ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Esclusione di prestazioni pubbliche per indegnità. Alti e bassi della Corte Costituzionale
di Roberto Bellè
La Corte Costituzionale, in due pronunce tra loro ravvicinate, affronta il delicatissimo tema del diritto, per chi stia scontando al di fuori dal carcere condanne per gravi reati (mafia, terrosirmo, strage), di fruire di benefici assistenziali, allorquando si trovi in stato di bisogno e la questione in ordine alla legittimità della sospensione del reddito di cittadinanza nei riguardi di chi sia sottoposto a misure cautelari personali. Secondo l'A. la Consulta, definendo in modo divergente le due questioni, avrebbe evocato in modo molto significativo i principi solidaristici dell'ordinamento, ma al contempo avrebbe declinato il principio di ragionevolezza secondo percorsi argomentativi ritenuti in concreto non del tutto convincenti.
Sommario: 1. Le sentenze – 2. L’asse motivazionale della sentenza n. 137 – 3. Gli assi motivazionali della sentenza n. 126: l’ostacolo agli obiettivi di reinserimento lavorativo – 4. (segue): misure cautelari e pericolosità – 5. Che dire?
1. Le sentenze
Corte Costituzionale 21 giugno 2021, n. 126, ha rigettato la questione di costituzionalità della norma (art. 7-ter, comma 1, lettera c-bis, d.l. 4/2019, n. 4 quale introdotto in sede di conversione) sul reddito di cittadinanza che ne sospende l’erogazione a chi sia sottoposto a misure cautelari personali in ambito penale e ciò anche nei casi in cui i reati rispetto ai quali le misure vengono disposte non siano poi tali, in caso di condanna definitiva, da comportare la revoca del beneficio, che resta dunque sospeso solo nel periodo della misura cautelare.
Corte Costituzionale 2 luglio 2021, n. 137 si è invece occupata del combinato disposto dell’art. 2, commi 58 e 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) secondo cui il giudice, con la sentenza di condanna per i reati di cui agli articoli 270-bis, 280, 289-bis (reati in ambito di terrorismo), 416-bis, 416-ter (reti di stampo mafioso) e 422 (strage) del codice penale, dispone la sanzione accessoria della revoca di alcune prestazioni (indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili), dichiarandone l’illegittimità nella parte in cui tale revoca riguardi anche persone che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
Entrambe le pronunce muovono dall’inquadramento dei limiti ai benefici da esse considerati, che risalgono a quelli che vengono individuati come requisiti di “onorabilità” o di “indegnità” riconnessi alle misure penali considerate.
Tuttavia, mentre la sentenza n. 137 ritiene che la violazione del patto consociativo che sta alla base dei reati considerati dalla norma (mafia, terrorismo, strage) non possa essere tale da sopprimere le misure assistenziali che si configurano come indispensabili per la salvaguardia di condizioni di vita accettabili, la sentenza n. 126 esclude per varie ragioni che analoghe esigenze possano rendere illegittima la sospensione del reddito di cittadinanza nei confronti di chi sia sottoposto a misura cautelare personale.
Non si può negare che l’analisi in controluce delle due pronunce lasci una sensazione di insoddisfazione di fondo, che va meglio razionalizzata.
2. L’asse motivazionale della sentenza n. 137
Le conclusioni della sentenza n. 137 sono indubbiamente forti, perché la rottura del patto consociativo che deriva dai reati in essa considerati è gravissima. Purtuttavia, allorquando la motivazione, dopo avere evidenziato tale aspetto, piega sulla pervasività del dovere di solidarietà e di assistenza, richiamando gli artt. 2, 3 e 38 della Costituzione, essa, facendo perno sul nucleo intangibile della dignità umana, è senza alcun dubbio convincente. Il passaggio fa infatti risuonare con significativa concisione le corde fondamentali dell’ordinamento costituzionale, attraverso cui si fuga l’istintiva reazione di stupore che può derivare dall’accostamento tra la gravità della responsabilità e la risposta assistenziale dell’ordinamento.
Così come convincente è il consequenziale raffronto tra chi, essendo detenuto, riceva dalla struttura carceraria quel minimo intangibile per la salvaguardia di condizioni di vita primarie e chi, scontando la pena in regime alternativo alla detenzione, può avere necessità di misure di sostegno necessarie al medesimo fine.
L’asse motivazionale potrebbe fermarsi qui, ma la Corte aggiunge – a parere di chi scrive meno felicemente per quanto si dirà di seguito – che l’assetto quale conseguente al proprio intervento sarebbe “presumibilmente coerente con la stessa volontà del legislatore”, in quanto “è ben possibile” che, per tali reati, “il legislatore abbia pensato alla sola detenzione in carcere come regime di espiazione della pena”, senza curarsi di disporre deroghe per i casi in cui l’età avanzata, le condizioni di salute o la collaborazione con la giustizia, consentano l’accesso a misure alternative alla detenzione.
Minore persuasività che sta non certo nelle condizioni giustificative della pena alternativa al carcere ivi indicate, quanto nel richiamo, non scevro da ambiguità per come formulato, ad un pensiero del legislatore non radicato su riscontri tangibili e quindi destinato ad alimentarsi, essenzialmente ed almeno sul piano del testo motivazionale, del solo pensiero della Corte stessa.
Sia ben inteso, non si vuol negare che tale assunto possa in concreto anche essere vero, non potendosi di certo dire che il legislatore dei nostri tempi sia esente dall’operare al di qua o al di là delle intenzioni dei testi quali infine varati.
Si vuol però sottolineare, per quanto si andrà ancora a dire, la formulazione autogiustificativa di esso.
3. Gli assi motivazionali della sentenza n. 126: l’ostacolo agli obiettivi di reinserimento lavorativo
Nella pronuncia sul reddito di cittadinanza il percorso, svolto in coerenza con il precedente di Corte Costituzionale 23 giugno 2020, n. 122, è più articolato e si esprime, per i profili che qui più interessano, attraverso due assi motivazionali.
Tralasciato, per la scarsa presa argomentativa, l’assunto per cui la sospensione in ambito di reddito di cittadinanza non avrebbe una ragione “punitiva” (e può anche starci, non essendo regolata come pena in senso stretto), ma neppure “sanzionatoria”, il primo asse motivazionale muove dalla considerazione per cui il reddito di cittadinanza è misura non destinata soltanto alla pura assistenza dei beneficiari, risultando riconnesso inscindibilmente, nella connotazione propria dell’istituto quale attuata nel nostro ordinamento, ad un percorso formativo e di inclusione finalizzato al reinserimento nel mondo lavorativo.
Percorso che - dice la Corte – “può essere ostacolato o addirittura impedito dalla misura cautelare”, sicché l’esclusione dal beneficio “si ricollega agli obiettivi dell’intervento legislativo” ed è quindi espressione della discrezionalità attribuita al legislatore che – il passaggio va sottolineato – “non si presenta affetta da quella irrazionalità manifesta ed irrefutabile” che richiederebbe la declaratoria di illegittimità costituzionale.
L’argomentazione presenta, a parere di chi scrive, elementi di fragilità.
Il caso concreto che aveva suscitato la proposizione della questione è quello di persona assoggettata alla misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282-bis cod. proc. pen., in relazione a fatti riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 del codice penale.
È intanto da escludere che una siffatta misura sia tale, data la naturale limitatezza territoriale dell’inibizione, da “impedire” un qualche percorso di reinserimento nel mondo lavorativo, mentre è vero che si possono determinare “ostacoli” ad esso.
Si devono però considerare due cose, una di fatto e l’altra di diritto, tra loro convergenti e che la Corte non pare considerare.
Da un primo punto di vista gli ostacoli sono del tutto eventuali e destinati a manifestarsi nella sola (palesemente limitata) misura in cui qualunque reinserimento lavorativo sia territorialmente incompatibile con la misura cautelare in concreto applicata; da altro punto di vista l’impianto normativo del reddito di cittadinanza non prevede soltanto un percorso di reinserimento lavorativo, ma prevede anche, in presenza di bisogni complessi multidimensionali, un più articolato percorso, elaborato attraverso un “patto per l’inclusione sociale”, sicché il sistema è organizzato attraverso una significativa varietà ed elasticità adattabile a molteplici casi concreti (v. art. 4, commi 12, 13 e 13 d.l. 4/2019 anche in relazione alle valutazioni plurime di cui all’art. 5 d. lgs. 147/2017 cui è fatto rinvio); non essendovi neppure necessità di spiegare che la rieducazione a maggior ragione deve poter intervenire allorquando condanna ancora non vi sia (art. 27 Cost.), ma la misura cautelare applicata sia sintomo già palese di bisogno di assistenza multidimensionale.
Perché, viene da chiedersi, non si è – a differenza di quanto accaduto nell’altra pronuncia, allorquando si è considerata la differenza tra pene scontate in carcere o meno – distinto tra misure obiettivamente compatibili con il reinserimento lavorativo (tali essendo tutte le misura diverse dalla detenzione in carcere o domiciliare) ed altre misure del tutto uniformemente caratterizzate dal non essere custodiali (divieto di espatrio, obbligo o divieto di dimora, allontanamento dalla casa familiare o divieto di avvicinamento), soprattutto non considerando che lo stesso legislatore ha predisposto, come si è detto, strumenti di grandissima flessibilità al riguardo?
Ed ancora, è compatibile la mancanza di tali valutazioni, con la conseguente affermazione dell’assenza di una “manifesta e irrefutabile” irrazionalità, o quest’ultima affermazione, anche in questo caso, basta a sé stessa come tale?
4. (segue): misure cautelari e pericolosità
Un secondo passaggio motivazionale di interesse è quello con la Corte Costituzionale, ricollegandosi alla propria precedente sentenza n. 122/2020 ritiene che non si determini violazione del principio di ragionevolezza in quanto – si sintetizza coordinando la pronuncia n. 122 con la n. 126 qui in esame – la sottoposizione a misure cautelari e la conseguente sospensione del reddito di cittadinanza si giustificherebbe per il fatto che la valutazione legislativa si fonderebbe “su un giudizio sulla pericolosità del soggetto insita nell’applicazione della misura cautelare” (così la sentenza n. 122), sicché la sospensione, “sebbene opinabile, appare coerente con il contesto normativo disegnato dal legislatore”, anche perché “con la cessazione della misura cautelare cessa anche quel pericolo concreto ed attuale che legittima la sospensione” (così la sentenza n. 122 in parte qua espressamente richiamata dalla sentenza n. 126).
La Corte qui giunge ad una valutazione di opinabilità della scelta legislativa, ma non approfondisce i motivi di tale pur percepita caratteristica per sondarne la ragionevolezza o meno.
Ed allora: se la pericolosità è ritenuta dal giudice penale tale da poter essere evitata attraverso misure non detentive, perché un beneficio assistenziale, coniugato con misure di reinserimento a quel lavoro su cui addirittura la Repubblica si fonda, deve esser perduto per una pericolosità che non c’è e comunque non impedisce, come si è detto, l’attuazione di percorsi di accentuata elasticità previsti proprio dallo stesso legislatore?
Perché quella reazione istintuale al reato che è stata magistralmente governata dalla sentenza n. 137 con il richiamo a principi inalienabili anche per chi si è posto pesantemente in contrasto con il patto sociale, non può esserlo di fronte ad un legislatore che a tale istinto si abbandona, senza fondamento in un reale pericolo e quando gli strumenti da lui stesso predisposti consentirebbero parimenti di assicurare la salvaguardia dei medesimi diritti ed al contempo di ciò che sta la Costituzione pone fondamento (art. 1) di quello stesso patto sociale ?
È vero quanto precisa la Corte, ovverosia che “a colui che si veda sospendere il beneficio economico non sarebbe preclusa la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di accedere ad altre forme di assistenza sociale prevista dall’ordinamento, per le quali la presenza di misure cautelari non costituisce causa ostativa”. Ma, se quei presupposti non ricorrano ed il bisogno pertanto persista, perché l’esclusione da un trattamento che lo stesso legislatore (art. 1 d.l.4/2019) definisce “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro” ?
Non si potrebbe affermare, parafrasando i termini utilizzati nella sentenza n. 137, che è possibile che il legislatore pensasse alle misure cautelari detentive e non a quelle che non sono in contrasto con l’impianto del beneficio quale da lui stesso predisposto? Visto che poi non tutti i reati, ma solo alcune ipotesi (sostanzialmente riguardanti – le coincidenze a volte sono micidiali - reati di mafia, terrorismo o strage, ovverosia proprio quelli rispetto ai quali al condannato non detenuto la sentenza n. 137 apre l’accesso ad altri benefici) comportano la revoca del beneficio in caso di condanna definitiva.
Il tutto senza contare che la sospensione per effetto della misura cautelare penale fa perdere definitivamente il beneficio, per il periodo ad essa corrispondente, non essendo previste (coerentemente con la natura non solo reddituale del beneficio) modalità di recupero ex post ove poi l’indagato risultasse innocente.
5. Che dire?
Gli interrogativi di cui sopra sono posti per la premura di risposte, su temi così delicati come quelli affrontati dalle due sentenze, che orientino convincentemente gli operatori e, soprattutto, i cittadini, rispetto all’uniformità delle scelte di sistema del legislatore, attraverso un impiego rigoroso del parametro di ragionevolezza.
Nel titolo del presente commento si è fatto riferimento ad “alti e bassi” che non riguardano l’esito alterno delle decisioni, in sé considerato, ma il diverso tenore delle valutazioni che esse suscitano e rispetto alle quali si è stati chiamati ad esprimere la propria opinione.
Alto è il richiamo a quei principi inalienabili che non consentono la negazione a nessuno dei diritti fondamentali: non lo si nasconde, la riflessione sul passaggio che, in poche righe della sentenza n. 137, esprime il concetto, è emozionante, da brividi, per il portare esso a contatto diretto con i fondamenti – anche dialogici e di apertura all’altro – su cui si regge la nostra comune convivenza; e per la profonda umanità che si cela dietro a quei principi, tanto più ove si ragioni sulle fattispecie, apparentemente destinate a muovere ad opposta reazione, rispetto alla quale essi sono stati applicati dalla Consulta.
Meno alta (il “basso” del titolo esprime ovviamente solo la contrapposizione logica), è la fuggevolezza delle argomentazioni a più riprese svolte sulla (assoluta in quanto svolta senza tertium comparationis) ragionevolezza o non ragionevolezza (di cui la discrezionalità del legislatore è solo l’altra faccia della medaglia) delle scelte normative. Anche su questo, invece, vi è bisogno di parametri saldi. Si è certamente esigenti nel chiederlo – perché molte sono le ragioni che possono giustificare la perentorietà non meglio spiegata, non ultima la continuità con il precedente – ma lo si avverte come necessario, per poterci serenamente riconoscere sempre e comunque in quello che siamo, in quello che vogliamo.
I rapporti patrimoniali della famiglia tra solidarietà e autoresponsabilità*
di Gabriella Luccioli
1. Seguendo il titolo della tavola rotonda, i principi di solidarietà e di autoresponsabilità, nella molteplicità delle loro declinazioni e applicazioni, costituiranno il filo conduttore del nostro dibattito.
Peraltro la stessa composizione di questa tavola rotonda lascia intendere che la riflessione non si svilupperà solo sul piano tecnico giuridico, ma implicherà valutazioni di tipo sociologico.
I principi di solidarietà ed autoresponsabilità sono stati reiteratamente invocati dalla giurisprudenza a fondamento sia di indirizzi consolidati sia di orientamenti innovativi, e spesso il richiamo dell’uno o dell’altro con riferimento al medesimo testo normativo ha portato a soluzioni del tutto diversificate.
Tale constatazione rende evidente che si tratta di principi da utilizzare con prudenza, in quanto segnati da ampi margini di approssimazione e densi di implicazioni metagiuridiche, e quindi suscettibili di rivestire portata diversa e di assumere connotazioni ideologiche, riflettendo pregiudizi più o meno consapevoli. Come scriveva Hanna Arendt, ogni ideologia tende fanaticamente ad abolire la vita particolare del mondo nel nome universale dell’Idea.
Il prof. Sesta ricorda che la solidarietà consiste in un impegno etico e sociale verso gli altri che si manifesta in uno sforzo attivo e gratuito teso a considerare le esigenze e i disagi di chi ha bisogno di aiuto.
Rilevo che si tratta di un concetto con un ampio tasso di indeterminatezza: quanto deve essere intenso questo sforzo di condivisione? A quale livello esso deve arrestarsi perché si ritenga adempiuto il dovere di solidarietà?
Ed il principio di autoresponsabilità può essere così pressante da annullare il riconoscimento dei sacrifici di una vita, e quindi il rispetto della propria dignità?
Io credo che nell’ attuale fase storica la scommessa stia non tanto nella prevalenza dell’uno o dell’altro principio, ma nel conseguimento di un equo contemperamento tra una visione che conferisce valore crescente ai diritti fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza di tale valore con altri principi ed interessi di rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione di assoluta prevalenza, se non quello di dignità.
2. Procedendo ad una opportuna diversificazione dei rapporti tra adulti da quelli tra genitori e figli, per quanto concerne il primo ordine di relazioni non è infrequente nella giurisprudenza più recente il richiamo al principio di autoresponsabilità. Espressione significativa di tale indirizzo è la nota sentenza Lamorgese n. 11504 del 2017, che distaccandosi da un orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato subordinò la spettanza dell’assegno di divorzio all’applicazione del criterio unico della non titolarità di redditi sufficienti a garantire l’indipendenza economica, con un completo azzeramento dei parametri di quantificazione indicati dal comma 6 dell’ art. 5, ed in particolare di quelli diretti a garantire la funzione compensativa dell’ assegno. Tale decisione, come è noto, sostituì ad un criterio relativo, concreto e specifico, che aveva riguardo alle condizioni economiche di una determinata coppia ed al contesto in cui essa era inserita, un criterio di carattere generale, astratto ed assoluto, identificato nell’ autosufficienza di una persona singola e priva di passato, così riducendo significativamente gli spazi per il riconoscimento dell’assegno. Detta sentenza, nell’ adombrare che l’interpretazione consolidata in giurisprudenza da circa 27 anni determinasse una sorta di illegittima locupletazione o una rendita parassitaria del richiedente, cui occorreva porre subito termine, si ispirava chiaramente a valutazioni di tipo etico/economico, celando dietro il richiamo al principio di autoresponsabilità considerazioni di ordine prettamente ideologico.
La successiva pronuncia delle SS.UU. n. 18287 del 2018, nel porre rimedio agli effetti distorsivi dell’ incauto overruling del 2017, si è reiteratamente riferita al principio di solidarietà lì dove - affermando che i criteri di cui alla prima parte del comma 6 dell’ art. 5 della legge sul divorzio integrano il parametro di riferimento per decidere sia sulla attribuzione che sulla quantificazione dell’ assegno - ha attribuito rilevanza preminente al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno dei coniugi, così dandosi carico della funzione perequativa/compensativa dell’assegno, che si affianca a quella assistenziale. Le Sezioni Unite hanno in tal modo restituito rilievo e dignità al vissuto della coppia prima dello scioglimento del matrimonio, ritenendo che non possa esistere cesura tra la situazione attuale del coniuge richiedente ed il suo percorso matrimoniale, atteso che il divorzio pone termine al vincolo, ma non azzera il passato e non sopprime le conseguenze attuali delle modalità con le quali la vita in comune si è dispiegata. Esse hanno così recuperato il valore della solidarietà postconiugale, ponendo gli artt. 2 e 29 Cost. alla base dei rapporti economici dei coniugi anche dopo lo scioglimento del vincolo.
Non intendo ritornare in questa sede sulle molte perplessità che suscita l’approdo delle Sezioni Unite nella scelta della terza via, che unificando le fasi dell’ an e del quantum debeatur postula la valutazione integrata di tutti i criteri indicati nel comma 6 dell’art. 5, senza tuttavia configurare un indice o un valore cui detti criteri debbano essere rapportati. Mi preme ora soltanto evidenziare che detta sentenza evoca il principio di autoresponsabilità che connota la definizione e condivisione dei ruoli familiari associandolo al richiamato valore della solidarietà postconiugale, intesa come solidarietà del caso concreto, secondo la definizione di Massimo Bianca.
In questa visione solidarietà, autodeterminazione ed autoresponsabilità non si pongono più in termini antitetici, ma si integrano nella prospettiva di un modello di famiglia aderente all’ evoluzione della società e del costume.
Ed anche l’ordinanza n. 28995 del 2020, che ha sollecitato la remissione alle Sezioni Unite della questione della automaticità o meno della cessazione dell’obbligo di versamento dell’assegno divorzile nel caso di nuova convivenza del beneficiario, nel dubitare della correttezza dell’orientamento più recente incline all’automatismo degli effetti estintivi ha evocato la funzione compensativa dell’assegno, e quindi il principio di solidarietà postconiugale.
È agevole riscontrare nell’ordinanza di remissione la ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà postconiugale, sul rilievo che se pure il primo chiama gli ex coniugi che costituiscono una stabile convivenza con soggetti terzi a scelte consapevoli di vita anche a detrimento di pregresse posizioni di vantaggio, tuttavia esso non può sterilizzare il secondo, persistendo in ragione della funzione perequativa/compensativa dell’assegno l’esigenza di riconoscere all’ ex coniuge economicamente più debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione - tanto più consistente nei matrimoni di lunga durata e con la presenza di figli - nella prospettiva di un modello di unione coniugale incentrata sulla parità dei ruoli in essa rivestiti, che proietta la sua operatività anche nella definizione degli assetti economici postconiugali.
Spetta ora alle Sezioni Unite decidere se ribadire il principio di automatismo dell’effetto estintivo o affidare al giudice del caso concreto l’accertamento del diritto alla conservazione dell’ assegno divorzile, dopo aver verificato che esso abbia svolto in passato una funzione perequativa/compensativa.
Resta peraltro la difficoltà di configurare l’assegno di divorzio, che secondo la legge va corrisposto senza limiti di tempo (salvi ovviamente provvedimenti successivi di modifica o di revoca) come strumento idoneo a compensare i sacrifici compiuti da uno dei coniugi nell’ interesse del nucleo familiare.
3. Quanto ai rapporti tra genitori e figli, fermo l’obbligo costituzionalmente imposto dall’art. 30 comma 1 ai genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, la questione più dibattuta concerne la durata dell’obbligo di mantenimento della prole oltre la maggiore età. Come è noto, con ordinanza n. 17183 del 2020 la Cassazione, richiamando in termini assorbenti il principio di autoresponsabilità del figlio maggiorenne, ha affermato che detto obbligo cessa di diritto al raggiungimento della maggiore età e che spetta al figlio ultradiciottenne agire in giudizio per il riconoscimento del relativo diritto, dimostrando in via autonoma di non essere in colpa per il suo stato di perdurante dipendenza economica.
Va innanzi tutto rilevato che tale summa divisio tra il prima e il dopo il compimento dei 18 anni appare stridente con il più elementare buon senso e produce l’effetto di liberare automaticamente a quella data da ogni dovere di contribuzione il genitore non convivente e di costringere il figlio a promuovere un separato giudizio, con i suoi costi e i suoi tempi, per dimostrare, accollandosi il relativo onere, non solo di aver curato con ogni possibile impegno la propria preparazione, ma anche di avere con pari impegno operato nella ricerca di un lavoro.
È facile osservare in contrario che non è ravvisabile alcuna estinzione o sospensione del diritto al mantenimento al sopraggiungere della maggiore età, atteso che sul piano assiologico i doveri verso i figli nascono dalla filiazione e prescindono dall’esistenza di poteri nei loro confronti.
Inoltre l’impostazione seguita nell’ ordinanza in esame determina una inammissibile differenziazione tra figli di genitori separati o divorziati e figli di genitori uniti e comporta sostanzialmente che nelle more sia accollato unicamente sull’ altro genitore convivente (generalmente la madre) il peso del mantenimento del giovane.
Ed ancora, imporre al figlio maggiorenne la ricerca di qualsiasi lavoro e l’attivazione in qualunque direzione per raggiungere una qualche autonomia significa ignorare che costituisce preciso dovere dei genitori, ovviamente nei limiti delle loro possibilità economiche, rispettare le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni della prole, secondo il chiaro disposto degli artt. 147 e 315 bis, primo comma, c.c.
Evocare in modo così pressante il principio di autoresponsabilità dimenticando quel valore di solidarietà che dà senso alle relazioni familiari significa aderire ad una visione dell’impegno dovuto dalle giovani generazioni con la quale si può in linea astratta anche convenire, ma che stride fortemente con la drammatica realtà del nostro Paese e con le enormi difficoltà dei giovani di realizzare le proprie aspirazioni lavorative e anche di inserirsi comunque nel mercato del lavoro; significa insomma perdere di vista quel ruolo di sensore sociale che il giudice è chiamato ad assumere al fine di enucleare dalla realtà i diritti delle persone.
Neppure il tanto contestato disegno di legge Pillon, che pare fortunatamente accantonato dal Parlamento, era arrivato a tanto, limitandosi a fissare a 25 anni l’età massima per la spettanza dell’assegno.
Si tratta a mio avviso di una decisione di miope reazione ad un indirizzo consolidato in nome di una ideologia, peraltro fondata su una lettura errata dell’art. 337 septies c.c. e del tutto sganciata dalla realtà economica e sociale del nostro Paese.
Va altresì considerato che autoresponsabilità significa anche responsabilità verso se stessi, significa rispetto per delle scelte personali difficili, che talvolta richiedono tempi lunghi di preparazione (pensiamo al concorso in magistratura), che magari non sono coronate da successo al primo tentativo, a fronte delle quali - come ricordavo - si pone il dovere dei genitori, sempre ovviamente che ne abbiano la capacità economica, di supporto e di incoraggiamento in nome del principio di solidarietà; significa rispetto per le legittime aspirazioni e le specifiche attitudini dei figli, che costituiscono presupposto per la realizzazione della loro dignità.
Si tratta insomma di riconoscere quel diritto al futuro dei giovani che la Costituzione riconosce e garantisce. Come ha osservato Gianfranco Gilardi in una nota critica all’ordinanza per Giustizia Insieme, le posizioni assunte dalla Cassazione hanno il sapore di un invito ad arrangiarsi alle nuove generazioni, abbandonate a se stesse, trascurando che nell’ impianto complessivo della Costituzione si esprime l’ impegno di costruzione del presente anche come garanzia di tutela del futuro, in un continuum in cui le generazioni che oggi si affacciano al mondo siano viste come beneficiarie e, insieme, artefici del progetto ….di vivere una vita serena e dignitosa.
Ancora una volta dietro il richiamo da parte della Cassazione al principio di autoresponsabilità si nascondono motivazioni di carattere ideologico.
Fortunatamente la giurisprudenza della Cassazione sembra aver messo da parte i principi enunciati nella richiamata ordinanza n. del 2021. Le ordinanze 2020 n. 19077, 2020 n. 21752 e 2021 n. 23318 sono infatti tornate all’orientamento originario, secondo il quale il giudice non può a priori fissare un termine finale all’obbligo di versamento dell’assegno, dovendo la cessazione di esso accertarsi a posteriori in conseguenza di fatti sopravvenuti idonei a determinare tale effetto, con onere della prova a carico del genitore onerato.
4. Mi avvio alla conclusione. In una materia come quella di cui qui ci occupiamo è evidente la difficoltà del compito del giudice, chiamato ad affrontare situazioni complesse e delicate inquadrandole in una cornice di legalità, nel rispetto dei precetti costituzionali e della normativa sovranazionale. La varietà delle situazioni e delle esigenze da considerare rende evidente che la risposta di giustizia non può essere affidata ad algoritmi, come da alcuni prospettato, ma richiede un forte affinamento della professionalità del magistrato, prudenza istituzionale, libertà dai pregiudizi, capacità di uscire dalla prigione del fanatismo ideologico, costante attenzione alla direzione della bussola verso quel nucleo forte di principi che esaltano la dignità della persona, nella sua dimensione individuale e sociale.
Ed allora, al di là di improprie formule definitorie, occorre aver riguardo alla effettiva salvaguardia della persona, anche e soprattutto quando a chiedere giustizia sono i soggetti più vulnerabili o le vittime di contesti sociali fortemente discriminatori, ponendo estrema attenzione alle situazioni concrete ed agli specifici bisogni da tutelare: è questo, a mio avviso, che una società profondamente democratica si aspetta dai suoi giudici.
In nessuna materia come in questa una corretta percezione delle dinamiche familiari, in una società ancora permeata di modelli stereotipati, costituisce il misuratore più importante della validità della soluzione di diritto adottata, e prima ancora della sua conformità alle esigenze di giustizia sostanziale.
A fronte delle richiamate incongruenze del sistema vigente appare evidente la necessità di una complessiva e sistematica rivisitazione da parte del legislatore degli assetti economici postmatrimoniali, che superando l’impostazione attuale che pone l’assegno di divorzio come unico strumento disponibile per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra le parti dia finalmente spazio - superando le note resistenze della giurisprudenza - agli accordi privati dei soggetti interessati, introducendo nel nostro ordinamento i prenuptial agreements in vista della crisi familiare.
È ormai acquisizione generalmente condivisa che soltanto la libera autodeterminazione dei coniugi o futuri coniugi nella fase progettuale o anche nel corso della vita matrimoniale, immune dalle asprezze che generalmente segnano la fase patologica del rapporto, può realmente proteggere la coppia dalle distorsioni del conflitto e dalle reciproche rivendicazioni che generalmente segnano tale momento.
A detto intervento, da lungo tempo sollecitato da molti osservatori, induce anche la scarsa applicazione del regime di comunione legale tra i coniugi, che nella prospettiva del legislatore del 1975 costituiva espressione della massima solidarietà familiare ed integrava valido strumento per la realizzazione dell’istanza paritaria e per la valorizzazione del lavoro di cura all’ interno della famiglia. Le statistiche sul punto evidenziano l’alto tasso di impopolarità e l’obsolescenza di tale regime patrimoniale, determinata anche dall’incremento del numero delle separazioni e dei divorzi, che induce i nubendi a favorire il regime separatista, così da evitare i complessi problemi giuridici attinenti allo scioglimento della comunione.
Va ancora considerato che la sempre più marcata frequenza di matrimoni di italiani con cittadini stranieri può comportare, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 30 della legge n. 218 del 1995, che eventuali accordi stipulati tra i coniugi trovino attuazione in Italia.
Sui molti interrogativi suscitati dall’applicazione dei principi di solidarietà ed autoresponsabilità svolgeranno le loro riflessioni il professor Sesta, che porterà la voce dell’accademia, l’avvocata Ruo, che illustrerà il punto di vista della difesa, ossia della parte che pone la domanda di giustizia e si fa spesso promotrice di istanze di tutela di nuovi diritti, intuendo prima di altri le inadeguatezze ed i limiti dello strumentario attualmente disponibile, la professoressa Saraceno, che ci confermerà quanto i principi astratti di cui il diritto si nutre devono essere riempiti di contenuti e di sostanza attraverso l’analisi delle condizioni nelle quali solidarietà e autoresponsabilità si esplicano nella nostra società.
*Intervento introduttivo della tavola rotonda coordinata dalla Presidente Maria Gabriella Luccioli al corso su "Il punto sugli aspetti patrimoniali del diritto di famiglia" organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Sezione Corte di Cassazione nei giorni 15-17 settembre 2021.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme. 2) Andrea Pugiotto
Intervista di Roberto Conti a Andrea Pugiotto
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato - sentenza n. 242/2019 e ord. n. 207/2018 -. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
Le domande precedono sempre le risposte: ecco perché una loro inesatta formulazione può indurre a repliche errate. Accade a questo interrogativo d’esordio che – a mio avviso – è viziato da due malintesi.
Il primo emerge laddove ipotizza un rapporto di «indebita interferenza» tra il ricorso allo strumento referendario e l’esercizio della funzione legislativa: interferenza che, invece, costituzionalmente non si dà. Se inteso come strumento eccezionale che deve innestarsi in modo ragionevole sul tronco della rappresentanza parlamentare, il referendum integra la funzione legislativa. Se inteso come strumento di decisione diretta e alternativa a quella parlamentare, espressione – attraverso la mediazione del Comitato promotore – di un pluralismo sociale costituzionalmente garantito, il referendum è in concorrenza con la funzione legislativa. In ambo i casi, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa c’è una relazione dialettica, non un’incompatibilità funzionale: infatti l’art. 75 Cost., quale norma di riconoscimento dell’istituto referendario, presuppone la coesistenza della permanente potestà legislativa delle Camere con la garanzia di esercizio dell’abrogazione popolare e del suo effetto utile (vedi, infra, risposta n. 6).
Casomai il pericolo di indebite interferenze andrebbe rovesciato, imputandolo all’esercizio della funzione legislativa in chiave anti-referendaria. Non è un processo alle intenzioni, se solo si guarda alle vicende referendarie pregresse. Esemplifico? Leggi prive di sostanziale novità normativa, approvate al solo fine (mancato) di produrre il blocco delle operazioni referendarie a causa degli effetti abrogativi previsti dall’art. 39, legge n. 352 del 1970 (cfr. Corte costituzionale, ord. n. 44/1978 e sentt. n. 68 e 69/1978). Ricorso improprio a fonti inidonee a inibire il procedimento referendario, quali il decreto legge (cfr. Ufficio centrale, ordd. 16 marzo 1993, 22 dicembre 1993, 30 novembre 1994, 9 dicembre 1994), la legge di delega (cfr. Ufficio centrale, ordd. 16 marzo 1993, 26 maggio 1997), la legge di delegificazione (cfr. Ufficio centrale, ordd. 20 gennaio 1997 e 7 dicembre 1999). Illegittimi tentativi di ripristino della disciplina abrogata dal voto referendario (cfr. Corte costituzionale, sentt. nn. 468/1990 e 199/2012).
Come da taluni denunciato in passato, così in futuro non si può escludere – grazie all’introdotta sottoscrizione digitale del quesito (ex art. 38-quater, legge n. 108 del 2021) - una deliberata moltiplicazione esponenziale di domande referendarie, incardinate da Comitati promotori nel ruolo di sicari della democrazia rappresentativa. Una versione 2.0 del pericolo – segnalato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 16/1978 – che il referendum si trasformi «in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia». Ma non è il caso del referendum sull’eutanasia legale, che semmai supplisce alla persistente inerzia legislativa sui temi del fine vita (vedi, infra, risposta n.5).
La domanda iniziale inciampa anche in un secondo malinteso, accreditando il quesito referendario in esame quale strumento promosso per «dare attuazione» alla sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale. Non è così, né avrebbe senso che lo fosse.
Il quesito promosso dall’Associazione Luca Coscioni ha altro fine: agendo sull’art. 579 c.p. (e non sull’art. 580 c.p. oggetto del giudicato costituzionale), erode il principio di indisponibilità del diritto alla vita cui si ispira il codice Rocco allargando lo spazio di autodeterminazione in ordine alla scelta sul se, come e quando porre legalmente termine alla propria vita. Si tratta di un fine oggettivato nella domanda referendaria, a garanzia di quella «matrice razionalmente unitaria» che la giurisprudenza costituzionale richiede a pena di inammissibilità del quesito. Se l’obiettivo fosse quello (erroneamente) ipotizzato nell’interrogativo che apre questa intervista, il referendum sarebbe condannato a sicura bocciatura, perché inidoneo allo scopo.
Ricorrere allo strumento referendario per «dare attuazione» a pronunzie costituzionali, d’altra parte, non avrebbe giuridicamente senso. L’obbligatorietà delle sentenze di accoglimento della Corte si esplica a partire dal giorno successivo alla loro pubblicazione in gazzetta ufficiale (art. 136 Cost.): da quella data nessun giudice può fare applicazione delle norme dichiarate illegittime, nessun'altra autorità può darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri atti, nessun privato può avvalersene perché i relativi atti e comportamenti sarebbero privi di fondamento legale (cfr. sent. n. 49/1970). Il giudicato costituzionale, dunque, richiede solo di essere applicato, senza necessità di ulteriori mediazioni normative, tantomeno referendarie. Vale anche per la sent. n. 242/2019.
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art. 579 c.p. e non sull’art. 580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
La domanda – se non intendo male - sembra adombrare una possibile intersezione tra quanto deciso dalla Corte costituzionale con sent. n. 242/2019 e quanto deciderà in ordine all’ammissibilità del quesito referendario in esame. Se intersezione c’è, credo operi sul piano della natura costituzionalmente necessaria che accomuna i divieti penali dell’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), entrambi espressione di una «tutela minima» indispensabile a garantire un principio costituzionale – il diritto alla vita - nel suo nucleo essenziale (cfr. sentt. nn. 26/1981, 35/1997, 42 e 49/2000).
È un problema che la Corte oramai attrae (anche) nell’orbita del suo scrutinio referendario, dove giudica sull’ammissibilità del quesito non più esclusivamente sulla base dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost., ma anche alla luce del «complesso dei valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum» (sent. n. 10/2020, con testuale richiamo al leading case della sent. n. 16/1978).
Il problema, allora, è capire se e in quale misura è possibile sottoporre a referendum popolare norme costituzionalmente necessarie. Stando alla giurisprudenza costituzionale, ne è vietata una abrogazione totale (cfr. sentt. nn. 49/2000, referendum sulle norme a tutela del lavoro a domicilio; 45/2005, referendum sulla legge in tema di procreazione medicalmente assistita) ovvero un’abrogazione parziale che intacchi il livello minimo di tutela del diritto costituzionalmente garantito dalla norma (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 26/1981 e 35/1997, entrambe riguardanti referendum in tema di interruzione volontaria della gravidanza).
Ma se così è, non si tratta di una pietra d’inciampo per il quesito sull’eutanasia legale. Basta leggerne la formulazione (vedi, infra, risposta n. 3): esso, infatti, abroga solo parzialmente l’art. 579 c.p. preservandone il nucleo costituzionalmente irrinunciabile, laddove conserva la punibilità del fatto se commesso contro un soggetto vulnerabile o il cui consenso sia stato estorto o carpito.
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpita dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione?
Nell’essenziale, la domanda sembra alludere alla tecnica del c.d. ritaglio attraverso la quale il quesito referendario è stato confezionato. E avanza il sospetto che l’integrazione così apportata all’ordinamento sarebbe eterodossa rispetto allo standard fissato dalla giurisprudenza costituzionale referendaria.
Entra qui in gioco un criterio di ammissibilità di origine pretoria, forgiato nella sent. n. 36/1997 (referendum in tema di raccolta pubblicitaria radiotelevisiva). La sua ratio è rintracciabile nel divieto di un quesito referendario che adoperi il testo oggetto di abrogazione come un serbatoio lessicale dal quale estrarre eterogenei frammenti sintattici ricomposti in modo giuridicamente significativo, così da produrre un’innovazione «assolutamente diversa», «del tutto estranea al contesto normativo» originario.
Il divieto di manipolatività ha operato come un semaforo rosso per molti referendum: cfr. sentt. nn. 38/2000 (responsabilità civile dei magistrati), 50/2000 (termini massimi di custodia cautelare), 43/2003 (inceneritori di rifiuti speciali), 46/2003 (sicurezza alimentare), 13/2012 (legge elettorale di Camera e Senato), 5/2015 (organizzazione uffici giudiziari), 26/2017 (licenziamenti individuali illegittimi). Più recentemente, è stato declinato in un’inedita accezione quantitativa, giustificando la bocciatura di un quesito per il suo «carattere eccessivamente manipolativo» in ragione dell’alterazione completa di «tutti i “caratteri somatici”» che una delle leggi oggetto del referendum avrebbe subìto (cfr. sent. n. 10/2020, legge elettorale di Camera e Senato).
Laddove, invece, l’innovazione perseguita per via referendaria derivi «dalla fisiologica espansione delle norme residue, o da consueti criteri di autointegrazione dell’ordinamento» (così, ancora, la sent. n. 36/1997), il quesito è in grado di superare lo scrutinio di ammissibilità. Com’è accaduto in passato: cfr. sentt. nn. 34/2000 (legge elettorale del CSM), 37/2000 (separazione carriere dei magistrati), 49/2005 (fecondazione eterologa), 26/2011 (determinazione tariffa servizio idrico integrato), 17/2016 (trivelle in mare).
Dunque, la tecnica del ritaglio «non è di per sé causa di inammissibilità del quesito» (sent. n. 26/2017). Lo è solo quando la normativa di risulta è frutto di una «costruzione artificiosa» (Morrone).
È forse il caso del referendum in esame? Il quesito sull’art. 579 c.p. è stato certamente confezionato usando forbici e colla: toglie una stringa di parole dal 1° comma («la reclusione da sei a quindici anni»); taglia integralmente il 2° comma; elimina un frammento linguistico dal 3° comma («Si applicano»). La saldatura finale tra il materiale normativo residuo produce la seguente disposizione: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso» contro un soggetto vulnerabile (minore, infermo di mente, in condizione di deficienza psichica) o il cui consenso sia stato estorto o carpito.
La manipolazione è tutta interna ad un’unica disposizione e la saldatura avviene tra locuzioni lessicali tematicamente non eterogenee. L’esito è la riduzione dell’ambito applicativo di un reato già esistente, non la creazione di un nuovo reato. Il carattere propositivo del quesito sembra non fuoriuscire dallo schema tipico dell’abrogazione parziale (ammissibile), proprio perché mira a una sottrazione di contenuto normativo rispetto alla fattispecie originaria. L’operazione referendaria pare così mantenersi all’interno di «scelte già operate dal legislatore, anche se destinate ad assumere forme e dimensioni assai diverse da quelle originariamente previste dalla legislazione incisa dal voto popolare» (Paladin).
Sembra. Pare. La cautela è d’obbligo, ma non per scarsa convinzione soggettiva. La ragione va cercata altrove: il limite della manipolatività incarna un criterio che «è tra i più sfuggenti e instabili» (Pertici) all’interno della caleidoscopica giurisprudenza referendaria della Corte costituzionale.
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
Lascio impregiudicato il problema di come andrà ricomposta la disciplina penale delle scelte di fine vita all’indomani di un eventuale esito abrogativo referendario. Non perché il problema non esista, ma perché è estraneo al giudizio di ammissibilità del quesito referendario.
Di diverso avviso è invece il secondo interrogativo con il quale si introduce la possibilità che in quella sede entri in gioco – quale criterio di giudizio – la paventata irragionevolezza della normativa di risulta. Giuridicamente, lo escludo.
Fin dalle origini del proprio scrutinio referendario, la Corte costituzionale ne ha correttamente negato la trasformazione in controllo anticipato di costituzionalità sull’esito normativo del voto popolare: il giudizio di ammissibilità del referendum «si atteggia con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge» (sent. n. 251/1975; ma vedi già, in tal senso, la sent. n. 10/1972).
Affermazioni esplicite, egualmente orientate, ricorrono costantemente nella giurisprudenza costituzionale successiva (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 16/1978; 24/1981; 26/1987; 63/1990; 25/2004; 45, 46, 47, 48/2005; 15 e 16/2008; 27/2017). La ratio è sempre la stessa: il controllo di ammissibilità del referendum «non può estendersi alla valutazione della legittimità costituzionale della normativa conformata dall’eventuale accoglimento del quesito, verifica che non può che competere ai giudizi a ciò appositamente deputati» (sent. n. 17/2016).
Si tratta di un orientamento che ha trovato spettacolare attestazione nella vicenda che ha coinvolto, a suo tempo, il c.d. lodo Maccanico (art. 1, legge n. 140 del 2003) fatto oggetto contestualmente di una richiesta abrogativa popolare e di una quaestio legitimitatis: chiamata a pronunciarsi, la Corte costituzionale prima ha dichiarato incostituzionale la disposizione (sent. n. 24/2004) e poi ha deliberato l’ammissibilità del relativo referendum, benchè avente ad oggetto una norma già annullata (sent. n. 25/2004). Ai fini che qui interessano, la sequenza temporale è costituzionalmente significativa: dimostra che il giudizio di ammissibilità non è – né può dissimulare – un preventivo giudizio di legittimità costituzionale.
Intendiamoci. Nella cangiante giurisprudenza referendaria è certamente accaduto che sia stato contraddittoriamente anticipato, in sede di ammissibilità, un giudizio di legittimità sulla c.d. normativa di risulta, fino a bocciare il quesito perché possibile causa di una disciplina irragionevole. Si tratta però di precedenti costituzionalmente censurabili e per diverse ragioni. Il catalogo è questo:
1) confondono - fino all’impropria sovrapposizione – due giudizi che hanno scansioni temporali, regole processuali, finalità differenti.
2) raccontano di un sindacato prematuro e astratto – quasi profetico – su una normativa che potrebbe anche non vedere mai la luce, quando invece il giudizio di legittimità non è ad oggetto ipotetico, svolgendosi sempre su disposizioni già in vigore, valutate nel loro significato applicato;
3) alterano la tendenziale simmetria tra legge e referendum abrogativo: rispetto al bilanciamento tra interessi contrapposti effettuato in sede legislativa, infatti, il sindacato sulla sua ragionevolezza «avviene, per così dire, in seconda battuta» (Silvestri), mentre – in sede referendaria – viene anticipato dalla Corte costituzionale calibrandolo esclusivamente su quella che è, allo stato, una mera richiesta petitoria;
4) dimenticano che la normativa di risulta - se illegittima – è certamente suscettibile di un controllo di costituzionalità a posteriori, in quanto prodotto da una delibera referendaria che (come insegnava Crisafulli) è atto-fonte dell’ordinamento, avente forza di legge, imputabile allo Stato-apparato (tramite il decreto presidenziale, ex art. 37, comma 3, legge n. 352 del 1970), dunque sindacabile dalla Corte costituzionale ex art. 134 Cost.
Costituzionalmente, la «trasfigurazione» (Morrone) in sindacato anticipato di ragionevolezza rappresenta uno sviamento funzionale del giudizio di ammissibilità referendaria, ed è un’anomalia del sistema perché l’ordinamento non prevede un giudizio di costituzionalità preventivo. Farà bene allora la Corte a tenere separati i due piani, tutelando così la propria legittimazione dall’accusa di negare arbitrariamente il diritto di voto (referendario).
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n. 242/2019?
La domanda imposta un parallelo giuridicamente improponibile tra quanto disposto da una sentenza costituzionale d’accoglimento e quanto può disporre una fonte unidirezionale qual è il referendum abrogativo. Se è vero, infatti, che entrambe operano su disposizioni, le virtualità manipolative di cui la Corte costituzionale dispone (oggi anche fuori dalla gabbia delle “rime obbligate”: cfr. sent. n. 236/2016) non sono commensurabili con quelle, ben più ridotte, del quesito referendario (anche quando manipolativo: vedi, supra, risposta n. 3).
Si pensi – per rimanere in tema – alla pluralità di fonti, normative e giurisprudenziali, cui la sent. n. 242/2019 ha potuto attingere e coordinare nel ridisegnare l’art. 580 c.p.: operazione strutturalmente preclusa al quesito sull’art. 579 c.p., giacchè un referendum non può che abrogare una legge o parte di essa, innovando l’ordinamento nei limiti del possibile.
Se un confronto può farsi tra la sent. n. 242/2019 e il quesito abrogativo in esame è, semmai, su un piano di politica del diritto. Per un verso, come il giudicato costituzionale restringe il divieto di cui all’art. 580 c.p., così l’esito referendario restringe il divieto di cui all’art. 579 c.p. Per altro verso, come la sent. n. 242/2019 trova la propria causa efficiente nell’inerzia legislativa (rispetto al monito formulato nell’ord. n. 207/2018), così l’iniziativa referendaria reagisce al mancato esame parlamentare di una proposta di legge d’iniziativa popolare in materia, depositata alla Camera già nel 2013 e mantenuta all’ordine del giorno dell’attuale legislatura ai sensi dell’art. 107, 4° comma, del suo regolamento (cfr. XVIII Legislatura, AC n.2, «Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia»)
Quanto al piano più strettamente giuridico, altre semmai sono le convergenze parallele tra una dichiarazione d’incostituzionalità e un’abrogazione popolare.
Come la Corte costituzionale ha teorizzato che eventuali conseguenti disarmonie normative non impediscono un suo intervento demolitorio (cfr., in ambito penale, sentt. nn. 32/2014 e 149/2018; in generale, cfr. ord. 18/2021), così non è possibile bocciare un quesito referendario perché la sua (eventuale) normativa di risulta potrebbe introdurre disarmonie ordinamentali. La prova regina è in una nota pagina della storia referendaria italiana: era il 1981 quando furono dichiarati ammissibili due quesiti in tema di interruzione volontaria della gravidanza, benchè antagonisti nel loro obiettivo e che avrebbero potuto determinare «esiti incerti o contraddittori o perfino indecifrabili» (cfr. sent. 26/1981).
Come i problemi insorgenti dalle conseguenze – spaziali e temporali - di una dichiarazione d’incostituzionalità «sono, evidentemente, problemi di interpretazione, e devono pertanto essere risolti dai giudici comuni, nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali» (sent. n. 49/1970), così rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa del giudice comune ricomporre il quadro ordinamentale a seguito della novità normativa introdotta per via referendaria. Giudicato costituzionale e risultato abrogativo, infatti, non sono mai autoapplicativi.
Così – per restare in tema – l’impossibilità di dedurre dal quesito referendario in esame quella normativa specifica che accompagna l’eutanasia attiva in tutti gli ordinamenti che si sono dati una legislazione in materia, non può essere elevato a motivo d’inammissibilità. Da un referendum non è lecito aspettarsi (né è legittimo esigere) simili miracoli normativi. Vale qui, come per ogni altra materia incisa da un quesito abrogativo, quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale: «ogni altra considerazione, pur attendibile, sull’esigenza che, a seguito dell’eventuale abrogazione referendaria, si pongano in essere gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa "di risulta", eliminandone disarmonie o incongruità eventualmente discendenti dalla parzialità dell’intervento abrogativo o dall’assenza di discipline transitorie e conseguenziali, non é tale da pregiudicare l’ammissibilità del referendum» (sent. n. 37/2000).
In attesa di un legislatore meno accidioso, spetterà all’interprete applicare analogicamente i requisiti in materia di disposizioni anticipate di trattamento (legge n. 219 del 2017), valorizzare – se possibile – le modalità di accertamento del consenso introdotte con sent. n. 242/2019 per il reato di aiuto al suicidio, verificare del consenso - esigito dall’art. 579 c.p referendato - la validità, l’efficacia, la revocabilità.
Vorrei insistere sul punto, con ulteriori argomenti. Cortocircuiti tra l’esito referendario e disposizioni in vigore sono possibili, come sempre in caso di produzione di nuove norme. L’ordinamento giuridico per questo appresta strumenti atti a risolverli: l’attività interpretativa dei giudici; i criteri di risoluzione delle antinomie; l’impugnazione della disposizione di dubbia costituzionalità; la sopravvenuta modifica legislativa. Rimedi che scattano nel momento applicativo della legge o alla luce di esso. Non prima, nella fase della produzione normativa (legislativa o referendaria).
Segnalo che lo stesso procedimento referendario (legge n. 352 del 1970) prevede possibili rimedi a un temuto caos normativo, prevenendolo. Riconosce al legislatore la possibilità di intervenire sulla legge oggetto del quesito «prima della data dello svolgimento del referendum» (art. 39). Consente al Capo dello Stato, su richiesta del Governo, di ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione referendaria «per un termine non superiore a 60 giorni» dalla pubblicazione dei suoi esiti (art. 37, comma 3), utili per approvare una legge o decreto legge in materia. Né è mancato in passato un intervento legislativo ad hoc per regalare altro tempo al legislatore: cfr. legge n. 332 del 1987 che, in deroga al citato art. 37 della legge n. 352 del 1970, ne raddoppiava i termini per differire gli effetti dell’abrogazione referendaria, al fine di agevolare l’approvazione della legge n. 117 del 1988 (c.d. Vassalli, in tema di responsabilità civile dei magistrati).
Il timore di anomie o di conflitti normativi, dunque, è argomento che gioca per un intervento legislativo (prima o dopo l’appuntamento referendario), non contro l’ammissibilità del quesito abrogativo. Infatti, «le Camere conservano la propria permanente potestà legislativa, sia nella fase dell'iniziativa e della raccolta delle sottoscrizioni, sia nel corso degli accertamenti sulla legittimità e sull'ammissibilità delle richieste, sia successivamente alla stessa indizione del referendum abrogativo» (sent. n. 68/1978), sia «dopo l’accoglimento della proposta referendaria» (sent. n. 33/1993).
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
Giuridicamente, si tratta di binari paralleli. Allo stato (cfr. il testo unificato assunto come testo base, il 6 luglio 2021, dalle Commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera) la proposta di legge riguarda esclusivamente la modifica dell’art. 580 c.p. e ricalca le condizioni poste dalla sent. n. 242/2019 per scriminare la condotta del soggetto agente. Diversamente, il quesito referendario agisce sulla differente fattispecie dell’art. 579 c.p.
Può ipotizzarsi che l’ammissibilità del quesito determini un’accelerazione nel lento processo legislativo, spingendo ad includervi anche una modifica del reato di omicidio del consenziente, al fine di evitare l’altrimenti certa scadenza referendaria. Vedremo. Per essere centrato, l’obiettivo richiede però che la novella legislativa risulti innovativa nei principi ispiratori e nei contenuti normativi essenziali rispetto al vigente art. 579 c.p. Diversamente, si imporrebbe il trasferimento del quesito abrogativo sulla disciplina sopravvenuta, per decisione dell’Ufficio centrale, previa opportuna riformulazione della domanda referendaria (cfr. sent. n. 68/1978). E su questa gli elettori sarebbero chiamati a votare.
Spingendoci oltre a quanto prospetta la domanda, si può prefigurare il diverso e ulteriore scenario in cui il quesito abrogativo - in ipotesi ammesso dalla Corte costituzionale - sia poi validamente approvato nelle urne. In questo caso scatterebbe il divieto di (formale o sostanziale) ripristino della norma abrogata dalla volontà popolare, desumibile dall’art. 75 Cost. secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale.
È vero, infatti, che il legislatore, «pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere d’intervenire nella materia oggetto di referendum» (sent. n. 33/1993). La sua discrezionalità è però circoscritta in ragione del voto popolare che «manifesta una volontà definitiva e irripetibile» (sent. n. 468/1990) e il cui effetto utile non può essere posto nel nulla o vanificato. Concretamente, quello che sorge è un vincolo negativo per il legislatore: il referendum preclude «la scelta politica di far rivivere» la disciplina abrogata, anche soltanto «quale norma transitoria» (sent. n. 468/1990), come pure la possibilità di ripristinarla in futuro «senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto», tenuto anche conto del «lasso di tempo intercorso» fra la pubblicazione dell’esito della consultazione referendaria e l’adozione della nuova normativa (sent. n. 199/2012).
Guardàti dalla giusta distanza, sono due scenari (ante e post referendum) che confermano la funzione dialettica degli strumenti di democrazia diretta nel sistema della democrazia rappresentativa delineata dal dettato costituzionale. E segnalano come l’iniziativa legislativa referendaria assunta dall’Associazione Luca Coscioni – superato il vaglio di ammissibilità - si traduca in un’ipoteca normativa già ora e, a fortiori, all’indomani di una sua vittoria nelle urne, condizionando comunque le scelte legislative in materia di eutanasia.
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
L’unica certezza nella giurisprudenza referendaria è l’incertezza del suo esito. Le contraddittorie decisioni della Corte costituzionale – anche all’interno di una medesima tornata referendaria - e l’incrementale creazione di sempre cangianti criteri di giudizio hanno finito per «minare la certezza del diritto» (Paladin) circa una ragionevole prevedibilità sulla sorte di un quesito abrogativo popolare. Si badi: comunque formulato, perché – come icasticamente è stato detto - «se il referendum è manipolativo allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è manipolativo; se il referendum è sull’intera legge allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è sull’intera legge» (Silvestri).
Ciò detto, resta pur vero che «nel modello costituzionale regola è il referendum, eccezione è l’inammissibilità» (Zanon). Nel dubbio tra le due alternative, inviterei i giudici costituzionali ad attenersi saggiamente al canone ermeneutico generale che vuole di stretta interpretazione le norme limitative dell’esercizio di diritti. Nel voto abrogativo popolare, infatti, si esprime esattamente questo: un diritto costituzionale di partecipazione politica.
Giustizia Insieme, per mantenere vivo il dibattito sulle riforme in corso aventi ad oggetto la giustizia civile, pubblica il parere del CSM approvato in data 15 settembre 2021, trasmesso alla ministra della Giustizia, e il testo finale approvato dalla Commissione Giustizia del Senato sui dd.d.l. 1662 e 311-A, comunicato alla Presidente il 15 settembre 2021.
Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8).
di Andreina Scognamiglio
Sommario. 1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e l’iter motivazionale della pronuncia. - 2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase dell’ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a. – 3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice – 4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario. -5. Conclusioni.
1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e iter motivazionale della pronuncia.
In risposta ai quesiti sollevati dalla ordinanza n. 6925 del 2020 della Sezione IV, la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla questione se l’amministrazione soccombente in giudizio conservi, o meno, il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta o dopo il suo insediamento e su vari problemi connessi e/o conseguenziali.
Con la sentenza n. 8 del 25 maggio 2021, l’organo della nomofilachia della giurisprudenza amministrativa ha statuito dunque che:
La Plenaria sottolinea pure che le soluzioni sopra sintetizzate valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio.
La motivazione della sentenza fa leva in primo luogo sulla formulazione dell’art. 21 c.p.a., il quale, sciogliendo la risalente disputa sulla natura soggettiva del commissario (se ausiliario del giudice, organo straordinario dell’amministrazione o organo misto), espressamente lo qualifica quale ausiliario del giudice. Ma, accanto al dato formale della qualificazione soggettiva del commissario, la Plenaria argomenta le proprie conclusioni dalla chiara enunciazione, pure dovuta al legislatore del codice, dei presupposti per la sua nomina del commissario ad acta che è ammessa quando il giudice debba sostituirsi all’amministrazione e laddove tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito dalla norma attributiva della medesima. Ciò implica che il perimetro dell’azione del commissario coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato. E’ dunque nell’ambito della giurisdizione che il commissario agisce.
Così argomentando la Plenaria sposta l’angolo di visuale ed il punto nodale che non è più, tanto, quello della qualificazione soggettiva del commissario quale ausiliario del giudice quanto quello oggettivo della qualificazione della attività da lui svolta.
L’attività del commissario è attratta nella “giurisdizione” poiché trova il suo fondamento nella decisione del giudice e perché è funzionale alla effettività della tutela giurisdizionale. L’investitura e la finalità escludono che attività posta in essere dal commissario ad acta possa essere ricondotta ad esercizio di amministrazione. “Il potere esercitato dal commissario ad acta – prosegue la sentenza – ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare”. Diversamente, anche nella fase della esecuzione della sentenza, il potere che l’amministrazione esercita trova il suo fondamento nella norma attributiva del potere ed è funzionalizzato alla cura dell’interesse pubblico. Ne consegue che solo impropriamente si può parlare di “sostituzione” del giudice (e per esso del commissario) alla amministrazione perché “detta sostituzione non avviene nell’esercizio del medesimo potere, ma solo con riferimento a ciò che l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per dare attuazione al giudicato e rispetto al quale è invece rimasta inottemperante”.
La diversa natura dei poteri esercitati dal commissario ad acta e dalla amministrazione nella fase della ottemperanza alla sentenza ne postula la netta distinzione e ne rende possibile un esercizio “concorrente”. Ciò comporta che fino al momento in cui l’amministrazione o il commissario non abbiano dato esecuzione alla sentenza, l’un soggetto o l’altro possono indifferentemente provvedere.
Nel commentare l’ordinanza di rimessione della IV Sezione[1], si era accordata preferenza alla tesi della decadenza dell’amministrazione dal potere di provvedere in esecuzione della pronuncia giurisdizionale in base alla considerazione che l’ordinamento, e comunque ragioni di razionalità del sistema, non tollerano che lo stesso potere sia esercitato contemporaneamente a due soggetti diversi.
Con una soluzione originale, la Plenaria muta radicalmente la prospettiva: per le ragioni sopra sintetizzate, l’attività posta in essere dal commissario e dalla amministrazione in ottemperanza alla sentenza presentano caratteri diversi quanto alla fonte dell’investitura ed alla funzione. Tale circostanza consente l’esercizio parallelo e concorrente di entrambe che è possibile fino al momento in cui il commissario o l’amministrazione non provvedano.
2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase della ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a.
La fase dell’ottemperanza/esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo è da sempre al centro di vivaci contrasti interpretativi ed applicativi da parte della giurisprudenza teorica e pratica.
Si tratta di un dibattito che sembrava aver raggiunto alcuni punti fermi alla data della entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Per concentrare l’attenzione sugli aspetti che più interessano in questa sede, in particolare si era raggiunta una certa unanimità di vedute su due questioni: quella della natura propriamente esecutiva del giudizio di ottemperanza (con l’esclusione dal perimetro di questo di aspetti non scrutinati dalla sentenza da eseguire) e quella della estraneità rispetto ad esso di quelle attività di riedizione/edizione del potere espletate dopo la sentenza dall’amministrazione o dal commissario ad acta che non siano di mero adeguamento della realtà di fatto rispetto a quanto il processo di cognizione ha riconosciuto, esplicitamente o implicitamente, spettare alla parte ricorrente vittoriosa in giudizio. La premessa da cui muovono le considerazioni sopra sintetizzate sta nell’individuazione di due diverse situazioni che si possono avere nella fase dell’esecuzione di una pronuncia emessa in sede di giurisdizione amministrativa. La prima si verifica quando l’attività che segue alla sentenza è di mera attuazione delle statuizioni in questa contenute e di quanto il processo di cognizione ha riconosciuto spettare alla parte ricorrente e vittoriosa in giudizio; la seconda quando l’esecuzione della pronuncia comporta esercizio di discrezionalità in ordine al contenuto dell’atto da adottare. Tipicamente ciò avviene nel caso di sentenza di condanna a provvedere che non accerti altresì la “fondatezza della pretesa” e che non contenga dunque indicazioni circa il contenuto del provvedimento omesso.
3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice.
Per alcuni aspetti dette conclusioni sono fatte proprie dal legislatore del codice del processo amministrativo. La conferma è data dalla Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2 per la quale la contestazione degli atti di esercizio del potere amministrativo successivi alla pronuncia è da proporsi nei modi e nella forme del giudizio di legittimità, o nei modi dell’ottemperanza a seconda che le censure riguardino o non la violazione del giudicato. La sentenza muove appunto da quello che sopra si è definito come un punto fermo del dibattito anteriore al codice e cioè dalla considerazione del diverso regime, sostanziale e processuale, della attività di riedizione del potere posta in essere dalla amministrazione: detta attività è esecutiva della sentenza nei limiti in cui si muove nel perimetro di quanto accertato in sede di cognizione ed è invece attività discrezionale in senso proprio quando definisce aspetti non coperti da quanto accertato in sede giurisdizionale.
La chiarezza della posizione condivisa dalla Plenaria del 2013 viene meno quando l’attività successiva alla pronuncia giurisdizionale è posta in essere dal commissario ad acta qualificato, a seconda dei punti di vista, come sostituto del giudice o organo straordinario dell’amministrazione[2].
E’ vero la questione della qualificazione soggettiva del commissario era stata affrontata e apparentemente definita già dalla Plenaria n. 23 del 1978 la quale l’aveva risolta nel secondo senso chiarendo pure che, di conseguenza, gli atti posti in essere dal commissario avrebbero dovuto essere impugnati nelle forme e nei modi disciplinati dall’art. 27, n. 4 del t.u. del consiglio di stato e degli artt. 90 e 91 del regolamento di procedura. Ma già la pronuncia del ‘78, lungi dal porre fine ai dissensi, aveva alimentato ulteriormente il dibattito[3]. Ad essa seguirono infatti numerose sentenze[4] per le quali il commissario è altresì da considerare alla stregua di “organo straordinario della amministrazione” nella misura in cui, rispetto all’attività da questo posta in essere, “la nomina giudiziale rileva solo nel momento genetico dell’istituzione dell’ufficio e non nel momento operativo”.
Il punto è che figura del commissario ad acta presenta profili di ambiguità innegabili per la ragione che “nell’effettività del sistema, il commissario non si limita a compiere attività di esecuzione-ottemperanza al giudicato, ma sostituisce interamente gli organi (ordinari) dell’amministrazione nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo”[5] (o dalla sentenza di mera condanna a provvedere). L’esempio tipico di azione del commissario non meramente esecutiva perché tale da travalicare i limiti segnati dalla sentenza è proprio quello del provvedimento adottato in luogo dell’amministrazione dopo che il giudice ne abbia accertato l’inerzia. Si tratta evidentemente di vicende difficilmente conciliabili con la qualificazione del commissario quale mero ausiliare del giudice e rispetto alle quali la coerenza del sistema imporrebbe di riproporre la distinzione tra attività meramente esecutiva di quanto accertato dal giudice in sede di cognizione e attività che non trova alcun riferimento nella sentenza[6]. La prima da contestarsi mediante ricorso per l’ottemperanza, la seconda mediante ricorso di legittimità.
Non a caso, l’intervenuta disciplina positiva del rito avverso il silenzio, con la previsione della nomina del commissario in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione, ha rinvigorito il dibattito intorno alla figura del commissario. Così la sezione VI del Consiglio di stato, nella sentenza 25 giugno 2007, n. 3602 osserva che la qualificazione del commissario quale organo ausiliario male si adatta alle ipotesi in cui questi venga nominato dal giudice del rito speciale di cui (allora) all’art. 21 bis della l. n. 1034 del 1071. Infatti, in questo caso, l’attività posta in essere dal commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”. A meno di non ritenere che con la sentenza di cui all’art. 21 bis il giudice non possa limitarsi a nominare il commissario in caso di inerzia, ma debba altresì dettare le “direttive per l’operato dell’amministrazione”.
Nel codice del processo amministrativo il tentativo di attrarre nella giurisdizione l’attività del commissario ad acta è evidente. In tal senso depone la qualificazione soggettiva di questo quale “ausiliario del giudice” dovuta all’art. 21 e l’attribuzione alla competenza del giudice dell’ottemperanza di tutte le questioni relative all’esecuzione, dovuta agli artt. 114, comma 6, e 117, comma 4. Entrambe le disposizioni rimettono al giudice che lo ha nominato, e dunque al giudice dell’esecuzione, i ricorsi avverso gli atti del commissario ad acta[7], fatta salva la impugnabilità dei medesimi in sede di giurisdizione di legittimità da parte dei terzi non parti in causa.
L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio[8]; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere[9]; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione[10].
La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice[11] e fino alla recente Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7 dove l’affermazione della duplice veste del commissario ad acta e quella dell’esautoramento dell’amministrazione inadempiente da parte di questo rappresentano due passaggi essenziali della motivazione: essendo l’amministrazione inadempiente e surrogata a seguito dell’insediamento del commissario oramai priva della potestà di provvedere, essa versa in una situazione di impossibilità soggettiva sopravvenuta rispetto all’obbligo della penalità di mora e non è più tenuta al pagamento.
4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario.
La posizione della Plenaria n. 8 del 2021 è, in questo contesto, originale. L’esercizio concorrente del potere commissariale e del potere amministrativo è ritenuto possibile in ragione della diversa natura dell’attività conseguente alla pronuncia giurisdizionale amministrativa la quale varia a seconda che ad agire sia il commissario o l’amministrazione. Nel primo caso, saremmo in presenza di una attività riconducibile alla giurisdizione in forza dell’investitura e in considerazione della finalità che è quella di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale[12]. Nel secondo di un potere propriamente amministrativo in quanto conferito dalla legge in funzione del perseguimento dell’interesse pubblico.
La linea di discrimine tra attività riconducibile alla giurisdizione (e alla esigenza della sua effettività) e attività propriamente amministrativa (in quanto orientata ai criteri del buon andamento e dell’imparzialità) è tracciata in termini diversi da quelli risultanti dalla tradizione e in modo da prescindere dalla corrispondenza tra l’attività che si colloca oltre la sentenza ed il perimetro del giudicato e comunque dell’accertamento operato in sede di giudizio di cognizione.
In contrario, sul versante dell’amministrazione, si può osservare che questa non è chiamata a compiere alcuna valutazione discrezionale orientata all’interesse pubblico quando la sentenza della cui esecuzione si tratta fissa essa stessa l’assetto degli interessi conforme a legalità. La prova che l’amministrazione è obbligata alla esecuzione proprio in forza del principio di effettività della tutela giurisdizionale viene dal fatto che l’esecuzione dell’ordinanza cautelare o della sentenza esecutiva, ma non ancora passata in giudicato non comporta acquiescenza. In definitiva, per impiegare l’ordine concettuale della Plenaria, l’amministrazione è tenuta alla esecuzione perché la tutela sia effettiva e a prescindere dalle proprie valutazioni in merito all’interesse pubblico.
Per quanto riguarda il commissario ad acta, il criterio della “effettività della tutela” non sembra invece idoneo ad orientarne l’azione ogni qualvolta questa va oltre l’effetto conformativo della sentenza che è limitato. In questi casi inevitabilmente il commissario dovrà compiere valutazioni improntate all’interesse pubblico o, se vogliamo, conformate ai principi di buona amministrazione. Dunque valutazioni discrezionali in senso proprio.
L’affermazione della sufficienza del criterio della effettività (per il quale il processo deve assicurare a colui che ha agito in giudizio “tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”) presuppone un accertamento già svolto in sede di processo di cognizione e che l’attività del commissario si collochi entro i limiti della sentenza da eseguire. Sicché, per la coerenza del sistema, si dovrebbe concludere che l’azione commissariale si può innestare esclusivamente sulla sentenza che abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa del ricorrente e non, semplicemente, l’illegittimità del provvedimento negativo o l’inadempimento dell’obbligo di provvedere. Altrimenti, e specie nel rito speciale avverso il silenzio, si configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi.
Il paradosso è evitato da parte di chi limita il potere del commissario di adottare un atto satisfattivo dell’interesse sostanziale del ricorrente alle sole ipotesi nelle quali la sentenza che lo nomina abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa. La tesi è stata in effetti proposta [13], ma va contro l’evidenza dei fatti. Nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo o dalla sentenza di mera condanna a provvedere) il commissario si trova a definire in concreto l’assetto degli interessi tra le parti e dunque a compiere valutazioni discrezionali in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna. Così nel caso di cui alla pronuncia della Plenaria che aveva rimesso al commissario ad acta la valutazione della ammissibilità, o meno, di un intervento di recupero di un insediamento edilizio abusivo o anche nel caso, pacificamente ammesso[14], nel quale al Commissario è rimessa la valutazione se le concrete circostanze consentano di adottare il provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del testo unico sugli espropri.
La corrispondenza tra poteri del giudice e del commissario è recuperata, in altra prospettiva, riconoscendo al primo una giurisdizione estesa al merito nel momento in cui, a fronte di una perdurante inerzia dell’amministrazione, investe il commissario dell’esercizio di poteri sostitutivi [15].
In contrario, vale però ricordare il carattere “chiuso” delle ipotesi di giurisdizione di merito[16] tra le quali non rientra il ricorso avverso il silenzio e anche la considerazione del contenuto della sentenza che nomina il commissario ad acta e che può non prevedere alcuna direttiva per il suo operato (salvo – ancora una volta – i casi in cui essa si pronunci sulla fondatezza della pretesa sostanziale).
In ogni caso le diverse letture sopra ricordate evidenziano un punto che può considerarsi acquisito: l’affermazione per la quale il commissario agisce nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito presuppone uguale estensione ed uguale qualità dei poteri che ad entrambi fanno capo.
A questo proposito una diversa soluzione è prospettabile e passa per la valorizzazione dell’art. 117, comma 4: la corrispondenza tra poteri del commissario e poteri del giudice che non è assicurata ex ante in tutti i casi in cui la sentenza che chiude il ricorso avverso il silenzio è di mera condanna a provvedere è recuperata in sede di reclamo avverso gli atti del commissario ad acta.
In sede di reclamo, nel contraddittorio tra le parti[17], il giudice è investito dall’art. 117, comma 4, di “tutte le questioni” inerenti agli atti del commissario ad acta. Il sindacato disegnato dalla norma è ampio perché esteso a tutte le questioni e dunque ad ogni profilo di rispondenza dell’atto ai canoni del buon andamento oltre che della legalità e della imparzialità. D’altro canto il reclamo si colloca in una fase del processo che è propriamente esecutiva o di ottemperanza e perciò pacificamente ascritta alla sfera della giurisdizione di merito. La peculiarità del rito avverso il silenzio si condenserebbe allora nella circostanza per la quale qui il giudice non esercita poteri sostitutivi (della amministrazione) e direttivi (sul commissario) ex ante ma piuttosto ex post nell’ambito di un sindacato che è esteso ad ogni profilo, di legittimità e di merito, dell’attività del suo ausiliario.
5. Conclusioni.
L’attrazione nella sfera della giurisdizione (di merito) dell’attività del commissario nominato all’esito del ricorso avverso il silenzio offre validissimo supporto al principio di diritto per il quale gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela[18], né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili dinanzi al giudice che lo ha nominato[19].
Non altrettanto convincente la motivazione offerta al principio per il quale l’amministrazione conserverebbe il potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta e pure dopo il suo insediamento.
Per il destinatario della sentenza favorevole e specie nei casi in cui questa non definisca già di per sé l’assetto dei rapporti conforme a legalità, ma contempli margini di discrezionalità in sede di esecuzione, non è affatto indifferente che a provvedere sia l’amministrazione o il commissario ad acta. Se ad agire è l’amministrazione, ogni eventuale contestazione degli atti da questa adottati al di là dei limiti segnati dal contenuto di accertamento (del mero inadempimento dell’obbligo di provvedere) e di condanna (a provvedere) della sentenza da eseguire, dovrà essere proposta nei tempi e nelle forme di un ordinario giudizio di legittimità. Gli atti commissariali saranno invece reclamabili nell’ambito e con l’utilizzo di un rito che segue tempi ben più rapidi e nel quale il giudice esercita un ampio sindacato, esteso al merito.
In definita, è condivisibile la scelta della Plenaria di abbandonare definitivamente la locuzione di “organo straordinario” dell’amministrazione spesso utilizzata con riferimento al commissario ad acta nominato nell’ambito del processo e di ascrivere decisamente alla sfera della giurisdizione la sua attività. Per le ragioni sopra chiarite, merita forse un ripensamento l’opzione favorevole a conservare alla amministrazione il potere di provvedere oltre ogni limite fissato dalla sentenza e anche dopo la nomina o l’insediamento del commissario ad acta.
Resta fermo che in tutti i casi in cui il carattere ampiamente discrezionale della attività da svolgere consiglia di riservare la decisione alla competenza e alla responsabilità dell’amministrazione, le parti potranno chiedere, ed il giudice accordare, misure di coercizione indiretta dell’obbligo di provvedere, quali la penalità di mora.
[1] Sia consentito rinviare a A. Scognamiglio, Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021.
[2] Secondo R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza (addendum),in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1074, il diverso regime sostanziale e processuale a seconda che l’atto sia affetto da nullità, per contrasto con il giudicato, o da annullabilità si giustifica anche con riferimento agli atti adottati dal commissario.
[3] Nota R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza , in Dir. proc. amm., 1989, 370, che “di solito le pronunce della Adunanza Plenaria pongono fine, almeno temporaneamente, ai dissensi che si son manifestati nelle singole sezioni. Quasi di segno opposto è stato l’esito della decisione n. 23 del 1978, nella parte concernente la natura giuridica del commissario ad acta e il regime dell’impugnazione dei suoi atti”.
[4] In particolare il dibattito sulla natura del commissario straordinario e sul regime dei suoi atti è stato ancora alimentato da una serie di sentenze del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia pure riportate da Villata nello scritto citato alla nota precedente.
[5] R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione, cit.
[6] L’indirizzo favorevole a scomporre l’attività del commissario in due parti (quella meramente esecutiva della sentenza e quella discrezionale) è riconducibile a C.G.A. Sicilia, 21 dicembre 1982, n. 92; Id. 31 maggio 1984, n. 61; Id., 22 marzo 1993, n. 114; cfr. anche T.A.R. Lazio, sez. II, 12 maggio 1988, n. 681; In dottrina, S. Giacchetti, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro Amm., 1979, I, 2618; ID, Il commissario «ad acta» nel giudizio di ottemperanza: si apre un dibattito, in Foro Amm.,1986, 1967.
[7] Nella Relazione governativa al codice 7 luglio 2010, §124 emerge la chiara consapevolezza che le due disposizioni citate hanno inteso risolvere “un contrasto di giurisprudenza in ordine all’impugnabilità degli atti del medesimo commissario oramai contestabili innanzi al giudice dell’ottemperanza”.
[8] In particolare, vedi: M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, cit., 741-742. L’Autrice rileva che “se l’effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere, l’attività richiesta al commissario risulta di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisine giudiziale se non per quanto attiene all’accertamento dell’obbligo di provvedere. Ne consegue che il commissario andrebbe assimilato non già all’ausiliario del giudice nominato per dare esecuzione a una sentenza, come avviene in sede di ottemperanza, quanto semmai a un organo straordinario dell’amministrazione rimasta inerte”. In tal senso anche E. Quadri, in Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010, 1617; A. Cioffi, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. Romano (a cura di) L’Azione amministrativa, Torino, 2016, 162; V. Lopilato, Il giudizio di ottemperanza, in G.P. Cirillo, (a cura di) Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1094.
[9] G. Mari, L’azione avverso il silenzio, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, Vol. I, 250 e ss.. quando la sentenza è di mera condanna a provvedere, difatti, “il merito della questione viene valutato per la prima volta dal commissario, il quale, non potendo desumere dalla sentenza alcuna indicazione su come avrebbe dovuto svolgersi l’attività amministrativa, opererà in via autonoma, non nella veste di longa manus del giudice, quanto piuttosto di sostituto dell’amministrazione, i cui atti costituiscono autonomi provvedimenti amministrativi, impugnabili con ricorso giurisdizionale ordinario”
[10] L. Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, B. Sassani e R. Villata (a cura di), Il codice del processo amministrativo, 986 e ss..
[11] Vedi ad esempio Tar Lazio, sez. II, 8 luglio 2014, n. 7229 che assimila il commissario nominato dal giudice del silenzio “ad un organo dell’amministrazione” piuttosto che “ad un ausiliario del giudice”.
[12] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335 per la quale il commissario, in quanto figura che promana dal giudice svolge “attività soggettivamente giurisdizionale”.
[13] In tal senso vedi F. Scalia, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in www.federalismi.it 2016, 16 ss. La tesi troverebbe conferma nella lettera dell’art. 117, comma 4 che rimette al giudice del silenzio tutte le questioni relative allo “esatto adempimento”. L’impiego dell’aggettivo “esatto” starebbe a testimoniare il carattere necessariamente vincolato dell’attività propria dell’amministrazione (o del commissario che alla stessa si sostituisca) nella fase esecutiva del giudizio sul silenzio. “Solo un’attività vincolata, infatti, può essere definita con esattezza nelle modalità di esecuzione (quomodo) e nei contenuti del provvedimento in cui si esplichi, grazie al raffronto con una norma giuridica che riconosca la pretesa e ne indichi, con precisione, i presupposti oggettivi e soggettivi”. L’intenzione del Legislatore di circoscrivere ai casi di attività vincolata la nomina del commissario ad acta emergerebbe ancor più chiaramente dal raffronto tra l’art. 117, comma 4 e l’art. 114, comma 6 il quale rimette invece al giudice dell’ottemperanza: “tutte le questioni relative all’ottemperanza” L’eliminazione di ogni aggettivazione del termine “ottemperanza” –operata dal primo correttivo al codice – è letta come chiaro indice della volontà del legislatore di concentrare dinnanzi al giudice dell’ottemperanza ogni questione sollevata dalle parti concernente gli atti commissariali, ancorché i vizi che vengano dedotti non si identifichino con i profili di contrasto rispetto alle pregressa statuizione giurisdizionale, ma siano relativi all’ambito di discrezionalità dell’azione del commissario ad acta. Nel rito speciale avverso il silenzio, l’accertamento nel merito della fondatezza della pretesa sarebbe rimesso al giudice dell’ottemperanza da adirsi con un nuovo ricorso nel caso in cui persista l’inerzia dell’amministrazione.
[14] Cons. Stato, Ad. plen, 2 febbraio 2016, n. 2.
[15] In tal senso: V. Lopilato, Articolo 117 – Ricorsi avverso il silenzio, in F. Caringella - M. Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Milano 2012, 1143 e, già nel vigore dell’art. 21 bis della legge Tar, G. Montedoro,Ottemperanza speciale “contra silentium” ed ottemperanza anomala nel processo amministrativo”, in Urbanistica ed appalti, 2001, 892-893
[16] Come desumibile dal confronto tra la formulazione dell’art. 133 e dell’art. 134 c.p.a.. La prima norma, nel dettare l’elenco dei casi di giurisdizione esclusiva, fa espressamente salve “ulteriori disposizioni di legge”. Un inciso analogo non è invece contenuto nell’art. 134 c.p.a.
[17] Significative dell’incerta natura dell’attività del commissario le perplessità della giurisprudenza riguardo alla soggezione o meno di questa alle regole del giusto procedimento. Così per Cons. stato, sez. III, 27 novembre 2017, n. 5500 “Per quanto sia auspicabile che il commissario coinvolga le parti, al fine del raggiungimento di un eventuale accordo, comunque non esiste alcuna disposizione che obblighi il Commissario ad acta a compiere la sua attivitàgarantendo la partecipazione delle parti. L’esigenza di tutela delle ragioni di quest’ultime è assicurata nell’ambito del giudizio di ottemperanza dinanzi al Giudice, al quale può essere presentato eventualmente reclamo nel caso in cui le determinazioni del Commissario ad acta siano ritenute in contrasto con la statuizione giudiziale da eseguire (artt. 112 ss. D.Lgs. n. 104/2010, CPA). Mentre il Tar del Lazio, 17 gennaio 2010, n. 775 si è pronunciato nel senso dell’illegittimità “per la mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza e per la conseguente adozione del provvedimento negativo senza il previo contraddittorio procedimentale, il provvedimento con cui il commissario ad acta all'uopo nominato ha rigettato l'istanza con cui l'Associazione italiana di diritto comparato aveva chiesto al ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di dichiarare la reciproca ed esclusiva affinità tra i settori scientifico-disciplinari Ius 02 (diritto privato comparato) e Ius 21 (diritto pubblico comparato)”.
[18] In tal senso, cfr. Cons. stato, sez. IV, 18 agosto, 2021, n. 2335 e il bel commento di R. Fusco, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio, in questa Rivista, 3 maggio 2021.
[19] Vedi supra al §1, n. 3.
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