ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte Costituzionale ritorna sul tema della “materia penale”: verso uno statuto della disciplina delle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali?
di Andrea Venegoni
Sommario: 1. Introduzione – 2. La questione – 3. Tre considerazioni – 4. Un’ulteriore riflessione – 5. Sviluppi futuri.
1. Introduzione
Se si volesse dare una sorta di marchio distintivo alla sentenza n. 68 del 2021 della Corte Costituzionale, per identificarla immediatamente, forse questo dovrebbe risiedere nel concetto, tra i tanti che la decisione affronta, per cui con essa la Corte sembra espandere in maniera più incisiva che in passato le garanzie proprie delle sanzioni formalmente penali alla “materia penale”, cioè a quell’area non qualificata formalmente come tale, ma che del diritto penale, in particolare delle sanzioni, possiede alcune caratteristiche, sulla base dei notissimi criteri elaborati dalla Corte EDU a partire dalla sentenza Engel del 1976[1].
In questo caso, il passo compiuto in questo percorso riguarda l’applicabilità dell’art. 30 della legge 87 del 1958 che prevede, in campo penale, la prevalenza sul giudicato degli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale è stata irrogata la pena divenuta definitiva.
Ciò appare tanto più notevole perché non molto tempo fa la stessa Corte, in un’altra ben nota decisione su questione analoga, seppure non formalmente identica, la n. 43 del 2017, sembrava essere giunta a conclusioni opposte.
È del tutto legittimo, quindi, provare a ragionare su cosa è avvenuto nel frattempo e quale sia il rilievo della presente decisione.
2. La questione
La stessa ha l’antefatto in un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88 del 2019[2], che ha riguardato l’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Tale norma contiene disposizioni generali sulle sanzioni amministrative da violazioni del codice della strada e, fino alla suddetta decisione, prevedeva, in linea generale, l’applicazione della sanzione amministrativa della sospensione o della revoca della patente, a seconda del tipo di conseguenza derivante dalla violazione. In caso di lesioni personali, la sospensione della patente per un periodo variabile a seconda dell’entità delle stesse. Per i reati di cui agli art. 589-bis c.p. (omicidio stradale) e 590-bis c.p. (lesioni personali stradali gravi o gravissime), in caso di condanna o anche di applicazione della pena su richiesta, era prevista, invece, la revoca della patente, senza possibilità per il giudice di esercitare alcuna discrezionalità nella scelta tra quest’ultima più grave sanzione e quella più mite della sospensione. Ciò comportava una serie di ulteriori importanti conseguenze per il condannato, oltre all’applicazione della sanzione stessa, indicate nel comma 3-bis della stessa norma, quali l’impossibilità di ottenere una nuova patente prima che fosse decorso un determinato lasso di tempo, variabile a seconda delle caratteristiche del reato (in particolare, se fosse aggravato o meno).
Poiché, tuttavia, anche il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis c.p. e di lesioni personali stradali di cui all’art 590-bis c.p. si caratterizzano per una diversa gravità a seconda della modalità concreta della condotta (esistendo una figura “base”, non aggravata, e fattispecie aggravate come quelle di avere commesso il fatto in stato di ebbrezza, o l’essersi dati alla fuga dopo il fatto), la Corte Costituzionale, con la suddetta sentenza n. 88 del 2019, è intervenuta per stabilire la illegittimità del precitato art. 222 nella parte in cui non prevede che, nelle ipotesi non aggravate dei reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa.
In altri termini, pur nella consapevolezza della dannosità dei reati di omicidio stradale e lesioni personali gravi e gravissime, la Corte ha voluto significare che il giudice deve avere la possibilità di graduare la sanzione amministrativa a seconda della gravità del reato, applicando, nelle ipotesi non aggravate, invece della revoca automatica della patente, la più lieve sanzione della sospensione del titolo di guida.
Per inciso, e deviando – ma poi fino ad un certo punto - solo per un momento dal tema della “materia penale”, la n. 88 del 2019 costituisce una sentenza che, in generale, si inserisce in un orientamento che la Corte sta manifestando da tempo, tendente a valorizzare il grado di colpevolezza dell’imputato ed il principio di proporzionalità nell’irrogazione di sanzioni ulteriori rispetto a quella principale, e quindi sia amministrative che pene accessorie, rimodellando quelle disposizioni normative che prevedono l’applicazione automatica di pene in misura fissa e predeterminata. Ne è ulteriore esempio recente, tra le altre, la sentenza n. 222 del 2018 in materia di reati fallimentari[3].
Successivamente alla sentenza n. 88 del 2019, il giudice remittente si trova a dover decidere una istanza, come giudice dell’esecuzione, formulata da un condannato definitivo per omicidio stradale non aggravato; un imputato, quindi, al quale, alla luce della sopravvenuta decisione n. 88 del 2019, potrebbe essere applicata anche solo la sospensione della patente per un periodo limitato di tempo e non la revoca della stessa. L’istanza è, infatti, proprio in questi termini, per la sostituzione della disposta revoca della patente con la sospensione.
Il problema è la base legale per l’accoglimento, di cui, evidentemente, il giudice remittente ritiene sussistenti i presupposti, perché è vero che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, che disciplina il funzionamento della Corte Costituzionale, afferma, al quarto comma, con disposizione che si differenzia da quella generale del terzo comma, che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”, ma tale disposizione si riferisce in senso stretto alle sanzioni penali, e non a quelle amministrative.
Mentre, cioè, se la sanzione in questione fosse stata anche formalmente “penale”, la pena applicata si sarebbe potuta classificare, in seguito alla sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità, come “pena illegale”, con necessità per lo Stato di riesaminare la situazione del condannato, ciò non sarebbe potuto avvenire in caso di sanzione formalmente “amministrativa”, non essendo ciò contemplato dal suddetto art. 30.
Da qui il dubbio sulla legittimità costituzionale di tale norma, allorché le statuizioni travolte dalla sopravvenuta incostituzionalità riguardino sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano però qualificabili come “sostanzialmente penali” alla luce dell’elaborazione dalla Corte EDU sulla base dei noti “criteri Engel”.
Torna al centro dell’attenzione, in altri termini, il concetto di “materia penale” che tanto ha attirato l’attenzione dei giuristi in questi ultimi anni, come si può convenire sol che si pensi, per esempio, allo sviluppo del concetto del “ne bis in idem”.
La violazione è denunciata sotto vari profili, tra i quali, va detto, la Corte accoglie quello relativo alla violazione dell’art. 3 Cost., considerato poi assorbente di tutti gli altri, ma con una serie di argomentazioni che affondano le loro radici nell’applicazione dei principi convenzionali.
3. Tre considerazioni
Sulla questione, sono interessanti, in primo luogo, tre considerazioni, che testimoniano la complessità del tema e come ci si muova nell’interpretazione di queste norme su un terreno che definire scivoloso è un eufemismo, dove la diverse esegesi trovavano tutte valide giustificazioni, mettendo però, forse, a rischio un altro principio fondamentale, quello della certezza del diritto.
Le prime due riguardano sempre la materia delle violazioni al codice della strada.
La prima è che, investita – sempre a seguito della sentenza n. 88 del 2019 - della medesima questione che si era posta davanti al giudice remittente che ha determinato la pronuncia della Corte Costituzionale qui in commento, la Corte di Cassazione, a fine 2019, in almeno due casi, non aveva ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 legge 87 del 1953, affermando che “la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, cod. strada, intervenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2019, non comporta che, in caso di revoca della patente di guida disposta con sentenza di condanna passata in giudicato per alcuno dei delitti previsti dagli art. 589-bis e 590-bis cod. pen., il giudice dell'esecuzione possa applicare, in luogo della stessa, la più mite disciplina derivante dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, atteso che detta revoca ha natura di sanzione amministrativa accessoria e, come tale, esula dall'ambito di operatività dell'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87, che circoscrive soltanto alle pene la retroattività degli effetti favorevoli delle sentenze di illegittimità costituzionale oltre il limite dei rapporti esauriti”[4], il tutto sul presupposto dell’applicazione dei principi sì convenzionali, ma non necessariamente di tutti quelli costituzionali interni alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale” elaborato dalla Corte EDU, proprio sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017.
La seconda richiede un’ulteriore premessa.
Anche l’art. 186 del codice della strada, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede la revoca della patente.
Ciò avviene al comma 2-bis della norma, come sanzione al fatto che il guidatore in stato di ebbrezza abbia provocato un incidente stradale con un tasso alcolemico particolarmente elevato, per quanto la stessa norma faccia “salva in ogni caso l’applicazione dell’art. 222”.
Orbene, proposta, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 2019, questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, in relazione all'art. 3 Cost., e cioè proprio per una disparità di trattamento rispetto all’applicazione della stessa sanzione ai sensi dell’art. 222 cdS, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione affermando che “sussiste piena autonomia tra tale previsione e quella di cui all'art. 222 cod. strada, e non avendo, la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione, ad opera della sentenza n. 88 del 2019 della Corte costituzionale, inciso sulla coerenza sistematica delle disposizioni in materia di revoca e sospensione della patente attualmente vigenti”[5].
Infine, ulteriore motivo di interesse della pronuncia n. 68 del 2021 è dato dal fatto che, invece, non molto tempo fa, l’analoga questione dell’incidenza di una pronuncia di illegittimità costituzionale sulle sanzioni amministrative irrogate con sentenza definitiva (anche se la fattispecie riguardava sanzioni diverse, per violazioni della normativa sulla tutela del lavoro) era già stata sollevata da altro giudice remittente e la Corte Costituzionale aveva dato, con la sentenza n. 43 del 2017, una risposta diversa da quella fornita oggi con la decisione in commento.
In quella occasione, la Corte aveva dichiarato non fondata la questione in virtù della asserita inesistenza, nella giurisprudenza della Corte EDU, del principio secondo cui la sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma sanzionatoria comporterebbe il venire meno della legalità della sanzione irrogata in base ad essa, con prevalenza sul giudicato.
Quella sentenza non si soffermava specificamente sulla qualificazione come “sostanzialmente penali” delle sanzioni amministrative in materia di lavoro che venivano in rilievo nella specie, e che il giudice remittente considerava tali.
La sentenza in commento, invece, giunge a diversa conclusione anche in virtù della natura della sanzione che viene in rilievo nel caso di specie, e cioè la revoca della patente che, come detto, non riguardava invece la vicenda della sentenza n. 43 del 2017.
Ciò che caratterizza la decisione e la differenzia non solo dalla sentenza n. 43 del 2017, ma anche dalla sopra citata giurisprudenza nazionale di legittimità, è la espressa qualificazione della sanzione in questione come “sostanzialmente penale” perché caratterizzata da “connotazioni sostanzialmente punitive”, come affermato in più occasioni nella giurisprudenza della Corte EDU ed il progressivo processo di assimilazione delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali a quelle penali, manifestatosi, dopo la sentenza n. 43 del 2017, in una serie di pronunce della Corte Costituzionale citate in sentenza, tra cui la decisione n. 63 del 2019[6].
La sentenza n. 43 del 2017 esprime un concetto molto chiaro: il principio di legalità penale convenzionale, di cui all’art. 7 della CEDU, si estrinseca in requisiti quali quello di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale, ma non in quello per cui non sarebbero più applicabili sanzioni basate su norme dichiarate successivamente illegittime, previsto, invece, dall’ordinamento interno. Non estende, quindi, una garanzia penalistica interna delle sanzioni formalmente penali alle sanzioni che, pur “sostanzialmente penali” sono, però, formalmente amministrative. Con la sentenza n. 43 del 2017, quindi, il percorso di ampliamento delle garanzie alla “materia penale” avanza, ma fino ad un certo punto; la sanzione amministrativa non perde del tutto la sua connotazione formale e quindi, anche laddove le siano applicabili garanzie convenzionali, questo non significa una equiparazione assoluta alle sanzioni formalmente penali del sistema interno.
Secondo la sentenza in commento, invece, anche alla materia penale si applica il principio di legalità della pena delle sanzioni formalmente penali nella declinazione per cui, finché la pena è in corso di esecuzione sulla base della sentenza definitiva, lo Stato non può tollerare che, qualora siano intervenuti fatti nuovi che ne determinano, in tutto o in parte, la contrarietà all’ordinamento, la stessa continui ad essere applicata. Il riferimento, in questo caso, è anche alla giurisprudenza di legittimità, ed in particolare alla sentenza delle SSUU della Corte di Cassazione n. 42858 del 2014 riguardante le sanzioni dei reati in materia di sostanze stupefacenti.
Ciò che è interessante, però, è che, nella sentenza n. 68 del 2021, tale principio, tipico delle sanzioni penali, è appunto applicato anche alle sanzioni formalmente amministrative ma che, per le loro caratteristiche, devono, appunto, intendersi come sostanzialmente penali.
4. Un’ulteriore riflessione
Come è stato messo in luce[7], infatti, negli anni il rapporto tra Corte Costituzionale e Corte EDU in merito alla considerazione della “materia penale” non è stato sempre semplice e caratterizzato da univocità.
L’ordinamento nazionale, in particolare, è sempre stato contraddistinto da un maggiore formalismo nella qualificazione delle sanzioni rispetto al sistema convenzionale, e, per sua tradizione e cultura giuridica, da un maggior legame con lo statuto normativo, cosicché l’attribuzione della qualifica di “penale” “costituisce il portato di una scelta di politica legislativa assolutamente discrezionale ed insindacabile dalla Corte costituzionale, se non nei limiti (stretti) della ragionevolezza”.
Tuttavia, se c’è un settore in cui, per utilizzare i concetti della sentenza n. 43 del 2017, la coesistenza tra regime “costituzionale” delle garanzie e regime “convenzionale” è venuta progressivamente a svilupparsi, questo è probabilmente proprio quello delle sanzioni amministrative, un campo in cui i parametri dei due sistemi tendono fortemente a coincidere[8].
Questo, si può ritenere, anche per evitare conseguenze paradossali, che traspaiono nella stessa motivazione della sentenza in commento, tali per cui la sottoposizione a sanzioni formalmente amministrative, in linea di principio meno gravi, può finire per rivelarsi più afflittiva e meno garantita dell’applicazione di sanzioni penali.
Peraltro, è stato anche affermato in dottrina[9] che gli approdi della giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra l’ordinamento convenzionale e quello interno sul tema della “materia penale” possono riassumersi nei seguenti punti:
- il riconoscimento della natura punitiva di un istituto non penale gli associa garanzie tipiche degli istituti penali ma non ne snatura l’essenza e non priva il legislatore del monopolio che la Costituzione gli attribuisce in materia penale.
Si può ricordare, al riguardo, che sempre nel 2017, con una sentenza di poco successiva alla n. 43, la Corte Costituzionale affermava che non era l’art. 25, comma 2, Cost. Il parametro in base al quale sollevare questioni di legittimità costituzionale sulla irretroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni amministrative[10].
- in presenza di un istituto sostanzialmente ma non formalmente penale, i presidi garantistici propri dell’ordinamento interno e della CEDU non si fondono e non possono essere assimilati ma sono invece destinati a coesistere all’insegna della massimizzazione delle tutele.
- il legislatore può decidere di riservare talune garanzie ai soli istituti formalmente penali senza che l’esercizio di questo potere discrezionale sia costituzionalmente censurabile.
La questione, allora, è se la sentenza in commento rappresenti una svolta o meno nella configurazione delle garanzie nel diritto interno allorché viene in rilievo il concetto convenzionale di “materia penale”.
Ci si può chiedere, in particolare, se la sentenza n. 68 del 2021 rappresenti una sorta di svolta nel percorso di scrittura dello statuto delle sanzioni amministrative previste da norma nazionali, ma rientranti nel concetto di “materia penale” convenzionale.
A questa domanda si può rispondere compiutamente se si considera ciò che è avvenuto nello spazio temporale compreso tra la sentenza n. 43 del 2017 e la sentenza oggi in commento.
Per quanto, infatti, si tratti di un arco di tempo relativamente breve, nel corso dello stesso la Corte ha adottato una decisione con cui è sembrata già manifestare un certo cambio di passo sul tema della materia penale.
Si tratta della sentenza n. 63 del 2019 (non per nulla specificamente richiamata dalla sentenza in commento), in cui, previo riconoscimento della natura “punitiva” delle sanzioni amministrative, che in quel caso consistevano nelle sanzioni previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, è stata affermata l’illegittimità costituzionale della norma (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015) che non prevedeva l’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta.
La sentenza ha, quindi, attribuito alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali” una caratteristica propria delle sanzioni formalmente penali.
Anche in tal caso esisteva un precedente che, probabilmente, ha, per così dire preparato la strada, seppure in maniera non così esplicita ma nelle pieghe della decisione, laddove nella sentenza n. 193 del 2016 la Consulta, pur statuendo, in merito alle sanzioni amministrative in generale che “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”, aveva, nello stesso tempo, lasciato intendere che tale valutazione poteva essere riconsiderata proprio per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, la cui natura doveva essere stabilita sulla base di un criterio casistico da condurre in concreto.
La sentenza n. 63 del 2019 la Corte Costituzionale ha, così, proceduto direttamente alla qualificazione della relativa sanzione amministrativa pecuniaria che veniva in rilievo nel caso di specie (si trattava, come ricordato, di una sanzione del TUF), affermando che essa non poteva essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti.
Ne veniva riconosciuta, piuttosto, l’elevatissima carica afflittiva, anche in virtù dell’elevato importo “che è comunque sempre destinato, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto”
Ancora, nella vicenda della sentenza n. 63 del 2019, non si può negare che avesse avuto rilievo sulla qualificazione della sanzione anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE che, dovendo trattare del tema del ne bis in idem in relazione a tale sanzione, ne aveva ravvisato la finalità repressiva[11].
Alla luce della sentenza n. 63 del 2019, si può allora provare ad affermare che la sentenza in commento aggiunge un tassello nella costruzione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale”, permettendo di ravvisare un percorso intrapreso in questo senso dalla Corte Costituzionale: dopo l’affermazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta, ora si rende applicabile alla materia penale anche il principio per cui l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità della norma sulla cui base è stata applicata la sanzione determina la necessità di rivalutare la pena, anche se già definitiva. Si tratta di un percorso, quindi, di maggiore tutela dei diritti in cui è essenziale il ruolo degli ordinamenti sovranazionali. Non solo, infatti, viene in rilievo il sistema convenzionale, ma occorre ricordare anche l’affermazione, contenuta nella sentenza n. 63 del 2019, sulla riconducibilità del principio della retroattività della normativa sopravvenuta più favorevole anche all’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[12].
Si tratta, quindi, di un percorso, verrebbe da dire, esemplare nella dimostrazione di come l’interazione tra i vari sistemi non è affatto fonte di confusione o di diminuzione delle garanzie, ma, al contrario, si pone come baluardo ed ulteriore rafforzamento delle stesse.
Ad essere pignoli, peraltro, forse due commenti possono ancora compiersi in relazione a in tale processo.
Il primo è che, anche in questo caso, l’illegittimità costituzionale della norma denunciata non è dichiarata in relazione all’art. 25, comma 2, Cost., ma in relazione all’art. 3 Cost.
Può sembrare una questione formale, ed è anche vero che la retroattività della legge penale più favorevole sopravvenuta non è considerato principio di natura costituzionale, anche se è certamente una declinazione del principio di legalità, ma può anche rappresentare, in realtà, la volontà di non contraddire palesemente quell’orientamento tradizionale prevalente della Corte per cui il riconoscimento dei “criteri Engel” per la qualificazione di una sanzione non determina di per sé l’applicazione delle garanzie costituzionali penalistiche – che restano applicabili solo alle sanzioni formalmente penali - bensì “solo” di quelle convenzionali. Come detto, sebbene nella materia delle sanzioni amministrative molti principi costituzionali e convenzionali tendano a combaciare, i piani sono stati però tenuti tradizionalmente distinti, seppure qualche apertura in merito all’applicazione diretta dell’art. 25 Cost. si sia registrata in passato[13]
La seconda considerazione è che il limite del processo cui appartengono la sentenza n. 63 del 2019 e la sentenza in commento – limite, peraltro, proprio di tutta l’estensione delle garanzie della “materia penale” alle sanzioni formalmente amministrative, come anche la vicenda del “ne bis in idem” dimostra –, forse consiste nel fatto che questo non può che avanzare per analisi casistica, e quindi specificamente legata alla situazione concreta. Non è possibile, in altri termini, classificare a priori determinate sanzioni amministrative come “sostanzialmente penali” con conseguente applicazione delle garanzie, e ciò non aiuta nella realizzazione del principio di certezza del diritto, che dovrebbe, invece, essere un aspetto essenziale di un sistema sanzionatorio.
5. Sviluppi futuri
Anche quanto ai possibili futuri scenari ci si possono porre alcune domande.
In primo luogo, ci si può chiedere se, alla luce della presente sentenza che qualifica come “sostanzialmente penali” le sanzioni come quella in questione, dovrà essere rivista o meno l’affermazione della Corte di Cassazione[14] secondo cui “Nei casi di applicazione, da parte del giudice, della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, prevista dall'art. 222 cod. strada, la determinazione della durata di tale sospensione deve essere effettuata non in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. proc. pen., ma in base ai diversi parametri di cui all'art. 218, comma 2, cod. strada, sicché le motivazioni relative alla misura della sanzione penale e di quella amministrativa restano tra di loro autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un'eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento”.
Si può provare, in questa sede, ad azzardare una conclusione, secondo cui, probabilmente, lo statuto delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, di cui la sentenza in commento rappresenta un tassello, riguarderà nel sistema nazionale solo l’estensione di garanzie proprie del diritto penale (convenzionali o costituzionali), ma non necessariamente la determinazione della sanzione stessa, i cui criteri sono oltretutto specificamente regolati dalla legge 689 del 1981.
La qualificazione come “sostanzialmente penale” di una sanzione amministrativa non dovrebbe, quindi, far sì che la norma di riferimento per individuarne la misura diventi automaticamente l’art. 133 c.p.
Ma domande significative potrebbero sorgere anche in relazione ad almeno due grandi ulteriori temi.
Il primo è se il percorso che la Corte sembra avere intrapreso porterà ad altre pronunce relative ad altre garanzie penalistiche in campo sostanziale.
In tal senso, restano aperte questioni, per esempio, sul principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.
Altro grande tema è quello dell’applicazione delle garanzie penalistiche in materia processuale, e non solo sostanziale.
In materia, cioè, di giusto processo. In questo senso, è già stata scritta una pagina molto importante nell’ambito di quello che può veramente definirsi un virtuosissimo “dialogo tra Corti” in tema di “nemo tenetur se detegere”[15].
Altre, però, potrebbero esserne scritte, per esempio in tema di contraddittorio, di pubblicità dell’udienza, di imparzialità del giudice, e su alcune di esse la Corte di Strasburgo ha già iniziato a pronunciarsi[16].
Insomma, il campo dell’estensione delle garanzie nella “materia penale” sembra in pieno sviluppo, e, probabilmente, non si sbaglia nell’affermare che già in un prossimo futuro altre interessanti pagine verranno scritte in questo percorso.
[1] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976; sull’evoluzione del concetto di “materia penale” nella giurisprudenza della Corte EDU, anche attraverso le successive sentenze Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1986 e Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, si veda, tra gli altri, GIGLIO, La “materia penale” e il suo statuto nella giurisprudenza interna e sovranazionale , In Dir. pen. e uomo, sett. 2019
[2] Corte Cost., n. 88 del 17 aprile 2019, in www.cortecostituzionale.it
[3] Corte Cost., n. 222 del 5 dicembre 2018, in cui la Corte, tra l’altro, afferma: “La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.”
[4] (Cass., sez. 1 pen., n. 1634/20 del 13/12/2019, Rv. 277911-01; Cass., sez. 1 pen., n. 1804/20 del 14/11/2019, Rv. 278182-01)
[5] Cass., sez. 4, n. 7950 dell’ 11/02/2021 Ud. (dep. 01/03/2021 ) Rv. 280951 - 01
[6] Su cui si veda, tra gli altri, SCOLETTA, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative puntive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2 aprile 2019
[7] Si veda, tra gli altri, MANCINI, La “materia penale” negli orientamenti della Corte EDU e della Corte costituzionale, con particolare riguardo alle misure limitative dell'elettorato passivo, in federalismi.it, n. 1/2018
[8] Si veda, al riguardo, Corte Cost. n. 196 del 2010 in materia di applicazione retroattiva della confisca
[9] GIGLIO, cit.
[10] Corte Cost., n. 109 del 2017, su cui si veda, tra gli altri, il commento di PELLIZZONE, Garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale: osmosi o autonomia? , in DPC, Riv. Trim., n. 4/2017
[11] CGUE, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38
[12] BINDI e PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale , in Federalismi.it, 27.11.2019
[13] MASERA, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018
[14] Cass., sez. IV, n. 4740 del 18/11/2020 R. 280393
[15] In cui tappe fondamentali in cui si è sviluppato il percorso sono state: Cass., sez. II civ., n. 3831 del 2018; Corte Cost n. 117 del 2019; CGUE, Grande Sezione, sent. 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. c. CONSOB
[16] Si veda, per esempio, Corte EDU, Sez. I, 10 dicembre 2020, Edizioni Del Roma società cooperativa a.r.l. e Edizioni Del Roma s.r.l. c. Italia , e commento di MAZZACUVA, Poteri sanzionatori delle Authorities e principi del giusto processo: punti fermi e prospettive nella giurisprudenza di Strasburgo, in Sist. Pen., 29.4.2021
La partecipazione alle associazioni terroristiche: le macro-aree dell’eversione interna, i reati-fine e le fattispecie monosoggettive.
Riflessioni in memoria di Guido Galli
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine – 2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno – 2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 – 3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive – 4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite.
1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine
Il materiale giurisprudenziale su cui mi soffermerò nella presentazione di questa sessione l’ho scelto seguendo un criterio basato sull’inquadramento generale dei fenomeni terroristici ed eversivi, ricostruito attraverso alcune sentenze di legittimità, che ho selezionato per la loro esemplarità rispetto alle tematiche che intendo introdurre, relative alla natura monosoggettiva o plurisoggettiva dei reati commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico[1].
Ho ritenuto, pertanto, opportuno seguire, dopo un’accurata ricerca del materiale giurisprudenziale funzionale al percorso ricostruttivo che volevo compiere e al gruppo di lavoro nel quale intervengo, una soluzione espositiva di natura tendenzialmente casistica, incentrata sul percorso pluriennale compiuto dalla giurisprudenza di legittimità sulle tematiche oggetto della mia presentazione, che riguardano le connotazioni monosoggettive e plurisoggettive dei reati di terrorismo “interno”[2].
Questa soluzione seminariale, se ha reso più laboriosa l’attività preparatoria della presentazione, a causa della stratificazione del materiale giurisprudenziale, mi ha consentito di recuperare alcune importanti pronunzie di legittimità, che, pur essendo state massimate, sono state, a fronte della loro esemplarità, trascurate nel dibattito sui temi che esporrò.
Vorrei, quindi, parlare, mediante sintetici richiami, di alcune pronunzie di legittimità particolarmente sintomatiche – sia per il loro contenuto giurisdizionale, sia per la risonanza mediatica dei fatti di reato giudicati, sia per la chiarezza delle argomentazioni esposte in tali provvedimenti decisori – rispetto ai fenomeni terroristico-eversivi relativi al “terrorismo brigatista”, al “terrorismo di estrema destra” e al “terrorismo ambientalista”.
Mi sembra anche doveroso segnalare che, nei miei precedenti interventi seminariali su analoghe tematiche, mi sono soffermato anche sul “terrorismo secessionista”[3] – che rientra nel più ampio genus del “terrorismo separatista” europeo –, del quale, però, non mi occuperò nell’ambito di questa presentazione, ferma restando la possibilità di brevi richiami giurisprudenziali, funzionali alla chiarificazione delle tematiche affrontate, essendo tale fenomeno criminale sostanzialmente recessivo rispetto alle altre macro-aree terroristiche.
Di questi, complessi, fenomeni terroristici, dunque, ritengo di dovere parlare attraverso il richiamo dei passaggi salienti del percorso argomentativo seguito nei vari provvedimenti decisori citati, cercando, nei limiti del consentito, di effettuare una ricostruzione quanto più possibile fedele di ciascuna pronuncia e degli obiettivi didattici perseguiti in questo gruppo di lavoro.
2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Nella nostra panoramica, occorre muovere dalle pronunzie che riguardano i fenomeni terroristici riconducibili all’estrema sinistra di matrice brigatista, ai quali ci si riferirà allo scopo di evidenziare quali fattispecie monosoggettive vengono in rilievo in tale ambito consortile.
Occorre premettere che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una struttura operativa fortemente gerarchizzata, con una ripartizione di ruoli direttivi ed esecutivi, che, sul piano associativo, assume rilievo ai sensi degli artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
In questa cornice sistematica, allo scopo di comprendere la rilevanza delle fattispecie monosogettive rispetto alle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista, alcune considerazioni metodologiche si impongono.
Si consideri che queste organizzazioni di ispirazione marxista-leninista, generalmente, fanno circolare le proprie ideologie rivoluzionarie attraverso la stampa periodica clandestina, diffondendola mediante distribuzione cartacea e pubblicando interventi che assumono connotazioni apologetiche, rilevanti ex artt. 414 e 415 c.p.[4]
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche risultano fondate su un programma “rivoluzionario”, che prevede l’uso sistematico della violenza, anche con l’impiego di armi micidiali, che devono essere reperite dagli esponenti della struttura associativa che si sta considerando. Le attività di reperimento di armi, munizioni ed esplosivi, a loro volta, danno origine a una pluralità di reati-fine, caratterizzati da finalità terroristiche e connotati in senso monosoggettivo, tendenzialmente riconducibili alla disciplina generale in materia di armi.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, secondo quanto affermato in diverse sentenze di legittimità, sono governate da un nucleo ristretto di soggetti, non sempre conosciuti dalla base della consorteria, che impongono l’enucleazione dei processi decisionali attraverso cui si elaborano le strategie associative ex artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di una cassa comune, gestita da affiliati della struttura associativa, che rispondono, sotto il profilo organizzativo, ai componenti di vertice del sodalizio, che avallano le condotte illecite relative a tale segmento criminale, rilevanti ex art. 648-bis c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una sede centrale e di alcune sedi periferiche, che vengono coordinate tra loro dai vertici del gruppo, presso le quali, molto spesso, vengono rinvenuti gli arsenali militari a disposizione del sodalizio.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di un cospicuo materiale ideologico, che, generalmente, viene sequestrato nel corso delle indagini preliminari, durante le attività di perquisizione effettuate presso le basi logistiche delle consorterie, tra cui quello apologetico già richiamato, rilevante ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p.
Si consideri, infine, che queste organizzazioni terroristiche, oltre alle attività delittuose finalizzate a consentire il sostentamento degli affiliati e l’elaborazione delle strategie eversive, generalmente, pianificano alcuni attentati particolarmente eclatanti, commessi in danno di esponenti di spicco della società civile o del mondo delle professioni – come, limitandoci a richiamare i più recenti episodi, nel caso degli omicidi dei docenti universitari Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massima D’Antona e Marco Biagi[5] –, per i quali, laddove tali attentati non si concretizzano, si pongono delicati problemi di accertamento del superamento della soglia di punibilità delle condotte illecite, in linea con la questione della repressione degli atti pretipici nel tentativo[6].
2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno
Nella cornice richiamata nel paragrafo precedente, il punto di riferimento normativo indispensabile per inquadrare le finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno, che caratterizzano sia le fattispecie monosoggettive sia le fattispecie plurisoggettive, è rappresentato dalla disposizione dell’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo», a tenore del quale: «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».
Si tratta di una disposizione, che, nella sua formulazione normativa, come evidenziato dalla Suprema Corte, ha recepito le indicazioni della Convenzione di New York[7], che consentono di ritenere «connotate da finalità di terrorismo quelle condotte: 1) che “per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a una Organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici, o un’Organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”; 2) che possono “destabilizzare, o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’Organizzazione internazionale; 3) che siano “definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”»[8].
Ne discende che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata – attraverso un parallelismo sistematico tra l’art. 270 c.p., intitolato «Associazioni sovversive», l’art. 270-bis c.p. intitolato «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico», l’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo» e l’art. 306 c.p., intitolato «Banda armata: formazione e partecipazione» – la condotta illecita di natura «terroristica ha rilevanza penale in sé; tuttavia, quando è tenuta allo scopo di raggiungere gli obiettivi […], fa “corpo unico” con tale finalità. Ma tale opera di destabilizzazione/distruzione, ovviamente, altro non è che la sovversione o eversione violenta di cui all’art. 270 c.p. […]», atteso che la disposizione «descrive la condotta come diretta ad attentare agli ordinamenti economici o sociali del nostro Stato, ovvero a sopprimere il suo ordinamento politico e giuridico»[9].
In questa cornice ermeneutica, l’obiettivo terroristico o eversivo dell’ordine democratico anche «se qualificato come “finalità” (artt. 270-bis e 280) o come “scopo” (art. 289-bis) nel codice penale, non costituisce, in genere, un obiettivo in sé, ma, ovviamente, funge da strumento di pressione, da metodo di lotta, da modus operandi particolarmente efferato: si diffonde il panico, colpendo anche persone e beni non direttamente identificabili con l’avversario o riferibili allo stesso, per imporre a quest’ultimo una soluzione che, in condizioni normali, non avrebbe accettato»[10].
Pertanto, le fattispecie, monosoggettive e plurisoggettive, connotate da finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico interno, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si caratterizzano per la loro natura giuridica di delitti di pericolo presunto, per cui, ponendosi delicati problemi di superamento della soglia di punibilità indispensabile alla configurazione del reato, si richiede la concretezza del proposito eversivo perseguito con atti di terrorismo, in vista dei quali la consorteria criminale è stata costituita e i reati-fine vengono commessi, in esecuzione del programma associativo[11].
Ne deriva ulteriormente che è necessario accertare, con riferimento a ciascun reato-fine, connotato monosoggettivamente, se la condotta illecita è stata commessa con l’intenzione e la possibilità di utilizzare metodologie terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., strumentali al perseguimento del programma di eversione dell’ordine costituzionale presupposto. Occorre, pertanto, accertare se, nei programmi e negli effettivi progetti dell’agente, rientra il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, anche attraverso la commissione del singolo reato-fine, allo scopo di esercitare forme di coartazione nei confronti dei poteri pubblici e di distruggere – o quantomeno di destabilizzare – gli assetti istituzionali nel nostro Paese[12].
Diventa, allora, indispensabile comprendere, con riferimento ai singoli reati-fine, commessi in relazione alla sfera di operatività di un’organizzazione terroristica di matrice brigatista, quali sono gli scopi di propaganda armata perseguiti e se i comportamenti criminosi sono tendenzialmente rivolti verso obiettivi sintomatici, in modo da ottenere un effetto paradigmatico e innescare meccanismi di emulazione. Si tratta di verificare processualmente se attraverso la singola azione terroristica si vogliono raggiungere determinati risultati di destabilizzazione, accettando anche il rischio di vittime collaterali ovvero se si vuole colpire indiscriminatamente la popolazione, per suscitare terrore, panico e insicurezza nell’ambiente sociale di riferimento; il che, a ben vedere, mira a ottenere lo stesso effetto sintomatico perseguito nel caso degli “omicidi eccellenti” che si sono richiamati nel paragrafo precedente[13].
Queste certezze probatorie, naturalmente, devono essere raggiunte tenendo conto della struttura delle fattispecie associative terroristiche di cui agli artt. 270, 270-bis e 306 c.p., che, secondo la Suprema Corte, si connotano per il dolo specifico «costituito dallo scopo di commettere delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato, nonché per la organizzazione in banda e la disponibilità di armi; non è però richiesto che la gerarchia interna sia di tipo militare e che ciascun compartecipe sia effettivamente armato, essendo sufficiente la disponibilità e, quindi, la concreta possibilità di utilizzare le armi da parte degli associati»[14].
2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625
Occorre, infine, soffermarsi brevemente sull’aggravante di terrorismo, così come introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15 dicembre 2001, n. 438, precisando che, essendo la violenza terroristica entrata a fare parte della struttura del reato associativo di cui all’art. 280-bis c.p., tale elemento costitutivo non può essere considerato come circostanza aggravante della stessa fattispecie[15].
A conclusioni differenti, invece, deve giungersi per i reati-fine di cui si è parlato nella parte iniziale di questa esposizione, per i quali la circostanza in questione deve essere riconosciuta, costituendo l’aggravante di terrorismo un elemento esterno e integrativo rispetto alle fattispecie monosoggettive, di volta in volta, considerate. Ne consegue che, per verificare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’aggravante eversiva di cui all’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979, è necessario accertare che il reato-fine consista «nell’uso di ogni mezzo di lotta politica […] che sia in grado di rovesciare, destabilizzando i pubblici poteri e, minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale […]»[16].
Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come affermato dalla Suprema Corte, l’aggravante dell’eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo rappresentare “un’endiadi della finalità di terrorismo”, ma si identifica necessariamente nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che sia in grado di destabilizzare le istituzioni pubbliche e di alterare il sistema democratico costituzionale[17].
3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive
Occorre premettere che in questi procedimenti penali, riguardanti fatti di reato notevolmente risalenti nel tempo, generalmente, non si controverte sull’operatività delle organizzazioni terroristiche, in quanto tali, ma sugli esiti criminosi della loro attività eversiva, rilevante sotto il profilo dei reati-fine commessi in attuazione del programma consortile eversivo.
Ne discende che le finalità terroristiche, pur decisive per valutare i delitti commessi dalle organizzazioni dell’estrema destra eversiva – di natura eminentemente stragistica e riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 285 c.p., intitolata «Devastazione, saccheggio e strage», eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979 –, vengono in rilievo soltanto indirettamente, essendo strumentali alla comprensione delle strategie sottese ai reati-fine oggetto di vaglio, che possono essere ricostruite solo attraverso l’accertamento processuale degli obiettivi sovversivi di cui sono espressione[18].
La rappresentazione esemplare di quanto si sta affermando ci proviene dai processi sulle stragi riconducibili all’estrema destra eversiva, eseguiti a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, rispetto ai quali assume un rilievo decisivo l’accertamento processuale del collegamento tra il delitto di cui all’art. 285 c.p.[19] – che è una fattispecie tipicamente monosoggettiva – e la strategia sovversiva di matrice stragista, nel cui contesto maturava la decisione di eseguire gli attentati più eclatanti di quell’epoca, come la “Strage di Piazza Fontana” e la “Strage di Piazza della Loggia”.
Infatti, costituisce un dato, storico e giurisdizionale, ormai consolidato quello secondo cui gli attentati stragisti organizzati dalla destra eversiva italiana, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo del secolo scorso, maturavano nel contesto organizzativo del gruppo di “Ordine Nero”, nel quale erano confluiti i componenti del disciolto gruppo di “Ordine Nuovo”, oltre ad alcuni nuovi aderenti all’area eversiva in questione. Si tratta, in particolare, di cellule eversive formatesi in seno agli ambienti dell’estrema destra italiana extraparlamentare, soprattutto radicati nell’area lombarda e nell’area veneta del Paese[20].
In seno a queste due cellule eversive, si sviluppavano delle vere e proprie articolazioni militari, che avevano una ramificata struttura territoriale e possedevano la capacità di organizzare attentati di grande risonanza sociale, anche grazie al fatto che tali organismi terroristici disponevano di autonomi canali di approvvigionamento di armi ed esplosivi, come ad esempio la gelignite, che è la sostanza chimica utilizzata per il confezionamento dell’ordigno fatto detonare nella “Strage di Piazza della Loggia”, verificatasi a Brescia il 25 maggio 1974. Queste cellule eversive, al contempo, al loro interno, disponevano di veri e propri armieri, con elevate competenze tecniche, talvolta acquisite negli ambienti della destra eversiva straniera, che venivano utilizzati dai vertici consortili per il confezionamento di ordigni esplosivi di portata devastante, come quello utilizzato nell’attentato bresciano[21].
Il riferimento agli episodi stragisti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso assume un rilievo fondamentale anche per un’altra ragione, collegata al contesto ideologico nel quale veniva elaborata la strategia eversiva dell’estrema destra italiana di matrice extraparlamentare. I componenti delle cellule terroristiche in esame, infatti, avevano maturato la consapevolezza, attraverso frequenti riunioni preparatorie, svolte con esponenti di spicco dell’ambiente eversivo, di «potere contare, a livello locale e nazionale, sulle coperture di appartenenti agli apparati dello Stato e ai servizi di sicurezza, italiani ed esteri»[22].
Gli accertamenti processuali sviluppatisi nel corso dei decenni su tali episodi stragisti, dunque, ci consentono di affermare che le condotte preparatorie ed esecutive degli attentati di matrice terroristica – riconducibili a una fattispecie tipicamente monosoggettiva, come quella dell’art. 285 c.p. – dovevano essere correlate alle attività di elaborazione ideologica, di organizzazione logistica e di proselitismo politico portate avanti, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, dalle cellule dell’estrema destra eversiva italiana, nella quale gravitavano gli autori dei reati. Non v’è dubbio, infatti, che gli attentati, come accertato in sede giurisdizionale, rientravano «nel programma di destabilizzazione dell’assetto istituzionale perseguito dall’area dell’estrema destra italiana […]»[23].
Pertanto, l’inserimento del programma dei gruppi di “Ordine Nuovo” e di “Ordine Nero” in uno scenario eversivo di rilievo nazionale di matrice stragista costituisce un dato processuale incontroverso, corroborato dal fatto che, in diversi processi celebrati sugli episodi delittuosi in esame, venivano accertate riunioni finalizzate a programmare l’attività operativa dell’estrema destra extraparlamentare e a mettere a punto la futura strategia eversiva, con lo spostamento dell’attività terroristica nei centri urbani di grandi dimensioni e il potenziamento delle strutture di copertura delle attività illegali.
3.1. Il problema dell’accertamento dei fatti in contestazione a notevole distanza di tempo dagli accadimenti stragistici
Le considerazioni che si sono esposte nel paragrafo precedente ci consentono di introdurre il tema centrale dei processi sulle stragi di matrice eversiva degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che trae origine proprio dalla natura monosoggettiva del reato-fine oggetto di vaglio – quale è, per l’appunto, la fattispecie dell’art. 285 c.p., a tenore del quale: «Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo» – e pone il problema della valutazione giurisdizionale del compendio probatorio, di matrice eminentemente indiziaria e connotato da un’intrinseca problematicità, acquisito a distanza di alcuni decenni dai fatti delittuosi in esame. Basti, in proposito, considerare che sulla “Strage di Piazza della Loggia”, prima della sentenza di legittimità che si è richiamata nel paragrafo precedente, erano stati celebrati sette procedimenti penali, senza il raggiungimento di alcuna verità processuale[24].
In questi casi, si tratta di effettuare una valutazione del compendio probatorio acquisito nel rispetto dei principi sul processo indiziario, governato dall’orientamento ermeneutico consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «nel processo penale indiziario, il giudice di merito deve compiere una duplice operazione, atteso che, dapprima, gli è fatto obbligo di procedere alla valutazione dell’elemento indiziario singolarmente considerato, per stabilire se presenti o meno il requisito della precisione e per vagliarne l’attitudine dimostrativa; successivamente, occorre procedere a un esame complessivo degli elementi indiziari acquisiti […], allo scopo di appurare se i margini di ambiguità, correlati a ciascuno di essi, possano essere superati in una visione unitaria[25], in modo da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato, pur in assenza di una prova diretta di reità, sulla base di un complesso di dati, che saldandosi logicamente, conducano necessariamente a un giudizio di colpevolezza come esito inevitabile […] e, dunque, oltre “ogni ragionevole dubbio”»[26].
Il giudice di merito, infatti, non può «limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza […] e l’intrinseca valenza dimostrativa […] e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”[27] e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[28].
Al contempo, l’inquadramento del compendio probatorio acquisito nell’ambito del procedimento indiziario, generalmente, consente di superare il problema della valutazione da parte del giudice di appello delle prove orali acquisite nei giudizi di merito, spesso assai lontane nel tempo e oggetto di frequente rivisitazione, che erano state ritenute utili ai fini della decisione adottata, ma che non sempre è possibile rinnovare, con la possibile violazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alla luce della sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Dan contro Moldavia”.
Queste considerazioni valgono soprattutto con riferimento alle conseguenze processuali dell’applicazione del seguente principio di diritto: «Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna»[29].
4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Occorre, infine, soffermarsi sui reati-fine e sulle fattispecie monosoggettive collegate alla sfera di operatività delle associazioni terroristiche di matrice ambientalista.
Tale riferimento si impone in ragione del fatto che anche nelle ipotesi di condotte illecite riconducibili ad associazioni terroristiche di matrice ambientalista, quantomeno tendenzialmente, ci si trova di fronte a fattispecie di reato monosoggettive, assumendo rilievo soprattutto i delitti di cui agli artt. 280 c.p., intitolato «Attentato per finalità terroristiche e di eversione», e 280-bis c.p., intitolato «Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi»[30].
In questa cornice, innanzitutto, occorre evidenziare che per l’integrazione dei delitti puniti dagli artt. 280 e 280-bis c.p., è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi criminosi prefigurati dalle due fattispecie di reato, con un atteggiamento della volontà intenzionalmente diretto alla loro produzione[31].
Più precisamente, queste fattispecie di reato si caratterizzano per un doppio finalismo soggettivo, atteso che l’azione criminosa deve essere ispirata dal fine di eversione dell’ordine democratico o dalla finalità di terrorismo; al contempo, il soggetto attivo del reato deve mirare a provocare l’evento della morte o delle lesioni in danno di una o più persone, quali avvenimenti strumentali allo scopo eversivo perseguito dall’agente.
Ne discende che la morte e le lesioni delle vittime degli attentati eversivi in questione sono gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica prefigurata dagli artt. 280 e 280-bis c.p., rispetto ai quali deve essere misurata l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti dal soggetto attivo del reato e verso cui deve dirigersi la sua volontà[32].
Occorre, allora, accertare quali sono gli obiettivi perseguiti dalle associazioni terroristiche di matrice ambientalista, dovendosi evidenziare che «la pressione illegalmente attuata sull’autorità pubblica deve presentare, in quanto tale, un connotato di idoneità alla produzione dell’evento “costrizione”, e non semplicemente un finalismo soggettivamente orientato in tal senso […]»[33].
Tuttavia, nel contesto ritenuto indispensabile per la configurazione dei fatti delittuosi eversivi che si stanno considerando, non può essere compresa la pressione legittimamente esercitata da movimenti politici e da gruppi di cittadini, atteso che la costrizione deve essere indebita e connessa alla natura terroristica dell’attentato, di volta in volta, considerato.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la previsione dell’art. 49 Cost. – che costituisce la norma di riferimento costituzionale per la disciplina dei diritti associativi, che rappresentano il limite esterno alla configurazione dei delitti contro la personalità dello Stato, cui ci si sta riferendo – prevede che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Nella stessa direzione, con specifico riferimento alla matrice ideologica delle organizzazioni terroristiche che si ispirano ai valori ambientalisti e ai limiti costituzionali alla rilevanza penale delle condotte consortili che si stanno considerando, occorre richiamare l’art. 18, comma primo, Cost., secondo cui tutti «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale»
Questione ermeneutica ulteriore e differente, invece, è quella dell’individuazione delle modalità con cui vengono diffuse, telematicamente ovvero attraverso la stampa clandestina, le ideologie terroristiche di matrice ambientalista, per le quali è possibile la concretizzazione di condotte illecite di natura apologetica, rilevanti ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p., in termini analoghi a quanto si è affermato a proposito delle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista[34].
D’altra parte, una dilatazione eccessiva della nozione di terrorismo, inevitabilmente, rischia di condizionare meccanismi di pressione politica o di protesta pienamente legittimi, sul piano costituzionale, finalizzati a orientare le scelte politiche delle istituzioni governative. Non assumono, pertanto, un rilievo decisivo formule generiche, come i riferimenti ai possibili danni per il Paese; ai ritardi nella realizzazione dell’opera pubblica controversa; alle spese sostenute per il controllo dell’ordine pubblico, necessitate dalle proteste ambientaliste.
Si impone, al contempo, la contestualizzazione, territoriale e ideologica, dell’azione illecita, essendo necessario che «l’idoneità sia misurata con riferimento al tempo in cui il fatto viene commesso, e con riguardo ad attività conosciute dall’agente, che può quindi rappresentarsele come fattori causali concorrenti nella produzione del rischio tipico»[35].
4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite
Dalle considerazioni espresse nel paragrafo precedente discende che la contestualizzazione, territoriale e ideologica, delle azioni terroristiche delle organizzazioni ambientaliste deve essere effettuata tenendo conto degli obiettivi eversivi perseguiti con le condotte illecite rilevanti ex artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere valutati dal giudice di merito caso per caso.
La matrice terroristica di un attentato di ispirazione ambientalista, pertanto, comporta l’esistenza di una correlazione tra i danni materiali provocati dall’azione criminosa e l’evento eversivo, al quale sono collegate le fattispecie previste dagli artt. 280 e 280-bis c.p., su cui deve essere effettuata una verifica giurisdizionale rigorosa.
Non si può, infatti, mai prescindere dalle esigenze di offensività e di tassatività delle condotte illecite di cui agli artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere garantite sul piano dell’accertamento giurisdizionale, mediante una verifica stringente delle potenzialità lesive dei comportamenti sovversivi, che deve essere valutata in termini obiettivi, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzano gli attentati, di volta in volta, considerati.
Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in tema di configurazione della fattispecie prevista dall’art. 280 c.p., secondo cui: «Per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione, ex art. 280 c.p., è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270-sexies c.p., possa, per natura o contesto, arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica»[36].
Occorre, allora, verificare, caso per caso, se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto di reato contestato, come tali rappresentati e voluti dagli autori nel contesto consortile ambientalista in cui si concretizza la loro azione, si è creata un’apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell’opera pubblica, dalla quale è derivato un danno grave e di consistenti proporzioni, che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all’azione terroristica indirizzata al perseguimento di quell’obiettivo.
La contestualizzazione dell’azione terroristica di matrice ambientalista, del resto, risponde alla stessa formulazione dell’art. 280 c.p., che non ritiene sufficiente il generico perseguimento di finalità eversive, atteso che, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, per integrare «il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 c.p., non è sufficiente la sola rappresentazione ed accettazione del rischio dell’evento lesivo, ma è necessario che la condotta dell’agente sia intenzionalmente diretta a ledere la vita o l’incolumità di una persona, quali beni protetti dalla norma»[37].
[1] Questo intervento, dedicato alla memoria di Guido Galli, costituisce la mia relazione di presentazione al gruppo di lavoro denominato “La partecipazione all’associazione terroristica e le fattispecie monosoggettive”, che ho coordinato, svoltosi l’8 luglio 2021, nell’ambito dell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Milano, intitolato “Prevenzione e repressione del terrorismo, tra esigenze di difesa della collettività e rispetto dei principi costituzionali” (Corso intitolato a Guido Galli).
Questo seminario, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, si è svolto presso la sede storica dell’Università Statale di Milano, ubicata a Milano, in Via Festa del Perdono n. 7, dove per diversi anni Guido Galli (Bergamo 28 giugno 1932 - Milano 19 marzo 1980) insegnò criminologia e dove fu barbaramente ucciso il 19 marzo 1980, da un nucleo armato di Prima Linea, appartenente alla galassia brigatista.
[2] Ritengo opportuno segnalare che ho seguito questo metodo espositivo in alcuni precedenti interventi formativi, i cui esiti sono sintetizzati in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, in Dir. viv., 2019, 3, pp. 16 ss.
Per uno sguardo d’insieme sulle tematiche affrontate in questa sessione si ritiene utile richiamare anche gli interventi di A. Cavaliere, Considerazioni critiche intorno al D.L. antiterrorismo, n. 7 del 18 febbraio 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 31 marzo 2015, pp. 1 ss.; M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 2, pp. 753 ss.; F. Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 2015, 8, pp. 926 ss.; F. Resta, Ancora su terrorismo e stato di crisi, in Ind. pen., 2011, 505 ss.; A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (Prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front), in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 21 febbraio 2013, pp. 1 ss.; F. Viganò, Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 2, pp. 655 ss.
[3] Mi sono, in particolare, occupato del “terrorismo secessionista”, nel più ampio contesto del “terrorismo separatista” attivo in alcuni Paesi europei, in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, cit., pp. 29-32.
[4] Sulle connotazioni apologetiche delle comunicazioni e delle pubblicazioni di ispirazione terroristica, in termini generali, si rinvia a Cass. pen., Sez. V, n. 1970 del 26 settembre 2018, El Mahdi, in C.E.D. Cass., n. 276453-01; Cass. pen., Sez. I, n. 24103 del 4 aprile 2017, Dibrani, in C.E.D. Cass., n. 270604-01; Cass. pen., Sez. I, n. 47489 del 6 ottobre 2015, Halili, in C.E.D. Cass., n. 265265-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10641 del 3 novembre 1997, Galeotto, in C.E.D. Cass., n. 209166-01.
Queste pronunzie di legittimità, a loro volta, traggono origine dall’arresto giurisprudenziale risalente, espresso dalla sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 3422 del 27 settembre 1991, Mazzucchelli, in C.E.D. Cass., n. 188454-01, nella quale veniva affermato il seguente principio di diritto: «È configurabile l’apologia di reato sotto forma di istigazione a delinquere nel fatto di erigere un monumento a perenne memoria – additandola ad esempio – a persona nota per avere spento la vita di un capo di Stato, qualora si accerti che, nonostante la lontananza storica dell'assassinio, sussiste attualmente e concretamente la possibilità che l’erezione del monumento eserciti una forza di suggestione e di persuasione tale da poter stimolare la commissione di altri fatti criminosi, corrispondenti o similari a quello esaltato».
[5] Si tratta, com’è noto, di una strategia eversiva affermatasi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, in conseguenza della quale vennero assassinati numerosi esponenti delle istituzioni nostrane, tra cui diversi magistrati, come Guido Galli, alla memoria del quale l’incontro di studi nel quale è stato presentato questo intervento è dedicato.
Su queste tematiche, da un punto di vista storico-giornalistico, senza alcuna pretesa di esaustività, si rinvia agli studi di P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, il Mulino, Bologna, 2006; M. Calvi - A. Ceci - A. Sessa - G. Vasaturo, Le date del terrore. La genesi del terrorismo italiano e il microclima dell'eversione dal 1945 al 2003, Sossella, Roma, 2003; L. Scialò, Le stragi dimenticate. La strategia della tensione secondo la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, Boopen. Napoli, 2008; B. Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi, Torino, 2019.
[6] Sul problema della punibilità degli atti pretipici, con particolare riferimento, alle attività propedeutiche all’esecuzione di un omicidio, si rinvia a Cass. pen., Sez. II, n. 36311 del 12 luglio 2019, Raicevic, in C.E.D. Cass., n. 277032-01; Cass. pen., Sez. I, n. 27918 del 4 marzo 2010, Resa, in C.E.D. Cass., n. 248305-01; Cass. pen., Sez. I, n. 43406 del 12 ottobre 2001, Mereu, in C.E.D. Cass., n. 220145-01; Cass. pen., Sez. I, n. 1365 del 2 ottobre 1997, Tundo, in C.E.D. Cass., n. 209688-01; più in generale, sull’importanza dei canoni della proporzionalità e dell’offensività, rilevanti ex art. 3 Cost., rispetto alla legittimazione di scelte di anticipazione della tutela penale, si ritiene opportuno rinviare agli studi di A. Cadoppi, «Non evento» e beni giuridici «relativi»: spunti per un reinterpretazione dei reati omissivi propri in chiave di offensività, in Ind. pen., 1990, pp. 373 ss.; C. Fiore, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, pp. 275 ss.; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Giappichelli, Torino, Milano, 2005, pp. 279 ss.
[7] La Convenzione per la repressione del finanziamento al terrorismo è stata adottata a New York il 9 dicembre 1999 e aperta alla firma il 10 gennaio 2000, anche se fino all’11 settembre 2001 solo quattro Stati avevano provveduto a ratificare l’accordo convenzionale; tuttavia, gli efferati attentati statunitensi e la consapevolezza del rilievo determinante delle disponibilità finanziarie di cui i terroristi beneficiavano davano uno straordinario all’accordo, tanto è che vero che oggi la Convenzione conta 169 Stati parte e 132 Stati firmatari.
[8] Nella direzione ermeneutica richiamata nel testo, si ritiene esemplare la sentenza Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, in C.E.D. Cass., n. 251920-01, che riguarda l’operatività e i reati-fine commessi nell’interesse dell’organizzazione terroristica denominata “Partito Comunista Politico Militare” (PCPM); si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. I, n. 3486 dell’11 maggio 2000, Paiano, in C.E.D. Cass., n. 216253-01; Cass. pen., Sez. I, n. 6952 del 4 novembre 1987, Adinolfi, in C.E.D. Cass., n. 178586; Cass. pen., Sez. I, n. 8952 del 7 aprile 1987, Angelini, in C.E.D. Cass., n. 176516-01.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit. ; su questi temi, si rinvia anche all’intervento di A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p., cit., pp. 1 ss.
[10] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[11] Si vedano Cass. pen., Sez. II, n. 14704 del 22 aprile 2020, Bekaj, in C.E.D. Cass., n. 279408-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 13421 del 5 marzo 2019, Shalabi, in C.E.D. Cass., n. 275983; Cass. pen., Sez. II, n. 24994 del 25 giugno 2006, Bouhrama, in C.E.D. Cass., n. 234345-01.
[12] Si vedano Cass. pen., Sez. V, n. 10380 del 7 febbraio 2019, Koraichi, in C.E.D. Cass., n. 277239-01; Cass. pen., Sez. I, n. 35427 del 21 giugno 2005, Drissi, in C.E.D. Cass., n. 232280-01.
[13] Ci si riferisce, naturalmente, agli omicidi di Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, citati nel paragrafo 2.
[14] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[15] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01; Cass. pen., Sez. 5, n. 40348 del 17 settembre 2008, Morobianco, in C.E.D. Cass., n. 241859-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 36816 del 27 ottobre 2020, Cropo, in C.E.D. Cass., n. 280761-01.
[17] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 25428 del 13 marzo 2012, Bonetti, in C.E.D. Cass., n. 253305-01.
[18] Vedi supra § 2.1.
[19] Per l’inquadramento della fattispecie di cui all’art. 285 c.p., si rinvia alla storica sentenza Cass. pen., Sez. Un., n. 7 del 26 marzo 1960, Neidermajer, in C.E.D. Cass., n. 098430-01, che precede di oltre un decennio i processi penali sulla stagione stragista della destra eversiva, nel quale si affermava il seguente principio di diritto: «La distinzione tra i delitti di furto e di saccheggio, dal punto di vista materiale ed a parte le differenze qualitative, si fonda precipuamente su due elementi (pluralità degli agenti e molteplicità indiscriminata degli impossessamenti), che, necessari solo nel secondo delitto, lo rendono assai più pericoloso del primo dal punto di vista dell'ordine giuridico: tale maggiore pericolosità, dovuta alla costante presenza dei due elementi suddetti, si riflette nella diversa obiettività giuridica, che, nei reati di saccheggio, non si esaurisce nella protezione del patrimonio ma si dirige a quella assorbente dell’ordine pubblico (art. 419 cod. pen.) o, addirittura, della stessa personalità dello stato (art. 285 C.P.), quando in questa ultima ipotesi, ricorra il relativo dolo specifico (scopo di attenuare alla sicurezza dello stato».
[20] Questi dati ci provengono dall’attività svolta dalle commissioni di inchiesta sul fenomeno terroristico istituite nel nostro Paese nell’ultimo quarantennio, che si sono avvalse degli esiti dei diversi procedimenti penali celebrati sugli episodi stragisti verificatisi a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Tali conclusioni, sul piano giurisdizionale, hanno ricevuto una conferma definitiva negli esiti del processo sulla “Strage di Piazza della Loggia”, per il quale si rinvia alle successive note 19, 20 e 21.
[21] Su questi temi, si ritiene opportuno segnalare la sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, in C.E.D. Cass., n. 271252-01, con cui, all’esito di un procedimento svoltosi lungo sette gradi di giudizio, si concludeva il processo penale sulla “Strage di Piazza della Loggia”; la prima sentenza sulla strage bresciana veniva emessa dalla Corte di assise di Brescia il 2 luglio 1979 e, con tale pronuncia, veniva condannato uno degli autori materiali dell’attentato, ucciso prima della decisione di appello, pronunciata dalla Corte di assise di appello di Brescia il 2 marzo 1982, con cui veniva assolto l’altro imputato.
All’esito di tale complesso percorso processuale venivano condannati due degli autori dell’attentato in questione, commesso il 25 maggio 1974, a Brescia, in Piazza della Loggia, nel corso di una manifestazione indetta dal Comitato Permanente Antifascista e dalle Segreterie Provinciali della C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L., mediante la collocazione di un ordigno in un cestino metallico per i rifiuti, posto in aderenza a una colonna dei portici delimitanti la piazza e provocandone l’esplosione.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[23] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[24] Vedi supra § 3, note 19-21.
[25] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 44324 del 18 aprile 2013, Stasi, in C.E.D. Cass., n. 258321-01; Cass. pen., Sez. I, n. 26455 del 26 marzo 2013, Knox, in C.E.D. Cass., n. 255677-01; Cass. pen., Sez. I, n. 13671 del 26 novembre 1998, Buiono, in C.E.D. Cass., n. 212026-01.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[27] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 1790 del 30 novembre 2017, Mangafic, in C.E.D. Cass., n. 272056-01; Cass. pen., Sez. I, n. 20461 del 12 aprile 2016, Graziadei, in C.E.D. Cass., n. 266941-01; Cass. pen., Sez. II, n. 42482 del 19 settembre 2013, Kuzmanovic, in C.E.D. Cass., n. 256967-01.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[29] Si veda Cass. pen., Sez. Un., n. 27620 del 28 aprile 2016, Dasgupta, in C.E.D. Cass., n. 267491-01; nella stessa direzione ermeneutica, si veda la successiva pronuncia Cass. pen., Sez. Un., n. 18620 del 19 gennaio 2017, Patalano, in C.E.D. Cass., n. 269786-01; Cass. pen., Sez. Un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, in Cass. C.E.D., n. 275112-01.
Su queste fondamentali pronunzie delle Sezioni Unite si vedano i commenti dottrinari di R. Aprati, “Overturning” sfavorevole in appello e mancanza del riesame, in Cass. pen., 2017, 7-8, pp. 2672 ss.; V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, in Cass. pen., 2016, 9, pp. 1125 ss.; S. Recchione, Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in www.sistemapenale, 23 giugno 2020.
[30] Mi sembra opportuno sottolineare che i fenomeni terroristici di matrice ambientalista rappresentano un ambito criminale in crescente espansione, che investe vari settori operativi, che riguardano, oltre alla protezione ambientale stricto sensu intesa, anche le istanze di tutela animalista, delle quali, per ragioni di sintesi espositiva, non ci si occupa, ma il cui richiamo è utile per inquadrare, in termini generali, le questioni affrontate nella parte conclusiva di questa introduzione.
[31] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, in C.E.D. Cass., n. 264417-01; Cass. pen., Sez. I, n. 11344 del 10 maggio 1993, Algranati, in C.E.D. Cass., n. 195771-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10233 del 18 dicembre 1987, Berardi, in C.E.D. Cass., n. 179470-01.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, in C.E.D. Cass., n. 260078-01; questa pronuncia appare meritevole di essere segnalata, oltre che per la completezza degli argomenti esposti, perché riguarda un caso emblematico delle tematiche ambientaliste che si stanno considerando, quale l’attentato di Chiomonte verificatosi il 14 maggio 2013, a margine della realizzazione delle opere infrastrutturali di collegamento tra l’Italia e la Francia nella Val di Susa.
[33] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[34] Vedi supra § 2.
[35] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[36] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, cit.; su questa importante pronunzia di legittimità si veda anche il commento dottrinario di A. Siberti, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 280 c.p., in Cass. pen., 2016, 4, pp. 1537 ss.
[37] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 47479 del 16 luglio 2015, Alberti, in C.E.D. Cass., n. 265404-01.
Riconoscere pari dignità promuovendo coesione: per una difesa del d.d.l. Zan*
di Angelo Schillaci
Sommario: 1. Premessa - 2. L’andamento dei lavori parlamentari - 3. Caratteri e necessità dell’intervento penale - 4. Definizioni e identità: la questione dell’identità di genere - 5. Il problema della tenuta della libertà di manifestazione del pensiero - 6. La seconda parte e la questione educativa - 7. Conclusioni: alla ricerca di un equilibrio.
1. Premessa
Il disegno di legge Zan, in questi giorni, è al centro del dibattito politico. Il 13 luglio è previsto l’inizio della discussione generale nell’Aula del Senato, dopo un passaggio parlamentare non semplice che, per molti aspetti, ricorda quello che – sempre in Senato – condusse nel 2016 alla sofferta approvazione della legge n. 76/2016 (cd. legge Cirinnà, sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso). L’inasprirsi del conflitto politico – per motivi talora nemmeno legati al merito della proposta di legge in discussione – e l’emersione di posizionamenti che rispondono, in molti casi, piuttosto ad esigenze tattiche non deve far perdere di vista la reale portata della posta in gioco, l’importanza della proposta di legge e, soprattutto, il suo legame con il più ampio contesto della controversia che sta investendo nuovamente, in tutta Europa, le questioni legate al riconoscimento di identità che, in qualche misura, non rispecchiano modelli ritenuti dominanti o preferibili.
Attorno alla proposta Zan si agitano infatti conflitti profondi, riconducibili all’alternativa tra riconoscimento e protezione delle diverse soggettività che popolano lo spazio pubblico e convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita che, non di rado, quelle identità tendono a misconoscere e contrastare. Conflitti, peraltro, che non riguardano solo l’Italia ma che investono vasti settori delle società europee, con esiti preoccupanti. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, alla situazione ungherese e a quella polacca (ma anche, fuori dall’Unione europea, alla situazione turca): paesi nei quali donne e persone LGBT+ sono oggetto comune di uno stesso attacco, ispirato alla conservazione (o, per meglio dire, al ripristino violento) di un modello di società saldamente ancorato a canoni patriarcali e tradizionalisti. I quali, peraltro, sono incompatibili con i principi e i valori fondativi dell’Unione europea, consacrati nei Trattati e recentemente ribaditi dal Parlamento europeo, intervenuto in materia con l’approvazione, l’11 marzo 2021, di una risoluzione che dichiara l’Europa “Zona libera per le persone LGBTIQ”, in risposta all’istituzione, in Polonia, di più di 100 zone libere “da” persone LGBT+. Ancora, e più di recente, si pensi all’approvazione, in Ungheria, di una legge contro la “propaganda” LGBT+ che, nella sostanza, impedisce di esporre a minori di età qualsivoglia contenuto relativo all’orientamento sessuale e all’identità di genere: una legge che ha suscitato forti reazioni di sdegno da parte delle istituzioni dell’UE e di numerosi Stati membri e che ha condotto, da ultimo, all’approvazione di una risoluzione molto dura da parte del Parlamento europeo[1].
Al fondo di tali conflitti vi sono alcune domande molto semplici, alle quali anche il legislatore italiano è chiamato a dare risposta: in una società democratica e pluralista, le differenze – in questo caso, radicate nei corpi e nell’autodeterminazione personale, affettiva, sociale – devono essere valorizzate quale fattore di coesione sociale o devono piuttosto essere temute quali fattori di destabilizzazione? E ancora, il riconoscimento di dimensioni della dignità personale deve restare ancorato a modelli o precomprensioni di carattere dogmatico o piuttosto – specie nel quadro di un intervento normativo volto a contrastare discriminazione e violenza – deve restare quanto più possibile aperto alle diverse declinazioni della dignità che, in senso soggettivo, vengono alimentate da scelte ed esperienze molteplici e diverse?[2]
La risposta, a ben vedere, è guidata dalla lettera degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che legano in equilibrio saldo libertà ed eguaglianza, diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà, libero svolgimento della personalità e relazioni sociali, riconoscimento delle identità e pari dignità delle differenze.
2. L’andamento dei lavori parlamentari
Di tali tensioni, come accennato, è traccia anche nei lavori parlamentari sul ddl Zan. Calendarizzata in Commissione Giustizia alla Camera a partire dal mese di ottobre del 2019, la proposta di legge è il frutto di un lavoro parlamentare lungo e complesso. Dapprima, si è infatti proceduto – a seguito di un ciclo di audizioni[3] – alla redazione in testo unificato delle proposte di legge C. 107 (Boldrini e altri), C. 569 (Zan e altri), C. 868 (Scalfarotto e altri), C. 2171 (Perantoni e altri) e C. 2255 (Bartolozzi). Il testo unificato è stato presentato il 30 giugno e adottato come testo base nella seduta del 14 luglio 2020: si noti che, già in questa sede, le tutele – originariamente previste solo rispetto a condotte fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere – vennero estese anche alle condotte motivate dal sesso e dal genere così integrando, in accoglimento delle sollecitazioni emerse nel corso delle audizioni, anche il contrasto ai discorsi e ai crimini d’odio di matrice misogina, previsto peraltro in alcuni dei testi abbinati (in particolare, il C. 107, Boldrini e il C. 2255 Bartolozzi).
Successivamente, sempre in Commissione, il testo è stato emendato, anche sulla base di mediazioni con forze politiche non appartenenti al perimetro della (allora) maggioranza di governo: tra gli emendamenti approvati, si segnala la prima versione dell’attuale articolo 4 della proposta di legge, relativo al bilanciamento tra repressione dei discorsi d’odio e salvaguardia della libertà di manifestazione del pensiero (risultante da una proposta del deputato Costa, allora in Forza Italia), mentre una ulteriore significativa modifica riguardò già allora – su iniziativa di due deputati di Italia Viva (Vitiello e Toccafondi) – la formulazione del riferimento alle scuole nell’attuale articolo 7 (relativo all’istituzione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia), in particolare con la sostituzione dell’espressione “nelle scuole di ogni ordine e grado” con la più generica “nelle scuole”). Il testo venne infine approvato nella seduta del 30 luglio 2020 e trasmesso all’Aula che ne avviò l’esame nella seduta del 3 agosto 2020 con la discussione generale che proseguì nella seduta del 4 agosto.
L’esame rimase poi sospeso fino alla seduta del 27 ottobre 2020, nella quale ebbe luogo la discussione sulle questioni pregiudiziali, respinte dall’Aula, e venne avviato l’esame degli articoli, che sarebbe proseguito fino all’approvazione finale del testo nella seduta del 4 novembre 2020.
Anche nel corso dell’esame in Aula il testo venne modificato, con l’approvazione di emendamenti che rispecchiano lo stato degli accordi tra PD, M5S, IV, LEU e alcuni settori di Forza Italia e che riguardano, peraltro, proprio le parti del provvedimento attualmente oggetto di rinnovata conflittualità al Senato. Già nella seduta del 27 ottobre venne approvato, infatti, l’emendamento premissivo n. 01.0401, a prima firma Annibali (IV) recante le definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere rilevanti ai fini dell’applicazione del provvedimento in esame. Analogamente, nella seduta del 28 ottobre 2020 venne approvato l’emendamento 3.450, a prima firma Bazoli (PD) recante la riformulazione dell’attuale articolo 4, con l’accoglimento dell’istanza di miglior precisazione del suo contenuto, formulata dalla Commissione Affari costituzionali nel proprio parere del 29 luglio 2020. Ancora, nella seduta del 4 novembre 2020 – in sede di ripresa dell’esame dell’attuale articolo 7 (in precedenza accantonato) – venne approvato l’emendamento 6.800 (presentato dalla Commissione) che modifica il comma 3 dell’articolo 7, al fine di meglio precisare che le iniziative da svolgersi in occasione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia si collocano nel quadro della piena salvaguardia dell’autonomia scolastica e della corresponsabilità educativa tra scuole e famiglie.
Non sono queste, ovviamente, le uniche modifiche apportate dall’Aula della Camera dei deputati al testo originario: si pensi, in aggiunta, all’importantissima (e unanime) approvazione da parte dell’Aula di una serie di emendamenti a prima firma della deputata Noja (IV) e relativi all’estensione delle tutele di cui agli articoli 604 bis e ter c.p. anche rispetto a condotte motivate dalla disabilità della persona offesa. Pare tuttavia utile richiamare l’attenzione sugli emendamenti menzionati, giacché gli stessi intervengono proprio su quegli articoli 1, 4 e 7 (nella formulazione attuale) che sono attualmente oggetto di ulteriore discussione in Senato.
Come cennato, nella seduta del 4 novembre 2020 la proposta di legge venne approvata e trasmessa al Senato, ove ha assunto la numerazione S. 2005.
La Commissione Giustizia, tuttavia, ne ha iniziato l’esame solo il 27 aprile 2021 e, sin da subito, si sono registrate pesantissime resistenze ostruzionistiche da parte dei gruppi di Lega e Fratelli d’Italia. Nel frattempo, come noto, lo scenario politico è profondamente mutato, con le dimissioni del governo Conte II e la nascita dell’attuale Governo, presieduto da Mario Draghi e sostenuto da un larghissimo arco di forze parlamentari, comprese la Lega e Forza Italia che, nel precedente quadro, si collocavano all’opposizione: proprio da parte di queste due forze politiche, in particolare, la tendenziale contrarietà all’approvazione di un qualunque intervento contro le discriminazioni e la violenza di matrice omolesbobitransfobica è progressivamente sfumato verso la ricerca di spazi di mediazione nel perimetro della nuova maggioranza di governo.
In uno scenario così mosso, come spesso accade, la procedura parlamentare – che delle dinamiche politiche è al tempo stesso strumento di razionalizzazione e, non di rado, “vittima”[4] – è entrata in sofferenza. L’atteggiamento ostruzionistico della Lega, che esprime peraltro il Presidente della Commissione Giustizia del Senato, si è tradotto dunque nel marcato protagonismo di quest’ultimo che, trattenendo la funzione di relatore del provvedimento (nella seduta del 28 aprile 2021), ha avuto modo di condizionare pesantemente l’andamento dei lavori. Così, in un primo momento, il Presidente-Relatore ha ottenuto la congiunzione del ddl S. 2005 con gli altri testi già assegnati alla Commissione su materie analoghe[5], il che ha determinato – peraltro – la necessità di un passaggio presso la Presidenza del Senato per il coordinamento della sede di assegnazione dei provvedimenti in esame: mentre infatti il ddl S. 2005, proveniente dalla Camera dei deputati, era stato assegnato alla (più agile) sede redigente, gli altri ddl abbinati erano assegnati in sede referente. Di conseguenza, anche il ddl S. 2005, all’esito della congiunzione, è stato riassegnato alla Commissione in sede referente. Tuttavia, nella seduta del 6 maggio 2021, su proposta congiunta di PD, M5S e LEU, la Commissione ha approvato a maggioranza – con il consenso delle prime firmatarie dei ddl abbinati – la disgiunzione dei medesimi, concentrando nuovamente l’esame sul solo ddl S. 2005. Ciononostante, il tentativo di Lega e Forza Italia di riportare il dibattito nel perimetro della maggioranza di governo non si è arrestato, ed è anzi proseguito con la presentazione di un autonomo disegno di legge (S. 2205, a prima firma Ronzulli) del quale si è ottenuta la congiunzione – per decisione unilaterale del Presidente-Relatore, che non ha consentito nemmeno il voto immediato sulla disgiunzione, sebbene richiesto[6] – nella seduta del 18 maggio 2021[7]. L’iter è dunque proseguito – sempre in un clima di forte polarizzazione tra PD, M5S e LEU, fautori dell’approvazione senza modifiche del testo proveniente dalla Camera dei Deputati, da una parte, e Lega e FI dall’altra (con IV in posizione mediana) – con la deliberazione di un ciclo di ben 170 audizioni.
Di fronte al conseguente stallo dei lavori, la Conferenza dei Capigruppo del Senato ha inserito il disegno di legge, a maggioranza, in calendario d’Aula a partire dal 13 luglio 2021: sulla proposta di calendario il Senato si è pronunciato nella seduta del 6 luglio 2021, rigettando ogni contraria proposta e dunque implicitamente approvando quella formulata dalla Conferenza dei Capigruppo.
L’accelerazione impressa alla discussione ha inasprito ulteriormente il conflitto: in particolare, il Presidente-Relatore ha ritenuto di convocare, in attesa dei passaggi d’Aula, un tavolo politico formato dai capigruppo delle forze di maggioranza con l’obiettivo di tentare una estrema mediazione. In tal sede, anche Italia Viva – fin qui sempre favorevole all’attuale formulazione del testo Zan – ha ritenuto di formulare proposte di modifica, peraltro incidenti sugli stessi articoli sui quali assai rilevante era stato il proprio contributo durante i lavori alla Camera dei Deputati. Si tratta, anzitutto, di modifiche all’articolo 7, volte a precisare ulteriormente il rispetto dell’autonomia scolastica (come si vedrà già ampiamente garantita dal testo); di una proposta di soppressione dell’articolo 4; e, soprattutto, della proposta di eliminare ogni riferimento al contrasto della misoginia, sostituendo al contempo le espressioni “orientamento sessuale e identità di genere” con le espressioni “omofobia e transfobia” in sede di definizione del movente d’odio (con conseguente soppressione dell’articolo 1 in materia di definizioni). Una proposta, quest’ultima, non esente da gravi criticità sul piano della determinatezza della fattispecie penale; dell’idoneità della formula “omofobia e transfobia” a coprire tutta l’area delle discriminazioni e delle violenze per orientamento sessuale (non necessariamente o non solo omosessuale) e per identità di genere (che, secondo quanto si dirà, non riduce all’esperienza della “transizione” di genere); e che, infine, desta perplessità sul piano dello spostamento del fuoco dell’attenzione del legislatore penale dalla promozione della dignità della persona offesa alla repressione delle intenzioni dell’aggressore.
3. Caratteri e necessità dell’intervento penale
Così inquadrato l’intervento normativo, e riassunti i principali passaggi parlamentari, è ora possibile soffermarsi nel dettaglio sui contenuti del ddl Zan[8].
Preliminarmente, deve essere osservato che – a differenza delle proposte di legge discusse in materia nelle precedenti legislature – il ddl Zan persegue l’obiettivo di prevenire e contrastare discriminazioni e violenze secondo una prospettiva integrata, che unisce alla repressione penale di discorsi e crimini d’odio l’articolazione di specifiche misure di prevenzione, operanti sul piano sociale e culturale. Con ciò, il testo sembra collocarsi nel cono d’ombra – o, meglio, nel getto di luce – dei due commi dell’articolo 3 della Costituzione: l’intervento penale, infatti, dà attuazione alla finalità antidiscriminatoria del comma 1, mentre l’intervento di carattere preventivo presenta una finalità trasformativa coerente con il comma 2, e dunque con la rimozione di “ostacoli” che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana”.
Ciononostante, l’intervento di carattere penale – e, dunque, l’estensione delle tutele penali previste dalla legge Mancino – occupa il dibattito in maniera pressoché esclusiva.
Il ddl Zan prevede, come noto, l’estensione degli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale alle condotte motivate da sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere della persona offesa.
L’articolo 604 bis del Codice penale prevede quali reati la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico nonché il compimento di atti discriminatori o violenti per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, assieme all’istigazione a commettere tali atti. Di queste fattispecie di reato, il ddl Zan estende unicamente la seconda e la terza (assieme alla corrispondente fattispecie di associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i medesimi motivi) alle condotte motivate dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere e dalla disabilità della vittima, lasciando intatta la fattispecie di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Accanto a tale intervento, come accennato, viene estesa anche l’aggravante prevista dall’articolo 604 ter: si tratta di una aggravante a effetto speciale che aumenta la pena prevista per altri reati, ove questi vengano commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Anche in questo caso, l’applicazione dell’aggravante viene estesa ai reati fondati su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità della persona offesa.
Bene protetto dalla norma penale è – come rivela la stessa lettera del codice – l’uguaglianza, in una duplice dimensione. Da un lato, l’uguaglianza intesa come pari dignità di ogni persona nell’affermazione della propria insopprimibile e differente identità; dall’altro, l’uguaglianza intesa come principio di struttura della comunità politica, cui orientare – se necessario – la stessa tutela penale rispetto a comportamenti che con tale principio si pongano in aperto contrasto[9].
L’intervento sul codice penale – sebbene fondamentale per fare fronte all’obiettiva situazione emergenziale derivante dall’aumento di episodi di discriminazione e violenza fisica e verbale ai danni delle persone LGBT+ – rappresenta solo un tassello di una più comprensiva strategia di contrasto alle discriminazioni, così confermando il carattere necessariamente residuale dello strumento penalistico, in armonia con i principi costituzionali che orientano la discrezionalità del legislatore in materia e, in aggiunta, con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha infatti più volte chiarito che – nella materia del contrasto all’hate speech, alla discriminazione e alla violenza verso soggetti vulnerabili – per un verso la sanzione penale rappresenta una ultima ratio ma che, per altro verso, quanto i comportamenti violenti sono diretti verso l’integrità fisica o psicologica della persona “only efficient criminal-law mechanisms can ensure adequate protection and serve as a deterrent factor” e che, soprattutto, l’intervento penale è necessario quando si tratta di fare fronte a “direct verbal assaults and physical threats motivated by discriminatory attitudes”[10].
In questa prospettiva devono essere allora affrontate, anzitutto, le critiche che investono la stessa necessità dell’intervento normativo. Si afferma, infatti, che non sarebbe necessario introdurre nuovi reati per tutelare le persone che subiscono violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica o abilista, in quanto sarebbero a tal fine sufficienti le norme già esistenti. Perché, in altri termini, punire in modo diverso le condotte che colpiscono donne, persone LGBT+ o persone con disabilità? Sono forse persone “più uguali” delle altre?
La risposta è semplice, e già implicita nell’originaria finalità della cd. legge Mancino. Ovvio, infatti, che già esistano nel nostro ordinamento norme che tutelano ogni persona da atti di aggressione fisica o verbale. Quel che manca è il riconoscimento della particolare gravità di condotte che colpiscano – con atti o parole – una persona esclusivamente sulla base di una condizione personale che è espressione della sua (pari) dignità. Quando ciò accade, ad essere colpita è anzitutto quella persona: allo stesso tempo, però, il messaggio di violenza raggiunge tutte e tutti coloro che condividono quella condizione personale e, a ben vedere, l’intera comunità politica. Su questo sfondo si colloca l’obiettivo del ddl Zan, che non è certo introdurre una sorta di “inviolabilità” o tutela rafforzata per alcune categorie di persone; molto più semplicemente, si tratta di riconoscere che sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità sono aspetti della personalità ricchi di valore per l’individuo e per la comunità e che, come tali, meritano di essere protetti da crimini motivati esclusivamente dall’odio verso di essi. Ecco perché non è sufficiente invocare le tutele già esistenti, ad esempio richiamando l’aggravante comune legata ai motivi futili o abietti: ad essere in gioco, in questo caso, è qualcosa di più specifico, cioè la pari dignità sociale – l’eguaglianza – di condizioni personali cui deve essere riconosciuta la possibilità di esprimersi in libertà e sicurezza, al riparo dall’odio. Odio che peraltro, in questa prospettiva, non è considerato in quanto “sentimento”, bensì come punto terminale di una dinamica strutturale di umiliazione e subordinazione di alcune soggettività nello spazio pubblico.
D’altra parte, i cd. reati d’odio hanno una ben precisa specificità sul piano criminologico in quanto mettono a rischio – assieme alla dignità delle persone – gli stessi equilibri della convivenza in una società pluralista e aperta al valore delle differenze e, in questo senso, svolgono una importante funzione – sebbene, per quel che si è detto, residuale – in termini di garanzia della coesione sociale e della tenuta del quadro pluralistico.
4. Definizioni e identità: la questione dell’identità di genere
La questione di fondo riguarda dunque la dignità delle persone (e non già di gruppi o “minoranze”); e cioè il riconoscimento che, accanto al sesso, esistono caratteristiche personali ricche di valore per l’individuo e che, come tali, meritano protezione di fronte all’odio. Ciò vale anche per l’orientamento sessuale e l’identità di genere, fattori essenziali nella costruzione della soggettività. Su questo sarebbe bene confrontarsi apertamente: stiamo parlando di meri accidenti della vita, o di dimensioni della dignità che meritano di essere riconosciute, nominate e protette?
La risposta a questo interrogativo è centrale per comprendere il complesso intreccio tra riconoscimento di dimensioni della dignità personale e promozione dell’eguaglianza – formale e sostanziale nel prisma del rapporto tra articolo 2 e articolo 3 della Costituzione; ma anche, più in generale, per inquadrare l’intervento normativo in esame nella cornice di quella ricerca di equilibrio tra riconoscimento delle identità, cittadinanza e (costruzione di) coesione sociale che attraversa come una costante l’esperienza storica e giuridica delle società pluralistiche[11].
4.1. Gli approdi della giurisprudenza europea
Secondo una ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU, d’altra parte, orientamento sessuale e identità di genere costituiscono aspetti della personalità che rientrano nella sfera di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione (relativo alla tutela della vita privata e familiare). Trattandosi di aspetti particolarmente intimi e sensibili, peraltro il margine di apprezzamento riservato agli stati membri è molto ristretto; e ancora, per le stesse ragioni, in caso di doglianza riguardante una discriminazione, lo stato membro deve fornire “very weighty reasons” per giustificare il trattamento differenziato[12]. Con specifico riferimento all’identità di genere, inoltre, la Corte ha sostenuto non solo che essa rientra nella sfera privata protetta ai sensi dell’articolo 8 ma anche che il legame tra questa declinazione del diritto alla tutela della vita privata e l’autonomia personale implica, in questo caso, che la libertà di definire la propria identità sessuale rappresenta un basic essential del diritto all’autodeterminazione[13].
Analogamente a quanto avvenuto in numerosi ordinamenti nazionali (anche extraeuropei, si pensi agli Stati Uniti[14]), la giurisprudenza della Corte EDU non si limita peraltro a riconoscere nell’orientamento sessuale una sfera di libertà negativa – vale a dire un aspetto intimo della vita privata che deve essere lasciato libero da interferenze da parte dell’autorità[15] – ma ha progressivamente esteso gli orizzonti del riconoscimento.
Così, paradigmaticamente nella sfera dell’identità di genere, si è affermato che il suo riconoscimento non può essere limitato alla libertà di sottoporsi ad un percorso medico di transizione, ma deve estendersi al pieno riconoscimento degli effetti giuridici della transizione stessa[16] così dando piena protezione alla “personal sphere of each individual, including the right to establish details of their identity as individual human beings”[17].
E ancora, per quel che riguarda l’orientamento sessuale, ad una prospettiva esclusivamente incentrata sulla libertà (negativa) si è aggiunto il riconoscimento positivo della proiezione affettiva e sociale dell’orientamento sessuale, sia in ambito familiare (con la progressiva affermazione del diritto alla tutela della vita familiare per le coppie same-sex[18]) sia in relazione alla promozione delle istanze LGBT+ nello spazio pubblico e al contrasto delle discriminazioni e del discorso d’odio[19].
Vale sottolineare che questo processo di sviluppo nell’inquadramento giuridico delle questioni relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere resta tuttavia saldamente ancorato alla premessa della stretta attinenza di esse alla sfera più intima della personalità e dell’identità delle persone, e dunque anche alla loro dignità (la quale viene esplicitamente richiamata, proprio in relazione alla dimensione dell’affermazione di genere, nella citata sentenza Goodwin ma anche nella successiva Van Kück v. Germany[20]).
Al centro rimane dunque la persona, ma di essa vengono progressivamente assunte – in quanto giuridicamente rilevanti – anche la dimensione relazionale, così come la presenza e la partecipazione alle dinamiche dello spazio pubblico: sicché il riconoscimento della dignità si apre, per un verso, alle relazioni e – per altro verso – alla dimensione sociale (e politica), così inverando l’eguaglianza in una prospettiva non dissimile da quella accolta nella nostra Costituzione, che non a caso la definisce, all’articolo 3 comma 1, pari dignità sociale[21].
Allo stesso modo, è interessante notare come tali dinamiche di riconoscimento si estendano progressivamente fino ad includere – da un lato – lo specifico rilievo della dimensione giuridica del riconoscimento[22] e – d’altro canto – la necessità di ostacolare e reprimere ogni episodio di omolesbobitransfobia istituzionale. Così ad esempio, nel richiamato caso Beizaras and Levickas, la Corte EDU ha ravvisato un pregiudizio omofobico nel diniego di giustizia sofferto dai ricorrenti, cui non è stata data protezione – dalle locali autorità – a fronte di gravissime offese e minacce da loro ricevute (anche in rete) in ragione del loro orientamento sessuale[23].
4.2. L’articolo 1 e la definizione di identità di genere
L’inserimento delle definizioni nell’attuale articolo 1 del disegno di legge deriva da specifiche richieste della Commissione Affari costituzionali e del Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati, nell’ottica di garantire il principio di tassatività e determinatezza della norma penale. Nel rispondere a quelle richieste, è stato individuato un punto di equilibrio tra l’aderenza al dato criminologico, il riconoscimento della specifica dignità delle dimensioni della personalità protette dalla norma penale e l’esigenza di non pregiudicare l’effettiva protezione delle vittime di reati d’odio. Un testo giuridico, d’altra parte, non è un trattato di antropologia, sebbene esso non possa e non debba rimanere cieco rispetto all’intreccio tra vita, dignità, libertà e cultura; tuttavia, è necessario considerare la specifica funzione della norma – in questo caso, la sua finalità è esclusivamente quella di fornire al giudice elementi per identificare un movente d’odio – e il modo in cui essa si innesta nel sistema.
Traccia di simili equilibri è ben presente, ad esempio, nella assai dibattuta definizione di identità di genere che, secondo la lettera d) dell’articolo 1, consiste nella “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione”.
Il concetto di identità di genere è già presente nella legislazione italiana, ma anche nel diritto europeo e nella giurisprudenza delle più alte Corti: in Italia, Corte costituzionale e Corte di cassazione e, in Europa, la Corte di Strasburgo, a partire almeno dalla richiamata sentenza Goodwin del 2002[24].
Ad esempio, il principio di non discriminazione delle persone detenute, (anche) sulla base dell’identità di genere, è stato introdotto nella legge sull’ordinamento penitenziario in occasione della riforma del 2018[25]. E l’identità di genere è riconosciuta dall’articolo 8, comma 1, lett. d) del decreto legislativo n. 251/2007 tra le caratteristiche funzionali all’individuazione dell’appartenenza a un gruppo perseguitato, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale. Ancora, e più di recente, è stato modificato in questo senso l’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo n. 286/1998[26], introducendo anche l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra le ragioni di persecuzione che impediscono l’espulsione dello straniero. Nel diritto europeo, accanto alla giurisprudenza della Corte europea, si possono richiamare, tra le altre, la Direttiva UE 2012/29 in materia di protezione delle vittime di reato, che menziona nei considerando – ben quattro volte – l’identità di genere tra i fattori di vulnerabilità che giustificano la particolare protezione della vittima; e anche, nel più vasto ambito del Consiglio d’Europa, la Raccomandazione n. 5/2010 che – già undici anni fa – invitava gli Stati membri ad integrare la disciplina repressiva dei discorsi e dei crimini d’odio con riferimento anche all’identità di genere.
Il ddl Zan, nella scelta terminologica, conferma dunque acquisizioni consolidate nell’esperienza giuridica. Analogo discorso vale per la sua definizione, che è ricalcata sulle sentenze n. 221/2015 e 180/2017 della Corte costituzionale. In tali decisioni, l’identità di genere è riconosciuta quale diritto fondamentale della persona; e il suo contenuto è l’aspirazione alla corrispondenza tra il sesso attribuito alla nascita e quello “soggettivamente percepito e vissuto”[27] (enfasi aggiunta). Una aspirazione che si realizza attraverso il complesso percorso delineato dalla legge n. 164/1982, che peraltro non contempla più – proprio per effetto delle sentenze richiamate – la necessità di un intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari. Nell’affermazione dell’identità di genere il dato volontaristico si affianca alla trasformazione del corpo e al concreto manifestarsi di tutto ciò nella vita sociale: percezione e manifestazione di sé, desiderio e corpi in relazione. In un percorso articolato, appunto, che non segue itinerari prefissati e ha una sua durata variabile a seconda delle singole esperienze.
Di tutto questo il ddl Zan ha dovuto tenere conto, nel definire l’identità di genere. E lo ha fatto non per fissare una volta per tutte la definizione di una condizione personale così complessa; bensì, molto più modestamente, per garantire la migliore applicazione di norme destinate a reprimere reati motivati dall’odio verso di essa e le sue concrete espressioni.
Discriminazione e violenza non dipendono certo da una rettifica anagrafica. L’odio nasce dal rifiuto della non conformità di un corpo e di una esperienza di vita rispetto a un modello. Ecco perché nella definizione, si parla di “identificazione percepita e manifestata di sé” non vincolata alla conclusione di un percorso di transizione. Si realizza così l’equilibrio tra la funzione della definizione – fornire al giudice un criterio tendenziale per l’individuazione del movente d’odio – e l’esigenza di assicurare massima protezione alle persone che subiscono discriminazione e violenza a causa della loro identità di genere.
Scopo della definizione di cui all’articolo 1, lettera d) è in altri termini quella di proteggere le persone trans e non binarie dalla violenza in ogni momento del loro percorso di vita; limitarne la portata solo a chi abbia scelto di affermare la propria identità di genere ricorrendo a un percorso finalizzato alla rettificazione anagrafica, o che abbia addirittura già ottenuto la rettificazione metterebbe a rischio le persone più vulnerabili, oggetto di odio perché percepite “non conformi” al modello binario uomo/donna. E ciò, senza che peraltro venga negata la differenza sessuale, e il potenziale – anche simbolico e critico – della sua affermazione[28]. Si tratta, molto più semplicemente, di riconoscere che i corpi possono essere attraversati dalla libertà. Che esistono esperienze di vita plurali e diverse, le quali devono poter esistere senza correre il rischio di subire discriminazione o violenza.
5. Il problema della tenuta della libertà di manifestazione del pensiero
Un altro rilevante ordine di critiche che viene mosso al disegno di legge Zan è quello attinente al presunto contrasto tra l’estensione di alcune delle condotte previste e punite dall’articolo 604-bis c.p. – in particolare, l’istigazione al compimento di atti discriminatori e violenti – e la tenuta della libertà di manifestazione del pensiero.
Si tratta di preoccupazioni non nuove al dibattito pubblico, che già vennero espresse – ad esempio – in occasione della discussione di un analogo disegno di legge (il cd. ddl Scalfarotto) nella scorsa legislatura. E che, già in tale sede, condussero all’introduzione nel testo di una disposizione aggiuntiva, formulata nei termini di una vera e propria causa di esclusione della punibilità che recava in sé, peraltro, una vera e propria clausola di salvaguardia per alcune tipologie di opinioni, in relazione al contesto in cui fossero espresse[29].
Rispetto a tale esperienza, la scelta della Camera dei Deputati è stata – in questo caso – più equilibrata e, soprattutto, rispettosa degli equilibri già definiti non solo dalla giurisprudenza costituzionale in tema di limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità relativa all’applicazione delle fattispecie di cui alla cd. legge Reale-Mancino. Il testo dell’articolo 4 del ddl S. 2005, introdotto in Commissione e successivamente integrato dall’Aula – anche su sollecitazione della Commissione Affari costituzionali – dispone infatti che “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. In primo luogo, va osservato che la norma non è formulata nei termini di una causa di esclusione della punibilità, bensì più semplicemente nei termini di una norma di principio che potrà orientare il giudice in sede di applicazione della disposizione di cui all’articolo 604-bis c.p., senza escludere a priori la punibilità di alcune condotte e rinviando, piuttosto, a una valutazione in concreto della loro idoneità a determinare il pericolo del compimento degli atti conseguenti (secondo la formula che, come vedremo, risulta da consolidata giurisprudenza). In secondo luogo, appare alquanto significativo che la disposizione si apra con l’espressione “ai fini della presente legge”, quasi a integrare la finalità antidiscriminatoria del ddl nella ratio della disposizione in esame, curvando su di essa l’interpretazione del ridetto principio.
Come accennato, tale punto di equilibrio appare del tutto coerente con gli approdi della giurisprudenza e, soprattutto, con la sistematica dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero e, in particolare, con quei limiti che derivano da specifiche esigenze della convivenza in società pluralistiche[30].
Sul punto, allora, può essere utile svolgere qualche considerazione più distesa.
5.1 Gli approdi della giurisprudenza interna
Alla luce della giurisprudenza costituzionale sui cd. reati di opinione[31] appare necessario indagare, più in particolare, i due profili della concreta offensività della condotta sanzionata e l’individuazione del bene protetto dalla norma, suscettibile di giustificare la repressione di una specifica manifestazione del pensiero o di una opinione capace di istigare alla discriminazione o alla violenza.
Sul primo punto – la concreta offensività – vale rilevare che, come già notato, l’intervento normativo non riguarda la fattispecie di propaganda pure disciplinata dall’articolo 604 bis, la quale resta circoscritta alle idee fondate sulla superiorità etnica o sull’odio razziale. Allo stesso tempo, la formulazione della disposizione penale in relazione alle altre due fattispecie sanzionate – istigazione al compimento e compimento di atti discriminatori e violenti – lega assai strettamente, già a livello testuale, l’istigazione e il compimento vero e proprio, contribuendo a configurare la condotta istigatoria penalmente rilevante – anche solo ad una sommaria lettura della norma – quale condotta idonea a determinare il concreto pericolo che, in conseguenza dell’istigazione, possano essere compiuti atti discriminatori o violenti.
La necessità di individuare una soglia di concreta offensività per i delitti di istigazione a delinquere o apologia di reato, peraltro, è ben presente nella giurisprudenza della Corte costituzionale e nella giurisprudenza ordinaria, che proprio nella concreta offensività della condotta istigatoria ha rinvenuto il discrimine tra limitazioni consentite e non consentite della libertà di manifestazione del pensiero e, di conseguenza, il criterio per valutare la legittimità costituzionale delle relative fattispecie di reato alla luce dell’articolo 21[32]. La soglia dell’offensività, pertanto, non viene attinta da condotte che implicano semplice manifestazione del pensiero, bensì soltanto da condotte idonee a determinare concrete situazioni di pericolo, con la conseguenza che tale idoneità deve risultare anche da un sufficiente tasso di determinatezza della fattispecie penale[33].
Con specifico riguardo alle fattispecie penali introdotte dalla cd. legge Mancino (e oggi confluite negli articoli 604-bis e ter del codice penale), è pacifica nella giurisprudenza – sia con riguardo alla fattispecie autonoma di reato, sia con riguardo alla configurabilità della circostanza aggravante – la necessità che la condotta istigatoria sia idonea a determinare il pericolo concreto del verificarsi di atti discriminatori e violenti. Così ad esempio, con riguardo alla fattispecie autonoma di reato, Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2015, n. 42727 afferma (in massima) che – sebbene si tratti di un reato di pericolo, il quale si perfeziona “indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dai destinatari” – resta tuttavia necessario “valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto”. A proposito della configurabilità della circostanza aggravante, si pensi analogamente, e tra le molte, a Cass. pen., sez. V, 14 febbraio 2018, n. 14200 nella quale si legge (sempre in massima) che “la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente” (enfasi aggiunta).
Il secondo profilo che deve essere indagato attiene, come anticipato, ai limiti che la libertà di manifestazione del pensiero incontra “quando l’espressione del pensiero si attua mediante un’offesa a beni e diritti che meritano tutela”[34]. La configurazione di un simile limite alla libertà di manifestazione del pensiero dimostra – in linea generale e coerentemente con le esigenze del sistema costituzionale di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali – che non è possibile ragionare sull’effettiva portata di una libertà fondamentale se non si ha riguardo al modo in cui questa libertà si atteggia in relazione alle altre o, più in profondità, alla circostanza che i diritti e le libertà fondamentali riconosciute nella prima parte della Costituzione si alimentano dei principi fondamentali di cui agli articoli 2 e 3 – libertà, eguaglianza come pari dignità sociale, solidarietà – e, nelle loro concrete dinamiche applicative, ad essi sempre debbono essere riferiti. In altri termini, individuare in altri “beni e diritti che meritano tutela” nel quadro costituzionale di riferimento uno specifico limite alla libertà di manifestazione del pensiero significa consolidare la consapevolezza che i diritti e le libertà fondamentali non sono prerogativa di individui isolati, ma si esercitano e vengono tutelati avuto riguardo alla fitta rete di relazioni sociali in cui l’individuo è immerso. Così, la libertà di espressione non si esercita soltanto nello spazio intimo della coscienza, ma ben può (e in taluni casi non può non) proiettarsi in uno spazio pubblico ricco di relazioni e pertanto non può ledere, in quello spazio, la (pari) dignità e l’altrui diritto al rispetto, alla reputazione, all’onore.
Esiste, in questa prospettiva, un legame molto stretto tra libertà di espressione, pluralismo e qualità della democrazia, il quale però non può eludere – né escludere dal suo orizzonte – il rilievo specifico della solidarietà e della corresponsabilità che rendono possibile la coesione sociale e, con essa, una buona qualità della vita democratica della comunità politica[35].
Particolare rilievo assume, in questa prospettiva, la tutela della dignità personale e, conseguentemente, l’esigenza di sorvegliare con attenzione il confine tra manifestazione di opinioni assistite dalla garanzia di cui all’articolo 21 della Costituzione e opinioni che, per la loro idoneità a ledere la dignità e l’onore altrui, non possono essere tollerate dall’ordinamento[36].
D’altro canto, già negli anni settanta la Corte aveva ritenuto che il delitto di diffamazione non potesse ritenersi lesivo della libertà di manifestazione del pensiero in quanto, da un lato, essa incontra “limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione” e, dall’altro, “tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione) che trova difesa nelle previsioni degli artt. 594 e 595 del codice penale”[37].
Proprio a tale riguardo, può ricordarsi una recente e importante decisione del Tribunale di Torino[38] – relativa alla condanna per diffamazione di un soggetto che aveva pubblicamente manifestato espressioni gravemente lesive della dignità e dell’onore delle persone LGBT+ – nella quale si legge che, attraverso il delitto di diffamazione “non è […] il pensiero ad essere giudicato, ma la sua offensività al bene giuridico protetto in sede penale”, vale a dire il rispetto della reputazione e dell’onore, quali diritti della personalità di pari rango – per il tramite dell’articolo 2 della Costituzione – rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero e dunque suscettibili di configurare un limite alla medesima[39].
5.2. Segue: gli approdi della giurisprudenza europea e la ratio della repressione del discorso d’odio
Ulteriori significative indicazioni in merito al bilanciamento tra contrasto alle discriminazioni, repressione dei crimini d’odio e libertà di espressione, provengono infine dalla giurisprudenza europea. Quanto alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE si pensi, ad esempio, alla sentenza nel caso “Taormina”[40], nella quale si afferma chiaramente che la libertà di espressione non può vanificare gli obiettivi della direttiva 2000/78/CE in materia di contrasto alle discriminazioni legate a orientamento sessuale e identità di genere sul luogo di lavoro, sicché “l’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e di lavoro” (par. 52).
Nella giurisprudenza della Corte EDU, il riferimento va, anzitutto, alla sentenza Vejdeland c. Svezia[41], relativa al ricorso di un soggetto condannato dalla Suprema Corte svedese per aver diffuso volantini contenenti espressioni violente e discriminatorie nei confronti delle persone omosessuali. La Corte EDU non ha ravvisato la lamentata violazione della libertà di espressione (protetta dall’articolo 10 della Convenzione), ritenendo la condanna giustificata alla luce del fatto che, in una società democratica, il riconoscimento di diritti (quale, appunto, la libertà di espressione) non può andar disgiunto dall’esercizio di doveri, tra cui rientra senza dubbio quello di “avoid statements that are unwarrantably offensive to others, constituting an assault on their rights” (par. 57).
Più recentemente, nella sentenza Bayev v. Russia[42] la Corte EDU ha piuttosto ravvisato una violazione degli articoli 10 (libertà di espressione) e 14 (principio di non discriminazione) della Convenzione nell’adozione, in Russia, di leggi recanti il divieto di esprimere in pubblico e in presenza di minori il proprio orientamento sessuale e di sostenerne la pari dignità. La Corte ha in particolare escluso che un simile divieto potesse essere giustificato dalla protezione della morale maggioritaria[43], né dalla protezione della salute, né dalla protezione dei diritti dei minori i quali, anzi, possono trarre beneficio dall’essere esposti a messaggi di tolleranza e apertura a diversi stili di vita[44].
I principi affermati in Vejdeland, infine, sono stati da ultimo ribaditi – oltre che nella già richiamata sentenza Beizaras e Levickas c. Lituania – nella sentenza Lilliendahl c. Islanda[45]. Con tale decisione la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino islandese – condannato dalle giurisdizioni interne per discorso d’odio fondato sull’orientamento sessuale – che lamentava proprio la violazione della propria libertà di manifestazione del pensiero. In tale decisione la Corte, ribadendo che “discrimination based on sexual orientation is as serious as discrimination based on «race, origin or colour»” (par. 45) ha confermato che – quando ad essere oggetto di condanna penale è l’espressione di un’opinione tesa a umiliare la dignità di una persona o di un gruppo di persone sulla base dell’orientamento sessuale[46] – non può dirsi violata la libertà di espressione garantita dall’articolo 10 della Convenzione. Sebbene le espressioni oggetto di condanna non attingano la gravità prevista dall’articolo 17 della Convenzione in materia di abuso del diritto[47] – il che avrebbe escluso del tutto il rilievo della libertà di espressione – sussistono in pieno le ragioni giustificative di tale libertà previste al secondo comma dell’articolo 10 e, in particolare, la necessità di proteggere diritti altrui (nella specie, il diritto delle persone omosessuali al rispetto della vita privata).
L’analisi, seppur sintetica degli approdi della giurisprudenza interna ed europea dimostra che la preoccupazione per eventuali rischi per la libertà di manifestazione del pensiero – anche con specifico riguardo al ddl Zan – deve essere correttamente collocata con riferimento alla ragione sistematica della repressione dei discorsi e dei crimini d’odio e, in tale quadro, agli scopi che tale legislazione si prefigge con precipuo riguardo all’intreccio tra tutela della pacifica convivenza e protezione della dignità personale. Se è vero che, da un lato, la libertà di manifestazione del pensiero è la pietra angolare di ogni democrazia pluralista, è altrettanto vero – d’altra parte – che le istituzioni della democrazia sono serventi, nello stato costituzionale, rispetto al principio di dignità: la dignità della persona, ha affermato Peter Häberle, è la premessa antropologica dello stato costituzionale e la democrazia ne è la “conseguenza organizzativa”[48]. In questo intreccio tra riconoscimento e protezione della dignità della persona e qualità della vita democratica risiede, in fondo, la giustificazione stessa della repressione dei discorsi d’odio; ed è alla luce di essa che ogni riflessione sul punto andrebbe condotta.
“Punire l’odio”, in altri termini, non significa regolare la circolazione delle idee nello spazio pubblico, né limitare gli spazi del libero confronto democratico in una società pluralista: significa soltanto riconoscere la dignità delle persone, proteggendole da forme d’odio che hanno il solo obiettivo di umiliarle pubblicamente, colpirle, marginalizzarle o addirittura cancellarle.
6. La seconda parte e la questione educativa
Come accennato, la proposta di legge affronta la questione del contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica e abilista rinunciando ad un approccio di tipo soltanto episodico o occasionale – vale a dire, finalizzato a contenere o reprimere episodi di discriminazione e violenza una volta che essi si siano verificati – e scegliendo di intervenire anche sulle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza, con misure di carattere preventivo, oltre che di concreto sostegno alle vittime.
All’intervento penale si aggiungono, pertanto, specifici interventi che mirano a superare le condizioni strutturali e sistemiche della discriminazione e della violenza, con riferimento però alla sola matrice omolesbobitransfobica, per evitare sovrapposizioni con gli strumenti già previsti dall’ordinamento per la prevenzione della discriminazione e della violenza contro donne e persone con disabilità.
Tale tipologia di intervento è racchiusa negli articoli da 7 a 10 della proposta di legge in esame. Anzitutto, l’articolo 7 istituisce anche in Italia – il 17 maggio di ogni anno – la Giornata contro omofobia, lesbofobia, bifobia e transfobia (IDAHOBIT), esistente a livello mondiale dal 2004 e proclamata dal Parlamento europeo con Risoluzione del 26 aprile 2007. In occasione della Giornata – che già oggi viene celebrata con interventi delle più alte cariche istituzionali – è previsto che le amministrazioni pubbliche e le scuole provvedano, senza oneri a carico della finanza pubblica, a organizzare celebrazioni e ogni altra iniziativa utile “al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione” (così il primo comma della disposizione in esame).
Si tratta di una disposizione che presenta non solo un alto contenuto simbolico – elevando gli obiettivi appena richiamati a contenuto di una riflessione collettiva e pubblica, così dando un concreto segnale di inclusione delle istanze LGBT+, in ottica eminentemente integrativa – ma che appare suscettibile di innescare processi culturali virtuosi, così contribuendo alla prevenzione della discriminazione e della violenza omolesbobitransfobica.
Anche su tale previsione si registra un dibattito molto acceso relativo – per un verso – alla censura di un presunto intento “pedagogico” della proposta di legge; e, per l’altro, ai rischi di una eccessiva compressione dell’autonomia scolastica. Si tratta di passaggi molto delicati, che chiamano in causa la funzione stessa di una proposta di legge come questa nello spazio pubblico. Sul profilo della funzione “pedagogica” – che è comunque esclusa dal chiaro ancoraggio costituzionale dell’articolo 7, comma 1 – si tornerà nelle conclusioni. Può essere invece utile svolgere qualche brevissima considerazione sul profilo del rispetto dell’autonomia scolastica, non da ultimo perché lo stesso è oggetto di aspro dibattito anche in Senato in vista dell’arrivo in Aula del disegno di legge.
Basti ricordare, sul punto, che la disposizione in esame – per come modificata in Aula alla Camera dei Deputati – rinvia al comma 3 a due strumenti dell’autonomia scolastica. Anzitutto, il Piano triennale dell’offerta formativa, con specifico riferimento alle finalità di cui al comma 16 dell’articolo 1 della legge n. 107/2015[49]; il PTOF è disciplinato dal comma 14 del medesimo articolo 1 che, a sua volta, modifica l’articolo 3 del D.P.R. n. 275/1999.
Per quel che qui rileva, è interessante notare come: a) la disciplina del piano triennale dell’offerta formativa – definito quale “documento fondamentale costitutivo dell'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche [che] esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia” – appaia saldamente ancorata nella cornice dell’autonomia scolastica, dal momento che la sua elaborazione deve coinvolgere tutte le “componenti” dell’istituzione scolastica (così il comma 1 del citato art. 3). Esso è pertanto elaborato dal collegio dei docenti in collaborazione con le altre componenti e deve essere approvato dal consiglio di istituto; b) il carattere non ideologico – bensì saldamente ancorato in Costituzione – delle finalità di cui al comma 16 venne chiarito, pochi mesi dopo l’approvazione della legge n. 107/2015, dalla Nota del Ministero dell’Istruzione inviata in data 15 settembre 2015 (n. 1972) ai Direttori generali degli Uffici scolastici regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano. In tale nota si specifica in modo esplicito che il comma 16 risponde “all’esigenza di dare puntuale attuazione ai princìpi costituzionali di pari dignità e non discriminazione” desumibili dagli articoli 3, 4, 29, 37, 51 della Costituzione nonché dal diritto europeo e che la sua finalità non è “quella di promuovere pensieri o azioni ispirati ad ideologie di qualsivoglia natura, bensì quella di trasmettere la conoscenza e la consapevolezza riguardo i diritti e i doveri della persona costituzionalmente garantiti”. Si noti, peraltro, che la nota prosegue con espliciti richiami – tra gli altri – alla necessità di contrastare l’emersione di discorsi d’odio mediante la costruzione di un ambiente scolastico inclusivo e rispettoso delle differenze[50].
Il secondo strumento dell’autonomia richiamato dalla disposizione in esame è il patto educativo di corresponsabilità, di cui all’articolo 5 bis del D.P.R. n. 249/1998, come introdotto dall’articolo 3 del D.P.R. n. 235/2007. Il patto è sottoscritto al momento dell’iscrizione ed è “finalizzato a definire in maniera dettagliata e condivisa diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie” (corsivo aggiunto). Il richiamo al patto di corresponsabilità educativa pare assai significativo, specie se si considera che uno degli argomenti che più di frequente viene speso in sede di critica pubblica all’articolo 7 del ddl attiene proprio a una presunta esclusiva competenza delle famiglie in tema di educazione di figlie e figli in questi ambiti. Il richiamo al concetto di corresponsabilità appare invece, in questo quadro, maggiormente coerente con gli assetti e gli equilibri che caratterizzano l’autonomia scolastica e il rapporto tra scuole e famiglie e che sono immediatamente desumibili dallo stesso quadro costituzionale di riferimento[51].
In una società pluralista, infatti, la garanzia della convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita – la costruzione di coesione a partire dalla valorizzazione delle differenze, ma senza irrigidire queste ultime in cerchie isolate e impermeabili le une rispetto alle altre – non dipende più soltanto, come è stato affermato, dall’omogeneità di una comunanza di vita ma può essere garantita solo dalla “corresponsabilità rispetto alla reciproca convivenza di ciascuna componente sociale nei confronti dell’altra”[52]. In questo quadro, il compito educativo della scuola pubblica rinvia soprattutto alla promozione e allo sviluppo, nelle studentesse e negli studenti, di competenze critiche per la lettura della realtà che non possono prescindere dalla conoscenza e dal rispetto delle differenze. Famiglie e istituzioni scolastiche – in tutte le loro componenti, comprese studentesse e studenti – sono così chiamate a creare le condizioni, attraverso l’uso degli strumenti dell’autonomia e l’articolazione di dinamiche discorsive attraverso il libero confronto, per la costruzione di un ambiente scolastico aperto e inclusivo, nel quale ogni persona possa sentirsi accolta e attraverso il quale tutte e tutti possano crescere secondo i canoni di una cittadinanza consapevole e solidamente ancorata nel quadro costituzionale. E l’articolo 7 del ddl Zan si pone esattamente in quest’ottica.
L’articolo 8 del disegno di legge potenzia invece le competenze dell’UNAR, intervenendo sull’articolo 7 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 e introducendo in tale ambito, espressamente, l’elaborazione triennale di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Detta strategia interverrà nei settori dell’educazione e della formazione, del lavoro, della sicurezza e delle carceri nonché della comunicazione e dei media e potrà consistere nel finanziamento di progetti su base competitiva o in altri “specifici interventi” che verranno individuati dall’Ufficio all’esito di consultazione con le amministrazioni locali, con le organizzazioni di categoria e con le associazioni impegnate nel contrasto delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. La copertura legislativa della strategia nazionale LGBT dell’UNAR – attiva dal 2013 in via di prassi – vale a istituzionalizzarla e a renderla stabile e giuridicamente doverosa; più in generale, si tratta di un’importante misura di carattere preventivo, che potrà incidere non soltanto sul consolidamento di processi culturali, ma anche sull’adozione di specifiche azioni positivamente rivolte alla prevenzione di fenomeni di discriminazione.
Egualmente dedicato a politiche “attive” per il contrasto delle discriminazioni e della violenza è l’articolo 9 che, nella formulazione approvata dalla Commissione Giustizia della Camera, prevedeva l’istituzione – con regolamento collegiale adottato su proposta del Ministro per le Pari Opportunità – di un programma per la realizzazione di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, dislocati su tutto il territorio nazionale e destinati ad assicurare “adeguata assistenza legale, sanitaria, psicologica, di mediazione sociale e ove necessario adeguate condizioni di alloggio e di vitto” non solo alle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis commessi per motivi legati a orientamento sessuale e identità di genere (o di reati aggravati per i medesimi motivi ai sensi dell’articolo 604-ter) ma anche a chi si trovi “in condizione di vulnerabilità legata all’orientamento sessuale o all'identità di genere in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento”.
Il contenuto di tale disposizione è da ultimo confluita nell’articolo 38-bis del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, introdotto dalla legge di conversione, che ha modificato l’articolo 105-quater del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34: nel rifinanziare – in modo permanente (in ragione di 4 milioni di euro annui) e per le medesime esigenze di prevenzione e contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere – il Fondo per le esigenze indifferibili (art. 1, comma 200, legge 23 dicembre 2014, n. 190), il legislatore ha integralmente anticipato la disciplina dei centri di cui alla proposta di legge Zan, sostituendo peraltro il riferimento al regolamento collegiale con quello, più snello e di più immediata operatività, a un decreto del Ministro per le Pari Opportunità[53]. Anche in questo caso, come già osservato per l’articolo 8, si riconosce il ruolo delle associazioni operanti nel settore, sia per quel che riguarda l’assunzione in prima persona del compito di strutturare e gestire i centri (assieme, se del caso, agli enti locali) sia per quel che riguarda la loro consultazione da parte del Ministro – prevista dal comma 2-ter – in sede di elaborazione del programma.
Il coinvolgimento di enti locali, organizzazioni di categoria e associazioni rappresenta un profilo assai significativo della disciplina in parola, in quanto presuppone il riconoscimento di processi socio-culturali con i quali l’articolazione delle politiche pubbliche in materia è chiamata a coordinarsi, in una logica – lato sensu – di sussidiarietà orizzontale. Accanto a tale profilo, e con riferimento specifico alla disciplina dei centri, deve essere sottolineato – per un verso – il riferimento esplicito alla loro diffusione “in tutto il territorio nazionale” e, per l’altro, la circostanza che l’accesso agli stessi non è riservato solo alle vittime di delitti ma anche a persone che si trovino comunque in condizione di vulnerabilità in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento: di nuovo, l’obiettivo principale della proposta di legge, che è quello di prevenire prima di dover reprimere, viene declinato con riferimento a dinamiche socio-culturali più ampie e comprensive e con la prefigurazione di uno scenario in cui opereranno veri e propri presidi solidali di prossimità, specie nei territori più periferici. Un tassello fondamentale, a parer nostro, per la trasformazione delle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza.
Infine, l’articolo 10 della proposta di legge prevede che l’Istat svolga con cadenza almeno triennale una rilevazione statistica sull’incidenza di discriminazioni e violenze, sulle opinioni della popolazione al riguardo e sulle caratteristiche delle vittime. Scopo dichiarato della disposizione in esame è quello di agevolare la verifica dello stato di applicazione della legge, la progettazione delle politiche di contrasto e il monitoraggio delle politiche di prevenzione. Si tratta, pertanto, di una norma di chiusura, che si lega alle precedenti (soprattutto agli articoli 8 e 9) e mira a colmare una lacuna assai significativa in relazione al reperimento di dati attendibili sull’entità dei fenomeni di discriminazione e violenza omolesbobitransfobica nel nostro paese[54]: in tal senso, è significativo che – a seguito dell’approvazione di un emendamento in Commissione – si sia previsto che l’Istat proceda di concerto con l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), incardinato presso il Dipartimento Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno.
7. Conclusioni: alla ricerca di un equilibrio
Emerge dunque con sufficiente chiarezza, dalle considerazioni sin qui svolte, che l’intervento normativo in discussione si pone in armonia con i principi costituzionali e con le consolidate acquisizioni della giurisprudenza sovranazionale.
In particolare, il carattere integrato dell’approccio alla prevenzione e al contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice omo-lesbo-bi-transfobica costituisce attuazione del principio di pari dignità sociale nella sua dimensione formale e materiale. Allo stesso tempo, di tale principio viene valorizzato il legame con i diritti fondamentali di cui all’articolo 2 della Costituzione consentendo, in definitiva, di recuperare “il collegamento coi soggetti titolari della situazione giuridica soggettiva (diritto) alla eguaglianza”[55]; contemporaneamente, la tutela della pari dignità non si limita a un intervento di carattere antidiscriminatorio, ma poggia solidamente sulla base rappresentata da concrete politiche di promozione dell’uguaglianza, che hanno l’obiettivo di trasformare le (pre-)condizioni strutturali della discriminazione, e dunque di intervenire sulle ragioni – sociali e culturali – della subordinazione e dell’umiliazione di alcune soggettività nello spazio pubblico.
L’analisi sin qui condotta ha peraltro mostrato – con specifico riferimento all’intervento in materia penale – che è possibile sdrammatizzare il profilo di un eventuale contrasto di esso con la libertà di manifestazione del pensiero. E ciò, tanto per ciò che riguarda la definizione della condotta – e cioè, in particolare, la concreta offensività dell’istigazione – quanto per ciò che riguarda la possibilità di individuare un bene costituzionalmente rilevante e suscettibile di giustificare una limitazione della libertà di espressione: in altri termini, non ogni opinione è oggetto della norma penale, ma solo l’opinione istigatoria che – determinando un concreto pericolo di compimento di atti discriminatori o violenti – leda l’identità personale altrui, in relazione al genere, all’orientamento sessuale o all’identità di genere. L’obiettivo delle disposizioni in argomento, lo si ripete, non è quello di regolare la circolazione delle idee nello spazio pubblico, bensì di proteggere la dignità delle persone, in relazione ad aspetti della loro identità che – per ragioni sociali, culturali e politiche – assumono tratti di peculiare vulnerabilità e che, anche al di là di ciò, sono ritenute meritevoli di riconoscimento e tutela.
Alla luce di tali considerazioni deve essere considerata – e sottoposta a critica – anche la recente nota verbale fatta pervenire dalla Santa Sede al Governo italiano, nella quale si paventa la potenziale violazione di due disposizioni degli Accordi di Villa Madama – i commi 1 e 3 dell’articolo 2 – che assicurano alla Chiesa cattolica “la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione” nonché “la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”; e assicurano ai cattolici e alle loro associazioni “la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La potenziale violazione è riscontrata in relazione a un ambito circoscritto del testo e cioè la criminalizzazione degli atti discriminatori[56]. Tale previsione entrerebbe secondo la Santa Sede in conflitto con la centralità che la “differenza sessuale” assume nel magistero ecclesiastico “secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”. C’è da chiedersi se il disegno di legge Zan la metta davvero a rischio, e in che termini. La risposta è semplice, ed è negativa. L’obiettivo del testo è chiaro: prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza motivate dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere o dalla disabilità delle vittime. Ed è in questi termini che vanno lette e interpretate, secondo quanto si è sin qui tentato di dimostrare, le sue disposizioni, ivi comprese quelle di carattere definitorio. Non si tratta di sposare una prospettiva antropologica, escludendone altre: si tratta, molto più semplicemente, di tutelare la dignità delle persone. E di farlo anche punendo discorsi e crimini fondati sull’odio verso condizioni personali.
Non “prospettive antropologiche”, ma vite di persone in carne e ossa, corpi attraversati dalla libertà, che meritano di vivere in condizioni di pari dignità e sicurezza quale che sia il loro rapporto con dogmi o modelli. Di questo si occupa la proposta di legge: che è, come già sottolineato, un testo giuridico e non un trattato di antropologia.
In una democrazia pluralistica hanno cittadinanza diverse visioni del mondo. Tra queste è senza dubbio ricompresa la “prospettiva antropologica” di cui la Santa Sede rivendica la tutela. La Chiesa cattolica ha il diritto di affermarla e sostenerla nello spazio pubblico e gli articoli 19 e 21 della Costituzione – prima ancora degli Accordi di Villa Madama – predispongono le condizioni adeguate affinché ciò possa avvenire. Allo stesso modo, chi sia portatore di una diversa visione del mondo ha il diritto, se lo ritiene, di criticare quella “prospettiva antropologica” con gli strumenti della democrazia e del libero confronto.
Il disegno di legge Zan si pone in armonia con queste premesse quando, all’articolo 4, fa salve “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, con il solo limite dell’idoneità di quelle condotte e di quelle opinioni a “determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Dunque, è pacifico che quella “prospettiva antropologica” non perderebbe, per effetto dell’approvazione del disegno di legge, la propria cittadinanza nello spazio pubblico. Come ogni altra visione del mondo, non potrà piuttosto travalicare nell’istigazione alla discriminazione o alla violenza.
Quel che non si può pretendere da una democrazia laica e pluralista è che assuma e promuova una determinata visione del mondo, fino al punto di legittimare condotte lesive della dignità altrui, sol perché basate su di essa. Resta spazio, sempre, per il ragionevole bilanciamento tra i diversi diritti fondamentali coinvolti, compresa la libertà religiosa. Il principio di laicità – come fermamente chiarito dal Presidente del Consiglio dei ministri nel suo intervento in Senato del 23 giugno 2021, in risposta alla nota verbale vaticana – non si riduce d’altra parte alla mera neutralità rispetto al fenomeno religioso, ma è legato a doppio filo al principio pluralista. Ed entrambi affondano le proprie radici nel principio personalistico, e dunque nella tutela della dignità individuale.
In questa prospettiva, tanto l’intervento penalistico quanto l’articolazione di azioni positive finalizzate alla prevenzione e al contrasto aggiungono un significativo tassello all’allargamento dei confini della soggettività rilevante dal punto di vista giuridico e costituzionale. In altri termini, orientamento sessuale e identità di genere assurgono ad aspetti della personalità che l’ordinamento assume come rilevanti e degni di protezione, con un conseguente significativo arricchimento della stessa immagine della persona costituzionalmente rilevante, del suo riconoscimento e della promozione della pari dignità sociale e dei diritti inviolabili (artt. 2 e 3 Cost.)[57].
Allo stesso modo, il testo non vuole “educare”, ma si pone soltanto l’obiettivo di (provare a) trasformare le condizioni strutturali in cui discriminazione e violenza prosperano, mettendo in discussione gli stereotipi che ostacolano l’affermarsi di una cultura del rispetto e dando alle ragazze e ai ragazzi la sicurezza di sapere che possono essere accolti quale che sia la direzione che prenda la loro crescita, senza timore, in uno spazio pubblico e in un ambiente scolastico aperto e inclusivo. La lezione, in fondo, è quella dell’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza non si tutela soltanto eliminando discriminazioni, ma anche (e soprattutto) rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Questa è l’unica pedagogia possibile, nella nostra democrazia.
Il rilevato carattere integrato dell’intervento normativo, pertanto, rende evidente che la stessa tutela penale dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, ove unita ad opportune azioni positive rivolte alla prevenzione e al contrasto delle discriminazioni e delle violenza e, in definitiva, alla piena inclusione delle persone LGBT+ nella comunità politica – lungi dal ridurre queste soggettività al solo profilo della loro specifica vulnerabilità – avrebbe il pregio di arricchire la qualificazione giuridica di tali profili della personalità e di fondarne (e rafforzarne) la pari dignità sociale.
*Sul medesimo tema si veda anche, su questa Rivista, Il d.d.l. Zan e le sue implicazioni di Giuseppe Savagnone
[1] Si tratta della Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 luglio 2021 sulle violazioni del diritto dell’UE e dei diritti dei cittadini LGBTIQ in Ungheria a seguito delle modifiche giuridiche adottate dal parlamento ungherese (che può essere consultata a questo link: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0362_IT.html) e della Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 marzo 2021 sulla proclamazione dell’Unione europea come zona di libertà per le persone LGBTIQ (che può essere consultata a questo link: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0089_IT.html). Tutti i link riportati in nota sono stati consultati l’ultima volta il giorno 11 luglio 2021.
[2] Sul punto v. da ultimo A. Lo Giudice, Ddl Zan, oggi si lotta contro il carattere discriminante dell’omologazione moderna, in Huffington Post, 6 luglio 2021 (huffingtonpost.it/entry/ddl-zan-oggi-si-lotta-contro-il-carattere-discriminante-dellomologazione-moderna_it_60e45af2e4b068186f54161a), che riprende in parte il contenuto della relazione svolta durante il webinar organizzato dalla rivista GenIUS il giorno 1 luglio 2021 su “Il ddl Zan tra diritto penale, democrazia e pluralismo” che può essere rivisto a questo indirizzo: https://fb.watch/6GGMt5dUfX/ (con relazioni di Fiandaca, Goisis, Azzariti, Caielli, Lo Giudice, Pelissero).
[3] I cui esiti possono essere consultati a questo link: https://www.camera.it/leg18/1347?shadow_organo_parlamentare=2802&id_tipografico=02 (rif. seduta del 18 febbraio 2020).
[4] Sul punto si consenta il rinvio a A. Schillaci, Le unioni civili in Senato: diritto parlamentare e lotta per il riconoscimento, in GenIUS, fasc. 2/2016, pp. 18 ss. (http://www.articolo29.it/wp-content/uploads/2017/03/genius-2016-02.pdf).
[5] Si tratta dei ddl S. 59, Cirinnà e Cerno; S. 1176, Maiorino e altri; 1430, Unterberger e altri; S. 1613, Evangelista e altri.
[6] Di entrambe le decisioni (la congiunzione unilaterale e il diniego di disgiunzione) nel corso del dibattito, è stata a più riprese sottolineata la grave irritualità. In particolare, le senatrici Cirinnà e Maiorino hanno sottolineato la non omogeneità del contenuto dei due disegni di legge, con conseguente inapplicabilità dell’articolo 51 del Regolamento (a mente del quale, per quanto qui interessa: “i disegni di legge aventi oggetti identici o strettamente connessi sono posti congiuntamente all’ordine del giorno della Commissione competente”, corsivi aggiunti); da parte loro, il Senatore Mirabelli e la Senatrice Rossomando hanno stigmatizzato il rifiuto da parte del Presidente di un voto sulla disgiunzione.
[7] Il ddl S. 2205 mira a introdurre nel codice penale una nuova circostanza aggravante comune, per le condotte agite “in ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, disabilità nonché nei confronti dei soggetti che versano nelle condizioni di cui all’articolo 90-quater del codice di procedura penale”. L’articolo 2 del ddl esclude la possibilità di bilanciare tale circostanza aggravante con le attenuanti comuni, in deroga a quanto previsto dall’articolo 69-bis c.p. Si tratta, con ogni evidenza, di un testo che presenta notevoli criticità e che, soprattutto, si pone in aperta contraddizione con la ratio del ddl S. 2005: per un verso infatti, in linea generale, esclude la tutela rafforzata rispetto a condotte motivate dal sesso, dal genere e dall’identità di genere, limitandola al solo orientamento sessuale. Per altro verso, menzionando anche origine etnica, credo religioso e nazionalità si pone in conflitto con l’aggravante speciale già prevista dall’articolo 604-ter c.p. che contempla proprio tali fattori di discriminazione tra le ragioni che giustificano l’applicazione della ridetta aggravante, rischiano così di pregiudicarne l’applicazione pratica.
[8] Sul punto si v., tra i molti, F. Filice, Il disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia e abilismo. L’analisi delle nuove fattispecie incriminatrici. Verso un diritto penale antidiscriminatorio?, in Questione giustizia, 26 novembre 2020 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-disegno-di-legge-in-materia-di-omo-lesbo-bi-transfobia-e-abilismo-l-analisi-delle-nuove-fattispecie-incriminatrici-verso-un-diritto-penale-antidiscriminatorio); L’omo-transfobia diventa reato: la Camera dà il via libera, con contributi di B. Liberali, A. Schillaci, L. Goisis e G. Dodaro, in questa Rivista, 10 novembre 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-penale/1387-i-delitti-di-omo-transfobia-e-altre-forme-di-discriminazione-nel-testo-approvato-in-prima-lettura-dalla-camera-il-4-novembre-2020); S. Ponti, Il ddl Zan spiegato articolo per articolo, 10 maggio 2021 (https://www.retelenford.it/news/diritti-lgbti-in-italia/il-ddl-zan-spiegato-articolo-per-articolo/).
[9] Per riflessioni più approfondite, anche in ottica generale, sulla possibilità e sulle prospettive di un diritto penale antidiscriminatorio v. da ultimo F. Palazzo, La nuova frontiera della tutela penale dell’uguaglianza, in Sistema penale, 11 gennaio 2021 (https://www.sistemapenale.it/it/articolo/palazzo-tutela-penale-eguaglianza); L. Goisis, Hate Crimes in a Comparative Perspective. Reflections on the Recent Italian Legislative Proposal on Homotransphobic, Gender and Disability Hate Crimes, in GenIUS, fasc. 1/2020, pp. 78 ss. (http://www.geniusreview.eu/wp-content/uploads/2021/02/genius-2020-01.pdf); Ead., Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene, 2019; M. Pelissero, Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, in Diritto penale e processo, fasc. 8/2020, pp. 1017 ss.; in prospettiva costituzional-comparatistica v. G. Giorgini Pignatiello, Profili comparati e problemi costituzionali della legislazione contro l’omobitransfobia. Il caso spagnolo e quello italiano, in Diritto pubblico comparato ed europeo, fasc. 4/2020, pp. 995 ss.
[10] Così Corte EDU, Beizaras and Levickas c. Lituania, 14 gennaio 2020, ric. n. 41288/15, par. 111. Fin dal 2010, peraltro, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha rivolto agli stati membri una raccomandazione (la n. 5/2010) rivolta proprio all’introduzione di specifici strumenti di contrasto dei discorsi e crimini d’odio fondati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (Recommendation CM/Rec(2010)5 of the Committee of Ministers to member states on measures to combat discrimination on grounds of sexual orientation or gender identity, https://www.coe.int/en/web/sogi/rec-2010-5). Anche il Parlamento europeo ha ricordato più volte agli stati membri la necessità di adottare efficaci misure di contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere: da ultimo, oltre alle risoluzioni richiamate supra, alla nota 1, si pensi alla Risoluzione del 14 febbraio 2019 sul futuro dell’elenco di azioni a favore delle persone LGBTI (2019-2024: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2019-0129_IT.html) e la Risoluzione del 18 dicembre 2019 sulla discriminazione in pubblico e sull’incitamento all’odio nei confronti delle persone LGBTI, comprese le zone libere da LGBTI (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0101_IT.html).
[11] Sul punto si v. amplius A. Schillaci, Le storie degli altri. Strumenti giuridici del riconoscimento e diritti civili in Europa e negli Stati Uniti, Napoli, Jovene, 2018.
[12] Da ultimo, cfr. Corte EDU, Beizaras and Levickas v. Lituania, cit.
[13] Sul punto v. ad es. A.P., Garçon and Nicot v. France, 6 aprile 2017, par. 93, nonché – più di recente - X c. FYRM, 17 gennaio 2019, ric. n. 29683/16.
[14] A partire dal caso Lawrence v. Texas [539 U.S. 558 (2003)] in cui alla protezione della libertà sessuale rispetto a ingerenze del legislatore penale si affianca la significativa considerazione che “When sexuality finds overt expression in intimate conduct with another person, the conduct can be but one element in a personal bond that is more enduring. The liberty protected by the Constitution allows homosexual persons the right to make this choice” (p. 567, corsivi aggiunti). Per ulteriori approfondimenti A. Schillaci, Le storie degli altri, cit., pp. 225 ss.
[15] Come avvenuto a partire da Dudgeon v. UK, 22 ottobre 1981, ric. n. 7525/76.
[16] A partire da Goodwin v. UK, 11 luglio 2002, ric. n. 28957/95.
[17] Cfr. Goodwin, cit., par. 90.
[18] Cfr. tra le molte, in questa prospettiva, Schalk and Kopf v. Austria, 24 giugno 2010, ric. n. 30141/04 e Oliari v. Italy, 21 luglio 2015, ricc. nn. 18766/11 e 36030/11.
[19] Come nella richiamata sentenza Beizaras and Levickas: sul punto v. amplius, infra.
[20] Corte EDU, 12 giugno 2003, ric. n. 35968/97, par. 69.
[21] Assai significativo, in questo senso, un passaggio della richiamata sentenza Van Kuck, a mente del quale “while the essential object of Article 8 is to protect the individual against arbitrary interference by the public authorities, it does not merely compel the State to abstain from such interference: in addition to this negative undertaking, there may be positive obligations inherent in an effective respect for private or family life. These obligations may involve the adoption of measures designed to secure respect for private life even in the sphere of the relations of individuals between themselves” (par. 70); analogamente cfr. Corte EDU, Schlumpf c. Suisse, 8 gennaio 2009, ric. n. 29002/06.
[22] Che, ad esempio nel caso della vita familiare, conferirebbe alle coppie – come si legge in Oliari, al par. 174 – un “senso di legittimità” idoneo a consolidare la presenza civile e pubblica delle persone omosessuali).
[23] Come afferma la Corte al par. 129 della decisione – lasciando peraltro intravedere un significativo parallelismo tra la diffusione di pregiudizi omolesbobitransfobici nella società e nelle istituzioni – “the hateful comments including undisguised calls for violence by private individuals directed against the applicants and the homosexual community in general were instigated by a bigoted attitude towards that community and, secondly, that the very same discriminatory state of mind was at the core of the failure on the part of the relevant public authorities to discharge their positive obligation to investigate in an effective manner whether those comments regarding the applicants’ sexual orientation constituted incitement to hatred and violence, which confirmed that by downgrading the danger of such comments the authorities at least tolerated such comments”.
[24] Su questi sviluppi, v. A. Lorenzetti, Diritti in transito, Milano, Franco Angeli, 2014; P. Veronesi, Corpi e questioni di genere: le violenze (quasi) invisibili, in GenIUS, fasc. 2/2020, pp. 8 ss.; F. Saccomandi, Spesso non binarie, sempre non conformi: la “piena depatologizzazione” delle soggettività trans, ivi, pp. 91 ss. (http://www.geniusreview.eu/wp-content/uploads/2021/06/genius-2020-02.pdf)
[25] Cfr. il testo dell’articolo 1, comma 1, della legge n. 354/1975, come modificato dall’ articolo 11, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 123/2018; analogamente, cfr. l’articolo 14, ultimo comma, della medesima legge (come aggiunto dall’articolo 11, comma 1, lettera e), numero 3), del D.Lgs. n. 123/2018) a mente del quale: “L’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie. È in ogni caso garantita la partecipazione ad attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione detenuta”.
[26] Ad opera dell’articolo 1, comma 1, lettera e), numero 01), del D.L. n. 130/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 173/2020.
[27] Così, per esteso, il par. 5.2 della sentenza n. 180/2017: “Alla luce dei principi affermati nella sentenza n. 221 del 2015, va ribadito che l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione. E tuttavia ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato. Pertanto, in linea di continuità con i principi di cui alla richiamata sentenza, va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione. In coerenza con quanto affermato nella sentenza richiamata, va ancora una volta rilevato come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere. Nel sistema della legge n. 164 del 1982, ciò si realizza attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici. Il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato, infatti, individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l’entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere” (corsivi aggiunti). Per ulteriori approfondimenti sul punto, proprio in relazione alle vicende relative al ddl Zan, cfr. G. M. Locati – F.R. Guarnieri, Discriminazione, orientamento sessuale e identità di genere: riflessioni a margine della proposta di legge Zan, in Questione Giustizia, 28 luglio 2020 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/discriminazione-orientamento-sessuale-e-identita-di-genere-riflessioni-a-margine-della-proposta-di-legge-zan); F. R. Guarnieri, Ddl Zan: sesso, genere, identità di genere, 14 maggio 2021 (https://www.retelenford.it/news/diritti-lgbti-in-italia/il-ddl-zan-sesso-genere-e-identita-di-genere/); B. Liberali, Sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere nei nuovi artt. 604-bis e 604-ter c.p.: una questione (non solo) definitoria, in questa Rivista, 10 novembre 2020 (cfr. supra, nota 8).
[28] Come ritiene invece, ad esempio, S. Niccolai, La legge Zan e le ragioni del femminismo della differenza, ne il manifesto, 21 maggio 2021 (https://ilmanifesto.it/la-legge-zan-e-le-ragioni-del-femminismo-della-differenza/). Altre hanno invece messo in luce come le esperienze riconducibili alle vicende dell’identità di genere non si pongano in contrapposizione con la valorizzazione (anche in prospettiva critica) della differenza sessuale, ponendosi piuttosto sul piano di una sua diversa interpretazione, curvata sulle specificità dell’intervento normativo in discussione (diretto a contrastare discriminazione e violenza) e pertanto sensibile alla comune matrice patriarcale di sessismo, misoginia e omolesbobitransfobia (la resistenza alla quale percorrerebbe, peraltro, anche le stesse esperienze di affermazione dell’identità di genere). Penso soprattutto, in questa prospettiva, agli interventi di Lea Melandri sul Riformista e, in particolare, a: Legge sull’omotransfobia, a destra inversione di ruoli tra vittime e carnefici (12 agosto 2020, https://www.ilriformista.it/legge-sullomotransfobia-a-destra-inversione-di-ruoli-tra-vittime-e-carnefici-143081/) e a Il dualismo sessuale e il potere maschile. Una risposta a Christian Raimo (29 aprile 2021, https://www.ilriformista.it/il-dualismo-sessuale-e-il-potere-maschile-una-risposta-a-christian-raimo-214866/); ma anche a G. Serughetti, Dare più diritti a chi ne ha meno: il tempo del ddl Zan è adesso, in Domani, 15 aprile 2021 (https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/dare-piu-diritti-a-chi-ne-ha-meno-il-tempo-del-ddl-zan-e-adesso-uay62ylr) . Cfr. anche, in prospettiva giuridica, T. Pitch, Sul disegno di legge Zan, in Studi sulla questione criminale, 6 maggio 2021 (https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2021/05/06/sul-disegno-di-legge-zan/). Per alcune interessanti riflessioni sulla comune matrice della violenza di genere e della violenza omolesbobitransfobica cfr. B. Pezzini, Il diritto e il genere della violenza: dal Codice Rocco al Codice Rosso, in Ead. – A. Lorenzetti, La violenza di genere dal Codice Rocco al Codice Rosso, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 1 ss., 20-21.
[29] La previsione, introdotta in Aula alla Camera, introduceva un comma 3-bis all’articolo 3 della legge n. 654/1975 (cd. legge Reale) ed era così formulata: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei princìpi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”.
[30] Sulla quale vedi in generale, e per tutti, A. Pace – M. Manetti, Articolo 21: la libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna, Zanichelli, 2006.
[31] Su cui v. A. Di Giovine, I confini della libertà di manifestazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto comparato come premesse ad uno studio sui reati di opinione, Milano, Giuffré 1988.
[32] “La libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21, primo comma, della Costituzione”, afferma ad esempio la Corte costituzionale nella sentenza n. 65/1970, “trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell’esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema” sicché non contrasta con la Costituzione l’apologia di delitti, in quanto con tale figura di reato non viene repressa “la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (enfasi aggiunta).
[33] Cfr. ad esempio la sentenza n. 108/1974, o ancora la n. 100/1966 relativa al delitto di eccitamento al dispregio delle istituzioni da parte del pubblico ufficiale.
[34] Così la Corte costituzionale, nella sentenza n. 16/1973.
[35] D’altro canto, già nella sentenza n. 87/1966, a proposito del delitto di propaganda sovversiva, la Corte aveva affermato che “il diritto di libertà della manifestazione del pensiero non può ritenersi leso da una limitazione posta a tutela del metodo democratico” (enfasi aggiunta). Assai significativo, peraltro, che nella medesima decisione la Corte abbia invece dichiarato l’illegittimità costituzionale del delitto di propaganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, ritenendo effettivamente violata la libertà di manifestazione del pensiero: il bene protetto dalla norma penale, in quel caso, è infatti “soltanto un sentimento, che sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità” e inoltre “la relativa propaganda non è indirizzata a suscitare violente reazioni […] né è rivolta a vilipendere la Nazione od a compromettere i doveri che il cittadino ha verso la patria od a menomare altri beni costituzionalmente garantiti”.
[36] Assai significativo, ad esempio, che nella sentenza n. 293/2000, la Corte abbia curvato con molta chiarezza il limite del buon costume di cui all’articolo 21, ultimo comma, della Costituzione nel senso che esso è posto a presidio della dignità personale, così integrando la prospettiva tradizionale – espressa, ad esempio, nella sentenza n. 368/1992 – secondo cui il buon costume veniva interpretato come corrispondente al pudore sessuale (declinato tuttavia in prospettiva storica). In tale ottica, ad essere vietate sono – ad esempio – pubblicazioni che intacchino il contenuto minimo del concetto di buon costume e cioè “il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione”, sicché in definitiva la libertà di manifestazione del pensiero è “concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana”.
[37] Cfr. sent. n. 86/1974.
[38] Sent. 14 gennaio 2019, n. 5009: per un commento v. A. Madeo, Sulla tutela penale della reputazione della collettività omosessuale, in GenIUS - Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, fasc. 1/2019, pp. 100 ss. (http://www.geniusreview.eu/2019/genius-2019-1/).
[39] Accanto alla reputazione, all’onore e alla salvaguardia del metodo democratico e della tranquillità pubblica, vi sono decisioni che bilanciano la libertà di manifestazione del pensiero, ad esempio, con le esigenze legate all’amministrazione della giustizia. Ancora, nella sent. n. 123/1976 – relativa al delitto di aggiotaggio – la Corte ebbe a precisare che “la libertà di manifestazione del pensiero trova i suoi limiti non solo nella tutela del buon costume ma anche nella necessità di proteggere altri beni aventi rilievo costituzionale” e che, nel caso di specie “la tutela penale tende a che non sia compromesso, mediante una determinazione fraudolenta dei prezzi o delle quotazioni, l’interesse economico legato alla circolazione e allo scambio delle merci o dei valori; si tratta non tanto degli interessi dei singoli operatori economici, bensì dell’interesse pubblico a che i prezzi di mercato si formino per il naturale giuoco delle forze economiche o per il legittimo intervento delle pubbliche autorità, l’uno e l’altro non dolosamente falsati”, così collegando il bene protetto alla previsione di cui all’articolo 41, commi 1 e 2, della Costituzione. Si pensi, ancora, alla giurisprudenza relativa ai delitti di vilipendio, e in particolare alla sentenza n. 20/1974, nella quale la limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero (insita, nella specie, nel delitto di vilipendio dell’ordine giudiziario) è giustificata dalla tutela del bene – costituzionalmente rilevante – del “prestigio del Governo, dell’Ordine giudiziario e delle Forze Armate in vista dell’essenzialità dei compiti loro affidati”.
[40] Si tratta della richiamata CdG, 23 aprile 2020, NH c. Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford, in c. C-507/18 su cui v. F. Rizzi, Il caso N.H. I rimedi del diritto agli atti linguistici di discriminazione e la libertà di fare cose con le parole, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, fasc. 4/2020, pp. 575 ss.
[41] Corte EDU, 9 febbraio 2012, ric. n. 1813/07.
[42] Corte EDU, 20 giugno 2017, ric. n. 67667/09.
[43] Giacché “it would be incompatible with the underlying values of the Convention if the exercise of Convention rights by a minority group were made conditional on its being accepted by the majority […] were this so, a minority group’s rights to freedom of religion, expression and assembly would become merely theoretical rather than practical and effective as required by the Convention” (par. 70).
[44] Così, testualmente, la Corte: “to the extent that the minors who witnessed the applicants’ campaign were exposed to the ideas of diversity, equality and tolerance, the adoption of these views could only be conducive to social cohesion. The Court recognises that the protection of children from homophobia gives practical expression to the Committee of Ministers’ Recommendation Rec(2010)5 which encourages “safeguarding the right of children and youth to education in safe environment, free from violence, bullying, social exclusion or other forms of discriminatory and degrading treatment related to sexual orientation or gender identity” (see paragraph 31 of the Recommendation) as well as “providing objective information with respect to sexual orientation and gender identity, for instance in school curricula and educational materials” (see paragraph 32 of the Recommendation)” (par. 82).
[45] 12 maggio 2020, ric. n. 29297/18.
[46] Particolare rilievo è attribuito dalla Corte alla circostanza che le espressioni contestate fossero “coupled with the clear expression of disgust”, il che le rende idonee a “promote intolerance and detestation of homosexual persons” (par. 38).
[47] Secondo l’articolo 17, come noto, “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”.
[48] L’espressione citata è tratta dal titolo di uno dei paragrafi della voce "Stato costituzionale" che Peter Häberle ha scritto per l’Enciclopedia giuridica Treccani e che è ora ripubblicata in Id., Lo stato costituzionale, Roma, Ist. Enc. Ital., 2005. Il titoletto si trova alla p. 164 e recita, appunto “La dignità dell’uomo come «premessa antropologico-culturale» dello Stato costituzionale, la democrazia come «conseguenza organizzativa»”. Nel corpo del paragrafo Häberle chiarisce nel dettaglio tale connessione, ancorandola soprattutto ad una declinazione del concetto di sovranità popolare saldamente fondato sulla sostanza "personale" del medesimo (ossia sull’essere il "sovrano" un insieme di persone egualmente degne).
[49] Il comma 16 prevede che il piano triennale dell’offerta formativa assicuri “l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013.
[50] Sul punto v., amplius, M. Perini, Educazione alla parità di genere: tra autonomia individuale, spirito repubblicano, famiglia e competenze regionali (senza dimenticare la libertà di insegnamento), in GenIUS, fasc. 2/2016, pp. 150 ss. (http://www.articolo29.it/wp-content/uploads/2017/03/genius-2016-02.pdf).
[51] L’importanza di tale passaggio venne sottolineata, in Aula alla Camera, dalla deputata Flavia Piccoli Nardelli del Partito democratico, la quale sottolineò – nel suo intervento del 3 novembre 2020 – che “le scuole non si sostituiscono alle famiglie, ma la scuola lavora in continua sinergia con le famiglie. Infatti, noi è a questo tipo di scuola che dobbiamo guardare, è alla scuola in cui noi sappiamo che gli insegnanti lavorano in autonomia, ma in grande equilibrio”.
[52] Così P. Ridola, La Costituzione e le nuove sfide delle comunità pluralistiche, in Id., Diritti di libertà e costituzionalismo, Torino, Giappichelli, 1997, pp. 39 ss., 80.
[53] Pertanto, in fase d’Aula l’articolo 9 è stato sostituito – con l’approvazione di un emendamento proposto dalla Commissione Bilancio – con una norma di coordinamento che ancora il richiamato articolo 105-quater alle modifiche apportate al codice penale dalla medesima proposta Zan.
[54] Su cui v. ad esempio G. Viggiani, Quando l’odio (non) diventa reato. Il punto sul fenomeno dei crimini d’odio di matrice omotransfobica in Italia, in GenIUS, fasc. 1/2020, pp. 107 ss.
[55] Così, in pagine classiche, G. Ferrara, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione), in Aa.Vv., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Milano, Giuffrè, 1973, vol. II, 1087 ss., 1095.
[56] Sul problema della tipicità e determinatezza delle condotte discriminatorie di cui all’articolo 604-bis c.p., v. per tutti F. Filice, Il disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia e abilismo, cit.
[57] Per ulteriori riflessioni sul punto, in prospettiva generale, sia consentito il rinvio ad A. Schillaci, Le storie degli altri, cit.
Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze
di Matilde Brancaccio
La Relazione illustrativa del Primo Presidente della Corte di Cassazione sul programma di gestione per l’anno 2021 non cessa di destare interesse, oramai da mesi.
Merito della prospettiva di ampio respiro che la caratterizza in generale e, soprattutto, dell’attenzione dedicata sul piano organizzativo e degli obiettivi ad un tema tanto consueto nei dibattiti giuridici quanto ancora lontano dall’essere realmente compreso nelle sue enormi, pratiche implicazioni: la questione della motivazione dei provvedimenti del giudice e del loro linguaggio.
La riflessione che si propone muove dalle radici di quanto già la Rivista ha saputo dire in proposito, negli articoli dedicati al tema, per cercare di guardare il volto reale della questione, con la maggior quota di realismo possibile, e provare a trovare soluzioni organizzative utili a raggiungere l’obiettivo di un “rinnovamento culturale” delle forme di espressione dei provvedimenti giurisdizionali, sia nella loro struttura che nei contenuti, là dove essi, come avverte, altresì, la Relazione del Primo Presidente, tuttora conservano stereotipi di ogni tipo.
Sommario: 1. La questione del linguaggio delle sentenze e le prospettive in campo - 2. I precedenti storici più recenti del dibattito sulla tecnica di motivazione dei provvedimenti giudiziari - 3. Per una motivazione “rinnovata”: l’importanza, anche simbolica, della Relazione al Programma di gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione - 4. Leggerezza, rapidità, esattezza e valore del precedente - 5. Gli interventi possibili - 6. “Stereotipi e vecchi merletti”.
1. La questione del linguaggio delle sentenze e le prospettive in campo
Il linguaggio dei provvedimenti giudiziari costituisce da sempre argomento di riflessione e terreno di contese.
Due approcci diversi, declinati ovviamente con mille rivoli differenti ed innumerevoli sfaccettature, sono chiaramente leggibili quando si affronta la lettura di provvedimenti giudiziari, soprattutto sentenze, principalmente quelle emesse dalle Corti superiori: i cultori di una lingua che si compiace di essere ipertecnica, per “iniziati” e “addetti ai lavori”, si fronteggiano con i sostenitori della necessità di adottare, invece, un linguaggio accessibile, fruibile da tutti, diretto, immediato, capace di rappresentare quel “popolo” in nome del quale si emettono le sentenze.
Dal punto di vista formale, sembra evidente che, nell’epoca in cui viviamo, costellata dall’esigenza di chiarezza, efficienza, rapidità definitoria dei provvedimenti “di giustizia”, non possa che propendersi verso il secondo dei due atteggiamenti, che potremmo definire, più “democratico”.
Fortunatamente, sembrano tramontati i tempi nei quali il dottor Azzeccagarbugli diceva “a saper maneggiare bene le grida, nessuno è innocente e nessuno è colpevole”. Secondo Manzoni, il linguaggio giuridico, a causa anche all’intermediazione degli avvocati, vista come fattore di confusione in adesione ad un pregiudizio atavico di derivazione medievale di cui sono stati bersaglio a lungo i difensori, era ambivalente; poteva essere usato per provare una tesi e la sua opposta versione; nelle leggi così come nelle sentenze.
Oggi, invece, traendo ispirazione da Italo Calvino, dovremmo con forza sostenere, anche nella “lingua giuridica” e delle sentenze, che per ottenere un risultato ottimale dalla scrittura “abbiamo a disposizione tutti i linguaggi: quelli elaborati dalla letteratura, gli stili in cui si sono espressi civiltà e individui nei vari secoli e paesi, e anche i linguaggi elaborati dalle discipline più varie, finalizzati a raggiungere le più varie forme di conoscenza: e noi vogliamo estrarne il linguaggio adatto a dire ciò che vogliamo dire, il linguaggio che è ciò che vogliamo dire”.
Le Lezioni americane da cui è tratto il brano riportato[1] possono rappresentare – con un pizzico di ardire prospettico – un modello non soltanto per letterati e poeti, ma anche per chiunque voglia adoperare il giusto linguaggio in qualsiasi campo, a maggior ragione in quello giurisdizionale, dove è innegabile una certa commistione tra tecnicismo e narrativa pura, “racconto”.
Leggerezza, Rapidità, Esattezza: sono le prime tre “lezioni” di Calvino per la letteratura del “prossimo Millennio”; il millennio che oggi stiamo vivendo; le lezioni più importanti, secondo l’ordine di priorità decrescente che egli aveva pensato, e quelle che potrebbero costituire un canovaccio essenziale per il lavoro del giudice.
Tre doti della scrittura giuridica utili a renderla comprensibile a tutti, capace di individuare i problemi con nettezza e precisione, senza divagazioni non necessarie, finalmente “libera” da schemi precostituiti o da aspirazioni di vanità intellettuale del giudice o dell’avvocato e, per questo, adatta a rispondere in maniera ottimale ed in tempi adeguati alla domanda che proviene dalle istanze del “fare giustizia”.
La questione del linguaggio giuridico comprende, dunque, anzitutto, un problema di approccio comune degli attori del processo: si migliora la lingua tecnica di provvedimenti, ricorsi, impugnazioni ed atti di parte solo “insieme”; soltanto se magistrati ed avvocati si sentiranno investiti da un comune obiettivo di crescita culturale, diretto finalmente a “svecchiare” le parole di giustizia ed a renderle capaci di rispondere ai nostri tempi complessi e proiettati verso il futuro.
Il problema linguistico, poi, impone una visione (quantomeno) bifocale: rimodellare la lingua giuridica è operazione necessaria non soltanto, ed ovviamente anzitutto, per migliorare la qualità della produzione giudiziaria, ma anche per accorciare i tempi del processo e dei provvedimenti giudiziari (decisione e deposito); per concentrare le forze migliori sulle questioni che richiedono soluzioni più complesse e, dunque, tempi e scritture maggiormente dilatati, contemporaneamente fornendo, in maniera quanto più possibile diffusa, una risposta, pur sempre adeguata, ma di maggior efficienza perché “semplificata”, per le questioni ordinarie, quelle seriali o analoghe ad orientamenti consolidati o, semplicemente, quelle meno complicate.
2. I precedenti storici più recenti del dibattito sulla tecnica di motivazione dei provvedimenti giudiziari
Il dibattito sui temi dello stile e del linguaggio delle sentenze occupa da tempo l’interesse delle strutture di formazione della magistratura e non solo[2], con particolare attenzione dedicata all’analisi delle tecniche redazionali dei provvedimenti giudiziari.
L’impressione che si trae, da anni di riflessioni sulla materia, è che la scrittura dei provvedimenti giudiziari, così come ogni altra forma di espressione umana, è condizionata dal background del giudice, dal punto di vista della società cui appartiene, del momento storico in cui agisce, delle differenti opzioni culturali alle quali si richiama come singolo o nella dimensione collettiva in cui opera.
La Magna Carta dei giudici europei del 17 novembre 2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17 novembre 2010 del Comitato dei Ministri della Comunità Europea indicano la tensione verso l’obiettivo di redigere la motivazione dei provvedimenti in un linguaggio semplice, chiaro e comprensibile.
Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha dimostrato costantemente attenzione al tema e, recentemente, con le delibere del CSM del 5 luglio 2017 e del 20 giugno 2018, ha operato una ricognizione e disegnato alcune linee di indirizzo sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti.
In funzione di dare indicazioni sulle motivazioni seriali o di semplice stesura sono stati emanati i decreti del Primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136 del 2016[3], che hanno istituzionalizzato i casi e le modalità di redazione della cosiddetta “motivazione semplificata” o sintetica dei provvedimenti ed hanno inaugurato la stagione degli interventi organizzativi e di indirizzo “espliciti”, volti a legittimare metodologie di redazione motivazionali di breve struttura, caratterizzate da pochi e rapidi richiami giurisprudenziali e da ricostruzioni in fatto ed in diritto estremamente sintetiche, in presenza di questioni giuridiche di facile risoluzione.
Si è agito, di recente, anche sul fronte del comune impegno di semplificazione delle attività giurisdizionali di magistrati ed avvocati, avviando i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, aventi ad oggetto proprio regole di redazione degli atti, finalizzate ad adottare sistematicamente criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità[4].
Infine, il Rapporto del 21 aprile 2016 sull’azione degli Stati membri del Consiglio d’Europa rispetto alla Raccomandazione n. 12 del Comitato dei Ministri REC (2010), in tema di indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici, afferma che le sentenze devono essere scritte in un linguaggio chiaro (“clear language”), agevolmente comprensibile dal pubblico, e invita gli Stati a intraprendere azioni adeguate in tal senso (analogamente si dispone avuto riguardo all’attività del pubblico ministero, nel parere n. 11 del 2016 dal Consiglio consultivo dei procuratori europei, istituito dal Consiglio d’Europa, in tema di qualità ed efficienza del lavoro dei procuratori).
3. Per una motivazione “rinnovata”: l’importanza, anche simbolica, della Relazione al Programma di gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione
Traendo spunto, in particolare, dalla delibera del CSM del 20 giugno 2018, è stato elaborato, con indicazioni dal forte impatto simbolico e programmatico, prima ancora che pratico, il paragrafo 11 della Relazione al Programma di gestione ex art. 37 dei procedimenti civili e penali ex art. 37 D.L. 6.7.2011 n. 98, convertito in L. 15.7.2011, n. 111 dedicato alla motivazione delle sentenze.
Sulle radici costituzionali rappresentate dal comma sesto dell’art. 111 della Carta fondamentale del nostro ordinamento, che prevede l’obbligo generalizzato di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali, il documento programmatico fonda i compiti della Corte di cassazione: assicurare la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini attraverso l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo delle sue decisioni, in maniera tale da perseguire anche il valore dell’uniformità della giurisprudenza (si intende, per questioni identiche ed in un identico momento storico-normativo).
Particolarmente rilevante è il richiamo della Relazione ad attuare il giusto processo attraverso anche un giudizio ben comprensibile, posto che il controllo sull’esercizio della giurisdizione si realizza, al di fuori della logica endo-processuale, attraverso la comprensione delle decisioni giurisdizionali da parte del cittadino, nel cui nome la giustizia viene amministrata.
L’eco di quell’approccio “democratico” invocato all’inizio si rivela chiarissimo in questo passaggio.
La chiarezza espositiva come metodo maieutico per ottenere standard elevati di qualità della risposta giudiziaria, obiettivo che – come si sottolinea condivisibilmente nella Relazione – deve essere perseguito allo stesso modo e con la stessa priorità di quello della celerità cui pure è volto il “giusto processo”.
Per la chiarezza, essenziale è la capacità di sintesi, strumento indispensabile in una Corte oberata in modo anomalo da ricorsi, con tetti di sopravvenienze annue che sfiorano e più spesso superano, da tempo e tenendo in disparte la diminuzione dovute al periodo pandemico che ha investito l’anno 2020, le 50.000 impugnazioni, nel settore penale, e si attestano mediamente sopra i 30.000 ricorsi in quello civile, con punte fino a 37.000 circa nel periodo 1.7.2018-30.6.2019[5].
I consiglieri della Corte di cassazione sono caricati da un numero sicuramente eccessivo di ricorsi pro-capite annui, assolutamente incompatibile con un proficuo e consapevole contributo alla creazione del “precedente” giurisprudenziale, cui puntano il processo civile e penale per garantire uniformità, prevedibilità e trasparenza degli orientamenti giurisdizionali, in attuazione dei principi costituzionali.
E, sia consentita l’osservazione, è solo attraverso il sacrificio personale e l’elevato spirito di servizio di ciascuno che la Corte di legittimità in questi anni ha continuato a costituire un punto di riferimento per la giurisprudenza nazionale e non solo.
Peraltro, la notevole distanza di sopravvenienze tra il settore penale e quello civile, al netto delle diversità connaturate ai ricorsi di ciascun ambito, dovrebbe imporre moduli organizzativi idonei a consentire ai consiglieri del settore decisamente più gravato da sopravvenienze (quello penale) di svolgere al meglio la loro funzione, non puntando solo alla maggior brevità delle motivazioni, per ottenere più tempo utile a definire un numero di processi evidentemente sproporzionato rispetto alla forza lavoro, ma, soprattutto, a ritrovare la possibilità di decidere con attenzione e nei giusti tempi le questioni sempre più complesse che giungono a giudizio, le conseguenze delle quali incidono con frequenza costante e numericamente importante sulla libertà personale individuale.
In tale contesto, il richiamo contenuto nel documento programmatico per il 2021 ad una nuova modalità di scrittura, alla necessità di sintesi, strumentale alla chiarezza e funzionale alla “progressione logica del ragionamento”, acquista nuovo significato, sia per il “luogo organizzativo” ove è collocato, sia perché accompagnato da un vero e proprio monito ad evitare “inutili ripetizioni”, per generare, invece, un dialogo costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice, in vista di una motivazione che, proprio perché precisa, scevra da orpelli linguistici, risulta più “solida”.
Il tema è affascinante e stimola una riflessione che abbraccia anzitutto opzioni culturali e sovverte schemi di pensiero consolidati.
La sentenza “migliore” non è quella più ampia, più ricca di argomenti di contorno al nucleo motivazionale centrale, di citazioni giurisprudenziali ovvero di echi dottrinali, ma è la sentenza che penetra nelle maglie del processo come una lama, trafigge il punto nodale che è sottoposto al giudizio e incide sugli interessi delle parti in modo preciso, senza equivoci e campi oscuri.
La prospettiva più ampia che deriva dall’adozione di tale nuovo atteggiamento, non solo tecnico, ma prima ancora culturale, da parte del giudice, nella scrittura dei suoi provvedimenti, è stata individuata dal documento organizzativo della Corte di cassazione in un passaggio che sembra particolarmente significativo in un’ottica generale, contenuto nel par. 11.2, là dove si sottolinea che “la comprensione dei provvedimenti giudiziari da parte del cittadino rende… possibile il controllo dell’opinione pubblica sulla decisione, favorisce la conoscenza delle modalità di funzionamento del sistema con positive ricadute sulla qualità e quantità della domanda, contribuisce a rafforzare la legittimazione tecnico-professionale dei magistrati”.
E più che mai oggi sembra necessario non solo rafforzare ma recuperare, da parte della magistratura, un rapporto di fiducia con la società ed i cittadini che consenta la crescita democratica del Paese e contribuisca alla miglior tutela dei diritti.
Del resto, è solo “attraverso la motivazione che i soggetti investiti del potere giurisdizionale rendono conto del proprio operato alla fonte dalla quale deriva la loro investitura”.[6]
4. Leggerezza, rapidità, esattezza e valore del precedente
La chiarezza e la sintesi evocate dal Programma di gestione della Cassazione per il 2021 sembrano trarre vitalità e contenuti dai caratteri di leggerezza, rapidità, esattezza già prima richiamati come obiettivi finali della scrittura e del linguaggio, anche giudiziari.
Chiarezza, precisione e sintesi costituiscono anche e soprattutto il terreno motivazionale fertile per amplificare il valore del “precedente giurisprudenziale” derivato dall’interpretazione in funzione nomofilattica che è compito della Cassazione.
In un’epoca quale è quella che viviamo, in cui la costante crescita del peso dell’interpretazione nella ricostruzione della fattispecie penale e del formante giuridico come vero e proprio elemento di costruzione della disciplina giuridica degli istituti[7], ha portato ad una nuova consapevolezza anche del legislatore (si pensi all’introduzione del nuovo comma 1-bis dell’art. 618 del codice di procedura penale, con la novella attuata con legge n. 103 del 2017 ed all’introduzione del valore di “precedente tendenzialmente vincolante” delle affermazioni di principio provenienti dalle Sezioni Unite), il documento programmatico per il 2021 della Corte di cassazione costituisce un punto di emersione e, al tempo stesso, una base di partenza per le istanze di uniformità e stabilità che accompagnano parallelamente le moderne potenzialità del cd. diritto giurisprudenziale[8]: per migliorare “l’autorevolezza” del richiamo del precedente e la sedimentazione di un “diritto vivente”, che, senza cedere a conformismi, garantisca quella quota necessaria di certezza del diritto[9], corrispondente alla ragionevole prevedibilità[10] dell’orientamento interpretativo, declinata dalla giurisprudenza della Corte EDU, funzionale anche all’attuazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge.[11]
E nella ricerca di un equilibrio necessario alla vita del “precedente”, tra spinte innovatrici e coerenza con il dettato legislativo, non può sottovalutarsi il ruolo sempre più rilevante che stanno assumendo i continui flussi interpretativi provenienti dalle Corti europee, e massimamente dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; flussi che, negli ultimi anni, hanno la dimensione di “corrente costante, pronta a trascinare con sé il diritto interno ed i suoi paradigmi consolidati, fino a toccare lo stesso principio di legalità formale che da sempre ispira il nostro diritto penale”.[12]
La complicata alchimia tra diritto giurisprudenziale di matrice europea e diritto vivente interno deve essere sostenuta da forme espressive che restituiscano un’interpretazione chiara, precisa, che delimiti il “campo di gioco”, senza allargarne inutilmente i confini, creando incertezze.
Per quanto riguarda l’ambito penale, rilevanti considerazioni sul ruolo della Cassazione e delle Sezioni Unite di creazione di un “precedente autorevole”, sono state svolte in una sentenza della Quinta Sezione Penale della Cassazione (la sentenza Sez. 5, n. 1757 del 17/12/2020, dep. 2021, Lombardo, Rv. 280326) che, decidendo della critica mossa dalla Procura Generale della Cassazione alla pronuncia delle Sezioni Unite Cavallo del 2019 in materia di intercettazioni[13], aderendo all’impostazione delle Sezioni Unite, ha ricordato come, in uno Stato di diritto il valore della prevedibilità della giurisprudenza è “condizione essenziale della fiducia dei consociati nel sistema giudiziario”, sottolineando con forza il potere del massimo collegio di legittimità di enunciare il principio di diritto ex art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen. e la possibilità di definirne gli esatti confini, secondo un'ottica di razionalizzazione sistematica in funzione nomofilattica, sensibile alle possibili connessioni ed implicazioni anche in relazione a profili non specificamente devoluti, così che la regola enucleata possa essere esauriente e fungere da guida per orientare in maniera certa e, quindi, prevedibile, le future decisioni.[14]
Andando poi a ricercare specificamente un modello di sentenza completa, complessa e sintetica al tempo stesso, nel ricco catalogo delle pronunce delle Sezioni Unite, ritroviamo esempi paradigmatici di come, pur dovendo risolvere una questione interpretativa controversa, ed essendo, pertanto, sicuramente connotate le decisioni da un intrinseco ed ineludibile grado di complessità, le Sezioni Unite riescano spesso ad esprimere al meglio le aspirazioni di un linguaggio motivazionale scevro da inutili orpelli, preciso ed elegante, moderno ed efficace.
Ma non vi è dubbio che “costa fatica lo stile laconico, dove ogni parola designi qualcosa e le frasi sfilino a maglie strette”.[15]
Di recente è stata evidenziata, tuttavia, una certa difficoltà diffusa della Suprema Corte ad esprimere orientamenti uniformi e stabili, ricollegandola sia all’eccessivo numero dei ricorsi, sia, con un auspicabile realismo autocritico, anche a “ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito”[16] e, di conseguenza, incidono anche su quelle del giudice di legittimità; si sono, poi, condivisibilmente stigmatizzati quei modi di espressione del linguaggio giuridico che portano alla stesura di sentenze “travestite” di forme dottrinarie o zeppe di divagazioni storico-giudiziarie, sovrabbondanti rispetto alla funzione della pronuncia di giustizia, tanto da tradirne la funzione ed essere dannose per la chiarezza della decisione.
Una simile critica non si estende, ovviamente, al lavoro intellettuale che deve precedere la redazione della sentenza, che ben può e deve essere pieno di stimoli di studio, di proficui dubbi e di ampi approfondimenti, per approdare ad una decisione quanto più possibile corretta, perché “giustificata” dalla cornice normativa ed interpretativa di riferimento, attentamente e sapientemente conosciuta.
Ma il messaggio finale che arriva dalla sentenza deve essere chiaro, diretto, intellegibile, magari complesso, se la soluzione della questione o il processo lo richiedono, giammai inutilmente complicato.
Vanno evitate, in altre parole, le narrazioni superflue o sovrabbondanti, o con analisi giuridiche astratte, dal taglio solo speculativo, non strettamente funzionale alla risoluzione della questione sottoposta al giudice.
5. Gli interventi possibili
Gli obiettivi che la Relazione programmatica del Primo Presidente pone sul fronte del rinnovamento della tecnica motivazionale delle sentenze, ispirata a sintesi e chiarezza, non sono, dunque, inediti; tuttavia, si rivelano comunque ambiziosi poiché estesi al campo della struttura argomentativa in generale.
La potenzialità del richiamo, poi, sta proprio nel fatto di essere stato inserito in un documento progettuale, programmatico ed organizzativo.
Si tratta di obiettivi che sono frutto di un percorso maturato negli anni dalla Corte di cassazione unitariamente e che presuppongono un cambio di mentalità nella magistratura, un rinnovamento culturale che, tuttavia, non può partire dalle sole spinte individuali, ma deve coinvolgere le strutture organizzative degli uffici e gli organi del governo autonomo, primo tra tutti il CSM.
Si è detto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha già preso atto dell’esigenza di fornire nuove indicazioni, soprattutto con la delibera del 20 giugno 2018, tenuto conto che la capacità di sintesi – ragionando in termini di valutazione di professionalità e secondo la circolare consiliare che regola la materia - è uno degli indicatori che compongono il parametro della “capacità” in generale. Sia nella circolare regolatrice, che nelle delibere attuative si afferma, infatti, quanto alla tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari, che, ferma restando l’assoluta libertà di decisione e di contenuto, il modello di giudice “contemporaneo” deve essere improntato all’assenza di ogni autoreferenzialità.
Ecco che, anche in un contesto fondamentale quale è quello della verifica di professionalità dei magistrati, tornano i nuovi orizzonti ai quali deve guardare la motivazione “rinnovata”: la tecnica redazionale delle sentenze andrà apprezzata tenendo conto degli indicatori della “chiarezza, completezza espositiva e capacità di sintesi nella redazione dei provvedimenti giudiziari, in relazione ai presupposti di fatto e di diritto”, nonché della sua congruità rispetto ai problemi processuali o investigativi affrontati. Come è stato sottolineato, la sentenza trattato, dal contenuto per molta parte eccessivo e svincolato rispetto alle questioni che devono essere risolte non è una buona sentenza ai fini della valutazione di professionalità e non lo è neppure per il conseguimento delle funzioni di legittimità alle quali storicamente è legata[17].
Ovviamente, la complessità delle questioni da risolvere, tenuto conto anche della tipologia dei processi e della qualità/quantità dei motivi di ricorso che compongono ciascuna impugnazione, può impedire in molti casi la “brevità”, carattere che non corrisponde necessariamente alla sinteticità né è essenziale alla chiarezza, ma che deve essere senza dubbio la cifra tipizzante di quelle motivazioni di provvedimenti estremamente seriali ovvero delle sentenze della Settima Sezione Penale, deputata alla declaratoria delle inammissibilità di immediata percezione, alle condizioni normative dettate dall’art. 610 c.p.p.
La “concisione”, d’altra parte, come è stato acutamente sottolineato[18], “non deve essere intesa in senso quantitativo” ma “in un’accezione diversa, quale dovere etico-professionale di evitare apparati motivazionali che si disperdano in dotte argomentazioni di diritto, verso le quali talora il giudice indugia assecondando una tradizione tipica di un atteggiamento culturale di stampo pseudo-accademico, in passato incentivato da un sistema legale di cooptazione dei giudici ai gradi più elevati della magistratura, fondato sulla valutazione dei titoli.”
I magistrati, pertanto, possono già da tempo contare, per indirizzare il loro lavoro al meglio, su indicazioni di normativa secondaria (presenti sin dalla prima circolare emanata successivamente alla riforma ordinamentale attuata con la legge n. 111 del 2007), che, partendo dal momento fondamentale della verifica, aprono chiaramente gli spazi ad una nuova modernità motivazionale.
Spunti significativi, per farsi guidare culturalmente e professionalmente in questa nuova direzione, provengono anche, in special modo per i giudici di legittimità, dalla struttura dell’organizzazione tabellare della Corte di cassazione prevista per il triennio 2020 – 2022, se solo si richiama, tra gli indicatori della specifica attitudine richiesta per entrare a far parte delle Sezioni Unite, la capacità di individuare e risolvere, con chiarezza, pertinenza e sinteticità, le questioni giuridiche rilevanti ai fini della decisione e di inquadrare i singoli istituti nel sistema.[19]
Una linea di azione concreta, poi, sembra manifestarsi recentemente da parte della dirigenza della Suprema Corte: riunioni tematiche sono state indette dal Presidente Aggiunto con delega al settore penale, per le prime settimane di luglio 2021, con tutti i magistrati di ciascuna Sezione Penale, aventi come primo punto all’ordine del giorno, la questione della motivazione dei provvedimenti giudiziari, per come sinora intesa, e le iniziative assunte in collaborazione con la formazione decentrata della Suprema Corte sul tema, anche tramite la predisposizione di un questionario apposito. Una rinnovata attenzione è stata anticipata, nelle riunioni organizzative alle quali si è fatto cenno, anche per quei provvedimenti per i quali è possibile motivare in forma “semplificata”, con la possibilità di predisporre “format” di modelli virtuosi di motivazioni brevi per la Settima Sezione Penale.
Organizzazione, formazione, confronto delle idee tra magistrati e dirigenza della Corte - ovviamente con i Presidenti di Sezione, che fungono da indispensabile “cerniera culturale” con i consiglieri, coinvolti nel percorso virtuoso - possono provare ad innescare un nuovo modo di “pensare la sentenza” e, naturalmente, di motivarla.
Si vuole segnalare, tuttavia, l’ulteriore prospettiva, anch’essa per nulla inedita e, anzi, molte volte al centro delle azioni del CSM e della Prima Presidenza, della quale si è già anticipata l’importanza fondamentale: la necessità di coinvolgere gli avvocati nel percorso di emersione di un nuovo linguaggio giuridico e di una rinnovata tecnica redazionale degli atti giudiziari tutti, non soltanto le decisioni dei giudici ma anche le impugnazioni e, ovviamente, per quel che qui interessa, massimamente i ricorsi.
Anche su tale argomento la Relazione al programma di gestione 2021 ha il pregio di aver sottolineato, molto esplicitamente ed in un documento organizzativo, una base per il futuro, possibile agire: il richiamo alla necessità che l’Avvocatura partecipi pienamente a questo rinnovamento culturale è forte e l’obiettivo del coinvolgimento virtuoso deve essere perseguito mediante l’apertura al dibattito franco tra tutti gli attori del processo di legittimità, soprattutto in un sistema, quale quello italiano, in cui l’accesso alla Suprema Corte non è riservato, come in altri Paesi europei, ad una quota di avvocati altamente specializzati.
In una logica di complessiva tenuta del “sistema giustizia integrato”, è indispensabile ricordare all’Avvocatura i suoi doveri di contribuire alla crescita dei livelli di tutela dei diritti attraverso la riduzione dei tempi della giurisdizione, certamente negativamente incisi da atti di impugnazione composti con scarsa chiarezza e sinteticità, spesso inusitatamente ed inutilmente lunghi, con grave danno proprio della parte difesa (la trattazione prolissa indebolisce l’efficacia dell’atto, sottolinea il par. 11.2. della Relazione del Primo Presidente).
Ben vengano, dunque, Protocolli d’intesa con Procura Generale e Avvocatura[20] per regolamentare la tecnica redazionale degli atti di impugnazione e dei ricorsi, in un’ottica non certo di controllo occhiuto ma di contributo paritario alla ricerca di nuove prospettive in vista della condivisa razionalizzazione e semplificazione delle procedure, per recuperare la centralità della dimensione del tempo - fondamentale nella vita di ciascuna persona e delle istituzioni - e poter ritagliare nuovi spazi per fornire adeguata risposta a nuovi diritti e a nuove domande di giustizia espresse da un corpo sociale in rapida trasformazione, a ricostruire con rigore e coerenza metodologica il complesso sistema delle fonti e dei principi espressi anche a livello sovranazionale, così da restituire nuova vitalità e autorevolezza al diritto vivente (così, ancora la “Relazione”).
E sarebbe auspicabile anche un intervento legislativo, che potrebbe tradursi nell’adozione di una norma, per il giudizio di legittimità, simile a quella contenuta nell’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo, con la quale si è cristallizzato il principio secondo cui “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Non ci si illude sulla portata precettiva di una simile previsione di ordine generale, ma, forse con un pizzico di ottimismo, sarebbe possibile immaginarla come il primo tassello, condiviso ed esplicito, di un moderno impegno di tutti gli attori del processo a perseguire l’obiettivo di un nuovo linguaggio giuridico che porti alla redazione di ricorsi snelli ed efficaci, calibrati sul sindacato consentito alla Cassazione, ed alla redazione di sentenze chiare e precise, capaci di fornire alle parti coinvolte le ragioni della decisione in modo immediatamente leggibile.
6. “Stereotipi e vecchi merletti”
Non si può non toccare, alla fine di questa analisi, quello che è stato anche il suo punto di partenza, solo accennato; il punto che è stato definito come il più significativo ed innovativo della Relazione al Programma di gestione 2021[21]: il monito ad evitare l’uso di “stereotipi”, principalmente di quelli di genere, ancora presenti nel linguaggio dei provvedimenti giudiziari e la necessità di un loro superamento. Un tema, come si dirà, tutto culturale, in cui evoluzione e miglioramenti sono legati soprattutto ad un cambio di passo nel campo della formazione.
Vale la pena ripercorrere i passaggi principali della Relazione al Programma di gestione 2021 della Cassazione, contenuti nel par. 11.4., sottolineandone l’aspetto di novità, poiché effettivamente si tratta di un tema che viene affrontato per la prima volta, in maniera così esplicita, in un documento organizzativo della Suprema Corte.
Di indubbia importanza la premessa secondo cui lingua e pensiero formano un’endiadi i cui due termini di composizione si condizionano vicendevolmente: il linguaggio comunica e rappresenta una “visione del mondo”, ma, al tempo stesso, “ce la impone”.
Il linguaggio, nel documento organizzativo, è concepito come un simbolo dei valori di riferimento individuali e collettivi di una società in un determinato periodo storico, che li rispecchia e contemporaneamente concorre a determinarli. Per questo, diventa “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate,… sulla loro “permeabilità” ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con specifico riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.
Parole chiare, che indicano la volontà di percorrere immediatamente una prospettiva di crescita su questo fronte per la magistratura tutta, prima ancora che per la Corte di cassazione, già attenta da anni al tema della scrittura “politicamente corretta” nell’uso di un linguaggio “di genere”.
Parole che segnano il passo anche rispetto alle recenti censure ricevute dall’Italia sul punto.
Il Rapporto GREVIO del 13 gennaio 2020, stilato il 15 novembre 2019, costituisce un documento di analisi completa sul tema dei reati “di genere” in Italia e, se da un lato prende atto di progressi compiuti dal nostro Paese nella promozione dei diritti delle donne, contiene una parte dedicata ad esprimere la preoccupazione per una riemergente tendenza a reinterpretare ed incentrare le politiche di uguaglianza di genere in termini di politiche riguardanti la famiglia e la maternità[22], individuando il persistere in Italia di stereotipi di genere negativi – frutto certamente, possiamo dire, di retaggi vecchi e inattuali, tuttavia ancora sedimentati nel tessuto sociale - e segnalando criticità interpretative riferite proprio al processo e ad i suoi attori[23].
Una particolare attenzione il Rapporto dedica alla necessità, dunque, di sensibilizzare ed educare la società, attraverso anzitutto la formazione specifica delle figure professionali operative sul tema della violenza di genere e contro le donne – anzitutto forze di polizia e magistratura – ed inoltre interventi programmatici dedicati, in ogni ambito, finalizzati a promuovere un cambiamento degli schemi di comportamento sociali e culturali sessisti, basati sull’idea dell’inferiorità delle donne.
Si è già avuto modo di sottolineare[24], per questo, come ciò che si chiede è un cambiamento anzitutto culturale nell’approccio alla violenza di genere e, si aggiunge, la piena libertà da pregiudizi; un cambiamento che deve essere il presupposto per evitare anche (nuove) cadute in punto di lessico giudiziario.
Recente l’eco di un inciampo, accompagnato da molto clamore mediatico, della giustizia penale sul tema.
Ci si riferisce alla sentenza della Corte EDU J.L. c. Italia del 27 maggio 2021, decisione con la quale la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a seguito dell’emissione, da parte della Corte d’Appello di Firenze, di una sentenza di assoluzione di taluni imputati da un’accusa di stupro di gruppo[25].
Il cuore della critica dei giudici europei (che invece non rilevano violazioni nella conduzione del processo) si rivolge proprio al tenore della motivazione della sentenza d’appello, ai passaggi dedicati a particolari intimi e personalissimi della vita della persona che aveva denunciato, valutati come superflui, privi di effettivo rilievo rispetto allo scopo di sostenere la decisione e finanche specchio di un “pregiudizio” negativo su specifici atteggiamenti sessuali della donna.[26]
Secondo la Corte EDU la credibilità della vittima era stata già “smontata” sulla base di numerose altre condizioni oggettive agli atti, sicchè i tratti argomentativi stigmatizzati erano inutili e costituiscono una violazione dell’art. 8 CEDU, un’ingiustificata interferenza nella sua sfera privata, una inaccettabile “vittimizzazione secondaria”, attraverso l’utilizzo di un linguaggio “culpabilisants et moralisateurs propres à décourager la confiance des victimes dans la justice”.
Richiamando il Rapporto GREVIO, valutando positivamente anche il quadro normativo italiano sulla questione, i giudici di Strasburgo sembrano puntare il dito proprio sulla mancata evoluzione culturale della società italiana, leggibile anche attraverso la riproduzione di stereotipi nelle decisioni giudiziarie.
Ebbene, al netto delle enfatizzazioni critiche alla sentenza d’appello fiorentina nei commenti che si sono moltiplicati sulla pronuncia della Corte EDU, non vi è dubbio che la vicenda appare paradigmatica dell’urgente necessità di rivedere le modalità di redazione delle motivazioni giudiziarie, nel senso di ricercare quella sintesi e chiarezza, capisaldi della sentenza “contemporanea” con la conseguente eliminazione dei passaggi superflui, inutili, che nulla aggiungono ad una valutazione già pienamente spiegata ovvero alla ratio decidendi. Probabilmente, applicando il famoso criterio di derivazione architettonica less is more, la motivazione dei giudici fiorentini avrebbe potuto evitare alcuni più criticati passaggi.
Vi è da dire, sul tema specifico focalizzato dalla sentenza J.L. c. Italia, che la Cassazione ha spesso ammonito circa il fatto che i costumi sessuali della vittima di reati sessuali sono ininfluenti sulla sua credibilità e non possono costituire argomento di prova per l'esistenza, reale o putativa, del suo consenso (Cass. Sez. 3, n. 46464 del 9/6/2017, F, Rv. 271124).
Nondimeno, deve essere ricordato (e in tal senso si muove la giurisprudenza richiamata) che lo stesso legislatore ha previsto, all’art. 472, comma 3-bis, c.p.p., l’inammissibilità di domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se esse non sono necessarie alla ricostruzione del fatto, a contrario ammettendole qualora siano indispensabile all’accertamento giudiziale sulla responsabilità dell’imputato.
Il problema, pertanto, è ancora una volta quello di ricercare un delicato equilibrio tra le esigenze contrapposte di vittima e accusato, e naturalmente si propone soprattutto in relazione alle modalità di redazione delle sentenze di merito, nelle quali “vive” concretamente l’indubbia esigenza, propria del processo penale, di verificare credibilità ed attendibilità della vittima che sia anche persona offesa, ancor più se costituita parte civile[27], determinando la possibilità di riferimenti alle sue condizioni soggettive ed a particolari di fatto emersi nell’istruttoria dibattimentale.
Rimane, tuttavia, la questione presupposta, e fondamentale, della necessità di sradicare stereotipi e pregiudizi dal linguaggio dei provvedimenti giudiziari, siano quelli di genere[28] o quelli legati alla provenienza sociale o, peggio ancora, all’appartenenza a gruppi di origine colpiti tuttora da clichè negativi di derivazione “etnica” (Rom, Sinti, “migranti” in genere), spesso frutto di semplici disattenzioni lessicali o solo di poca sensibilità alle “parole”,[29] ma che propongono, invece, un’immagine culturale della magistratura non all’altezza di promuovere sempre al meglio quei valori di eguaglianza contenuti nella Costituzione.
Il problema del lessico contenente stereotipi è così ampio che un’esemplificazione delle molteplici sfaccettature, alle quali si potrebbero riferire altrettanti esempi negativi o positivi, non ne esaurirebbe neppure le diverse categorie concettuali.
Lo stresso legame tra stereotipo e pregiudizio (che del primo costituisce il momento valutativo), poi, si colora di significati differenti secondo l’ambito applicativo.
Il richiamo del documento programmatico del Primo Presidente, dunque, deve essere letto, prima ancora che come una preoccupazione organizzativa per la “qualità” del prodotto giurisdizionale, come un appello ai valori profondi che devono guidare il giudice e tutti i giuristi nella scelta del loro linguaggio, mai “neutro” perché destinato ad incidere pur sempre, con diversità di accenti, più o meno rilevanti e drammatici, sulla vita individuale di coloro i quali sono coinvolti nel processo.
[1] Dal capitolo Cominciare e finire, che avrebbe dovuto rappresentare la lezione introduttiva del ciclo che Calvino scrisse quasi del tutto, ma non riuscì mai a compiere all’Università di Harvard, per l’improvvisa morte.
[2] Per un saggio ricognitivo anche di molte esemplificazioni interessanti, M.V. Dell’Anna, In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua della sentenza in Italia, Cesati, 2017 ed anche N. Triggiani, “In nome del popolo italiano? Spunti di riflessione sul linguaggio della sentenza penale, in Diritto Penale Contemporaneo, Rivista online, 4 novembre 2016: l’Autore compie anche un utile percorso storico sull’abitudine all’eccesso verbale dei giuristi (citando Cordero) e offre una ricca biografia di approfondimento sulle numerose implicazioni della questione relativa al linguaggio delle sentenze.
[3] I decreti sono stati emanati dal Presidente Canzio.
[4] Le Sezioni Unite civili e penali della Corte di cassazione (con le sentenze Sez. U Civili n. 642/2015 e n. 964/2017, nonchè Sez. U Penali, n. 40516/2016, par. 9) hanno sancito che i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono principi generali del diritto processuale.
[5] I dati sono tratti dall’analisi statistica riportata nel programma di gestione del Primo Presidente per l’anno 2021, riferita al periodo dal 2016 al 2020.
[6] Così A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffrè, 2021. Sulla funzione extraprocessuale ed endoprocessuale della motivazione della sentenza penale cfr., tra gli altri, E. Amodio, Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir. Vo. XXVII, Giuffrè, 1977. In generale, per il dibattito sui contenuti della sentenza, in particolare di quella penale cui si rivolge principalmente la presente riflessione, cfr. G. Della Monica, Contributo allo studio della motivazione, Padova, 2002; M. Menna, La motivazione del giudizio penale, Napoli, 2000¸ M. Vogliotti, La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiavario ed E. Marzaduri, Atti del procedimento penale. Forma e struttura, coordinato da E. Marzaduri, Torino, 1996.
[7] Per un approfondimento recente, sia consentito il richiamo a M. Brancaccio-V. Manes-L.Pistorelli, Il giudice Interprete o legislatore? Matilde Brancaccio intervista Vittorio Manes e Luca Pistorelli, in questa Rivista, 13 gennaio 2021, nonché in Cassazione Penale n. 4/2021, p.1153 e ss.; nonchè a: A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017; M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, 2018; F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017.
[8] Per un’analisi della valenza della nuova norma, si rimanda, per tutti, a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018; nonché a G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, in Dir. Pen. Cont., 4 febbraio 2019.
Quanto all’ambito di operatività della nuova disposizione prevista dall’art. 618, comma 1 bis, c.p.p., le Sezioni Unite hanno immediatamente chiarito come essa introduca, al fine di rafforzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, un'ipotesi di rimessione obbligatoria alle sezioni unite, che trova applicazione anche con riferimento alle decisioni intervenute precedentemente all'entrata in vigore della nuova disposizione: così Sez. U, n. 36072 del 19/4/2018, Botticelli, Rv. 273549.
[9] La “certezza del diritto” dei nostri tempi, naturalmente, non è quella fideisticamente presupposta dalle dottrine giuridiche del Settecento o dell’Ottocento, bensì un’aspirazione a governare la complessità della molteplicità delle fonti “creatrici” del diritto vivente.
[10] Sul concetto di “prevedibilità” e le sue criticità, anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si richiama la motivazione della sentenza delle Sezioni Unite Penali, Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054, un esempio di chiarezza argomentativa che fa luce su una questione senza dubbio con plurimi spunti di complessità.
[11] In questa direzione sembrano muoversi anche i commenti della classe forense alla nuova cultura del precedente dalla vincolatività soft, creato con l’introduzione dell’art. 618-bis c.p.; così C. Intrieri, Il principio di legalità, l’efficienza dell’amministrazione e il diritto di difesa: l’avvocato e la gestione della giustizia, in questa Rivista, 2 luglio 2021.
[12] Così, ancora, M. Brancaccio-V. Manes-L.Pistorelli, op. cit
[13] Si tratta della sentenza delle Sezioni Unite Penali Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395.
[14] La sentenza - commentata, in Diritto Penale e Processo, fasc. 5/2021, da A. Innocenti ed in Sistema Penale, 27.1.2021, da D. Albanese - è utile anche a comprendere come la sintesi possa costituire un volano alla chiarezza delle affermazioni, anche quando le questioni sono particolarmente complesse.
[15] Così, F. CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano, 2012, p. 1015, il quale osserva ancora criticamente come le “massime” della Cassazione generino un enorme circuito letterario, “comodo” al “discorso ornato e relativa bella figura” e possibilità di comporre senza limiti sempre nuove motivazioni.
[16] La lucida analisi si ritrova in A. Costanzo, Deontologia ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario, in questa Rivista, 19 aprile 2021.
[17] In tal senso, P. Serrao d’Aquino, Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda, in questa Rivista, 23.9.2020.
[18] F. RIGO, La sentenza, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. 4, tomo 2, Giudizio. Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, a cura di G. SPANGHER, Torino, 2009, p. 695; l’Autore sottolinea come l’estensione della motivazione della sentenza dipenda caso per caso dalla complessità della fattispecie processuale, dall’ampiezza dell’istruzione dibattimentale, dalla quantità degli elementi di prova dedotti dalle parti e delle questioni, in fatto e in diritto, che il giudice è chiamato a risolvere.
[19] In tal senso si esprime il par. 22.5 nell’ambito del punto dedicato ai Criteri per l’assegnazione alle Sezioni Unite Civili e Penali. Del resto, la precedente previsione tabellare, valida per il triennio 2017-2019, prescriveva, nell’analogo par. 19, che l’attitudine a comporre le Sezioni Unite dovesse ricavarsi anche dalla qualità delle motivazioni redatte, con particolare riferimento alla chiarezza, alla concisione ed alla forza degli argomenti.
[20] Lo scetticismo che accompagna spesso la reale utilità dei Protocolli è legato, soprattutto, alla loro valenza prevalentemente di moral suasion, si tratta di indicazioni di soft law che necessitano, per il loro successo, di una condivisione profonda da parte delle componenti che sottoscrivono il Protocollo e che funzionano solo se si mette in moto un meccanismo virtuoso di reciproca crescita culturale.
[21] In tal senso si orienta M. Dell’Utri, nel suo lavoro, ricco di riferimenti biografici per approfondire il tema specifico degli stereotipi e dei pregiudizi “di genere”, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, pubblicato su questa Rivista il 16 giugno 2021. Dello stesso Autore, vedi anche Lessico di genere, intervista a S. Governatori, M.R. Marella, E. Resta, C. Robustelli, J. Visconti, in questa Rivista 20 gennaio 2020.
In generale, deve concordarsi sulla considerazione che rappresentano tuttora scritti tra i più rilevanti, per i contenuti del concetto di “stereotype” socio-psicologico, introdotto da Lippmann nel 1922, la sua opera W. Lippmann, Public Opinion, New York, 1922, e, per gli stereotipi giuridici, la pubblicazione di Rebecca Cook e Simone Cusack, Gender Stereotyping: Transnational Legal Perspectives (Philadelphia, 2010), in cui si conia la seguente nozione di gender stereotypes: tutte le costruzioni sociali e culturali che distinguono uomini e donne sulla base di criteri fisici, biologici, sessuali e delle loro funzioni sociali.
[22] Un accenno va fatto, in proposito, al disegno di legge Pillon (DDL 735/2018), aspramente criticato sia a livello politico che in dottrina, nonché al tema della Sindrome da Alienazione Parentale, meglio nota come PAS, la cui applicazione nelle cause civili di separazione e divorzio, in tema di affidamento dei minori, è stata più volte stigmatizzata dalla Cassazione – da ultimo nella sentenza Cass. civ. n. 1321 del 17 maggio 2021, con commento di A. Enrichens, Sindrome di alienazione parentale, vittimizzazione secondaria e stereotipi di genere nel processo, in Questione Giustizia del 11 giugno 2021.
[23] Il GREVIO è un organismo indipendente di controllo, con il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, composto da un Gruppo di esperti ed esperte.
Per un’analisi più approfondita e generale dell’interessante documento, si rimanda a M. Brancaccio, Atti persecutori (profili sostanziali), in Diritto penale della famiglia, a cura di G. Fidelbo, Giappichelli, 2021, p. 657 e ss. e, più specificamente sul tema delle criticità nel processo, a M. Dell’Utri, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, op. cit., par. 5.
[24] M. Brancaccio, Atti persecutori, op. cit. p. 663
[25] Per una rapida ed approfondita analisi della sentenza della Corte EDU e di alcune pronunce della giurisprudenza italiana in tema, cfr. ancora M. Dell’Utri, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, op. cit.; cfr. anche R. Sanlorenzo La vittima ed il suo Giudice, in Questione Giustizia del 2 giugno 2021.
[26] Tra i particolari “inutili” e “dannosi” secondo la Corte EDU: gli indumenti intimi di colore rosso indossati dalla ragazza, la sua bisessualità, i rapporti sessuali occasionali da lei intrattenuti con alcuni coetanei, la scelta di prendere parte a un cortometraggio nel quale impersonava una prostituta vittima di violenza sessuale; tra i “pregiudizi” riferiti al suo stile di vita: la definizione del suo orientamento sessuale come «ambiguo» e la definizione della sua condotta di vita precedente alla scelta di denunciare come «non lineare».
[27] Esigenza scolpita, oramai, dall’arresto indiscusso di Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214, che ha sancito le condizioni di equilibrio tra la necessità di tutela della vittima di un reato che denunci e quelle di garanzia processuale dell’imputato, evidenziando la necessità di un’attenzione massima da parte del giudice nella valutazione delle dichiarazioni del teste “interessato”, pur senza che si ricorra al canone dei “riscontri” ex art. 192, comma 3, c.p.p.
[28] Può essere letta in un’ottica “di genere” la questione della considerazione della gelosia uomo-donna, se sussumibile o meno, ed a quali condizioni, nell’aggravante dei futili motivi. In proposito, Sez. 5, n. 44319 del 21/5/2019, M., Rv. 276962 ha auspicato il superamento di logiche interpretative, frutto di retaggi culturali e pregiudizi, sulla base delle quali la gelosia veniva considerata ragione e movente dell’agire, incompatibile con l’aggravante dei futili motivi poiché manifestazione di uno stato passionale frequentemente alla base di delitti (Sez. 1, n. 1574 del 1/12/1969, dep. 1970, Portelli, Rv. 114590), quasi fosse questa una “giustificazione” comprensibile della determinazione delittuosa.
[29] Viene da citare, in proposito, Michele Apicella, il protagonista del film Palombella Rossa, che Nanni Moretti rende autore del celebrato monologo sull’importanza delle parole: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti” ammonisce il regista.
Spigolando sulle riforme in materia tributaria e sulle proposte della Commissione Della Cananea.
1)Alberto Marcheselli. Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria.
Giustizia insieme dedica una serie di approfondimenti al tema della riforma tributaria in cantiere nella prospettiva, consueta per la Rivista, di offrire riflessioni plurali dando voce all’Accademia, all’Avvocatura ed alla Magistratura.
Comincia, oggi, Alberto Marcheselli, Avvocato e ordinario di diritto tributario presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Genova sull’assetto della giurisdizione tributaria, al quale si affiancheranno, con cadenza periodica, gli interventi di Francesco Pistolesi, Avvocato e ordinario di diritto tributario nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Siena sulle modifiche di natura processuale, Luigi Salvato, Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione, sul ricorso per Cassazione nell’interesse della legge, Carlo Vittorio Giabardo, Ricercatore “Juan de la Cierva” in Filosofia e Teoria del Diritto presso l’Università di Girona (Spagna) Càtedra de Cultura Juridica e Dottore di Ricerca in Diritto Processuale Civile presso l’Università degli Studi di Torino sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, Roberto Succio, consigliere di cassazione, già avvocato e professore a contratto di diritto tributario nella Università del Piemonte Orientale sulle misure proposte in tema di giudizio di Cassazione, Claudio Consolo, Avvocato, Ordinario di diritto processuale civile dell’Università degli Studi di Roma, componente del Consiglio direttivo della Scuola della magistratura e Raffaello Lupi, Avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sul ruolo della Commissione ministeriale e sulle proposte formulate.
“Ci siamo seduti dalla parte del torto
perché dalla parte della ragione i posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria.
di Alberto Marcheselli
SOMMARIO: 1 Premessa - 2. Le proposte ordinamentali della Commissione tra conservazione, rivoluzione e proporzionata transizione - 3. La crisi della giustizia tributaria e la crisi del diritto tributario - 4. La speciale cultura finanziaria come bussola per gli interventi di riforma - 5. Il quadro materiale di riferimento: processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno? - 6. Ben conoscere per ben provvedere: cosa fa al giudice tributario? - 7. Piccoli aggiustamenti a legislazione invariata per grandi risultati - 8. (segue) distonie a proposito del giudizio di merito - 9. La via processuale: concentrazione e immediatezza vs. sfilacciamento del processo. Proposte concrete - 10. Exitus.
1. Premessa.
L’oggetto di queste modestissime riflessioni è un inquadramento delle proposte di riforma della giustizia tributaria formulate dalla competente Commissione interministeriale.
La struttura del lavoro sarà la seguente.
Una prima parte sarà dedicata all’analisi e al confronto, sintetico, delle proposte della Commissione, con qualche osservazione critica.
Seguirà poi, per il lettore paziente (o venato di masochismo), una analisi - a mio avviso doverosa - del contesto complessivo in cui la riforma dovrebbe andare a inscriversi. Analisi da cui dipende sia l’adeguatezza delle soluzioni adottate in punto giurisdizione, sia una valutazione realistica circa quanti risultati possano essere ottenuti intervenendo solo sulla giurisdizione.
2. Le proposte ordinamentali della Commissione tra conservazione, rivoluzione e proporzionata transizione.
Le proposte avanzate dalla competente Commissione per la riforma della Giustizia tributaria, oltre ai molti ed evidenti meriti, su cui non mi intrattengo, presentano, entrambe, due significative criticità strutturali, a mio modestissimo avviso.
Trovo, infatti, insoddisfacente il mantenimento della organizzazione della giustizia tributaria nell’ambito del Ministero della Economia.
Non si tratta solo di un reliquato storico, della fase in cui le commissioni completavano, quali organi amministrativi, il lavoro del Fisco, assetto del tutto incompatibile con una giurisdizione. Si tratta, soprattutto, di un fattore che viola il principio di (apparenza di) indipendenza del giudice medesimo. Tale frizione non rimane confinata nella dimensione astratta e simbolica, ma si concretizza materialmente, tra l’altro, con la determinazione dei compensi del giudice a cura dello stesso Ministero, la loro liquidazione da parte della Direzione della Agenzia delle Entrate, la sottrazione della disponibilità dei mezzi materiali e personali al controllo del giudice e l’affidamento alla Amministrazione soggetta a controllo giurisdizionale. Il controllato decide sia il quanto, sia il come dei mezzi che serviranno a controllarlo (se ne è avuta una clamorosa ed esemplare dimostrazione nella recente emergenza pandemica, quanto alla disponibilità di strumenti telematici e informatici e, soprattutto, alla asimmetria delle soluzioni proposte).
Reputo, insomma, inaccettabile che il controllore, sia pure solo quanto all’assegnazione di mezzi materiali e personali, dipenda dal controllato. La cosa non è in alcun modo dissimile, se mi si passa la metafora lieve, dall’ipotesi di una giurisdizione lavoristica gestita, materialmente, da Confindustria, pur mantenuta la indipendenza sostanziale dei giudici, o di una giurisdizione divorzile affidata alla gestione materiale delle… mogli. O, per concludere con un esempio più attinente alla materia, a un contenzioso sulle concessioni di un Comune affidato a un giudice – indipendente ma - retribuito e dotato di mezzi determinati e gestiti dal Sindaco.
Le obiezioni a tale considerazione non mi convincono.
Il fatto che una diversa soluzione implichi una complessa questione di trasferimento di personale (e frizioni politico-sindacali) mi pare, a un tempo, un ostacolo non proporzionato e infondato. Non proporzionato, visti i valori (non economici, ma non per questo meno importanti) in gioco. E non del tutto fondato, atteso che, se il problema è lo status attuale del personale delle segreterie (che ha un regime peculiare), ben si può conservarlo transitoriamente anche dopo il passaggio nei ruoli di un’altra amministrazione.
Né, per dirla brutalmente, mi convince l’argomentazione – sottotraccia - che si tratterebbe di un profilo simbolico. È facile obiettare che, se si trattasse di elementi solo simbolici, non si comprenderebbe né la resistenza del Ministero della Economia a privarsene né, e soprattutto, il fatto che la Commissione li abbia ritenuti, invece, rilevanti per lo status del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria. In effetti, tale soluzione compromissoria mi pare sistematicamente anche un poco contraddittoria: se si tratta di elementi che impattano sulla indipendenza forse essi vanno attuati prima di tutto (o, almeno, con altrettanta urgenza) con riguardo allo status del giudice e dell’organo giurisdizionale, e poi con riguardo all’organo di autogoverno.
Giudici ordinari, amministrativi e contabili che svolgono le funzioni tributarie mi hanno talvolta cortesemente obiettato che non avvertono alcun condizionamento: a parte che la loro posizione è, comunque, peculiare e particolarmente solida, sia culturalmente che statutariamente, sta il fatto che il punto nodale è la rappresentazione esterna (l’apparenza di indipendenza), e la giurisdizione tributaria, se si intervista un campione rappresentativo di utenti, non viene percepita come strutturalmente indipendente, ancorché venga universalmente riconosciuta l’indipendenza individuale e sostanziale dei bravi giudici.
Questo profilo appare alla modestia dei miei occhi non negoziabile.
Un secondo punto, critico in un senso diverso, perché su di esso, in realtà, la Commissione ha una posizione unanime, ma non si esprime, salvi miei errori, in proposte precise, concerne il compenso del giudice tributario. Questo, in realtà, è uno degli aspetti decisivi, per garantire sia indipendenza, sia professionalità, altrettanto importante che non le scelte sul meccanismo di selezione e ogni altra considerazione ordinamentale. Il punto andrebbe, credo, messo a fuoco molto più puntualmente: è evidente che ottimi meccanismi di selezione possono fallire l’obiettivo, in concreto, senza adeguata cura di tale profilo. Ed è importante che sul punto sia il legislatore a esprimere principi e criteri direttivi chiari e vincolanti (altrimenti ricadendo nel vizio sopra denunciato, di delega al… controllato).
Ciò posto, le due proposte si differenziano, in estrema sintesi, circa diverso grado di “autonomia” da conferire alle riformate commissioni.
Con una metafora urbanistica, direi che una proposta corrisponde a un intervento di manutenzione straordinaria, l’altra a un intervento di ristrutturazione.
Nella prima ipotesi, si tratta di mantenere una giustizia onoraria, rafforzandone parzialmente la professionalità (nel senso del tecnicismo), nella seconda, di introdurre una giustizia professionale (nel senso lavoristico) e, anche per conseguenza di ciò, tecnicamente specializzata, selezionata per concorso.
I fautori della prima tesi assumono l’esistenza di una ragione giuridica, di una ragione pratica e di una ragione culturale, che starebbero a fondamento di tale soluzione e ostacolerebbero la seconda.
È, quindi, opportuno partire da qui.
La prima ragione, quella giuridica, starebbe nel fatto che anche lo strutturale snaturamento del criterio di selezione contrasterebbe con il divieto di istituzione di un giudice speciale. Passare a un reclutamento per concorso realizzerebbe, in tesi, tale evento. Sul punto mi pare di poter dire che, se è vero che la proposta alternativa modificherebbe profondamente le forme del reclutamento, forse non le stravolgerebbe sotto il profilo sostanziale. Mi pare sostenibile che il limite costituzionale stia più nello stravolgimento dei criteri sostanziali per l’accesso alla giurisdizione, che non nei meccanismi formali. Mi pare che tale sarebbe, per fare un esempio di fantasia, per una ipotetica giurisdizione in materia tecnica, prima riservata agli ingegneri, il passaggio a una selezione di soli giuristi. Nel caso di sostanziale mantenimento dei medesimi titoli di accesso, il mutamento del percorso formale di selezione mi pare corrispondere a un concetto di modifica più debole e formale, che riterrei, abbastanza convintamente, compatibile con il disegno costituzionale (che, forse, sarebbe addirittura più compiutamente realizzato).
L’obiezione di ordine pratico, invece, riposa, sostanzialmente, sulla lentezza della attuazione dei concorsi. Si tratta di una obiezione che coglie pienamente nel segno, ma, a ben vedere, non è un ostacolo - in assoluto - alla diversa soluzione, ma solo la giusta sottolineatura di un necessario e articolato meccanismo preparatorio e transitorio.
L’obiezione di ordine culturale, altrettanto interessante, è quella che si fonda sulla, testualmente, possibile “ghettizzazione” del sapere specialistico tributario, oltre che su rischi di autoreferenzialità e corporativismo. Questi ultimi, per vero, sono immanenti a qualsiasi organizzazione, non importa quale sia il meccanismo di selezione: non mi par dubbio che una certa autoreferenzialità e difesa dell’esistente animi, del tutto sanamente e legittimamente, anche le attuali commissioni, che pure non sono professionali. Sotto il profilo della cultura giuridica, in effetti, tenuto presente che, fino a un certo livello, la specializzazione è un fattore positivo e non negativo, e che, per contro, è certamente sacrosanto il richiamo alla centralità della cultura generale della giurisdizione (che è effettivamente la casa del diritto), un adeguato correttivo potrebbe comunque essere rappresentato dal permanere della funzione apicale della Corte di Cassazione, sulla quale interverrei con molta prudenza, evitando eccessivi irrigidimenti.
Sulla Suprema Corte, che è l’edificio più importante e prezioso della città della giurisdizione, in effetti, è molto difficile pensare di intervenire, a maggior ragione per le mie modestissime e del tutto inadeguate conoscenze, senza alternarne le delicate, ragionate e consolidate simmetrie e architetture. Specializzazione e circolazione, dei saperi e delle esperienze, sono, infatti, valori e indirizzi equiordinati, da preservare religiosamente. Più che radicali modifiche statutarie o meccanismi rigidi, sarebbe, forse, meno impraticabile un intervento incentivante e soffice. Mi viene segnalato, ignoro se la circostanza sia ancora attuale, che, nella mobilità interna alla Suprema Corte, non sempre la Sezione tributaria è l’approdo più desiderato, costituendo, talvolta, un necessitato passaggio, auspicabilmente breve, dalle Sezioni penali alla destinazione finale alle Sezioni Civili. La mobilità, oltre che un sacrosanto diritto individuale, è anche una esperienza arricchente sul piano professionale e culturale, pro quota anche utile all’esercizio della giurisdizione. Ci si potrebbe, però, domandare se non si potrebbe prevedere e rafforzare, ispirandosi a quanto suggerito da una delle due proposte della Commissione, forse già a livello di normativa secondaria, il valore della esperienza nelle commissioni di merito, nella determinazione dei punteggi per l’accesso alla V Sezione, favorendo naturalmente la selezione della vocazione tributaria. Più penetrante e opinabile (e a valere solo pro futuro, per i nuovi accessi) sarebbe, invece, a parziale riequilibrio di tale assunto, intervenire legislativamente, non credo sia possibile in forma secondaria, sulla permanenza minima nella Sezione, che potrebbe essere stabilita in un periodo non breve ma pur sempre proporzionato. La cosa potrebbe giustificarsi, forse, attesa la situazione, ma, per ragioni di equità, sconterebbe il limite di dover valere solo per gli accessi futuri ad essa. Ancora, per completezza di disamina, sarebbe da domandarsi, a salire ulteriormente nella scala degli interventi emergenziali e nei margini di opinabilità (che, invero, mi appaiono cospicui), se sarebbe possibile ipotizzare il riconoscimento di una emergenzialità della situazione adattando il meccanismo già utilizzato per le c.d. sedi disagiate, con una correlazione alla permanenza. In questo caso non si tratterebbe, certamente, di una sede disagiata, trovandoci al vertice della Giurisdizione, ma di un intervento temporaneo di ripristino urgente della efficienza del giusto processo: uno strumento alternativo a un meccanismo condonistico. Si tratta, tuttavia, di esperienze controverse e controvertibili, talvolta adottate nella giurisprudenza amministrativa, a fronte di arretrati emergenziali.
Di estremo interesse trovo, poi, la proposta di introduzione del rinvio pregiudiziale alla Suprema Corte, operato d’ufficio dal giudice di merito. Esso, a differenza del ricorso per saltum, che è sostanzialmente irrealistico, è un potenziale meccanismo di razionalizzazione efficiente della giurisprudenza, specie perché sapientemente correlato, nella proposta, a un filtro all’ingresso.
Sul punto, a mio avviso, occorrerebbe raccordare tale modifica processuale con qualche approfondita e ulteriore riflessione, idonea a migliorare l’efficienza del processo tributario, che, per vero, potrebbero trovare attuazione a legislazione invariata.
Si tratta, di veri e propri nodi strutturali e decisivi per l’efficienza del sistema che, non richiedendo tecnicamente interventi di riforma (o non impattando su riforme ordinamentali) tratterò più avanti, nei paragrafi 7 e 8, rinviando poi al § 9 per qualche intervento normativo ulteriore.
Rimanendo in questa sede all’analisi delle proposte ordinamentali e, in particolare, nel solco della proposta più conservativa, credo che essa potrebbe impreziosirsi con la previsione di un giudizio monocratico per le liti minori, idonea a liberare energie per le liti maggiori e il grado di appello (dove si concentra un'altra componente di arretrato significativo).
Mi sembra poi che, sotto il profilo della professionalità, essa potrebbe essere rafforzata ulteriormente. In proposito, credo dovrebbe valutarsi una estensione ben più ampia nel necessario carattere esclusivo o prevalente dello svolgimento della attività giurisdizionale tributaria (retribuita per i componenti laici dal compenso riformato di cui sopra, in un circuito virtuoso in cui prevalenza e decoro economico rafforzano la professionalità). Dovrebbe prevedersi una accurata determinazione dei carichi di lavoro da parte dell’organo di autogoverno, tenuto conto dei flussi e della geografia giudiziaria e prevedere strumenti flessibili di raccordo. Dovrebbe enfatizzarsi l’obbligo di una formazione continua modulare, non negandosi la ricchezza dell’apporto di professionalità diverse, ma rafforzando il percorso di simmetrico progressivo e continuo arricchimento.
Ancora, reputo che dovrebbe forse prevedersi l’accesso alle funzioni di appello (oltre che transitoriamente per chi già svolga tali funzioni) solo dopo lo svolgimento per un adeguato numero di anni delle funzioni di primo grado (eccettuandone, eventualmente, i magistrati ordinari che abbiano già svolto funzioni nella Sezione tributaria della Suprema Corte). Ciò consentirebbe un utile approccio graduale alla materia tributaria per chi vi si avvicini per la prima volta e l’assoggettamento dei newcomers alla saggia esperienza, anche tecnicamente avvertita e specializzata, del giudice di merito di secondo grado.
Quanto alla proposta più ampia, essa mi sembra, in sintesi, rappresentare un obiettivo alto e ambizioso, che, tenuto conto anche delle osservazioni formulate in questo paragrafo, sarebbe certamente compatibile con il quadro e le esigenze sistematiche, e le realizzerebbe in maniera, per certi versi, probabilmente più compiuta.
A ben vedere, in effetti, non ravviso, però, tra le due proposte una reale e inevitabile contraddizione, ragionando in una prospettiva allargata e sincretica: esse partono da impostazioni sì difformi, su alcuni aspetti anche molto, ma, in realtà, sono meno incompatibili di quanto non sembri a prima vista, se collocate in una prospettiva diacronica.
La proposta più conservativa, specie se affiancata al recepimento di quanto precede e, in sede giurisprudenziale, delle riflessioni che saranno svolte più avanti (nei paragrafi 7 e 8) e, magari, anche al recepimento di qualche accorgimento tra quelli più vicini della proposta più avanzata, potrebbe, in effetti, costituire una più che adeguata soluzione-ponte rispetto all’altra, una soluzione idonea non solo a gestire una trasformazione e il delicato periodo transitorio, ma anche a valorizzare adeguatamente tutte le professionalità acquisite e attualmente operanti.
Si potrebbe, insomma, ipotizzare un percorso riformatore graduale e con tempi di attuazione scanditi in un cronoprogramma progressivo, sulla base di un unico disegno, armonioso e proporzionato, complessivamente idoneo a realizzare al meglio tutti gli obiettivi, senza salti nel buio, ma con profondo coraggio riformatore.
3. La crisi della giustizia tributaria e la crisi del diritto tributario.
Tanto premesso, credo che una scelta riformatrice efficace non possa prescindere dalla considerazione di alcuni aspetti di contesto, così come la cura della malattia di non organo non può prescindere dalla conoscenza dello stato di salute dell’organismo nel suo complesso.
La crisi della giustizia tributaria si apprezza, secondo molti operatori, sotto due profili: a) la durata media dei tre gradi di giudizio, dalla più gran parte degli esperti ritenuta eccessiva; b) la qualità delle decisioni, che la più gran parte degli esperti giudica migliorabile tenuto conto: b1) dell’anomala percentuale di annullamenti di decisioni in sede di legittimità; b2) dal “coefficiente di oscillazione” delle giurisprudenza, anch’esso giudicato dalla maggioranza degli esperti anomalo.
Entrambi questi indici di crisi, che io incidentalmente ritengo un po’ meno gravi di quanto non si affermi diffusamente (ci sono, infatti, molti processi e commissioni assai veloci e l’esito delle impugnazioni è talvolta analizzato frettolosamente) sembrano trovare una ragione concorrente e significativa, innanzitutto, in fattori esterni alla giurisdizione. Questi vanno individuati sia perché possono orientare anche il lavoro sul versante giurisdizionale, sia perché danno informazioni realistiche sulla incisività di interventi limitati al solo settore giurisdizionale.
A questo proposito, si può ben dire che la giustizia tributaria è in crisi (anche e soprattutto perché) è in crisi il diritto tributario.
La qualità del diritto finanziario è gravemente deficitaria e questa è la causa prima e fondamentale del problema, anzi, di un problema che “si scarica” nella sede processuale (sismografo e punto di appoggio finale di tutte le spinte che il sistema produce. La crisi giurisdizionale è solo la punta di un iceberg assai più grande: la inadeguatezza dell’ordinamento tributario italiano rispetto alle sfide della attualità, che comporta una nuova idea di economia ma una sempre uguale esigenza di giustizia.
Ciò dipende da molti fattori, uno dei meno trascurabili dei quali è la prevalenza di un ragionare e progettare regole sulla spinta emergenziale, vera o presunta, della sola contingenza economica, e di pressioni sociali ed elettorali, variamente reali e importanti, ma che richiederebbero una ponderazione meditata e tecnicamente accorta.
In un circolo vizioso globale, tale legislazione qualitativamente povera, figlia di una diffusa ingoranza finanziaria (dalla responsabilità per la quale non possiamo certo sottrarci, per primi, noi accademici) crea un periodico stallo da sovraccarico, al quale, in stato di necessità, si è costretti a rispondere con meccanismi condonistici. Essi, da un lato sono necessitati e inevitabili, ma, dall’altro, oltre che iniqui orizzontalmente sono fattori di un feedback perverso. Nella prospettiva che intervengano, in futuro, costituiscono infatti un evidente incentivo alla lite.
4. La speciale cultura finanziaria come bussola per gli interventi di riforma.
Un diritto incerto rinvia alla fase processuale la ricerca di un un – impossibile - punto di stabilità. La prima patologia si registra già nell’accesso alla giustizia: nella fisiologia l’attuazione del tributo dovrebbe esaurirsi nella fase dell’adempimento spontaneo o amministrativa. Degli atti emessi dalle Agenzie fiscali, invece, 1 su 11 circa viene impugnato davanti al giudice.
Vi è pertanto un primo e importante deficit di cultura politica e giuridica.
Sulla prima non è questa la sede di intrattenersi, atteso che non impatta sul lavoro del giudice.
Sulla seconda, invece, si.
Non mi stancherò mai di ripetere in proposito, umilmente ma testardamente, che non è sufficientemente colto il fatto che il diritto tributario sostanziale (e non, come invece spesso si afferma, quello procedimentale o punitivo, che si sovrappongono al diritto amministrativo o penale) richiede una cultura speciale, perché è una materia, sì derivata, ma autonoma.
Tralasciando tutti i sofismi dottrinari e teorici, mi par pacifico che il diritto e il giudizio tributario hanno ad oggetto una obbligazione da accertare in esito a un complesso esercizio di poteri autoritativi, inquadrati in una articolata serie procedimentale. È materia che non coincide e non è neppure assimilabile, allora e innanzitutto, né alla materia civilistica, né a quella amministrativistica, né alla contabilità di Stato.
Non si tratta di relazione tra parti creditorie e debitorie in posizione paritaria (vi è un creditore autoritativo procedente in via amministrativa) e la logica che preesiste e regola l’obbligazione non è quella negoziale e sinallagmatica, ma quella della misurazione della ricchezza, nelle sue svariate forme. Orientarsi nella obbligazione tributaria richiede un articolato complesso di conoscenze che sono completamente estranee alla formazione sia del giurista generalista, sia del civilista, sia dell’amministrativista, sia del cultore della contabilità di Stato. Definire, misurare e gestire l’obbligazione tributaria implica conoscere i fondamenti della economia aziendale, orientarsi con sicurezza nei temi correlati alle tecniche contabili e valutazioni di bilancio, e cogliere una dogmatica estranea alle altre materie (è necessaria la sicura percezione di simmetrie concettuali che non vi sono in nessun altro campo del diritto, si pensi alla sempre fraintesa simmetria costi-ricavi, al principio della continuità dei valori, la neutralità delle operazioni societarie e via enumerando).
La prima indicazione che ne scaturisce è che per disciplinare il diritto tributario e per la decisione delle controversie tributarie occorre, allora, una cultura speciale, che non si esaurisce, a ben vedere, nella cultura giuridica generalista, propria della giurisdizione ordinaria, e nemmeno si può esaurire nel completo e specialistico dominio delle materie amministrative (o della contabilità di Stato), ma non coincide, neppure, con il dominio delle discipline economiche e aziendalistiche, atteso che richiede il dominio dei temi procedimentali e processuali, applicati a materie commerciali e all’impresa e ricchezza private.
Ne consegue una prima, netta e forte indicazione di metodo (anche) per il problema della giurisdizione: come a monte il legislatore, il giudice tributario – speciale o ordinario sul piano ordinamentale, non importa – deve essere culturalmente speciale, altrimenti il sistema non funzionerà mai.
5. Il quadro materiale di riferimento: processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno?
Altro elemento da valutare è poi quello quantitativo, che parte dal rilievo che i processi tributari sono tantissimi.
È, allora, da domandarsi se, pacifico che, se si processa meno, si può processare meglio, la diminuzione dei processi debba essere lo strumento del miglioramento, o solo un sintomo o un effetto.
La restrizione dell’accesso alla giustizia, oltre un certo limite, può infrangersi con limiti di principio invalicabili e appare, per certi versi, contraddittoria: a incentivare la litigiosità concorrono, in un circolo vizioso, per primi una legislazione sostanziale di pessima qualità e di nessuna stabilità e la mala prassi dei condoni periodici, che determinano una giurisprudenza incerta e, a cascata, un incentivo… alla lite. A fronte di ciò, colui che provoca il danno pretenderebbe di limitarlo… razionando l’accesso ai rimedi.
Del resto, a sbarrare tale soluzione stanno i dati numerici: il processo tributario è utile (una quota assai alta di provvedimenti e di sentenze vengono annullate o riformate). Limitarlo equivarrebbe, con una metafora tragicamente attuale, a decidere che, dato che gli ospedali scoppiano di malati cui viene salvata la vita… bisogna rendere più difficile esservi ricoverati. La soluzione è migliorare la salute pubblica e la medicina territoriale: non rompere la spia rossa che segnala che il motore non funziona.
6. Ben conoscere per ben provvedere: cosa fa il giudice tributario?
Giunti a questo punto, occorre domandarsi cosa deve fare il giudice tributario.
Tale domanda è, insieme, trascurata ma decisiva, doppiamente decisiva.
Decisiva in un primo senso, perché per scegliere quale giudice occorre domandarsi prima a cosa dovrà fare.
Decisiva in un secondo senso, perché malintesi e cattive scelte sotto questo profilo, a ben vedere, sono fattori, trascurati ma evidenti, di moltiplicazione del contenzioso (e quindi cause misconosciute del problema che si tenta di risolvere).
Quanto al primo aspetto, e, cioè, quale debba essere la funzione del giudice tributario, va detto quanto segue.
Da una funzione amministrativa il cui compito precipuo era valutare la ricchezza si è passati a una funzione amministrativa il cui compito precipuo è controllare gli adempimenti dei contribuenti, grazie alla attribuzione di sempre maggiori e necessari poteri.
A tale evoluzione è corrisposta, anche se non sempre avvertita, la evoluzione della funzione del giudice. Nell’era delle stime, le Commissioni tributarie erano organi amministrativi, cui ci si rivolgeva per rivedere o completare l’operazione di valutazione. L’intervento del giudice, ordinario, era solo a valle e con una diversa funzione: al giudice erano precluse proprio le questioni di estimazione della ricchezza.
Tralasciando i passaggi intermedi, è divenuto patrimonio comune della giurisprudenza della Suprema Corte la massima secondo cui la funzione della giurisdizione tributaria è il controllo sul corretto esercizio del potere tributario. L’attuazione dell’art. 53 della Costituzione e dei doveri di solidarietà è affidato, in prima battuta a contribuenti e alla Pubblica Amministrazione, con la attribuzione di rilevanti doveri e poteri, e la giurisdizione tributaria è una sovrana giurisdizione di controllo sull’esercizio di tali poteri. In essa si valuta sia la legittimità che il merito, sia la conformità della serie procedimentale e provvedimentale alla legge, sia la fondatezza della pretesa, ma alla luce dell’esercizio amministrativo del potere: l’oggetto del processo è l’accertamento della legittimità della pretesa in quanto avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati.
È appena il caso di notare che tale assetto, oltre che determinato da (e coerente con) l’evoluzione dell’ordinamento, ha anche un valore prezioso in termini sistematici e costituzionali.
Solo una giurisdizione di controllo è in grado di assicurare un corretto e adeguato esercizio della funzione amministrativa: ove un giudice tributario supplente regredisse alla antica funzione delle Commissioni tributarie (completare la determinazione del tributo) non solo mortificherebbe l’evoluzione storica, non solo regredirebbe alla antica funzione amministrativa, di evidente incompatibilità con l’assetto giurisdizionale del giusto processo (che richiede un giudice indipendente e imparziale e non un giudice che completi la funzione amministrativa di una delle parti in giudizio), ma abdicherebbe, anche, al ruolo di guardiano della Amministrazione (e, attraverso tale prisma, del contribuente), con evidente lesione, indiretta, del principio di imparzialità e buon andamento.
Se un provvedimento amministrativo tributario illegittimo o infondato potesse essere salvato perché integrato in giudizio, la funzione amministrativa potrebbe continuare a essere esercitata in forma patologica, grazie all’improprio paracadute giudiziario: un siffatto giudice sarebbe inadeguato all’evoluzione del sistema giuridico, inadeguato rispetto al modello del giusto processo e inadeguato alla sua funzione di propulsore e garante di una sana ed efficiente amministrazione.
7. Piccoli aggiustamenti a legislazione invariata per grandi risultati.
Quanto al secondo aspetto, e cioè alla affermazione secondo cui malintesi e cattive opzioni creano il problema, mi limito a uno statement generale e a due esempi sperimentali, tra i tanti possibili.
L’affermazione di principio è che, se si pensa che il giudizio tributario sia il luogo in cui si accertano i tributi, si creano le basi per un contenzioso enorme e ingestibile (oltre che sistematicamente distonico, per le ragioni sopra viste).
Quanto agli esempi sperimentali, invece, il primo concerne la non sorvegliata gestione del concetto di onere della prova, vero e proprio fattore processuale teratogeno.
Si possono, infatti, osservare alcuni effetti perversi del non corretto utilizzo del concetto, produttivi di incertezze giurisprudenziali e sproporzionato aumento dei carichi di lavoro giurisdizionale.
Onere della prova è la regola da applicarsi per stabilire chi vince in caso di mancata prova. Profilo completamente diverso è se sia stata raggiunta la prova, se le prove siano state adeguatamente valutate, se di tale valutazione sia data adeguata motivazione.
Se Tizio abbia assolto il suo onere della prova non è affatto un problema di applicazione della relativa regola, ma una questione – di fatto – del tutto a valle (o, al limite, un giudizio sulla sufficienza della motivazione).
Si assiste invece, sempre più frequentemente, alla surrettizia ammissione di tale giudizio in Cassazione, attraverso il passepartout dell’inquadramento nell’onere della prova. Motivi nei quali viene censurata, spessissimo anche dalla Avvocatura dello Stato, la valutazione della prova (profilo inammissibile in toto in Cassazione) ovvero la motivazione sulla prova (la cui ammissibilità andrebbe valutata negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5), vengono travestiti in motivi, di diritto, sulla violazione delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, primario e secondario (o sull’asserita esistenza/inesistenza di un onere della prova contraria).
Ma si tratta di cose evidentemente diverse. Una cosa è dire: in questa causa il giudice ha sbagliato ritenendo che una certa circostanza fosse stata provata. Cosa completamente diversa è dire: mancava la prova ma il giudice ha dato ragione alla parte che ne era “onerata”.
Solo le sentenze che, assunto che la prova manchi, diano ragione alla parte che ne era onerata violano l’onere della prova, e sono sentenze rarissime.
Un atteggiamento non sorvegliato di questo profilo lascia aperta una porta attraverso la quale passano migliaia di cause che potrebbero essere arrestate.
Non solo, in un ulteriore feedback perverso, si tratta di decisioni che, siccome dipendenti dall’esame di circostanze di merito della singola controversia, che sono ovviamente multiformi e infinitamente variabili, attraverso resoconti superficiali nella pubblicistica di bassa qualità, creano una gigantesca massa di decisioni di legittimità apparentemente oscillanti su temi di diritto (quando, invece, non sono altro che decisioni diverse, per fattispecie diverse), che creano una incertezza di ritorno, un “rumore bianco” che funziona da, ulteriore, poderoso moltiplicatore del contenzioso.
8. (segue) distonie teratogene in materia di giudizio di merito
Un altro – a mio umilissimo avviso - fraintendimento tipico è assiso nella trasformazione di una decisione sulla correttezza di un percorso motivazionale in un, completamente diverso, giudizio sull’assetto degli oneri di prova.
Una cosa è dire: nella presente fattispecie la motivazione sulla prova esiste (esempio: poiché la SRL ha evaso e l’utile celato è scomparso e non risulta nessun altro impiego, verosimilmente è stato distribuito ai soci).
Una cosa completamente diversa è dire: se l’ufficio, in qualsiasi causa, porta quel tipo di prova (o, addirittura, afferma certi fatti), è il contribuente a dover dimostrare il contrario, se no il giudice è vincolato.
Operando in tal modo si trasforma – inavvertitatamente ma innegabilmente - un giudizio di fatto sulla singola controversia (il giudice e l’ufficio in questo caso hanno fatto bene) o un giudizio sulla motivazione di una singola controversia (la motivazione è conforme allo standard legale), in una apparente regola di diritto (d’ora in poi tutti i giudici dovranno fare così), che, in effetti, non esiste e a sua volta moltiplica il contenzioso.
Un caso plastico in questo senso lo si ritrova, tra i tanti, a proposito della c.d. presunzione di ripartizione degli utili occulti della società a ristretta base, appena citata. Il ragionamento probatorio secondo cui talvolta, o anche spesso, è irrilevante, dalla natura ristretta della società si possa desumere la ripartizione dell’utile occulto è stato - non correttamente e per effetto di linguaggio non sorvegliato – trasformato, nella prassi, in una apparente regola giuridica, che però non esiste: data la base ristretta, l’utile è distribuito se il contribuente non dimostra il contrario.
Ciò è errato, perché se l’evasione viene provata dal Fisco non è che il contribuente deve provarne l’inesistenza (la mancanza di prova contraria è un di più: si ipotizzi una sentenza che affermi che, se Tizio ha lasciato le sue impronte sul collo della morta e aveva motivo per ucciderla, è colpevole, non risultando nessun altro elemento contrario. In questo caso, si condanna per omicidio perché ci sono movente e impronte, non perché manca …l’alibi).
Ciò è errato e pericoloso, perché trasformare delle sentenze della Cassazione che, semplicemente e correttamente, ritengono le sentenze impugnate adeguatamente fondate (e motivate) sulla prova, in sentenze sulla assenza della prova contraria richiesta da una (inesistente) legge rischia, ponendo troppa enfasi sulla inesistenza della prova contraria, di rovesciare la regola legale (fino all’approdo, assurdo, secondo cui sussiste l’evasione affermata se non se ne prova la insussistenza).
Ciò moltiplica l’arretrato in Cassazione: perché, attraverso il grimaldello della violazione della regola (inesistente) sull’onere di prova contraria, fanno ingresso nel giudizio di legittimità motivi di fatto, che sarebbero inammissibili.
Ciò moltiplica l’arretrato complessivo perché, come sopra si diceva, se si trasformano decisioni diverse di casi diversi in oscillazioni giurisprudenziali, la confusione genera incertezza e l’incertezza alimenta la necessità o propensione alla lite.
9. La via processuale: concentrazione e immediatezza vs. sfilacciamento del processo. Proposte concrete.
Sul piano strettamente processuale, poi, andrebbe sicuramente seguita fino in fondo la strada della concentrazione del processo, codificando il principio dell’onere di avanzare le difese nella prima occasione processuale utile, evitando che tatticismi o inerzie processuali rendano il processo tributario sfilacciato ed inefficiente (due clamorosi difetti, in proposito, sono la ritenuta non perentorietà del termine di costituzione del resistente in primo grado e la facoltà di depositare documenti nuovi in primo grado).
Per favorire la celerità concentrazione e speditezza del processo tributario, per esempio, si potrebbero apportare al Decreto legislativo 31/12/1992 n. 546 anche le seguenti, semplici, modifiche:
a) All'Art. 7 Poteri delle commissioni tributarie, sostituire il comma 1 come segue
1. Oggetto del processo tributario è, nei giudizi di impugnazione di atti impositivi, la pretesa per come delineata, anche quanto ai fatti costitutivi e alle relative prove, nell’atto impugnato e nei limiti dei motivi di impugnazione, senza possibilità di modifica o integrazione successiva in giudizio. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all' ente locale da ciascuna legge d'imposta soltanto nel caso e nei limiti in cui le parti non abbiano potuto assolvere per ragioni oggettive e cogenti ai propri oneri probatori.
b) all’art. 23 Costituzione in giudizio della parte resistente
sostituire il comma 1 come segue
L'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti all'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale
sostituire il comma 3 come segue
3. Nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente in ossequio al principio di contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., proponendo altresì, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d' ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa .
c) all’art. Art. 24 Produzione di documenti e motivi aggiunti
sostituire il comma 2 come segue
2. L'integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, nei limiti di cui al comma 1 dell’art. 7, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l'interessato ha notizia di tale deposito.
e) all'Art. 58 Nuove prove in appello
Il comma 2 è abrogato
10. Exitus.
Il percorso riformatore, finora, ha avuto un andamento asintotico. La cardinalità della giustizia tributaria, tuttavia, ne richiederebbe la attuazione. Non solo perché, nella economia globale, più che la pressione fiscale è l’incertezza normativa a frenare innovazione e creazione di ricchezza, essenziali al mantenimento di livelli essenziali di benessere. Ma anche perché, vista la traiettoria del debito pubblico, ci attende, appena dietro l’angolo, un doloroso piano di rientro che, se non passerà per traumatici fenomeni inflazionistici, passerà per un ricorso imponente al fenomeno impositivo.
La giustizia tributaria non può farsi trovare impreparata, ne va della tenuta dello Stato di diritto.
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