’udienza”) deve ritenersi che, prescindendo dall’eventuale già avvenuto deposito delle conclusioni scritte, la richiesta di concordato, sottoscritta o fatta comunque propria dalla parte privata e dal procuratore generale, possa essere presentata fino al giorno prima della udienza, comunque prima del suo inizio [14].
Ovviamente, quanto più tempestivo sarà il deposito tanto più possibili saranno eventuali interlocuzioni informali anche della Corte sul contenuto del concordato nella prospettiva del suo accoglimento.
Rimane infatti onere delle parti (obbligo per il procuratore generale, facoltà per il difensore dell’imputato) presentare le conclusioni subordinate, per il caso del mancato accoglimento, non trovando applicazione la disposizione dell’art. 599-bis, comma 3, per la specialità eccezionale del rito emergenziale.
7. Il rito con trattazione orale (art.23, commi 1 e 4)
Sono come detto tre i casi in cui anche nel periodo emergenziale (per ora fino al 31/01/2021) si deve procedere con i riti ordinari, dibattimentali ex art. 602 e camerali ex art. 599, trattati in presenza:
1) quando la corte disponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (603)
2) quando il difensore delle parti private o il ‘pubblico ministero’ facciano domanda di discussione orale
3) quando l’imputato manifesti la volontà di comparire.
8. La rinnovazione dell’istruzione
8.1. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non può che essere disposta, su richiesta dell’appellante o d’ufficio e nei casi disciplinati dagli artt. 603 e 604, comma 6, dalla corte con ordinanza nel corso del giudizio.
Questo significa che fintanto che non è stata disposta la rinnovazione, se non è stata chiesta autonomamente la trattazione orale la corte d’appello procederà con il generale rito camerale in assenza. Se all’esito della camera di consiglio riterrà sussistere le condizioni per disporre la rinnovazione, la disporrà deliberando con ordinanza notificata alle parti, contestualmente fissando successiva udienza con trattazione orale nel rito, dibattimentale o camerale, proprio del caso.
Nessun problema di contraddittorio perché l’appellante deve aver proposto motivo specifico che, pertanto, è suscettibile di confronto nelle conclusioni scritte delle altre parti. A seconda delle peculiarità dei casi la corte d’appello potrà sempre adeguare poi il proprio provvedimento all’esito del confronto dialettico orale nell’udienza di rinvio.
8.2. Non muta la soluzione nel caso di appello della parte pubblica o della pur sola parte civile avverso sentenze di proscioglimento, quando l’appello solleciti la rivisitazione dell’apprezzamento di prove dichiarative decisive. L’obbligatorietà della rinnovazione prevista dall’art. 603, comma 3-bis, anche in tal caso non opera automaticamente, perché la corte in tanto procederà alla rinnovazione in quanto riterrà essenziale per decidere la rivalutazione della prova dichiarativa indicata dall’appellante.
E’ pertanto infondato l’assunto che nel caso di appello avverso sentenze di proscioglimento provenienti dalle parti interessate ad un giudizio di affermazione di responsabilità (penale e/o civile) si debba, per ciò solo, sempre e comunque procedere con rito in presenza.
8.3 Problema particolare è quello in cui la rinnovazione richiesta dalle parti si risolve nella domanda di produzione di documenti.
Va condiviso l’insegnamento di Cass. Sez. 5, sent. 32427/2015, secondo la quale per l’acquisizione di un documento non è indispensabile procedere a formale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Ciò che solo rileva è la possibilità del contraddittorio, che si risolve nella conoscenza tempestiva della richiesta per le altre parti e della loro effettiva concreta possibilità di interloquire sul punto, anche quando poi non esercitino in effetti la facoltà.
Conseguentemente, quando la richiesta di acquisizione documentale sia già contenuta nell’atto di appello, o in tempestivi motivi aggiunti, sarà onere delle altre parti concludere anche sulla stessa, in particolare quando i documenti di cui si chiede l’acquisizione siano stati allegati all’atto di impugnazione, la mancata concreta interlocuzione lasciando libera la corte di deliberare sul punto nella camera di consiglio in assenza fisica delle parti. Stessa soluzione nel caso che sia il procuratore generale a chiedere l’acquisizione di documenti allegandoli alle proprie conclusioni scritte (perché queste vengono inviate alle altre parti).
Quando invece la richiesta di acquisizione del documento provenga da una parte privata e intervenga solo con il deposito delle conclusioni scritte, deve ritenersi che la corte valuterà la natura del documento e la conseguente necessità di una interlocuzione delle altre parti, con apprezzamento estremamente prudenziale, tenendo conto che se si trattasse di documenti il cui contenuto effettivamente possa influire sulla decisione (venendo poi addirittura richiamato nel percorso logico-giuridico argomentativo della deliberazione), l’omessa interlocuzione potrà per sé costituire ragione di annullamento della deliberazione per violazione del contraddittorio.
Anche per i documenti si pone il tema dell’individuazione del momento ultimo della richiesta: in particolare se questa possa intervenire tra il già avvenuto deposito delle proprie conclusioni e fino all’inizio della camera di consiglio per la deliberazione [15].
9. La richiesta di trattazione orale
9.1. La richiesta di discussione orale, insindacabile e non sottoposta ad alcuna condizione, deve essere formulata per iscritto entro il termine PERENTORIO di quindici giorni liberi prima dell’udienza. Essa va trasmessa, sia dal procuratore generale che dai difensori delle parti private, alla cancelleria della corte di appello attraverso la pec dedicata (comma 4, prima parte), indicata dal provvedimento DGSIA richiamato e dal conseguente provvedimento organizzativo dell’Ufficio giudiziario.
Formulata la richiesta di trattazione orale, il processo viene trattato secondo il rito ordinario di udienza pubblica o camerale partecipato, corrispondente al rito del primo grado ed alla disciplina dell’art. 599, comma 1, cod. proc. pen., applicandosi le regole proprie.
È sufficiente la richiesta di una sola delle parti, pubblica o private, per imporre la trattazione orale del processo per le altre.
L’insindacabilità della richiesta attesta l’attenzione a che il regime emergenziale e la rinuncia alla presenza fisica trovi la condivisione di tutte le parti protagoniste del processo, giudicate opportunamente tutte e ciascuna titolari degli apprezzamenti di merito pertinenti all’idoneità del rito alla salvaguardia dei propri interessi e diritti processuali.
9.2. Tre problematiche sulla scelta del rito: se sia ammissibile una richiesta tardiva, ancorché in ipotesi congiunta di tutte le parti interessate; se la richiesta di trattazione orale sia revocabile; se sia ipotizzabile disporre d’ufficio la trattazione orale.
La risposta, sul piano formale, sembra necessariamente negativa per tutte.
Alla natura perentoria del termine (per sé esaustiva a negare una richiesta tardiva) si accompagna la considerazione della natura emergenziale della disciplina e delle sue ragione e finalità. Una volta esercitata o non esercitata la facoltà, appunto pure insindacabile, attribuita, il ‘ripensamento’, pur collettivo, non trova spazio, salve sempre le situazioni oggettive che possano fondare una richiesta di restituzione in termine.
Ciò perché, sul piano sistematico, esercitata la facoltà il rito non è più nella disponibilità della e delle parti.
Il potere di ufficio di disporre la trattazione orale anche quando le parti non lo chiedano va pure escluso per la medesima ragione sistematica. In presenza di un contesto emergenziale il ‘legislatore provvisorio’ ha indicato nel camerale senza presenza fisica il rito ‘ordinario’ e le eccezioni sono tassative e quindi solo quelle indicate.
9.3. Un’ulteriore problematica nasce dall’ennesimo silenzio dell’impianto normativo: l’art. 23, comma 4 non prevede come la richiesta di trattazione orale della prima parte che la propone (così, per quanto ora detto, incardinando il rito ordinario) giunga alle altre. Non è stato in particolare riprodotto l’obbligo della cancelleria, che quella prima richiesta riceve, di inoltrarla alle altre parti.
Esigenze sistematiche di elementare buona organizzazione (principio costituzionale di efficienza della giurisdizione) e ragionevole durata del processo (principio costituzionale che sarebbe posto a rischio nel caso di stallo sul punto, per la mancata attivazione spontanea del richiedente nella comunicazione della propria richiesta alle altre parti del suo processo, tra l’altro potendosi innescare la contemporanea sequela di presentazione di conclusioni scritte per le altre parti, determinando una situazione che comunque alfine dovrebbe essere gestita d’ufficio dalla corte) impongono di ritenere che sia onere della cancelleria, anche solo su provvedimento organizzativo interno, dare ‘immediatamente’ notizia di tale richiesta alle altre parti (mutuando l’attivazione che consegue al deposito delle conclusioni scritte del procuratore generale).
Si avverta che non vi è contraddizione tra sollecitare questa attivazione organizzativa ‘spontanea’ e l’aver negato che la stessa sia doverosa anche nel caso di ricezione delle conclusioni scritte delle parti private nel rito camerale in assenza. Basta rilevare le dinamiche temporali ben diverse (quindici giorni liberi, termine perentorio: termine più che sufficiente per comunicare alle altre parti la richiesta di trattazione orale prima dei dieci giorni per le conclusioni del procuratore generale; solo cinque giorni prima e ordinatori, nel caso delle conclusioni scritte delle parti private) per cogliere l’assenza di alcuna irrazionalità delle diverse soluzioni.
10. La manifestazione della volontà dell’imputato di comparire
10.1. La terza ‘eccezione’ al rito camerale in assenza è rappresentata dalla “manifestazione della volontà di comparire” proveniente dall’imputato (art. 23, comma 1, ultima parte).
Quella dell’imputato non è una tecnicamente formale richiesta di trattazione orale, ma la conseguenza della manifestazione di tale volontà è proprio quella di imporla.
È per questo probabilmente che la disciplina prevede una disposizione saggia: la manifestazione della volontà dell’imputato di comparire impone la trattazione orale ma è ammissibile solo quando pervenga alla cancelleria della corte di appello a mezzo del difensore. Tale disposizione raggiunge due risultati utili: informa il difensore che, quindi, può concordare con l’assistito la linea difensiva anche sul rito e, comunque, è avvisato del rito di trattazione orale con cui si procederà, obbligandolo ad una presenza effettiva, sia pure eventualmente attraverso sostituto fiduciario ex art. 102 cod. proc. pen. [16]
10.2. L’esperienza ha subito posto il tema della richiesta di partecipazione dell’imputato detenuto il quale chieda direttamente, tramite l’ufficio matricola dell’istituto dove si trova, di partecipare all’udienza, nelle due situazioni possibili del prima e dopo il decorso dei perentori quindici giorni, quando il suo difensore non abbia presentato nei termini l’autonoma richiesta di trattazione orale.
Si è ipotizzata la possibilità che i due commi (1 e 4, seconda parte, dell’art. 23) afferissero il primo all’imputato ristretto e il secondo all’imputato libero, così ‘sganciandosi’ l’imputato detenuto da tempi e modalità riservati all’imputato libero. Ma la norma non pare permettere tale conclusione: basti pensare che il comma 1 individua i casi nei quali non si procede con il generale rito camerale in assenza e il comma 4 ne disciplina i modi e i tempi, quindi vi è assoluta congruità e complementarietà dei due momenti della disciplina.
Deve quindi ritenersi che nel caso in cui l’imputato detenuto o agli arresti domiciliari abbia manifestato direttamente, tramite l’ufficio matricola o a mezzo polizia giudiziaria delegata al controllo o personalmente, la volontà di comparire:
- se non sono decorsi i quindici giorni la cancelleria possa inoltrare la richiesta al difensore perché si attivi al contatto con l’assistito o veicoli direttamente lui la richiesta, condividendola;
- se sono decorsi i quindici giorni e il difensore non abbia già autonomamente chiesto la trattazione orale, la richiesta debba essere dichiarata inammissibile (apparendo opportuno comunque dar notizia all’interessato che si procederà in assenza) [17].
10.3. Diverso è il caso in cui la trattazione orale sia stata chiesta dal procuratore generale o dal difensore di parte privata e si debba quindi procedere con gli ordinari riti di pubblica udienza o camerale partecipato.
In tal caso l’imputato parteciperà, salvo rinuncia, con collegamento di videoconferenza o informatico nel caso di rito in pubblica udienza disposto d’ufficio. Avrà l’usuale ordinario onere di richiedere la partecipazione nel caso di giudizio camerale, ferma la partecipazione a distanza (art. 23, comma 4, dl 137/2020, non derogato).
11. Il rito per i processi già pendenti
11.1. Due ultime questioni.
La prima riguarda i processi per cui è fissata udienza nel periodo dal 25 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e provengono da precedenti differimenti da udienze trattate con rito ordinario prima del 9 novembre.
Il quesito è se anche ad essi si applichi la disciplina eccezionale del dl 149.
La risposta pare possa essere differente secondo che il differimento precedente sia avvenuto in via preliminare (accertamento della costituzione delle parti e rinvio per legittimi impedimenti, astensioni, trattative, altre ragioni che abbiano impedito di procedere alla relazione della causa) ovvero dopo la relazione introduttiva.
Nel primo caso la trattazione del processo in definitiva non è iniziata: ne è controprova il fatto che la nuova udienza può essere trattata in composizione collegiale differente (Cass. Sez.3, sent. 47471/2013; Sez.4, sent. 4460/2006). In questo caso dovendo il processo essere trattato ex novo non vi sono ragioni per non applicare la disciplina dell’art. 23 dl 149/2020 nella sua integralità, in applicazione del principio di applicazione del rito previsto per il periodo di trattazione.
Nel secondo caso, la regressione dalla trattazione orale a quella cartolare non pare possibile, in assenza di una disciplina transitoria specifica pertinente. Questo perché nel periodo di emergenza non sono in assoluto precluse le trattazioni in presenza, ma solo diversamente disciplinate, comunque consentite per sola insindacabile scelta di una delle parti.
11.2. La seconda riguarda i casi di processi con detenuto (anche per altra causa) fissati per la trattazione nel periodo divenuto emergenziale, ma con decreto di fissazione dell’udienza già notificato e traduzione (o partecipazione da remoto) già disposta o richiesta di partecipazione già pervenuta prima del 9 novembre. In applicazione di quanto appena argomentato dovrebbe concludersi che quel ‘contatto con il detenuto’, o comunque il ristretto, avvenuto nella fase ‘organizzativa’ dell’udienza non sia per sé idoneo ad imporre la trattazione orale del processo. Sono mutati i presupposti fattuali (l’emergenza sanitaria) e normativi (nel periodo la regola generale è la trattazione camerale in assenza, salvo le tre eccezioni), sicchè deve concludersi che anche la precedente manifestazione di volontà di comparire sia divenuta inefficace e debba essere rinnovata nei tempi e nei modi stabiliti dall’art. 23.
[1] Termine di vigenza dell’emergenza sanitaria, dal rinvio operato dall’art. 23 dl 137/2020 all’art. 1, comma 1, dl 19/2020, senza pure il richiamo ai DPCM applicabili ai sensi del comma 2 [Relazione Massimario 02/11/2020 sulle novità introdotte dal dl 137/2020 nel giudizio penale in Cassazione].
[2] Secondo la stessa relazione (p. 5) anche questi termini sarebbero ‘liberi’ in applicazione della regola generale ex art. 172, comma 4, cod. proc. pen.. L’affermazione tuttavia è palesemente ‘incompleta’ perché non si confronta con il fatto che nello stesso articolo è espressamente specificato che i giorni indicati per la presentazione della richiesta di discussione orale (in Cassazione art. 23, comma 8, quarto periodo, dl 137/2020; per l’appello, art. 23, comma 4, dl 149/2020) sono giorni ‘liberi’. Se nella medesima norma alcuni termini vengono indicati specificamente come ‘liberi’ ed altri no, dovrebbe spiegarsi, ritenendosi anche per i secondi operante la disciplina generale, quale sarebbe la ragione della specificazione solo per i primi.
[3] L’art. 23, comma 2, dl 149 richiama in alternativa sia la generica previsione dei “mezzi telematici” in dotazione alla cancelleria (ex art. 16.4 dl 179/2012 con modifiche) sia i sistemi specificamente resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale DGSIA.
[4] L’art. 23, comma 2, ultima parte, dl 149 richiama l’art. 24, comma 4, dl 137/2020, secondo cui il deposito degli atti è consentito agli indirizzi PEC degli uffici giudiziari specificamente dedicati. Ora la presentazione delle conclusioni nel giudizio penale di appello nella generale procedura senza l’intervento fisico deve avvenire, solo, a mezzo PEC dedicata (gli indirizzi PEC sono stati assegnati ai diversi Uffici giudiziari con provvedimento del DGSIA del 9.11.2020 e con provvedimento organizzativo interno del singolo Ufficio sono stati stabiliti gli abbinamenti tra indirizzi e servizi).
Ai sensi dell’art. 3 del provvedimento del DGSIA risulta che: L'atto del procedimento in forma di documento informatico da depositare attraverso il servizio di posta elettronica certificata deve essere: 1. In formato pdf , 2. ottenuto da una trasformazione di un documento testuale senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, quindi non è ammessa la scansione di immagini, 3. sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata.
I documenti allegati all’atto del procedimento in forma di documento informatico devono rispettare i seguenti requisiti: 1. Essere in formato pdf, 2. le copie per immagine di documenti analogici hanno una risoluzione massima di 200 dpi, 3. le tipologie di firma ammesse sono PAdES e CAdES. Gli atti possono essere firmati digitalmente da più soggetti purché almeno uno sia il depositante, 4. la dimensione massima consentita per ciascuna comunicazione è pari a 30 mega byte.
[5] Si noti che la disciplina, pur dettata specificamente e solo per l’appello penale, non utilizza mai la locuzione ‘procuratore generale’.
[6] Del resto, occorre considerare che l’arretratezza dello stato informatico delle procedure penali (esito di consapevoli scelte del passato privilegianti la compiuta tempestiva informatizzazione del solo settore civile) non prevede alcun automatismo di reinvio delle conclusioni alle parti pur risultanti dal registro sicp, sicchè gli incombenti connessi a tale eventuale invio sarebbero insostenibili per gli attuali organici delle cancellerie penali, oltretutto spessissimo scoperti in percentuale consistente (basti pensare che per ogni singolo processo d’appello con un solo imputato e una sola parte civile le notifiche da curare potrebbero giungere ad almeno quattordici: decreto di fissazione udienza 4, conclusioni pg 2, conclusioni imp 2, conclusioni pc 2, comunicazione dispositivo 4, tutte da eseguire singolarmente con il sistema snt).
[7] La tesi dell’irrilevanza della mancata presentazione delle conclusioni per la parte pubblica non convince: vedi oltre nel testo il par. 3.3.3
[8] Ancorché la differenza tra ‘motivi nuovi’ e ‘argomenti a sostegno delle conclusioni’ risulti più formale che sostanziale, posto che per consolidata giurisprudenza di legittimità i motivi nuovi non possono afferire a punti della decisione diversi da quelli soli devoluti con l’originario atto di impugnazione. Del resto, è l’intera disciplina processuale ordinaria ad essere palesemente insoddisfacente laddove prevede i motivi nuovi ex 585, comma 4, poi le memorie e richieste ex art. 121, che la norma dichiara depositabili in cancelleria in ogni stato e grado del procedimento ma, quanto alle memorie, pure allegabili al verbale di udienza quando presentate in giudizio a sostegno di richieste ma anche delle conclusioni finali (482, comma 1), senza contemporaneamente disciplinare il contraddittorio sul contenuto. Sicché, paradossalmente, affermato il diritto al pertinente contraddittorio, il deposito di memoria articolata con le conclusioni potrebbe imporre la violazione del principio costituzionale della ragionevole durata con il necessario differimento. Sarebbe essenziale estendere la disciplina che invece solo per il rito di cassazione il legislatore ha disciplinato espressamente, e con diverso contenuto, stabilendo termini precisi: art. 611, comma 1, per i procedimenti in camera di consiglio, tuttavia la giurisprudenza di legittimità avendo esteso in via interpretativa estensiva la medesima disciplina anche ai procedimenti con pubblica udienza: per tutte da ultimo, Sez.6 sent. 11630/2020. In realtà la disciplina processuale penale pare da sempre timorosa di stabilire modalità e termini certi e seri per l’esercizio insindacabile di facoltà discrezionali, privilegiando (accettando) l’intempestività dell’esercizio a detrimento della ragionevole organizzazione dei tempi di trattazione, anziché impegnarsi per conseguire un equilibrio efficace tra salvaguardia rigorosa dei diritti delle parti ed efficienza della giurisdizione.
[9] Problema nel problema è, appunto, se in tal caso l’eventuale riferimento al momento dell’udienza debba pure tener conto dell’originario orario di udienza fissato per la originaria prospettiva di trattazione ordinaria in presenza, con fasce orarie determinate solo per limitare i rischi dell’assembramento, in aula ma pure, nel caso di trattazione ‘a porte chiuse’, nei locali esterni per l’attesa. La soluzione proposta nel testo assorbe questo problema peculiare, tuttavia dovendosi osservare che la fissazione dell’orario è strettamente collegata alla celebrazione del processo secondo le forme ordinarie, risultando tendenzialmente, sul piano strutturale, irrilevante, e quindi incompatibile, con la trattazione camerale senza partecipazione fisica delle parti.
[10] Sul presupposto della mancata contestuale previsione di una disciplina di eventuali repliche: vedi par. successivo.
[11] Il punto (deposito solo per via telematica alla pec ‘dedicata’) è importante, perché la prima esperienza applicativa ha presentato più casi di difensori che, non avendo chiesto la trattazione orale e non avendo presentato entro i cinque giorni le conclusioni, accedono all’aula di udienza, comunque all’assistente dell’udienza in corso, prima dell’orario precedentemente fissato per l’originaria trattazione orale, chiedendo allora di depositare fisicamente le conclusioni con eventuali note spese. La conclusione, sul piano formale, dovrebbe essere quella della ‘irricevibilità’ di un tale deposito ‘fisico’, quindi anche il tema dell’orario riguardando allora solo il pervenimento di depositi tramite pec nel giorno di udienza e prima dell’orario di inizio della camera di consiglio.
[12] Il riferimento è all’orario ultimo di efficace/legittimo pervenimento della pec ‘depositante’ rispetto all’orario di ordinario funzionamento delle cancellerie (si veda per tematica sostanzialmente sovrapponibile Cass. Sez. 6, sent. 42710/2011, paragrafo 3.1.2, pertinente l’art. 123 cod. proc. pen.). Si pensi infatti ad un’istanza cautelare che pervenga attraverso pec dedicata alle 18 del venerdi: quando decorrono i cinque giorni per provvedere?
[13] Non convince sul punto la Relazione Massimario 02/11/2020, già richiamata, laddove pur dando atto della mancata previsione delle repliche ritiene per la Cassazione (ma è il principio che rileva) applicabile analogicamente il sistema ex art. 611, tuttavia non affrontando l’aspetto essenziale dei termini ben più ristretti, unici per il deposito delle conclusioni, e degli eventuali modi, tempi e attribuzione dell’onere di comunicazione delle conclusioni delle parti private.
[14] Si ripropone la questione trattata al paragrafo 3.3.1
[15] Ancora una volta il tema trattato al paragrafo 3.3.1
[16] Volutamente non si approfondisce in questa sede il tema, prettamente deontologico, della condotta del difensore che in ipotesi chieda la trattazione orale in proprio, o veicoli la manifestazione di volontà di partecipare dell’assistito, e poi non compaia all’udienza ed eventualmente si limiti a chiedere sostituzione d’ufficio ai sensi dell’art. 97, comma 4, cod. proc,. pen.
[17] Sembra opportuno sensibilizzare formalmente gli istituti carcerari sulla tematica, perché svolgano la prima attività informativa con i detenuti, per consentire più efficacemente, quando il termine perentorio non è decorso, il contatto con il difensore.
La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi
di Federica Resta*
Sommario: 1. La direttiva 2016/680 - 2. Il recepimento della direttiva - 2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi.
1. La direttiva 2016/680
Una delle componenti più significative (ma, paradossalmente, anche meno conosciute) del nuovo quadro giuridico europeo in materia di protezione dei dati personali è rappresentato dalla direttiva 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, “relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio”.
La direttiva reca la disciplina- speculare a quella del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali, n. 2016/679, “GDPR” – della protezione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giudiziaria penale e di polizia, affidandola tuttavia a uno strumento giuridico di armonizzazione (e non di diretta unificazione) delle legislazioni, in ragione delle peculiarità della materia e della diversità dei sistemi processuali tra Stati membri, secondo quella specificità richiesta dalla dichiarazione 21, allegata all'atto finale della Cig che ha approvato il Trattato di Lisbona[1] .
Innovando rispetto alla decisione quadro, che abroga, la direttiva estende la sua sfera applicativa dal solo ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria a quello delle attività (giudiziaria penale e di polizia) svolte in ambito interno.
La distinzione dell’ambito applicativo tra regolamento e direttiva 680 è, dunque, tutta giocata sul duplice elemento soggettivo (svolgimento del trattamento da parte di autorità nazionali competenti nelle materie individuate) e teleologico-funzionale (perseguimento di fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica).
La concorrente applicazione dei due strumenti normativi, Gdpr e direttiva (fondata tanto sull’elemento soggettivo quanto su quello teleologico-funzionale della preordinazione del trattamento a fini preventivi o repressivi) determina, quindi, il singolare effetto di scindere la stessa disciplina dei trattamenti svolti per fini di giustizia in due sotto-sistemi distinti. L’attività giudiziaria (corrispondente all’esercizio di funzioni requirenti e giudicanti, anche in ambito esecutivo o di sorveglianza), in sede penale è soggetta (al pari dell’attività di polizia in senso stretto), per quanto concerne la disciplina di protezione dati, alla direttiva 2016/680
Così anche – come chiarito dal d.lgs. 51 del 2018 - l’attività giurisdizionale connessa all’applicazione di misure di sicurezza e prevenzione, correlata comunque alla prevenzione di reati , è disciplinata, ai fini privacy, dalla direttiva (e, naturalmente, dalle norme nazionali di recepimento: per l’Italia il d.lgs. 51).
Di contro, l’attività giudiziaria svolta da ogni altra giurisdizione (anche dalla stessa autorità giudiziaria, ma in sede civile) è attratta nell’ambito applicativo del Regolamento, con ciò che ne consegue in termini di diversa puntualità ed estensione degli obblighi del titolare, nonché di minore margine di flessibilità per la disciplina nazionale.
Tra le peculiarità della direttiva (che sono state peraltro oggetto di critiche da parte del Working Party 29, precedente organismo di coordinamento delle Autorità di protezione dati), vi sono la limitazione dei diritti dell’interessato nell’ambito di procedimenti penali in base alle norme processuali interne, l’esclusione (necessaria) di competenza dell’Autorità di controllo rispetto ai trattamenti effettuati dalle “autorità giurisdizionali nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” e quella (facoltativa) rispetto ai trattamenti svolti “da altre autorità giurisdizionali indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali” (art. 45, c.2, riferito in parte qua alle Procure, come chiarisce il C 80).
Le medesime autorità possono inoltre essere esentate dall’obbligo di designazione del responsabile della protezione dati (art. 32, c.1), deputato all’osservanza delle norme della direttiva e alla tenuta dei rapporti con l’autorità di controllo. Pur evitando ogni possibile interferenza di organi altri rispetto al giudiziario- la cui indipendenza è tutelata dalla stessa Carta di Nizza in funzione della garanzia del diritto di difesa- tali limitazioni avrebbero forse potuto essere sostituite da un sistema analogo a quello previsto dal previgente Codice privacy (d.lgs. 196 del 2003), in cui il potere di controllo sui trattamenti rimesso all’Autorità aveva incontrato il limite esterno del divieto di interferenza sull’esercizio della giurisdizione (cfr. anche art. 160, c.6), come espressamente rivendicato, tra l’altro, rispetto alle obiezioni sollevate rispetto al provvedimento del Garante del 2013 sulle misure di sicurezza negli uffici giudiziari (cfr. comunicato del Garante 25.9.2013).
Nel complesso, tuttavia, il testo finale della direttiva delinea un bilanciamento apprezzabile tra esigenze investigative e protezione dati, rappresentato ad esempio dalla differenziazione tra i dati “fondati su fatti” e quelli “fondati su valutazioni personali”, dalla tutela rafforzata accordata a “particolari categorie di dati”, nonché dal divieto di profilazione suscettibile di determinare discriminazioni fondate sulle stesse categorie di dati (si pensi al racial profiling). Importante anche il “paniere” di diritti riconosciuti all’interessato, ancorché comprimibili in ragione di particolari esigenze investigative o di sicurezza, purché la limitazione “costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica, tenuto debito conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi” dell’interessato, secondo la dizione Cedu.
Importante l’affermazione del diritto dell’interessato al risarcimento del danno derivato da trattamento illecito, nonché alla tutela amministrativa e giurisdizionale effettiva.
2. Il recepimento della direttiva
La direttiva 2016/680 è stata trasposta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 51 del 2018, secondo un criterio di recepimento assai puntuale, anche in ragione dell’assenza, nella legge di delegazione, di principi e criteri direttivi specifici, ulteriori rispetto a quello inerente la cornice edittale per le fattispecie delittuose da introdurre.
Ciononostante, il decreto ha compiuto alcune scelte essenziali, tra le quali:l’introduzione di una specifica fattispecie delittuosa modellata sulla falsariga del trattamento illecito di dati personali (con dolo, specifico, di danno o di profitto e condizione obiettiva di punibilità intrinseca fondata sul nocumento altrui) volta a colpire alcune forme qualificate di abuso del potere di trattamento in danno del cittadino; l’obbligatorietà della nomina del responsabile della protezione dati anche per l’autorità giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni (laddove la direttiva consentiva anche di prescinderne); una tutela forte del terzo coinvolto in procedimenti penali; l’esenzione (doverosa) della competenza del Garante rispetto al controllo sulla legittimità dei trattamenti di dati personali svolti “ dall’autorità giudiziaria nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, nonché di quelle giudiziarie del pubblico ministero” (art. 37, c.6); ambito, questo, in cui conseguentemente si esclude la tutela amministrativa di tipo sanzionatorio. Relativamente a questi trattamenti non è stata indicata un’autorità altra, ma si è rimesso il controllo di legittimità alla stessa sede processuale, con gli strumenti del processo, secondo la soluzione percorsa dal legislatore tedesco.
Vi è certo da dire che, nella direttiva, l’esclusione di competenza dell’autorità di protezione dati rispetto all’attività giudiziaria non equivale ad esclusione assoluta di attribuzione di altri organi di controllo, pur con modalità e garanzie tali da escludere ogni possibile violazione dei requisiti costituzionali di autonomia, soggezione esclusiva alla legge e indipendenza della magistratura da ogni altro potere. Una delle possibili soluzioni, ad esempio, avrebbe potuto essere l’attribuzione della relativa competenza al CSM, eventualmente anche integrandone la composizione (previe opportune modifiche normative) con esperti in materia.
2.1. I dati personali contenuti in atti giudiziari, le intercettazioni e la tutela dei terzi
Una delle innovazioni più importanti introdotte dal legislatore interno[2] concerne, però, l’introduzione, all’art. 14, del diritto di “chiunque vi abbia interesse” (dunque anche del terzo) di “richiedere la rettifica, cancellazione o limitazione dei suoi dati contenuti in atti giudiziari o indagini, anche in sede processuale, con le modalità di cui all’art. 116 c.p.p.”, precisandosi che “il giudice provvede con le forme dell'articolo 130 del codice di procedura penale”[3].
Vista la latitudine interpretativa della nozione di dato personale di cui all’art. 2, c.1, lett.a) d.lgs. 51, la norma è inequivocabilmente applicabile anche ai dati contenuti alle conversazioni intercettate, sia nella forma del file audio che della relativa trascrizione. Depone in tal senso la prassi del Garante, oltre che la giurisprudenza pronunciatasi in anni di vigenza del d.lgs. 196 del 2003, che recava una nozione di dato personale appena più limitativa dell’attuale.
In ragione dell’applicabilità della norma dell’art. 14, c.1 anche ai dati contenuti nelle conversazioni captate, contenute in brogliacci o file audio, essa sancisce in capo non solo alle parti processuali ma anche al terzo, il diritto di ottenere, con le forme particolarmente agili delle procedure di cui agli artt. 116 e 130 c.p.p., la rettifica, cancellazione o limitazione dei dati che lo riguardano.
Tale interpretazione è “suffragata”, oltre che dal C 47 della direttiva 2016/680, anche dalla interpretazione “ufficiale” fornita dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nell’ambito della Relazione indicata, secondo cui “È significativa, ad esempio, la previsione del diritto della persona (a prescindere dalla posizione processuale, includendovi anche il terzo estraneo alle indagini) di richiedere, con una procedura particolarmente agile, la cancellazione o rettifica dei propri dati illegittimamente trattati in ambito giudiziario penale. Norma, questa, che potrebbe risultare particolarmente utile anche rispetto alle conversazioni intercettate”. Analoga posizione è stata rappresentata nell’ambito del Convegno La rivoluzione mancata. A proposito di riforma della disciplina delle intercettazioni, tenutosi alla LUISS il 13 novembre 2018, disponibile su http://www.radioradicale.it/scheda/557504/, in cui si rilevava come la norma coprisse, sostanzialmente, alcune delle lacune derivanti dal differimento (allora vigente) dell’applicabilità dell’art. 2 del d.lgs. 216/2017, quale suo equivalente funzionale[4].
La richiesta va rivolta al titolare del trattamento (cfr. artt. 12-15 direttiva 2016/680, nonché artt. 10, 11 e 12 dello stesso d.lgs. 51, richiamati dall’art. 14) che, secondo la fase processuale, dovrà essere individuato con il regolamento attuativo di cui all’art. 5, c.2, d.lgs. 51. In ogni caso, il giudice (che potrebbe comunque ritenersi competente a decidere, per ragioni di terzietà, anche laddove il titolare per fase processuale sia il Pubblico Ministero) sarà tenuto a osservare le forme della procedura per la correzione degli errori materiali.
Quanto al contenuto delle richieste suscettibili di proposizione in questa sede da parte dell’interessato, la norma menziona anzitutto il diritto di cancellazione, da esercitarsi secondo i criteri generali di cui all’art. 269, c.2, c.p.p. (ove riguardi le intercettazioni) e, dunque, in relazione a dati non necessari a fini probatori o investigativi, dal momento che tale assenza di necessità renderebbe per ciò solo la conservazione di dati personali (a fortiori se di soggetti terzi rispetto alle indagini) illegittima per violazione dei principi di finalità, proporzionalità, non eccedenza di cui all’art. 3 dlgs 51 (salvo volersi riferire la nozione di necessità a procedimenti diversi, nei quali le conversazioni potrebbero rifluire ex art. 270 c.p.p.).
Qualora la cancellazione debba essere rigettata per esigenze di conservazione probatoria, l’interessato può però chiedere la limitazione del trattamento (v. infra), che consiste essenzialmente nel trasferire i dati “ad altro sistema di archiviazione” o nel rendere inaccessibili i dati stessi.
La rettifica concerne la correzione di dati inesatti: “Una persona fisica dovrebbe avere il diritto di ottenere la rettifica di dati personali inesatti che la riguardano, in particolare se relativi a fatti, e il diritto alla cancellazione quando il trattamento di tali dati viola la presente direttiva. Il diritto di rettifica, tuttavia, non dovrebbe avere effetti, ad esempio, sul contenuto di una prova testimoniale”. (cfr. C 47 della direttiva)
La limitazione concerne invece i casi nei quali la legittimità del trattamento del dato sia in discussione, ma non possa accertarsi, almeno nel momento considerato, l’effettiva fondatezza della richiesta o, comunque, quando i dati debbano essere conservati a fini probatori (cfr. C 47 della direttiva).
Il C 47 precisa inoltre che le rettifiche, al pari delle cancellazioni e limitazioni di dati personali “dovrebbero essere comunicate ai destinatari a cui tali dati sono stati comunicati e alle autorità competenti da cui i dati inesatti provengono. I titolari del trattamento dovrebbero inoltre astenersi dal diffondere ulteriormente tali dati”.
La limitazione del trattamento, dunque, potrebbe essere una valida misura (da attuare ad esempio con la custodia nel luogo protetto previsto per le intercettazioni illegali ex art. 240, c.2, c.p.p., ovvero nell’archivio riservato) da attuare rispetto a dati personali contenuti, ad esempio, in conversazioni captate che, almeno in fase d’indagini, il p.m. ritenga di non dover depositare ma che non possa neppure cancellare perché, ad esempio, suscettibili di sviluppi investigativi se si versa in una fase iniziale del procedimento.
Naturalmente, poi, venuta meno la concreta possibilità di un’utilizzazione processuale, le intercettazioni oggetto di limitazione dovrebbero essere cancellate (con le forme dell’art. 269, c.2, cpp) anche d’ufficio, in ottemperanza ai principi di non eccedenza del trattamento che si applicano, appunto, anche agli atti giudiziari ex art. 3 dlgs 51/2018.
Si tratta di una norma che ben potrebbe essere valorizzata a fini di tutela, appunto, dei soggetti a qualunque titolo coinvolti nelle intercettazioni., laddove non abbiano sortito effetto i criteri di “sobrietà contenutistica” e minimizzazione selettiva imposti, in sede di trascrizione, dalla disciplina vigente, come riformata per effetto della successione tra le leggi Orlando e Bonafede.
Al fine di garantire la tutela effettiva dei terzi, tuttavia, sarebbe opportuno prevedere un onere informativo a carico del Pubblico ministero, come era previsto dall’art. 268-sexies c.p.p. di cui il d.d.l. Mastella di riforma delle intercettazioni della XV legislatura, prospettava l’introduzione (AS 1512, art. 10), per evitare che il soggetto apprenda dell’esistenza, in atti processuali, di proprie conversazioni, direttamente dalla stampa, quando ormai l’intervento ablativo sarebbe tardivo.
In alternativa (ove tale onere informativo venisse ritenuto eccessivamente gravoso, soprattutto a fronte di una pluralità di terzi da avvisare), si potrebbe riconoscere al terzo il diritto di chiedere preliminarmente conferma dell’esistenza di intercettazioni che lo coinvolgano e, quindi, previo ascolto delle registrazioni stesse, di attivare la procedura di distruzione di cui all’art. 269 cpp[5] ovvero, in caso di richieste più articolate, di esercitare i propri diritti alla limitazione o (più raramente) rettificazione dei dati.
In tal modo, tramite la connessione procedimentale tra il nuovo diritto di cui all’art. 14 d.lgs. 51 e l’istituto della distruzione di cui all’art. 269 c.p.p. (testualmente rivolto agli «interessati»), ai terzi i cui dati siano occasionalmente captati in sede intercettativa potrebbe essere accordata una tutela effettiva, forse persino più di quanto si sia ipotizzato in, pur ampie e valide, ipotesi di riforma della disciplina delle intercettazioni.
*(le opinioni sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza)
[1] Secondo cui “La conferenza riconosce che potrebbero rivelarsi necessarie, in considerazione della specificità dei settori in questione, norme specifiche sulla protezione dei dati personali e sulla libera circolazione di tali dati nei settori della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia, in base all'articolo 16 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea”.
[2] E tali definite dall’allora Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, nella Relazione 2018
[3] La norma va letta in combinato disposto con il C 40 della direttiva 2016/680 e con il favor lì espresso per l’esercizio dei diritti da parte dell’interessato (“ è opportuno predisporre modalità volte ad agevolare l'esercizio, da parte dell'interessato, dei propri diritti conformemente alle disposizioni adottate a norma della presente direttiva, compresi i meccanismi per richiedere e, se possibile, ottenere, gratuitamente, in particolare, l'accesso ai propri dati personali, la loro rettifica o cancellazione e la limitazione del trattamento.).
[4] V. anche S. SIGNORATO; L’archivio delle intercettazioni. La custodia del materiale e la marcia verso la digitalizzazione delle intercettazioni, in Legislazione penale, 2020, 79 ss; S. RENZETTI, .
[5] S. RENZETTI, Una riforma (radicale?) per tornare allo spirito originario della legge: la nuova disciplina acquisitiva delle intercettazioni tra legalità, diritto vivente e soft law, in Legislazione penale, 2018, 1 ss.
Michele Taruffo, Maestro
di Andrea Giussani
Nell’anno più funesto del secolo, lascia tutti più poveri e soli la scomparsa di Michele Taruffo: come l’umanità nella sua interezza è stata la stella polare della sua avventura intellettuale declinata come riflessione scientifica, così a chiunque era dato attingere facilmente alla sua capacità di esprimere con chiarezza concetti complessi.
Con una produzione scientifica che lo ha visto primeggiare per vastità della visione dalla metà degli anni ’60 (in cui apriva quel dibattito italiano sull’azione di classe che ancora informa le più recenti novità legislative) a tutt’oggi (con la pubblicazione anche quest’anno di una nuova opera, dedicata all’inesauribilità del desiderio di verità e giustizia che si concretizza nell’aspirazione a procedere “Verso la decisione giusta”), e con la diffusione internazionale di questa, assicurata dalla sua infaticabile versatilità, si è reso protagonista di un’esperienza di pensiero volutamente irradiatasi oltre i confini disciplinari, nazionali e generazionali: delle prigioni mentali demoliva le sbarre, per trasformarle in osservatori.
La sua naturale vocazione alla speculazione filosofica, quindi, lungi dall’inaridirsi nell’esplorazione di una materia tecnicamente connotata come il diritto processuale tradizionalmente insegnato, si arricchiva nella concretezza dell’inverarsi, illuminato dalle sue analisi, della giustizia nel giudizio.
Specialmente fortunato, dunque, è chi ha avuto in sorte il destino di poterne essere allievo, poiché la fisica vicinanza massimizzava l’effetto liberatorio del suo confronto proprio incanalandolo nel progetto collettivo: ogni significativa evoluzione del diritto positivo veniva da lui discussa anche attraverso la cura di lavori che soleva rivedere sino alle virgole con rapidità e precisione; ai volumi tempestivamente dedicati alle riforme legislative si accompagnavano le regolari riedizioni del Commentario al codice, da lui guidato insieme a Federico Carpi (nonché inizialmente a Vittorio Colesanti), nei quali ogni novità dottrinale o giurisprudenziale riceveva attenzione critica.
Coerentemente, però, la stessa sua scuola non conosceva rigidi confini: possono infatti ritenersene allievi non soltanto quanti, già suoi studenti a Pavia, hanno più intensamente convissuto con la sua eloquenza, poiché la sua generosità di sé ha reso l’esperienza del confronto personale con la sua brillantezza accessibile a chiunque se ne volesse avvalere.
Questo straordinario talento comunicativo, d’altronde, s’innestava in una passione per l’umanità che ne era l’occulta forza motrice: la sua scienza era battagliera, polemica e intransigente; proprio perché curioso di tutto, combatteva senza ipocrisie né timidezze sotto le insegne del vero, financo assumendo il rischio di inimicarsi quel potere politico da cui pretendeva soggezione alla primazia del bene comune.
Lungo sarebbe l’elenco delle conquiste raggiunte anche grazie al suo impegno (qualche esempio si può ritrovare nel rafforzamento del sistema delle preclusioni, degli oneri di contestazione, della scientificità dell’accertamento del fatto, dell’effettività dei provvedimenti istruttori e di condanna, delle azioni collettive), ma di tutte non mancava mai di rilevare lacune e imperfezioni con energia non inferiore a quella che destinava a temi, come quello della completezza della motivazione, oggetto invece di sviluppi in senso contrario alle implicazioni del suo pensiero.
Compete a chi rimane proseguirne l’impresa con più fatica, ma con non minore dedizione, poiché il suo esempio non permetterà mai più di prescinderne.
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