ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Processo penale e accertamento della causalità agli effetti civili
di Aniello Nappi
1. Con la sentenza n. 182 del 2021 la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p., ha affermato che il giudice dell’impugnazione penale, quando deve pronunciarsi sull’azione civile in presenza di un’estinzione del reato per prescrizione o amnistia, «non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all'evento in base alla regola dell'”alto grado di probabilità logica” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 10 luglio-11 settembre 2002, n. 30328). Per l'illecito civile vale, invece, il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)».
In realtà non v’è alcun dubbio che lo standard probatorio richiesto nel processo penale per l’accoglimento della domanda del pubblico ministero sia più elevato di quello richiesto nel processo civile per l’accoglimento della domanda dell’attore. Del resto è anche in questa prospettiva che l’art. 193 c.p.p. esclude l’applicazione nel processo penale dei «limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza».
Tuttavia la giurisprudenza civile, inclusa quella evocata dalla Corte costituzionale, è concorde nel senso che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili» (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899, Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741, m. 608391, Cass., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967). Sicché, «fermo restando il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell'ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell'esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto» (Cass., sez. L, 3 gennaio 2017, n. 47, m. 642263, Cass., sez. I, 30 giugno 2021, n. 18584, m. 661816).
Occorre dunque tener ben distinto il problema della dimensione logica della causalità, identica per la responsabilità sia civile sia penale, da quello dei diversi standard probatori richiesti per il suo accertamento: standard che riguardano la prova non solo del fatto causante e del fatto causato, ma anche della cosiddetta legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato.
Il problema dell’accertamento solo probabilistico, anziché al di là di ogni ragionevole dubbio, può riguardare dunque l'esistenza della legge di copertura, non può riguardare il contenuto e la portata di questa legge, che deve valere sempre in termini di condizionalità necessaria, se si vuole parlare correttamente di causalità, rimanendo fedeli alla evocata teoria condizionalistica.
Come si è ben chiarito in dottrina, «un enunciato che connette due fatti in termini di probabilità, affermando che l’esistenza dell’uno rende probabile l’esistenza dell’altro, non è equivalente ad un enunciato che connette due fatti affermando che uno è causa dell’altro» (M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.). La teoria condizionalistica, in quanto definizione logica della causalità, spiega appunto qual è l’uso corretto del concetto di causa: un fatto che non sia condizione necessaria di un evento non ne può essere considerato causa; e il rapporto di condizionalità necessaria può essere enunciato solo sulla base di una legge di copertura generale o quasi generale (M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Nel processo penale l’esistenza della legge di copertura deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio; nel processo civile può essere ritenuta sufficiente anche la dimostrazione in termini solo probabilistici di una legge di copertura pur sempre formulata in termini generali, perché ad esempio fondata su una teoria scientifica ancora controversa.
2. Questa conclusione ha importanti conseguenze quando occorra accertare il nesso di causalità ai fini del riconoscimento della responsabilità civile nell’ambito o nel seguito di un processo penale.
2.1. Nel giudizio penale di primo grado non è possibile scindere l’accertamento della responsabilità civile dall’accertamento della responsabilità penale, perché l’art. 538 c.p.p. prevede che solo quando pronuncia sentenza di condanna il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento del danno. Quando pronuncia sentenza di assoluzione o di proscioglimento, il giudice penale di primo grado non può riconoscere la responsabilità civile neppure nei casi in cui l’esclusione della responsabilità penale non lo precluderebbe.
2.2. Secondo l’interpretazione ribadita dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 182 del 2021, anche nei giudizi di impugnazione penale promossi ai soli fini civili l’accertamento della responsabilità civile non è scindibile dall’accertamento della responsabilità penale, cui il giudice deve sempre procedere indipendentemente dalla possibile efficacia extrapenale della sentenza di proscioglimento impugnata, perché l'art. 576 c.p.p. non distingue tra le formule di proscioglimento che ammettono l'impugnazione. Infatti, nel prevedere l'impugnazione ai soli effetti civili della sentenza di proscioglimento, l'art. 576 c.p.p esclude certamente la possibilità che la parte civile ottenga in appello una condanna penale in sostituzione del proscioglimento deciso dal giudice di primo grado, ma riconosce la possibilità che la domanda civile venga accolta con una naturale pronuncia di condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno: anche quando il giudice dell’impugnazione debba dichiarare l’estinzione del reato (Cass., sez. III, 18 ottobre 2016, Sdolzini, m. 268894); e anche quando l’estinzione fosse stata dichiarata o confermata con la sentenza impugnata (Cass., sez. un., 28 marzo 2019, Massaria, m. 275953).
Insomma, secondo quanto prevede l’art. 576 c.p.p., la parte civile è legittimata a impugnare la decisione che ne abbia rigettato le conclusioni, indipendentemente dall’efficacia che quella decisione possa avere nel giudizio civile (C. cost., n. 176/2019). Era con il codice abrogato che, in mancanza di una norma come l’attuale art. 576 c.p.p., la Corte costituzionale aveva riconosciuto alla parte civile il diritto di ricorrere per cassazione a norma dell’art. 111 Cost., se la decisione poteva pregiudicarne la difesa nel giudizio civile. Con il codice vigente l’interesse a impugnare va verificato con riferimento al processo penale in corso, non con riferimento a un eventuale successivo giudizio civile, perché è l’art. 576 c.p.p., non l’art. 111 Cost., a legittimare la parte civile all’impugnazione (NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, §74.2.4, www.guidanappi.it).
Sicché l’art. 576 c.p.p. deroga all’art. 538 c.p.p., perché ammette il riconoscimento della responsabilità civile benché non possa essere pronunciata condanna ai fini penali.
2.3. Analogamente prevede l’art. 578 bis c.p.p. per il caso in cui sia stata «ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell'articolo 240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall'articolo 322-ter del codice penale». In questi casi infatti «il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato». La disposizione si giustifica in ragione del fatto che la confisca in casi particolari è ammessa dall’art. 240 bis e dall’art. 322 ter c.p. solo se vi sia condanna per alcuno dei reati elencati. Sicché l’art. 578 bis c.p.p. rende possibile la conferma in sede di impugnazione della confisca già disposta in primo grado, anche quando l’estinzione del reato precluda la conferma della condanna, ove venga riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato.
Anche in questo caso v’è dunque un accertamento incidentale della responsabilità penale, non finalizzato all’irrogazione di una sanzione penale bensì alla conferma di una misura di sicurezza; come nel caso previsto dall’art. 576 c.p.p., in cui v’è un accertamento incidentale della responsabilità penale finalizzato esclusivamente al riconoscimento della responsabilità civile (C. cost., n. 176/2019, Cass., sez. III, 18 ottobre 2016, Sdolzini, m. 268894).
2.4. Secondo quanto ha chiarito la Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021, invece, nessun accertamento nemmeno incidentale della responsabilità penale è richiesto dall’art. 578 c.p.p., che legittima il giudice dell’impugnazione penale all’accertamento della sola responsabilità civile dell’imputato, quando, investito dell’impugnazione proposta contro una sentenza di condanna in primo grado o in appello, debba dichiarare non doversi procedere ai fini penali per la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o per amnistia.
Sicché anche l’art. 578 c.p.p., come l’art. 576 c.p.p., deroga alla norma dettata per il giudizio di primo grado dall’art. 538 c.p.p., consentendo una pronuncia sull’azione civile pur in mancanza di una pronuncia di condanna agli effetti penali. Ma mentre l’art. 576 c.p.p. esige un accertamento incidentale della responsabilità penale dell’imputato prosciolto, l’art. 578 c.p.p. esclude qualsiasi accertamento della responsabilità penale dell’imputato già condannato in primo grado.
Con l’art. 578 c.p.p. v’è dunque una scissione tra accertamento della responsabilità penale e accertamento della responsabilità civile, perché il giudice dell’impugnazione penale potrà pronunciare condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata da escludere indipendentemente dall’estinzione del reato. Quel che non sarebbe mai stato possibile nel giudizio di primo grado diviene possibile nel giudizio di impugnazione, a fini di economia processuale. Ed è questa scissione del giudizio sulla responsabilità penale dal giudizio sulla responsabilità civile che rende rilevante la differenza degli standard probatori richiesti ai fini dei due diversi giudizi.
Il giudice dell’impugnazione penale, pur decidendo per il resto secondo le regole del proprio processo, dovrà dunque attenersi allo standard probatorio del processo civile. Se si tratterà del giudice d’appello, si pronuncerà sull’azione civile a norma degli art. 539 e s. c.p.p., accogliendo o rigettando nel merito la domanda della parte civile. Se si tratterà della Corte di cassazione, verificherà se la motivazione in fatto esibita dal giudice del merito sia censurabile a norma degli art. 606 e 609 c.p.p.
Ciò cui la scissione dei giudizi di responsabilità assegna rilevanza, infatti, è la differenza dei due standard probatori, che attengono ovviamente al giudizio di fatto, sul quale la Corte di cassazione ha un sindacato limitato alla motivazione.
2.5. L'art. 622 c.p.p. prevede infine che la Corte di cassazione possa disporre l'annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello non solo quando l'annullamento interessi soltanto le disposizioni o i capi della sentenza riguardanti l'azione civile ma anche quando accolga il ricorso proposto ai soli effetti civili contro una sentenza di proscioglimento. E questa norma, che presuppone la possibilità di una pronuncia d'appello sulla sola domanda civile, non può essere considerata solo un «lapsus normativo», come riteneva il compianto prof. Cordero, nel presupposto che le sentenze di proscioglimento siano impugnabili dalla parte civile solo quando ne subirebbe effetti extrapenali sfavorevoli, come con il codice abrogato. L’art. 622 c.p.p. è del tutto coerente con la previsione dell’art. 576 c.p.p., così come interpretato dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.
L’art. 622 c.p.p. prevede dunque una più radicale separazione del giudizio civile dal giudizio penale, con la conseguenza che la decisione sull’azione civile avverrà non solo sulla base del suo proprio standard probatorio ma anche in conformità alle norme del codice di procedura civile. Se con l’art. 578 c.p.p. l’accertamento della responsabilità civile è pur sempre regolato dalle norme del codice di procedura penale, benché in conformità allo standard probatorio proprio della giudizio civile, con l’art. 622 c.p.p. anche il rito dell’accertamento sarà quello civile.
È controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma talora la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433). Ma questo secondo orientamento, benché non ritenuto implausibile neppure dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 182 del 2021, non è condivisibile.
Può accadere infatti che l’annullamento ai sensi dell’art. 622 c.p.p. sia disposto perché la Corte di cassazione ha considerato inadeguata la legge di copertura esibita dal giudice penale del merito quale criterio di accertamento della causalità. La censura non riguarderebbe dunque un giudizio di fatto circa l’effettiva esistenza della legge di copertura ma un giudizio di diritto circa l’idoneità della legge di copertura ipotizzata dal giudice penale di merito. Con la conseguenza che il giudice civile di merito non potrebbe affermare, al contrario, che l’ipotizzata legge di copertura sia idonea, così violando lo stesso art. 384 c.p.c.
Come s’è detto, la giurisprudenza civile ritiene che la dimensione logica della causalità sia identica per la responsabilità civile e per la responsabilità penale, essendo regolata per entrambe le responsabilità dagli art. 40 e 41 c.p.: non si vede perché la sentenza di annullamento per violazione degli art. 40 e 41 c.p. pronunciata ai sensi dell’art. 622 c.p.p. non debba vincolare il giudice civile del rinvio.
Neoliberismo concorsuale e le svalutazioni competitive: il mercato delle regole
di Pasquale Liccardo
Sommario: 1. Premessa - 2. La semplificazione infinita - 3. Autopoietismo societario e misure protettive - 4. Conclusioni.
1. Premessa
Si propone qui un primo esame del Decreto-Legge 24 agosto 2021, n. 118 negli snodi fondativi della “composizione negoziata della crisi d’impresa” (artt. 2 e ss.) che si assume costituiscano un nuovo incipit del nostro ordinamento concorsuale, per poi evidenziarne i possibili richiami teorici e le linee ispiratrici di fondo: in tale quadro, si procede a una lettura ab externo degli istituti di nuovo conio, rimandando ad altra sede ogni analisi di dettaglio.
La Relazione al D.L. n. 118 assume a motivo dell’intervento l’emergenza Covid che imporrebbe il superamento dei meccanismi previsti dal codice della crisi, come l’allerta (sia interna che esterna) e gli strumenti di soluzione negoziata della crisi, assumendosi espressamente che la loro complessità non consentirebbe quella necessaria “gradualità nella gestione della crisi che è richiesta dalla situazione determinata dalla pandemia”, sottolineando altresì come “il rinvio dell’allerta esterna disposto con l’articolo 5, comma 14, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 maggio 2021, n. 69, ha inciso in maniera rilevante sul complessivo impianto delineato del Codice della crisi d’impresa privandolo di una fase sulla quale sono stati pensati e costruiti altri istituti disciplinati dallo stesso Codice, tra i quali il concordato preventivo”.
Dalla stessa Relazione emerge un intento di complessiva ricodificazione degli strumenti di governo della crisi d’ impresa in ragione dell’emergenza Covid, ulteriormente motivato dall’ impossibilità di mantenere nel medio periodo la disciplina della legge fallimentare del 1942 per l’esposizione dello Stato italiano alla procedura di infrazione per il mancato recepimento della direttiva UE 2019/1023[1] con la conseguente necessità della sua ricezione entro il 17 luglio 2022, termine questo peraltro già prorogato su richiesta inoltrata alla Commissione Europea.
Vedremo subito che la semplificazione introdotta costituisce un fragile miraggio del legislatore dell’urgenza e che ogni richiamo legittimante alle previsioni comunitarie della Direttiva UE 2019/1023 risulta sostanzialmente tradito da una riscrittura valoriale degli spazi istituzionali fino a oggi riservati anche dal CCII alle articolazioni del diritto concorsuale tanto nella fase negoziata quanto nella fase più strettamente procedurale: non senza considerare come la Commissione Rordorf avesse avuto modo di prendere visione della Proposta 0359 del 2016 che ne anticipava in massima parte le linee ispiratrici, giungendo pertanto alla codificazione di un sistema concorsuale coerente che le indicazioni operate in sede comunitaria sia dalla Direttiva n. 1132/2017 sia dalla successiva Direttiva UE Insolvency n. 1023/2019.
2. La semplificazione infinita
La composizione negoziata della crisi di impresa richiama nel suo incipit l’esperienza normativa ormai regressiva del Codice della Crisi (art. 19), con l’istanza formulata dall’imprenditore che assuma di versare in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza, richiedendo la nomina di un esperto che agevoli le trattative con il ceto creditorio “ed eventuali altri soggetti interessati”, al fine di individuare una soluzione per il superamento della crisi, anche mediante il trasferimento dell’azienda o di rami di essa: rispetto alla previsione del codice della crisi. Si tratta, all’evidenza, di un’innovazione di sicuro significato concorsuale, sia perché apre alle trattative anche con eventuali altri soggetti interessati sia perché si individua come possibile oggetto delle trattative il trasferimento coattivo dell’azienda o di suoi rami (“senza gli effetti di cui all’articolo 2560, secondo comma, del codice civile”, art. 10, comma1, lett. d) ovverosia un esito del tutto estraneo alla previsione codicistica che aveva come unico esito positivo possibile la sola stipulazione di un accordo di diritto comune quand’anche avesse ad oggetto il trasferimento dell’azienda: si tratta, all’evidenza, di una trasmigrazione di significato istituzionale proprio delle sole procedure concorsuali nella fase negoziata, non previsto dalla Direttiva, riconducibile quindi ad una scelta lucidamente operata dalla Commissione anche con riferimento agli snodi successivi del concordato semplificato (art. 18).
Del pari, l’esito negativo della composizione negoziata è caratterizzato dall’assoluta irrilevanza concorsuale della archiviazione del procedimento, in quanto la relazione negativa dell’esperto o la chiusura della procedura per scadenza del lungo termine pure previsto (180 gg.) può al massimo comportare la cessazione degli effetti delle misure protettive e cautelari concesse da parte del giudice (artt. 6 e 7 dello stesso intervento riformatore), senza peraltro alcuna segnalazione al Pubblico Ministero pure prevista dall’art. 22 del CCII: sempre l’imprenditore potrà presentare nei sessanta giorni successivi un concordato per la liquidazione dei beni a norma dell’art. 18 dello stesso decreto.
Un’ultima considerazione: già nella relazione illustrativa al decreto legislativo di attuazione della legge delega 19 ottobre 2017 n. 153, l’intento di “semplificare l’attuale testo normativo, per molti aspetti troppo complicato e farraginoso” era ben presente e opportunamente considerato dalla Commissione, proponendosi una riarticolazione valoriale degli istituti della composizione negoziale della crisi e delle procedure minori tutta protesa alla tempestiva emersione e al consapevole governo della crisi imprenditoriale.
Ben altri dovevano essere gli interventi rivolti alla semplificazione reale del conflitto da insolvenza, quali ad esempio individuati dalla stessa legge delega del 2017 nel farraginoso sistema dei privilegi generali e speciali e nella ricostruzione del capitale semantico della giuridicità concorsuale per il tramite di un sistema informativo concorsuale votato alla contestualizzazione dell’azione esercitata da ogni attore sociale nel conflitto.
La sola idea della semplificazione non può pertanto sorreggere le ragioni dell’intervento riformatore proposto in via d’urgenza con la normativa in esame, che va pertanto correttamente ricondotto alle teorie di deregulation neoliberista del diritto fallimentare d’oltre oceano[2] ormai superate dopo la crisi finanziaria del 2008 e i danni collaterali prodotti sul sistema economico mondiale.
3. Autopoietismo societario e misure protettive
Gli elementi di maggiore novità che è dato cogliere ad una prima lettura, sia sotto il profilo del diritto commerciale che del diritto concorsuale, sono delineati negli artt. 6 - 9 dell’intervento riformatore.
E invero, all’art. 8 si prevede espressamente che l’imprenditore possa dichiarare che “dalla pubblicazione dell’istanza sino alla conclusione delle trattative o alla sua archiviazione, non si applicano gli artt. 2446, secondo e terzo comma, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma e 2482-ter del codice civile, e la non operatività della causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, n. 4), e 2545-duodecies del codice civile. Su istanza del debitore, il provvedimento può essere pubblicato nel registro delle imprese”.
Pur nel presente quadro emergenziale[3], appaiono evidenti i motivi di perplessità insiti nella previsione in esame, laddove si considerino anche i limiti posti alla sterilizzazione delle perdite dalla normativa Covid (esercizio 2020) e al presidio codicistico costituito dalla normativa in tema di redazione ed approvazione del bilancio.
La novità proposta è nell’autopoietismo della sospensione degli istituti di diritto societario sopra richiamati, con l’iscrizione del loro regime all’interno delle misure protettive, laddove nel codice della crisi la sospensione costituiva una delle misure protettive della composizione assistita che andava concessa dal giudice (art. 20, comma 4°).
La previsione non è imposta dall’attuazione della Direttiva che lascia agli Stati membri ampio margine di manovra[4] .
Non si tratta solo della scelta autonomamente proposta dal legislatore del DL 118, della disattivazione delle regola “ricapitalizza o liquida” del diritto societario quanto piuttosto della sostituzione alla normativa presidiale sia societaria che concorsuale, di un potere di gestione quanto mai ampio dell’imprenditore in crisi che conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa (art. 9) senza alcun tendenziale obbligo conservativo ordinariamente previsto dall’art 2486 c.c.: nella sola ipotesi in cui l’imprenditore ritenga probabile l’insolvenza, la sua gestione deve evitare la realizzazione di un pregiudizio alla sostenibilità economico finanziaria dell’attività, concetto anche questo di nuovo conio e di assoluta elasticità descrizionale. La sostenibilità economica non è oggetto di definizione né nel CCII, né nei documenti dei DDCC, né nella letteratura economico aziendale: cosicché esso può essere inteso come redditività, efficienza, economicità, riequilibrio, condizione economica di equilibrio prospettica, e quindi richiamare parametri valutativi diversificati, come tali privi di ogni ancoraggio concettuale ed operativo ai fini della loro successiva valutazione di coerenza.
Né può dirsi che la previsione in esame sia frutto della ricezione della normativa comunitaria in quanto l’art 5 della Direttiva prevede espressamente che “ Gli stati membri provvedono affinché il debitore che accede alla procedure di ristrutturazione preventiva mantenga il controllo totale o parziale dei suoi attivi e della gestione corrente dell’impresa”, consentendo pertanto agli stati membri : i) di prevedere comunque forme di controllo sugli attivi ; ii) di ribadire e di rafforzare la vigenza dei criteri di generale presidio societario previsti dal codice civile all’art 2486 c.c., in coerenza con quanto la letteratura aziendale ha evidenziato sulla necessità di arginare i rischi di moral hazard nelle crisi economiche[5].
Il mutamento di paradigma rispetto alla previsione codicistica dell’art 2486 c.c. è evidente, laddove al valore presidiale insito nella “conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale”, si sostituisce il ben più indeterminato paradigma della sostenibilità economico finanziaria dell’impresa su cui successivamente innescare le valutazioni invero minori di cui all’art. 12, comma 4, dell’intervento in esame. A motivo quasi di beffa concorsuale, si afferma che “nelle ipotesi disciplinate dai commi 1, 2 e 3 resta ferma la responsabilità dell’imprenditore per gli atti compiuti”, ben sapendo che: i) il perimetro valutativo delle scelte sarà assicurato dalla semplice sostenibilità economico finanziaria, parametro questo ben diverso rispetto alla più estesa business judgement rule conservativa operante ex art. 2486 c.c. su cui ormai esiste un diritto vivente fortemente articolato per indicazioni teoriche e massime giurisdizionali[6]; ii) l’aggressione concorsuale per il tramite delle azioni espletate dalle curatele fallimentari non vale ad operare se non una minima reintegrazione del danno arrecato alla massa dei creditori, come è di notoria evidenza a tutti gli operatori del settore nei procedimenti in essere che raramente riescono a soddisfare i primi privilegiati.
Il cambio di passo appare invero notevole e altrettanto irragionevole in quanto contrariamente ad ogni principio di diritto societario, in una fase di (solamente) probabile crisi o insolvenza (art. 2), si demanda la vigenza presidiale degli istituti in esame alla semplice scelta del soggetto onerato, senza alcun vaglio selettivo degli interessi lesi dalla loro sospensione, vaglio che pure fino a pochi mesi addietro, all’atto della stesura del codice della crisi andava operata dal giudice nel corso del procedimento di composizione assistita della crisi ( art. 20 ): non senza ricordare come l’automatismo della loro introduzione veniva opportunamente riservato alle sole procedure concorsuali minori ( id est. domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione ex art. 64 CCII e domanda di concordato preventivo ex art. 89) nelle quali il presidio ordinario degli interessi tutelati dalla disciplina di diritto comune era comunque assicurato dal perimetro di operatività delle stesse procedure, con gli strumenti di intervento propri delle tecniche autorizzative e di controllo andamentale. La trasmigrazione di significato istituzionale è evidente.
Del pari, lo stesso imprenditore può richiedere l’adozione di ulteriori misure protettive e di provvedimenti cautelari necessari per condurre a termine le trattative ( art. 7 ), demandandosi al giudice la conferma, modifica e revoca delle misure protettive e la concessione della misure cautelari.
Il CCII operava una netta distinzione tra misure protettive e misure cautelari, in quanto alle prime demandava la sola funzione di evitare il pregiudizio alle trattative potenzialmente insito nell’azione promossa dei creditori, laddove le misure cautelari erano solo “ i provvedimenti cautelari emessi dal giudice competente a tutela del patrimonio e dell'impresa del debitore che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza” ( art 2 CCII) .[7]
A norma dell’art 7, 4° comma, le misure protettive e le misure cautelari richieste dall’imprenditore possono incidere sui diritti di terzi, richiedendo pertanto la instaurazione del contraddittorio.
Nulla si dice sulle misure cautelari richieste e se del caso ottenute dal ceto creditorio a norma dell’art 15, 8° comma che la sospensione del procedimento di fallimento, dovrebbe comunque vanificare ex nunc; e nulla si dice sulle misure cautelari che possono essere richieste dai creditori nel tempo della negoziazione in quanto la previsione normativa non li legittima ad alcuna misura cautelare in danno nella fase, qualunque sia la condotta dell’imprenditore anche in frode : il contenuto unico della fase negoziale sotto il profilo cautelare è unilateralmente determinato dallo stesso imprenditore che potrà richiedere in danno dei terzi creditori, i provvedimenti necessari alle trattative unilateralmente introdotte, pur in presenza di un conclamato stato di dissesto e del danno già irrimediabilmente patito dalle controparti. Del resto è indicativo che solo nel concordato semplificato ( art 18, 8° comma ) e non nella fase di composizione negoziata della crisi, si opera un rimando in quanto compatibile ad una serie di disposizioni del concordato ordinario tra cui l’art 173 l fall, richiamo del tutto tardivo ed improduttivo in quanto l’indeterminatezza dei criteri di riferimento gestionale della fase negoziata riduce ogni spazio di operatività alla nozione di frode.
La velocità olimpionica (10 giorni per la fissazione dell’udienza) e telematica ( per videoconferenza) prevista dalla riforma per la conferma, modifica e revoca delle misure protettive si scontrerà con il numero delle procedure esecutive e delle istruttorie prefallimentari in essere presso ogni ufficio giudiziario, innescando una moltiplicazione numerica delle istanze di accesso al procedimento di composizione negoziata anche a procedure esecutive e prefallimentari in essere ( non potendosi emettere sentenze di fallimento fino alla conclusione delle trattative, art. 6, comma 4 ) per la sola circostanza che consente una complessiva restaurazione dei poteri gestionali ordinari e straordinari in capo all’imprenditore per un tempo estremamente ampio ( che può giungere fino a 240 gg., art. 7, 5 comma ) normalmente negata nelle procedure esecutive e concorsuali.
Il tempo del mercato assume così una dimensione rilevante, ordinariamente superiore per un bimestre alla previsione del CCII ( art 19, 1° comma), tempo che sarà raramente interrotto dal possibile parere negativo di un esperto in quanto parere insignificante perché apre alla semplice archiviazione della composizione negoziata: la storica fragilità del tessuto produttivo delle PMI come censita dalla diffusa analisi economica proposta fin dagli anni 90[8] e le necessità insite nel governo concorsuale del consolidamento di dinamiche imprenditoriali all’altezza delle sfide dei mercati globalizzati risultano pertanto oscurate in favore di un ritorno al passato grave ed immotivato.
Ma occorre dire altro: le “misure protettive” previste dall’art 6, al 5° comma espressamente prevedono una diversa ed ulteriore misura protettiva, in quanto i creditori interessati dalle misure protettive (ovverosia potenzialmente tutti) “non possono unilateralmente rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione , né anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti” (art 6, 5 comma) .
La disposizione in esame riproduce quanto previsto dalla Direttiva (art. 7, Conseguenze della sospensione delle azioni esecutive individuali) che peraltro demandava agli Stati membri la scelta tra contratti pendenti essenziali (di cui peraltro offriva una definizione abbastanza precisa) o contratti non essenziali, scelta non operata dal legislatore della riforma che conferisce alla gestione imprenditoriale una ampiezza invasiva della posizione dei terzi contraenti mai prima riscontrata.
Ad un primo esame, appare corretto assumere che si tratti di una misura protettiva di diritto sostanziale di nuovo conio, come tale – al pari delle altre misure protettive – autopoietica, capace di anestetizzare gli strumenti di tutela ed autotutela contrattuale di diritto comune (artt. 1186 e 1460 c.c.) quand’anche contrattualmente previste (cc.dd. clausole ipso facto): in quanto misura di diritto sostanziale, non è devolvibile in conferma, modifica o revoca da parte del Tribunale assistendo l’imprenditore per tutto il tempo necessario alle trattative dallo stesso unilateralmente introdotte (dai 120 ai 240 gg) ; in altri termini, dalla lettura della norma, l’imprenditore in probabile crisi per la sola formulazione dell’istanza di negoziazione, ha diritto di richiedere anche in via cautelare, ove necessario, l’adempimento dei contratti in essere senza che le controparti possano opporre il precedente inadempimento e senza avere alcuna garanzia di adempimento futuro se non nella certificazione rilasciata a norma del comma 2, lett.e) sulla risanabilità della impresa, quand’anche onerosa e altamente rischiosa per le controparti[9].
Del pari, colpisce la collocazione operata dal legislatore della riforma, all’interno delle misure protettive laddove la Direttiva opportunamente ne prevedeva l’introduzione all’art 7, comma 4° , come “Conseguenza della sospensione delle azioni esecutive individuali”.
La ricezione della previsione europea doveva pertanto essere più cauta, usufruendo: i) della distinzione tra contratti essenziali e non essenziali all’esercizio dell’impresa, importante per definire un perimetro quantomai delimitato alla misura, altrimenti rimessa al semplice arbitrio del ricorrente esercitabile su un numero ampio ed indeterminato di contratti; ii) della previsione per la quale è consentito agli stati membri di “conferire a tali creditori adeguate garanzie per evitare che subiscano un ingiusto pregiudizio in conseguenza di tale comma”, garanzie non riconducibili alla salvifica ed inutile prededuzione.
La norma andrà necessariamente costituzionalizzata in sede applicativa in relazione : i) alle condotte concretamente realizzate dalle parti in corso di rapporto (ad es., acquisto di beni di rilevante valore economico poco prima del deposito dell’ istanza di composizione negoziata) ; ii) alla posizione contrattuale delle singole controparti, essendo evidente la distanza, anche di posizione costituzionale, esistente tra la grande Utility e il piccolo artigiano, chiamati entrambi allo stesso sostegno alla attività di composizione negoziata della crisi con ben diversi riflessi sulla sostenibilità della propria impresa. Altrimenti intesa, nella forma generalizzata recepita, si tratta di una sorta di esecuzione forzosa dei contratti propria delle economie di guerra, mai prima conosciuta dal nostro ordinamento civile e concorsuale, non ricercata dalla stessa direttiva che evidentemente mirava ad assicurare un sostegno alle sole ipotesi ragionevoli di composizione della crisi , non semplicemente autocertificate. Né la possibilità di anticipata revoca da parte del giudice delle misure protettive e cautelari art. 7, comma 6°), varrà a reintegrare le parti nella lesione da loro inutilmente patita, per quanto forzosamente assicurato al risanamento.
È del pari previsto che “l’esperto possa invitare le parti rideterminare seconda buonafede, il contenuto dei contrati ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia SARS-Cov. (art. 10, comma 2°), salva rideterminazione iussu iudicis, dovendo ritenersi che l’eccessiva onerosità oggetto di considerazione da parte dell’esperto, sia solo quella dell’imprenditore in negoziazione e non quella della controparte.
Ma occorre dire altro: è facile ritenere che un’impresa abbia un numero piuttosto elevato di contratti in essere per le quali possa operare la misura protettiva in esame. In caso di inadempimento generalizzato delle controparti, dovrà intervenire il giudice a garantire in via cautelare, il rispetto della regola posta, sentendo i terzi incisi dalla misura protettiva in esame: il miraggio della semplificazione introduce il suo opposto, ovverosia la moltiplicazione dei procedimenti, innestando fenomeni di opportunismo processuale mai troppo deprecati .
Nel merito ulteriore, non è dato comprendere il valore assegnato alla dichiarazione avente valore di autocertificazione, della sanabilità della impresa sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’ art 7, lett d): si introduce così una nuova autocertificazione (non attestazione, si noti) estranea al tessuto linguistico vigente[10], non richiamata dall’art. 236 bis l. fall., come tale penalmente irrilevante, mirandosi per tale via alla consapevole reintroduzione di aree di impunità di cui si era evidenziata l’ assoluta gravità all’atto della emanazione dell’art 236 bis l. fall. operata in via d’urgenza nel 2012[11] allorquando il fenomeno epidemico delle facili attestazioni aveva assunto rilevanza gravemente lesiva dell’ordinamento concorsuale.
L’evanescenza dei criteri direttivi della gestione imprenditoriale nella fase è del pari evidente laddove si pone a carico dell’imprenditore la sola comunicazione all’esperto degli atti di straordinaria amministrazione e dei pagamenti eseguiti che (sempre a suo insindacabile giudizio) “non siano coerenti rispetto alle trattative o alle prospettive di risanamento”: a fronte di tali atti incoerenti, l’esperto potrà solo manifestare il proprio dissenso all’imprenditore medesimo e all’organo di controllo, senza alcun effetto sull’atto laddove concluso, se non quello connesso all’ iscrizione del proprio dissenso nel registro delle imprese. L’incoerenza degli atti oscura la frode, mai censita dal legislatore del DL 118, ben presente invece nel codice della crisi (art. 20, 5° comma): due visioni del mondo si susseguono a breve distanza di tempo, in una traslazione valoriale raramente conosciuta dal nostro ordinamento nei termini indicati.
Come si vede, la crisi non costituisce motivo di arginamento dei poteri dell’imprenditore, nella funzionalizzazione doverosa prevista dal codice civile ex art. 2486 c.c., aprendo così la strada all’opportunismo concorsuale da sempre criticato dalla migliore scienza aziendale[12].
La semplice apertura di un procedura di composizione assistita restaura per intero, i poteri gestionali dell’imprenditore cui è rimessa in via esclusiva la scelta della segnalazione delle operazioni e dei pagamenti ritenuti incoerenti, innescando l’ inedito meccanismo di sterilizzazione della loro rilevanza concorsuale e della loro valenza penale predisposto dall’art 12 del decreto in esame: non sono soggetti a revocatoria di cui all’art 67 gli atti di gestione ordinaria compiuti dopo l’accettazione dell’esperto “ purché coerenti con l’andamento delle trattative e nella prospettiva del risanamento dell’impresa valutata dall’esperto ai sensi dell’art 5, comma 5”, essendo assoggettabili solo gli atti di straordinaria amministrazione e i pagamenti operati successivamente alla accettazione dell’incarico per i quali l’esperto abbia manifestato il proprio dissenso ovvero il tribunale abbia rigettato la propria autorizzazione nei limitati casi in cui la stessa è necessaria ai sensi dell’art 10, 1° comma .
Regime analogo è previsto dall’art 12, 5° comma per l’esenzione penale quanto alle disposizioni di cui all’art 216 terzo comma e 217 l. fall., esenzione assicurata per ogni operazione compiuta dall’imprenditore successivamente alla nomina dell’esperto, quand’anche oggetto di riserva da parte dell’esperto.
Rispetto alla esenzione prevista dalla legge fallimentare (artt. 67 e 217 bis l. fall.) il mutamento di regime è evidente in quanto in luogo della relazione di necessaria derivazione esecutiva tra atto e piano attestato, concordato o accordo di ristrutturazione, si sostituisce la ben più ampia ed indeterminata nozione di coerenza momentanea dell’attività realizzata rispetto alle trattive in corso e alle prospettive di risanamento, paradigma questo ben diverso rispetto alla razionalità programmatica del piano presente in tutte le procedure minori. Si amplia così, indiscriminatamente l’area dell’irrilevanza concorsuale e della esenzione penale delle condotte realizzate dall’imprenditore in crisi: non a giudizio degli organi della procedura instaurata nel paradigma costitutivo delle procedure concorsuali come pure articolato nello statuto revocatorio previsto dall’art. 67, comma 3° lett.d) ed e) l. fall. e 166, comma 3° lett. d ed e) CCII; non a giudizio del giudice penale nella valutazione di derivazione esecutiva tra atto e attestazione, accordo di ristrutturazione e concordato; ma a giudizio dell’esperto, interprete momentaneo della crisi d’impresa cui viene demandata un’elastica ed indeterminata valutazione di coerenza temporale (cfr. art. 12 5° comma. 9).
La trasmigrazione di significato istituzionale è anche qui evidente, soprattutto laddove si consideri il contesto di riferimento pan-contrattualistico nel quale l’esperto è chiamato ad operare, la debolezza di parametri valutativi sopra richiamati, l’assenza di presidio istituzionale all’atto della chiusura della fase, l’irrilevanza di ogni riserva sulla validità ed efficacia degli atti compiuti.
In altri termini, gli esiti e le valutazioni degli organi della procedura quanto a reintegrazione dell’attivo e ad esercizio dell’azione penale dipenderanno per la loro stessa formulazione, dal giudizio eventualmente formulato dall’esperto, rimettendosi allo stesso, al di fuori di ogni presidio della giuridicità concorsuale, il valore e la consistenza della tutela assicurata anche in sede penale, dalla procedura concorsuale successivamente instaurata: il valore sociale della procedura instaurata dipenderà quindi da chi sia stato chiamato ad assolvere al ruolo di esperto che privo di ogni potere di interlocuzione e segnalazione all’autorità giudiziaria (cfr. art 9, commi 4 e 5), dovrà decidere nella sua solitudine onnipotente, il futuro concorsuale delle procedure instaurate quanto a reintegrazione degli attivi e a rilevanza penale delle condotte. E quanto questa solitudine onnipotente sia in contrasto con i principi costituzionali non risulta in alcun modo vagliato, anzi silenziosamente e consapevolmente eluso.
Del resto, che si voglia in ogni modo depotenziare il sistema concorsuale delle tutele predisposte oggi dalla legge fallimentare e dal codice della crisi appare del tutto evidente laddove si limitano gli atti di intervento autorizzativo del Tribunale (art. 10) ai soli finanziamenti di terzi e di soci in prededuzione (art. 10, comma 1°, lett. a) ,b) e c) ) e alla vendita coattiva dell’azienda o di suoi rami (senza gli effetti dell’art 2560 c.c., secondo comma), senza alcuna possibilità di interruzione per “atti di frode” realizzati per la fase di composizione, interruzione invece pure prevista dall’art 20 comma 4° CCII.
Anche qui il depotenziamento concorsuale della relazione con il mercato nella vendita dell’azienda o di suoi rami appare evidente: la lunga stagione delle autorizzazioni alle vendite competitive in corso di concordato che si era istaurata in forza dell’intervento normativo pure operato nel 2015[13] con il consenso unanime dello stesso ceto imprenditoriale in ragione degli evidenti effetti distorsivi insiti nelle gestione liquidatoria dei concordati cc.dd .chiusi volge al tramonto in ragione della restaurazione operata in favore della piena titolarità della relazione con il mercato riconosciuta in capo all’imprenditore e alle modalità dallo stesso prescelte per la valorizzazione dei beni e per l’instaurazione della relazione con il mercato, ampliando così immotivatamente l’area degli opportunismi liquidatori che si era opportunamente arginata.
Del resto, gli esiti semplificati della fase negoziale (art. 11) sono indicativi dell’intento di semplificazione neoliberista perseguito: la relazione dell’esperto a fondamento dell’accordo per la continuità biennale (art 11, 1° comma lett. a), ovvero la moratoria (art. 11 lett. b) , gli accordi attestanti (art.11, lett. c) avranno poco spazio di azione, come dimostra ad una mera indagine numerica, la storia recente dei piani attestati e degli accordi di ristrutturazione, laddove si vuole assicurare nuova centralità ad un nuova forma di concordato. La reintroduzione del concordato semplificato costituisce l’ultima evidenza dell’operazione di complessiva restaurazione neoliberista delle procedure concorsuali proposta con il decreto in quanto: i) depotenzia nuovamente ogni meccanismo partecipativo dell’adunanza - che pure si era visto reintegrato nel proprio valore decisionale dalla modifica dell’art 178 l. fall. operata solo nel 2015 - in favore della logica binaria della opposizione, tanto deprecata per l’allocazione sul ceto creditorio di costi ulteriori rispetto alle perdite già maturate: il silenzio è quantomeno non costa nulla; ii) il sistema processuale che presidiava la ricostruzione della cause e circostanze del dissesto risulta per intero eluso, cosicché non sono consentite valutazioni aventi ad oggetto la storia dell’impresa insolvente, le ragioni del suo dissesto, il valore delle condotte osservate dall’imprenditore al manifestarsi della crisi; iii) ogni limite valoriale alla soddisfazione del ceto creditorio risulta significativamente omesso, superato nel semplicismo valutativo dell’assenza di pregiudizio (art 18, 5° comma) rispetto alla liquidazione fallimentare che, si noti, potrà essere unilateralmente svuotata dallo stesso esperto con il suo silenzio quanto a condotte poste in essere dall’imprenditore nella fase di negoziazione.
Il ruolo preponderante dell’esperto rispetto all’ausiliario nominato dal Tribunale testimonia anche qui, una trasmigrazione di significato istituzionale quale declassamento valoriale dell’azione giudiziaria: si potranno formulare proposte concordatarie al massimo ribasso con buona pace di ogni valore sociale sotteso alle istituzioni della giuridicità concorsuale; e si potrà dare corso alle vendite preconfezionate a norma dell’art 19 D.L. 118, “verificata l’assenza di soluzioni migliori sul mercato”, interrompendo ogni processo di veridizione del mercato insito negli esperimenti di vendita previsti dagli artt. 163 bis e 182 L fall.
Il mercato delle soluzioni “migliori” si sostituisce agli esperimenti di vendita e alla selezione quantitativa delle offerte: la soluzione negoziata della crisi, a differenza del codice della crisi, invade il sistema concorsuale pubblico appropriandosi di suoi istituti esclusivi e anestetizzando ogni sua propensione alla giuridificazione concreta dell’economico.
Si tratta, nell’intento del legislatore del D.L. 118, di una procedura onnivora in quanto sostituirà tendenzialmente ogni altro strumento concorsuale, perché: i) rispetto al sistema responsabilizzante dei piani e delle attestazioni proprio delle procedure concorsuali minori, consentirà un margine tendenzialmente illimitato di azione e di indirizzo nella fase, selezionando unilateralmente gli interlocutori e riabilitando logiche opportunistiche d’azione, impossibili nella gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa ad es. in concordato; ii) assicura un vantaggio competitivo alla negoziazione rispetto alla introduzione diretta delle procedure minori che saranno chiamate a recepirne acriticamente il risultato in quanto mai incardinate per intero per qualità delle informazioni censite per stime operate, per storia del dissesto analizzata, per ricomposizione analitica del ceto creditorio interessato, per rilevanza delle funzioni assolte dagli organi della procedura, degradati alle funzioni di mero ausilio del giudice.
Un’ultima annotazione: si provvede opportunamente ad una determinazione per fasce del compenso dovuto all’esperto, stabilendo altresì un tetto massimo e facendo peraltro gravare sullo stesso ogni onere professionale ulteriore per ausiliari dallo stesso nominati, senza peraltro che si operi una altrettanta opportuna e doverosa parametrazione dei compensi dovuti ai professionisti che assistono l’imprenditore, cui viceversa viene lasciato una libertà illimitata di incarico e di spesa, rilevante per la massa dei creditori quand’anche privilegiato nel successivo concorso, Eppure ai tavoli internazionali, l’Italia era additata come uno dei paesi più dispendiosi per i costi professionali esterni delle procedure concorsuali : un semplice report delle procedure concorsuali maggiori e medie operato dal Ministero con richiesta agli uffici giudiziari consentirebbe di censire il costo e di intervenire opportunamente anche su tale fronte.
Non senza evidenziare come l’intervento riformatore consente al tribunale la nomina di un semplice ausiliario ex art 68 c.p.c. tanto nella fase di composizione negoziale della crisi che nel successivo concordato semplificato, spostando pertanto tutto il valore delle professioni concorsuali fuori degli uffici giudiziari. Anche questo depotenziamento professionale costituisce un dato di assoluta rilevanza sistemica che andava considerato, in un quadro teorico che sempre più ha riscoperto ed attualizzato la tutela regolatoria delle istituzioni della giuridicità facendo propri i richiami dell’economia istituzionale.[14]
4. Conclusioni
In esito a queste prime note, appare invero evidente il tentativo di superare una stagione concorsuale precedente che aveva dato ingresso ad un riposizionamento strategico delle istituzioni della giuridicità concorsuale quantomai ampio e condiviso, i cui risultati erano rifluiti nel codice della crisi. Si tratta in tutta evidenza, di un’operazione di complessivo riposizionamento di istituti propri della concorsualità minore fuori dalle istituzioni della giuridicità concorsuale senza alcun limite intrinseco e controllo ab externo, cosicché a differenza che nel codice della crisi, dopo la composizione dispositiva della crisi qualunque ne sia l’esito, alle istituzioni della concorsualità non resterà che una formale presa d’atto di quanto aliunde realizzato: la forma dell’acqua[15], ovverosia la forma che l’acqua assume a seconda del contenitore in cui è versata. Non senza considerare che la negoziazione può essere propulsiva solo se coerentemente decifrata e delimitata, in quanto “la dinamica del contratto non può colmare l’asimmetria informativa connaturata a ogni rapporto economico, al contrario tende a formalizzarla”[16].
Si tratta di una nuova ed estremistica formulazione del neoliberismo concorsuale che non assume a paradigma costitutivo l’impresa come delineata dall’art 3 del codice della crisi, coerente con uno scenario internazionale nel quale l’impresa stessa è chiamata costantemente alla riformulazione delle proprie condizioni di esistenza valoriale in una competizione sempre più incentrata prioritariamente sulla qualità dei prodotti e delle strategie : è in altri termini estraneo al tessuto normativo in esame, ogni valutazione del contesto storico economico in cui si colloca l’impresa italiana come vissuta nell’economia dei distretti negli anni 90 ed oggi riarticolata nella sua formulazione più significativa nella sua relazione con i mercati globali propria del c.d. quarto capitalismo.
L’analisi economica ha da tempo evidenziato la necessità di superare il nanismo imprenditoriale per il tramite di spinte alla crescita consapevole del fare impresa, da attuarsi anche per il tramite di una riformulazione del proprio statuto dimensionale da perseguirsi anche per il tramite del sistema concorsuale capace di sorreggere ab externo anche tale crescita allocativa [17]. L’emersione precoce della crisi che pure costituiva il tratto distintivo forte del sistema concorsuale del CCII, non si propone nel D.L. 118 come paradigma organizzativo necessitato dell’impresa del terzo millennio ma come opzione meramente discrezionale dell’imprenditore che va liberato nella crisi da ogni vincolo concorsuale in essere o potenziale.
Si tratta di una svalutazione competitiva del sistema concorsuale paragonabile alle svalutazioni competitive degli anni 90: così come attuato dalle autorità monetarie nel passato per assicurare competitività internazionale alle imprese italiane inefficienti, si provoca il deprezzamento dell’intero sistema concorsuale per favorire la conservazione acritica di un tessuto imprenditoriale in crisi senza considerare i costi diretti ed indiretti accollati al sistema complessivo del paese, aprendo così la strada ad una concorrenza concorsuale quantomai deleteria per il tessuto imprenditoriale sano. Rispetto all’ alternativa codicistica posta dalla regola legale del «ricapitalizza o liquida» prevista dall’art 2446 ultimo comma, la composizione negoziata della crisi si propone come alternativa concretamente praticabile all’atto della semplice “probabilità di una crisi” in quanto lascia di fatto inalterati i codici distintivi della gestione imprenditoriale, ricollocandola opportunisticamente nella relazione con il ceto creditorio per consentire di coglierne con le asimmetrie informative, le possibili debolezze e i vantaggi locupletativi connessi[18] .
Del resto, non risulta mai troppo evidenziato come gli esiti di una procedura di rinegoziazione del debito costituiscano pur sempre “sopravvenienze attive” che, al pari del conferimento operato a copertura delle perdite, opereranno come voce del patrimonio dell’impresa. La nuova regola sarà dunque ricapitalizza o liquida o rinegozia, cosicché l’impresa in crisi si rinsalda e consolida nei propri assets non per nuovo capitale di rischio ma per il capitale indirettamente versato dal ceto creditorio nella negoziazione: i rischi di una selezione avversa concorsuale [19]risultano di palmare evidenza, come la letteratura economica ormai insegna innescando fenomeni di concorrenza concorsuale delle imprese in crisi sul tessuto produttivo sano da sempre analizzati e contrastati dalla letteratura economica di settore.
La crisi Covid e la necessità di attuazione della direttiva europea sono solo motivazioni apparenti di un tale intervento controriformatore che mira alla riformulazione complessiva del “paradigma” del diritto dell’impresa elettivamente riformulato dal CCII, innescando processi di precarizzazione delle aspettative contrattuali a tutto vantaggio di un trasformismo imprenditoriale votato alla sua preservazione qualsiasi sia il danno arrecato al sistema economico del paese: del resto, il valore-fine tutelato dalla stessa direttiva è sempre quello della tutela dei creditori per il tramite della conservazione dei compendi nei soli limiti in cui ne costituisca strumento, essendo quantomeno improprio assegnare alla conservazione dell’impresa un improprio assunto valoriale autopropulsivo per il mercato unico. E d’altro canto, se la logica di contrasto al Covid imponesse tale “capovolgimento valoriale” quale quello prospettato dall’intervento in esame, non si capisce come mai l’Unione non ha subito messo in cantiere una revisione della Direttiva orientata in tale direzione.
Con il D.L. in esame, si depotenziano i sistemi e i luoghi di veridizione[20] concorsuale in favore di non luoghi per loro natura non sistematici, onnivori in quanto capaci di incidere negativamente sul valore della giurisdizione successiva per il solo fatto di essere abilitati ad una relazione precedente con l’impresa in crisi quand’anche improduttiva ai fini del risanamento della impresa in crisi: il valore del tempo e delle dinamiche temporali dei luoghi di veridizione giuridica dell’insolvenza risulta invero del tutto rovesciato, senza che la somma complessiva dei costi e dei tempi giustifichi razionalmente una politica concorsuale a così gravosa incidenza sul tessuto produttivo sano del paese. Il costo della deregolation concorsuale proposta appare chiaro laddove si abbia riguardo anche alla recente storia delle crisi economiche e alla indispensabilità per il corretto funzionamento del mercato, dell’azione di presidio esercitata dalle istituzioni della giuridicità concorsuale[21].
Ancora una volta dopo l’esperienza negativa delle attestazioni e dei concordati preconfezionati, si riformula un paradigma che vede all’opera il mercato negoziatore come tribunale economico, che abilita più soggetti privati alla loro interlocuzione per quanto ricoperti da appena un velo di terzietà (vedi esperto), in una moltiplicazione apparente di senso concorsuale non sorretta da alcun estremo di ufficialità accertativa, con un aumento di costi e senza alcuna obbligazione di risultato : si tratta di una ipotesi fortemente eversiva del sistema anche costituzionale delle tutele e del fondamento sociale della moderna impresa, epilogo provinciale di un neoliberismo economico ormai da tempo non più imperante nel quadro teorico interno ed internazionale. La concezione liberale dello Stato non presuppone il totale ritiro del diritto dallo spazio ove si svolgono le negoziazioni[22] bensì il suo contrario in quanto è necessario che l’ordinamento tuteli le strutture del mercato con norme imperative e non derogabili dai negoziatori, soprattutto preservando l’autenticità del conflitto dalle asimmetrie informative e dagli opportunismi concorrenziali, anche per il tramite del presidio assicurato dalle istituzioni della giuridicità concorsuale.
Guido Rossi, con severa lucidità, ha scritto[23]: “ se si considera che in questa zona – nella zona cioè sottoposta alle libere e in qualche misura sempre arbitrarie , scelte degli amministratori – si possono commettere in totale impunità abusi molto più gravi di quelli derivanti dal mancato adempimento di obblighi e doveri prescritti per legge, si comincia ad avere una idea più precisa di ciò che il diritto può ( soprattutto di ciò che non può ) fare per garantire ai nostri mercati un coefficiente minimo di correttezza e trasparenza”.
Non resta che resistere, resistere, resistere.
[1]Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza) (Testo rilevante ai fini del SEE).
[2]Baird D. e Rasmussen R. The End of BankRuptcy, Stanford Law Review, 55 2002; per una critica feroce, si veda Stiglitz J, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, 2010, pagg. 283 e ss.
[3] Non si ignora il quadro normativo di riferimento come recentemente innervato dall’intervento operato dal legislatore COVID attraverso la Legge di Bilancio 2021 (L. 30.12.2020, n. 178, in G.U. n. 322 del 30.12.2020) con la quale, in linea con le misure a sostegno delle imprese e gli incentivi premiali ad esse concessi, sono state temporaneamente sterilizzate le perdite emerse nell'esercizio 2020, permettendo così il loro riassorbimento in un arco temporale di cinque anni (in sede di approvazione del bilancio al 31.12.2025), purché espressamente indicate nella nota integrativa con specifica indicazione della loro origine. Sul punto Bini, Dibattito sulle novità introdotte dal legislatore in tema di bilanci e di valutazioni per contrastare l'emergenza Covid, in Soc., 2021, 200; Busani, Quinquennio di grazia per le perdite emerse nel 2020, in Soc., 2021, 201 ss.
[4] Considerando 96: Gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a derogare al diritto societario, interamente o parzialmente, per un periodo di tempo indeterminato o limitato, se garantiscono che le prescrizioni di diritto societario non possano compromettere l'efficacia del processo di ristrutturazione o purché dispongano di altri strumenti ugualmente efficaci per garantire che gli azionisti non ostacolino indebitamente l'adozione o l'attuazione di un piano di ristrutturazione che potrebbe ripristinare la sostenibilità economica dell'impresa. In questo contesto, gli Stati membri dovrebbero attribuire particolare importanza all'efficacia delle disposizioni sulla sospensione delle azioni esecutive individuali e sull'omologazione del piano di ristrutturazione, che non dovrebbero essere indebitamente pregiudicate dalle convocazioni o dai risultati dell'assemblea degli azionisti.
[5] Stiglitz, Bancarotta. L’Economia globale in caduta libera, cit., pagg. 218 e ss.
[6] Per le sentenze più recenti, si veda ex multis Cass. Ord. 12 marzo 2012 n. 3902; Cass. 12 agosto 2009 n. 1823; Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano 2005.
[7] Scarselli G., Le misure cautelari e protettive del nuovo codice della crisi dell'impresa, in Judicium.it. che opportunamente rileva che mentre le misure cautelari di cui al CCII sono corrispondenti a quelle presenti nel diritto civile, le misure protettive rappresentano una assoluta novità poiché con esse non si chiede al giudice un provvedimento in funzione di un diritto, ma un provvedimento “contra ius in funzione della regolazione della crisi” Pagni, La tutela cautelare del patrimonio e dell'impresa nell'art. 15 l. fall. alla luce della novità della l. 7 agosto 2012, n°134, in Diritto delle imprese in crisi e tutela cautelare, a cura di Fimmanò, Milano, 2012, 438; Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel codice della crisi d’impresa, in Riv. dir. proc., 2019, 851.
[8] Onida, Se il piccolo non cresce: piccole e medie imprese italiane in affanno, Il Mulino, 2004.
[9] Sula valore presidiale di tali norme, si veda per tutti Galletti D, La ripartizione del rischio di insolvenza, 2006.
[10] Treccani : Nel linguaggio burocr., dichiarazione o attestazione eseguita dal cittadino sotto la propria responsabilità. Può riferirsi a dati anagrafici o al possesso di requisiti e sostituisce il certificato rilasciato dall’ufficio competente. Per estens., il modulo (o il foglio) che la contiene.
[11] L’art 236 bis è stato infatti introdotto dall'art. 33 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134.
[12] Sulle criticità comportamentali dell’imprenditore e del management nelle aziende in crisi e sui limiti soggettivi di proposizione di efficaci percorsi di risanamento, si veda Luigi Guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffré, Milano, 1986; Paolo Bastia, Crisi aziendali e piani di risanamento, Giappichelli, Torno, 2019.Sergio Sciarelli, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento nelle piccole e medie imprese, Cedam, Padova, 1996. Si veda altresì il recente documento del CNDCEC, Principi di attestazione dei piani di risanamento, dicembre 2020, in particolare a pag. 47 (in collaborazione con l’AIDEA, Accademia Italiana di Economia Aziendale).
[13] Articolo aggiunto dall'art. 2, comma 1, del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132. Si ricordano i casi La Perla e San Raffaele come vendite preconfezionate inefficienti.
[14] North Douglass, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Bologna 1994 , in particolare, pagg. 87 e ss.
[15] The Shape of water di Gulliermo Del Toro.
[16] G. Rossi, I, Gioco delle regole, 2006, pag.42.
[17] Si veda sul punto, Amatori, F., La grande impresa, in Storia d'Italia. Annali, vol. XV, L'industria (a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto), Torino: Einaudi, 1999, pp. 691-753. Il Quarto Capitalismo. Un profilo Italiano; Andrea Colli, Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre, 2020; A. Giunta, Rossi S., Cosa sa fare l’Italia, Bari 2017.
[18] G. Rossi, Il conflitto epidemico, pag. 41 “ Quando gli interessi in gioco da individuali passano a essere collettivi, e riguardano intere categorie di loro diritti, l’autotutela contrattuale non è più sufficiente ad evitare che l’opportunismo dei “forti” schiacci gli interessi dei deboli”.” E più avanti , “ Nelle situazioni giuridiche complesse che riguardano interessi diffusi, l’uso dello strumento contrattuale può dunque produrre effetti opposti a quelli desiderati”.
[19] Sulle tematiche della selezione avversa e dell’azzardo morale , Stglitz J., Informazione, Economia pubblica e macroeconomia, 2002.
[20] Foucault, Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli 2005, p.32.
[21] Rossi S., Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale, 2009, soprattutto 48 e ss.
[22] Irti N. L’ordine giuridico del mercato, Bari, Ferri G.B. La cultura del contratto e le strutture del mercato, in Riv. Dir. Comm. 1997, I, pp 843; Lipari n.” Spirito liberista” e “spirito di solidarietà” in Riv. Trim. dir. Proc. Civ. 1997, 23.
[23] Rossi G., Il conflitto epidemico, 2003, pag.37.
Coltivazione di cannabis e uso “terapeutico”
(Nota a Tribunale Arezzo, 11 dicembre 2020 e Tribunale Arezzo, 26.4.2021)
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico - 2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico - 3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna - 4. La sentenza di assoluzione - 5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze - 6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?
1. Cannabis: uso ricreativo, uso medico, uso terapeutico
Si è fatta una certa confusione sulla vicenda Di Benedetto – malato di artrite reumatoide che coltivava marijuana per affrontare la sua malattia – assolto dal tribunale di Arezzo con una sentenza che, secondo il messaggio mediatico, legittima l’uso terapeutico della marijuana.[1] Non è esattamente così.
Preliminarmente va ricordata in sintesi la differenza tra l'uso definito “terapeutico” e quello definito “ricreativo” (o ludico), differenza che nell’uso concreto si riflette sia nei dosaggi utilizzati che nei tipi di pianta[2]. Rispetto alla produzione e reperimento, la cannabis “terapeutica” è prodotta sulla base di autorizzazioni che disciplinano l'iter produttivo e l'immissione in commercio (che è di un farmaco di norma reperibile solo in farmacia) tramite canali istituzionali; quella “a uso ricreativo” invece è prodotta in modo illegale, distribuita attraverso canali non ufficiali e non controllati sul piano scientifico.
Occorre quindi accertare quale uso è quello dichiarato da Di Benedetto: che non è un uso ricreativo, ma non è nemmeno un “uso terapeutico”.
Innanzitutto, non vi è piena corrispondenza fra il significato di “uso terapeutico” della cannabis nella normativa, nel linguaggio giudiziario e nel dibattito politico. Quanto alla normativa sugli stupefacenti, l’art. 42 del D.P.R. n. 309/1990 prevede che: “E' consentito l'uso terapeutico di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope ((...)), debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto.” Dunque, l’uso terapeutico è quello non di marijuana, ma di medicinali a base di marijuana: e c’è una netta differenza. Come dimostra il successivo art. 73 che consente ai medici di prescrivere solo “i medicinali compresi nella tabella dei medicinali, sezione A, di cui all'articolo 14, su apposito ricettario” stabilendo inoltre una lunga serie di obblighi e di procedure per la prescrizione. E l’art. 83 punisce le “prescrizioni abusive” con le pene previste dall'art. 73, commi 1, e 5, cioè come lo spaccio[3].
Non è corretto parlare di uso terapeutico della marijuana nemmeno sotto il profilo medico, non trattandosi esattamente di una terapia. Con Decreto Ministeriale del 2013 è stata data anche nel nostro paese la possibilità ai Medici Chirurghi e Veterinari di prescrivere Cannabis Medica[4]; secondo il Ministero della Salute, “l’uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico”, adatto ad alleviare numerose patologie.
Anche la giurisprudenza si è più volte occupata dell’uso terapeutico, prescritto dai medici, con rigoroso inquadramento della fattispecie: la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, co. 2, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento prescritto ai sensi dell'art. 43 e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti[5].
In sintesi: la cannabis non è una terapia ma un palliativo; non cura malattie ma ne allevia il dolore[6]; il suo utilizzo viene correttamente definito “uso medico”.
Va preso atto però che il termine “uso terapeutico” ha assunto, nel linguaggio corrente ma anche in quello giudiziario, un significato più ampio che comprende anche quello medico; perciò si adopererà il temine in senso ampio anche in questo contributo (dato che le stesse sentenze commentate lo usano in tal modo).
2. Il nuovo orientamento sulla coltivazione e l’uso terapeutico
Dunque, in sintesi, nel caso di chi come Di Benedetto coltiva marijuana per poi farne – secondo la dizione imprecisa ma ormai sdoganata - uso terapeutico, ci si riferisce più correttamente alla coltivazione personale con destinazione della sostanza ad uso medico. Una fattispecie che, in presenza di una presa di posizione granitica delle Sezioni Unite che ritenevano comunque vietata (a differenza della detenzione) ogni coltivazione, in passato era sempre stata sanzionata penalmente.
Su questo orientamento, più volte ribadito e più volte criticato, è piombato nel 2019 un revirement della Suprema Corte che ha affermato, riguardo alla coltivazione di sostanze stupefacenti, che non sono riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore[7].
La sentenza decide direttamente (è il caso di merito) la fattispecie del coltivatore che destina la cannabis prodotta al personale ed esclusivo uso ricreativo; elenca le circostanze (in sintesi: “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, (...) le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”) accertate le quali il giudice dovrà decidere se la coltivazione appaia “destinata in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Ma la portata innovativa della pronuncia è inevitabilmente molto più ampia, andando a interessare tutti i fenomeni di fatto collegati alla coltivazione di chi poi utilizza o consuma il prodotto, che devono essere affrontati dai giudici di merito.
Una prima fattispecie già esaminata riguarda la c.d. coltivazione di gruppo per uso ricreativo, rispetto alla quale una prima pronuncia, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, ritiene che anche la coltivazione effettuata da più persone possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata[8].
Una seconda fattispecie che viene ora all’attenzione, e con grande clamore mediatico, è quella della coltivazione di cannabis non autorizzata e destinata ad un uso non ricreativo ma asseritamente medico, attribuita all’imputato De Benedetto.
Un inciso sul clamore mediatico: la vicenda De Benedetto è diventata la bandiera di chi ha promosso il disegno di legge sull’uso terapeutico della cannabis (stralciato nel finale della scorsa legislatura - sperando in una più facile approvazione - dalla più generale legge sulla depenalizzazione e legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis). Un disegno di legge approvato con grande maggioranza alla Camera (con 317 voti a favore e 40 contrari) ma inaspettatamente bloccato all’esame del Senato che non procedette all’approvazione definitiva entro la fine della legislatura[9]. Attualmente la legge non sembra essere nell’agenda politica.
3. Il fatto esaminato e la sentenza di condanna
Walter Di Benedetto risulta affetto da artrite reumatoide da oltre 35 anni e curava la malattia con cannabis terapeutica regolarmente prescritta. Pur essendo da anni in possesso di una regolare prescrizione medica, si era messo a coltivare la cannabis – affermava – perché il Sistema Sanitario non riusciva ad assicurargli il quantitativo di terapia necessaria a combattere i dolori causati dalla sua patologia. Detto per inciso, si può definire “fatto notorio” che in Italia la cannabis a uso medico è legale dal 2007 ma, a causa dello scarso quantitativo prodotto dallo Stato, la distribuzione è spesso insufficiente e, banalmente, molto spesso il farmaco non si trova in farmacia. “Non ho tempo di aspettare una giustizia che ha sbagliato il suo obiettivo. Il dolore non aspetta” aveva detto Walter De Benedetto, con una frase poi divenuta lo slogan della battaglia da lui rappresentata.
Il fatto venne alla luce il 3 ottobre 2019 quando un amico di Walter, Marco Bracciali, venne sorpreso con l’innaffiatoio in mano mentre dava acqua alle piante di canapa nel terreno a Ripa di Olmo. Il De Benedetto affermò subito che la coltivazione era sua e la droga prodotta era per lui. Nella serra vennero rinvenute 15 piante, alcune alte due metri e mezzo, altre in vaso, del peso di 19.450 grammi per potenziali 17.148 dosi. Nell’essiccatoio di legno vennero trovate 163 infiorescenze per 800 grammi (potenziali 3.046 dosi); come dotazione un trimmer (per la lavorazione), ventilatori e altri utensili. Bracciali venne arrestato in flagranza e Di Benedetto rinviato a giudizio.
Il giudice della direttissima, trattata dopo la convalida dell’arresto con rito abbreviato, ha condannato il Bracciali, che è stato ritenuto colpevole del reato di “coltivazione non autorizzata di sostanza stupefacente”: un anno, due mesi e venti giorni le pena[10].
Rilevano le osservazioni fatte dal giudice sulle condizioni in fatto della serra di Ripa di Olmo, confrontandosi con i parametri delle SS.UU: in sentenza si evidenziano le “modalità industriose” della coltivazione, “caratterizzata da laboriosità e operosità costante” con una tecnica “attenta e ingegnosa”. Quanto alla serra, viene ritenuta una struttura “artigianale” ma non “rudimentale”. In sostanza, il giudice non mette in dubbio la malattia di De Benedetto né il fatto che beneficiasse di una terapia analgesica; la condanna si basa invece sulle dimensioni della coltivazione, poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” previsto e punito dal reato di coltivazione.
Il giudice si pone l’interrogativo se quella era una scorta “a lunga durata”, una “riserva” per “dosi massicce” da assumere nel tempo. La risposta è negativa ed esclude che le potenziali 20 mila dosi fossero per “le esigenze di un ipotetico consumatore singolo”. L’imputato va condannato perché è accertata la sua “partecipazione piena, cosciente e decisiva” alla coltivazione, che rimane reato anche se per uso medico: “Non è la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico che da sola può valere a privare il fatto di offensività in concreto”, afferma il giudice, in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”[11].
4. La sentenza di assoluzione
De Benedetto come si è detto venne rinviato a giudizio, che si svolse con il rito abbreviato, all’esito del quale l’imputato è stato assolto dal GUP perché il fatto non sussiste[12].
Nel processo, i difensori hanno prodotto documentazione con un parere di un esperto che sostiene che il quantitativo di piante e lo sviluppo di dosi, che inizialmente sembrava esagerato, fosse in realtà dimensionato all'utilizzo del solo De Benedetto.
Il dato quantitativo è quindi importante: l’accusa era di aver coltivato piante per complessivi 5.024 grammi di marijuana, contenenti 507,82 grammi di principio attivo Thc per la capacità potenziale di 20.283 dosi (calcolo effettuato secondo il d.m. 11.4.2006 – decaduto e non riproposto – per il quale con un grammo di principio attivo Thc si possono ottenere 40 dosi singole[13]), dato quantitativo non contestato e confermato in sentenza.
Il consulente tecnico dell’imputato ha affermato che in base ai dosaggi indicati dai medici che lo hanno seguito, la dose necessaria a De Benedetto per avere efficacia clinica è “fissata in una quantità giornaliera di almeno 2.000 mg di thc”. Conseguentemente, è il caso di osservare, se fosse accettata questa deduzione quanto sequestrato sarebbe equivalso a (507,82 gr. : 2) 253 dosi giornaliere consumate da De Benedetto.
La sentenza esamina attentamente l’inquadramento giuridico della coltivazione per uso personale, evidenziando che “la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un reato di pericolo, idoneo ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di accrescere indiscriminatamente i quantitativi disponibili sul mercato”; ricostruisce la vicenda della qualificazione giuridica della coltivazione nella giurisprudenza della Suprema Corte sino alla recente SS.UU. 12348/2019, ritenendo la sussistenza della offensività in astratto. Applicando questi principi alla vicenda di merito, afferma che la coltivazione non può ritenersi penalmente irrilevante in quanto la coltivazione del De Benedetto non appare di minime dimensioni per il numero di piante e il quantitativo sequestrato.
Tuttavia giunto alla verifica della sussistenza della offensività in concreto della condotta, la sentenza si discosta nettamente dalla concezione dominante. Infatti il giudice ritiene che i principi affermati dalla corte di cassazione nelle sentenze citate non possono trovare applicazione alla vicenda concreta per le peculiarità della medesima. Quei principi presuppongono che si versi in ipotesi di coltivazione per finalità ludico-ricreative; nel caso di De Benedetto, invece, appare verosimile che egli - già autorizzato a curarsi con farmaci a base di cannabis – abbia coltivato le piante di marijuana per finalità “terapeutiche”.
Il giudice individua il bene protetto dalla legislazione sugli stupefacenti nella salute pubblica[14]; quindi ritiene che l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 vada interpretato in combinato disposto con l’art. 32 della Costituzione, il quale “tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività…”. Conseguentemente, in assenza di una normativa primaria che escluda la punibilità della coltivazione\detenzione quando finalizzata all’uso terapeutico, l’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 non può applicarsi perché in contrasto con l’art. 32 Cost. “avente carattere immediatamente precettivo”. Il fatto dunque è inoffensivo in quanto ammesso dall’ordinamento giuridico che non può sanzionare una condotta tutelata dalla Costituzione[15].
Nel caso di De Benedetto, l’inefficacia della terapia medica convenzionale ha reso necessaria una integrazione, secondo un protocollo approvato, con la cannabis “medica”; la carenza di questa ha comportato brusche interruzioni della terapia cannabica, determinando il riacutizzarsi del dolore; in queste circostanze, è “lecito dubitare” che, pur in assenza delle previste autorizzazioni ministeriali, la condotta di coltivazione “fosse connotata dalla necessaria offensività in concreto”[16].
In conclusione, è insufficiente o contraddittoria la prova della sussistenza del fatto come incriminato.
5. Gli elementi di contrasto fra le due sentenze
Le due sentenze, ben collegate al fatto e ben motivate, escludono entrambe – pur essendo accertato che il Bracciali aveva collaborato – la fattispecie della coltivazione di gruppo; ed escludono che si tratti di una coltivazione con dimensioni minime. Giungono però su queste basi a conclusioni opposte.
La sentenza Bracciali, in presenza di una coltivazione di dimensioni non minime, ritiene che ciò obblighi alla condanna di chi coltiva oltre il proprio stretto uso, perché il reato è di pericolo presunto[17]. Non mettendo in dubbio che “il De Benedetto attingesse alla sostanza prodotta, al fine di lenire i propri dolori”, il giudice ritiene per la quantità di principio attivo non possa ragionevolmente parlare di costituzione di una riserva per l’uso personale, “tenuto conto che il quantitativo di principio attivo di partenza è sicuramente sproporzionato rispetto alle immediate esigenze di un ipotetico consumatore singolo, e considerato che la coltivazione era ancora in essere”.
La sentenza De Benedetto invece rende compatibile la condotta contestata con la normativa incriminatrice, escludendo la tipicità, con un percorso assai articolato che si basa sul contrasto con i principi costituzionali. La sentenza conferma l’offensività in astratto della condotta contestata, riconducibile all’art. 73; ma esclude radicalmente la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico in quanto tale destinazione “impone un’interpretazione totalmente diversa delle norme incriminatrici”, pena l’incostituzionalità per conflitto con l’art. 32 Cost.. Infine, mancando la prova di una destinazione diversa, conclude per la insussistenza del fatto per prova insufficiente della offensività in concreto.
Entrambe le sentenze ritengono irrilevante che l’imputato – in quanto costretto su una sedia a rotelle – non avesse proceduto alla diretta coltivazione delle piante, atteso che Bracciali è accusato di aver agito in concorso e Di Benedetto è chiamato a rispondere di essersi fatto aiutare da terzi in tale attività, pur riconoscendo la piena e consapevole riconducibilità a sé dell’intera coltivazione.
Questo passaggio sottolinea la questione della compatibilità delle due sentenze. Soprattutto sembra contrastare con i principi cui si appella la sentenza De Benedetto l’affermazione contenuta nella sentenza Bracciali che “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto” in quanto la coltivazione di cannabis è un “reato di pericolo presunto”. La condanna si basa perciò sulle dimensioni della coltivazione poiché quanto rinvenuto “supera di gran lunga le esigenze di consumo personale di De Benedetto” e costituisce quel “pericolo presunto” insito nel reato di coltivazione. La sentenza De Benedetto invece esclude la punibilità per le coltivazioni per uso terapeutico.
Si può pertanto dire provvisoriamente che dalle pronunce in commento si può estrarre un orientamento secondo cui “non sussiste il fatto di coltivazione di cannabis di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990 per mancanza di offensività in concreto, allorquando la coltivazione, anche non minima, appaia destinata all’uso personale terapeutico, in quanto non idonea a porre a repentaglio il bene giuridico della salute tutelato dall’art. 32 cost.”. Ma sussiste anche un diverso orientamento secondo il quale “la mera destinazione del prodotto ad uso terapeutico di una coltivazione di non minime dimensioni da sola non può valere a privare il fatto di offensività in concreto in quanto la coltivazione di cannabis è un reato di pericolo presunto”.
6. Ma come interpretare le “dimensioni minime” nell’uso terapeutico?
Come si è detto, entrambe le sentenze escludono che si fosse di fronte ad una coltivazione di dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU. Può essere però utile, se non necessaria, un’ulteriore riflessione sulla quantificazione delle “dimensioni minime”, e cioè se la stessa si debba sempre fare in termini assoluti, come sembrano fare le sentenze commentate.
Leggendo attentamente le SS.UU. Caruso si rileva che a escludere la coltivazione di cannabis dall’ambito di applicazione della norma penale è la destinazione all’uso personale, mentre quantità e modalità di coltivazione sono (solo) le caratteristiche necessarie. Non è il semplice dato quantitativo[18] ad escludere la rilevanza penale della fattispecie: la scriminante è la destinazione della cannabis ad uso personale, la quantità è solo un indice sintomatico della destinazione.
In questa diversa ottica, è importante evidenziare che nella sentenza delle SS.UU. la quantificazione menzionata come minimezza della coltivazione (lo “scarso numero di piante”) si riferisce all’uso ricreativo di una sola persona; in presenza di un quantitativo non minimo la rilevanza penale può sussistere in quanto è ragionevole ritenere che almeno una parte sarebbe destinata alla “ricreazione” di terzi, attraverso la cessione onerosa o gratuita). Già nella sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020 il dato quantitativo della minimezza diventa relativo: se il coltivatore è uno, certo, il limite è di poche piante come dicono le SS.UU.; ma se sono un gruppo, si considerano le piante per ogni coltivatore, perciò la piantagione può avere dimensioni assai più ampie.
Per una interpretazione non incongrua e coerente della sentenza Caruso[19] occorre procedere alla misurazione della minimezza non in termini assoluti, ma relativi, non solo rispetto al numero dei coltivatori ma anche al tipo di uso personale: ornamentale, o didattico , o ricreativo, o medico… Se la coltivazione è per finalità ricreative, certamente la piantagione deve avere dimensioni minime secondo le indicazioni delle SS.UU[20]. Se invece le finalità sono terapeutiche, si deve considerare “minimo” il quantitativo necessario a garantire le esigenze curative; e si tratta di una valutazione di merito, da farsi caso per caso considerando il bisogno del soggetto interessato.
Applicando ad esempio tali criteri al caso De Benedetto, emerge che si tratta di una scorta per 250 giorni, cioè otto mesi. Spetta al giudice di merito[21] considerare non incompatibili queste dimensioni con l’uso terapeutico personale, considerando oltre al bisogno soggettivo altresì la cronica assenza di medicine autorizzate e tenendo conto che le “brusche interruzioni” della disponibilità in farmacia non possono essere previste né possono essere rimediate istantaneamente, dato che la coltivazione della cannabis per Thc o Cbd con modalità non professionali richiede molto tempo per completare lo sviluppo[22].
In conclusione, nella scia della sentenza SS.UU. Caruso, che esclude la sussistenza del fatto nel caso di coltivazione minima destinata ad uso personale, si pone la sentenza di merito che ritiene si tratti di uso personale anche se la coltivazione è di gruppo, ampliando la quantificazione delle dimensioni minime. La sentenza De Benedetto esclude comunque la sussistenza del fatto se vi è destinazione all’uso terapeutico, a prescindere dalla minimezza. La sentenza Bracciali giunge a conclusioni opposte, pur richiamando gli stessi principi, escludendo che l’uso terapeutico giustifichi il superamento delle minime dimensioni. Altre soluzioni, come si è visto, sono possibili considerando la destinazione ad uso terapeutico (solo) come un elemento di valutazione della destinazione all’uso personale e quantificando la minimezza rispetto al bisogno del soggetto.
Considerando la varietà della casistica possibile, sarà certamente necessario altro tempo – non solo quello della definitività delle sentenze richiamate - per sedimentare un orientamento della giurisprudenza.
[1] Parlano di “cannabis terapeutica” il 27 aprile 2021 La Repubblica “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto. "Me lo sentivo, ero fiducioso" - Era accusato di detenzione e spaccio ma lui soffre di artrite reumatoide e ha sempre sostenuto che le piantine le coltivava per uso personale”; il Corriere di Arezzo “Arezzo, cannabis terapeutica: assolto Walter De Benedetto dall'accusa di coltivazione per la serra di marijuana.”; il Manifesto “Cannabis terapeutica, assolto Walter De Benedetto - La cura viene prima dei divieti. Il tribunale di Arezzo giudica non punibile l’uomo disabile”.
[2] In questo studio si prescinde dall’uso industriale e dagli altri usi previsti dalla legge n. 242\2016.
[3] Per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la somministrazione di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti è consentita, ai sensi dell'art. 72, comma secondo, d.P.R. n. 309 del 1990, solo qualora il medico agisca effettivamente per finalità terapeutiche, praticando un trattamento debitamente prescritto ai sensi dell'art. 43 del testo unico e coerente, secondo le conoscenze scientifiche del momento, con gli obiettivi clinici perseguiti (Sez. 6, sentenza n. 16581 del 13/03/2013, Narracci, Rv. 256147; Sez. 6 - , Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni).
[4] Decreto Ministeriale del 23/01/2013 (GU n. 33 del 08/02/2013).
[5] Cass. Sez. 6, Sentenza n. 10169 del 10/02/2016; Sentenza n. 12198 del 04/12/2019, Angeloni; sez. 6, Sentenza n. 16581 del 13/03/2013; Sez. 4, Sentenza n. 13778 del 16/02/2011.
[6] “In considerazione delle evidenze scientifiche fino ad ora prodotte e aggiornabili ogni due anni, si può affermare che l'uso medico della Cannabis non può essere considerato una terapia propriamente detta, bensì un trattamento sintomatico di supporto a quelli standard laddove questi ultimi non abbiano prodotto gli effetti desiderati, abbiano provocato effetti secondari non tollerabili, necessitino di incrementi nel dosaggio che potrebbero determinare la comparsa di effetti indesiderati (effetti collaterali).
Gli impieghi di Cannabis a uso medico riguardano:
eliminazione del dolore (analgesia), in malattie che implicano spasticità associata a dolore resistente alle terapie convenzionali come la sclerosi multipla o le lesioni del midollo spinale
analgesia nel dolore cronico, con particolare riferimento al dolore neurogeno
effetto antinausea e antivomito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali in chemioterapia, radioterapia e terapie per HIV
effetto stimolante dell’appetito, che non può essere ottenuto con trattamenti tradizionali, nel deperimento fisico e nella perdita dell'appetito in malati oncologici o affetti da AIDS, nell'anoressia e anoressia nervosa e nel glaucoma resistente alle terapie convenzionali
riduzione dei movimenti involontari del corpo e del viso, che non può essere ottenuta con trattamenti tradizionali nella sindrome di Gilles de la Tourette”.
Raccomandazioni per il medico prescrittore di sostanza vegetale cannabis fm2 infiorescenze - Documento approvato dal gruppo di lavoro previsto dall’Accordo di collaborazione del Ministero della salute e del Ministero della difesa del 18 settembre 2014, in:
https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_4589_listaFile_itemName_2_file.pdf
[7] Sezioni Unite n. 12.348 /20, imp. Caruso (udienza del 19.12.2019, deposito il 16 aprile 2020). Si rinvia per il commento a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)”, in questa Rivista, paragrafo 10, in www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1027-coltivazione-di-marijuana-e-uso-personale-dopo-le-sezioni-unite-di-lorenzo-miazzi-parte-seconda
[8] Sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”. Sentenza riportata e commentata in “L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)”, di Lorenzo Miazzi, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-penale/1665-l-uso-e-personale-anche-se-la-coltivazione-e-di-gruppo-nota-a-tribunale-brescia-14-11-2020-di-lorenzo-miazzi
[9] Il progetto di legge fissa criteri uniformi per garantire l’accesso alla Cannabis per uso terapeutico, promuove la ricerca scientifica e lo sviluppo di tecniche di produzione. Questi i principali punti del progetto, per quanto rileva in questa vicenda:
CANNABIS A USO TERAPEUTICO. Il medico potrà prescrivere medicinali di origine vegetale a base di cannabis per la terapia del dolore e altri impieghi. La ricetta (oltre a dose, posologia e modalità di assunzione) dovrà recare la durata del singolo trattamento, che non può superare i tre mesi.
MEDICINALI A CARICO DEL SSN. I farmaci a base di cannabis prescritti dal medico per la terapia del dolore e impieghi autorizzati dal ministero della Salute saranno a carico del Servizio sanitario nazionale. Se prescritti per altri impieghi restano al di fuori del regime di rimborsabilità. Vale in ogni caso l’aliquota Iva ridotta al 5 per cento.
PRODUZIONE DI CANNABIS. Coltivazione della cannabis, preparazione e distribuzione alle farmacie sono affidate allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Se necessario può essere autorizzata l’importazione e la coltivazione presso altri enti. Sono stanziate risorse per un milione e 700mila euro.
[10] Sentenza Gup Tribunale di Arezzo, 11 dicembre 2020, dep. 11.3.2021. est. Filippo Ruggiero. Nella motivazione si afferma che i quantitativi di cannabis nella serra sono “sproporzionati ed esagerati rispetto all’esigenza di un consumo personale di De Benedetto”. Il giudice ha valutato come attenuante generica il fatto che Marco B., incensurato, si fosse recato come altre volte alla serra per dare una mano all’amico gravemente malato, ma ha negato l’ipotesi lieve del reato di cui al quinto comma precludendogli la sospensione del processo con la messa alla prova.
[11] E’ il caso di ricordare anche che il giudice non ritiene sussistano i "motivi di particolare valore morale e sociale" di cui all'articolo 62 n.1 del codice penale in quanto "i motivi di tale disposizione possono essere soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, che allo stato attuale non pare molto sensibile ai temi delle cure palliative, vieppiù ove poste in essere mediante la somministrazione di stupefacenti".
[12] Sentenza 27 aprile 2021, dep. 26.7.2021, est. Fabio Lombardo.
[13] La quantificazione dell’uso personale è prevista dall’art. 73 comma 1 bis, lett. a), inserito dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4 bis, in sede di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272. In attuazione di tale previsione, con decreto del Ministro della salute dell'11 aprile 2006, sono stati appunto indicati i "limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale" (QMD: "quantitativi massimi detenibili"). La legge è stata poi dichiarata incostituzionale e il decreto travolto con essa; la nuova legge prevedeva un nuovo decreto, che non è stato emanato.
[14] “Le Sezioni Unite hanno stabilito che il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è quello della salute individuale o collettiva, la quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell’art. 32 della carta fondamentale” (pag. 9).
[15] “… la coltivazione e l’uso di sostanze stupefacenti autoprodotte per finalità esclusivamente curative, in assenza di terapie altrettanto efficaci, in altri termini, rende il fatto – astrattamente conforme alla norma incriminatrice prevista dall’art. 73 tus - del tutto inoffensivo, in quanto ammesso dall’ordinamento giuridico che, in un’ottica di solidarietà umana, non può pretendere il rispetto del precetto e sanzionare penalmente l’autore della condotta di coltivazione” (p. 11).
[16] La sentenza prosegue: “Se, come si è visto, l’art. 73 tus è posto a tutela in primis della salute individuale o collettiva, sarebbe alquanto paradossale – oltre che contrario a ogni forma di umanità e di giustizia – che l’imputato debba essere punito per aver coltivato piante di cannabis con l’unico scopo di tutelare la propria salute e garantirsi in tal modo condizioni di vita più dignitose” (p. 12).
[17] “Posta la natura di reato di pericolo presunto, ciò che rileva sarà quindi una valutazione in ordine all’effettiva entità e alle effettive dimensioni dell’attività di coltivazione. Ciò premesso, quello per cui si procede costituisce un fatto di coltivazione che va senz’altro ricompreso nell’area del penalmente rilevante, attesto che nella specie vengono in rilievo piante conformi al tipo botanico e dall’attitudine a produrre sostanza stupefacente già dimostrata (per avere le piante già prodotto sostanza), e atteso che non si tratta affatto di un’attività di minime dimensioni svolta in forma domestica; emerge piuttosto un’attività di coltivazione condotta secondo modalità industriose, cioè caratterizzate da laboriosità e da un’operosità costante” (p. 11).
[18] Come avviene nella pesca del novellame; nell’evasione fiscale… (L. 14 luglio 1965, n. 963; D.Lvo n. 274/2000).
[19] Che, si ricorda, disapplica la norma penale per le “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
[20] Si può ritenere che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione secondo i principi della sentenza SS.UU. Caruso: cfr. Coltivazione di marijuana e uso personale, cit., par. 15.
[21] Nel caso di De Benedetto il giudice sembra fare implicitamente questa valutazione con esisto positivo; nel caso Bracciali esplicitamente lo si esclude.
[22] Intorno ai due/tre mesi per le autofiorenti e cinque/sette mesi per le piante provenienti da seme normale o femminilizzato, a seconda del tipo di coltura e cura; tempo cui aggiungere un mese per l’essicazione naturale: www.cbdmania.it/blog/le-diverse-fasi-di-crescita-di-una-pianta-di-marijuana
Vedi anche www.zamnesia.net/it/blog-quanto-tempo-ci-vuole-per-coltivare-la-cannabis-n1191 e su questa rivista L’amministrazione della Cannabis ad uso medico di Alice Cauduro
Le prime pronunce cautelari del TAR Lazio sull’obbligo del green pass per il personale scolastico
Il Tar Lazio, con decreti presidenziali monocratici del 24 agosto 2021 n. 4450 e del 2 settembre 2021 n. 4532, ha respinto la richiesta di tutela cautelare proposta nei confronti delle disposizioni ministeriali che hanno imposto al personale scolastico l’obbligo di possesso ed il dovere di esibizione del c.d. “green pass” e qualificato il suo mancato possesso come “assenza ingiustificata”, prevedendo altresì la possibilità di disporre in tale ipotesi la sospensione del rapporto di lavoro e della retribuzione e la possibilità di destinare parte delle risorse alla copertura dei costi necessari alla sottoposizione al tampone solo per il personale scolastico fragile (quindi esentato dalla vaccinazione per certificati motivi di salute).
Per quanto cautelari, le pronunce si segnalano per una prima puntualizzazione dei principi affermati in punto di interpretazione della normativa sull’obbligo del green pass.
Mettendo preliminarmente in dubbio il fatto che il diritto (del personale scolastico) a non essere vaccinato possa essere effettivamente qualificare come diritto alla salute, il giudice amministrativo precisa che in ogni caso il diritto non avrebbe valenza assoluta né potrebbe essere inteso come intangibile, tenendo presente che deve essere razionalmente correlato e contemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza. Ritiene in secondo luogo che, nel caso di mancato possesso della certificazione verde, non giustificato da comprovate esigenze mediche, l’automatica sospensione dal lavoro e dalla retribuzione prevista dal comma 2 dell’art. 9 ter d.l. 52/2021 e la mancata adibizione del personale scolastico ad altre e diverse mansioni è correttamente e razionalmente giustificabile alla luce della tipicità delle mansioni del personale scolastico, specie di quello docente.
Viaggio a Lesbo, nel cimitero dei diritti umani
di Chiara Semenza
“Perché noi sì e loro no?” è la domanda che assilla una volontaria occidentale al suo ritorno a casa. Chiara Semenza, magistrato di sorveglianza genovese, racconta l’esperienza nel campo profughi di Moria nell’isola greca di Lesbo, dove oltre la metà dei rifugiati è in età infantile e parte di loro non ha conosciuto altra dimora. Miseria e negazione dei diritti più elementari sono vissuti come un fatto ineluttabile, ma senza rifiutare un sorriso e una composta gratitudine a chi arriva per alleviare le sofferenze
***
Il 21.8.2021 inizia il mio viaggio per l’isola greca di Lesbo, ai confini sud orientali dell’Europa, dinanzi alle coste turche dalle quali dista una manciata di chilometri. La proposta di un viaggio improntato alla solidarietà internazionale mi è stata avanzata dalla Comunità di Sant’Egidio di Genova, che ormai da tre estati si reca (anche) in terra greca per offrire un aiuto concreto ai migranti lì confinati nel campo profughi.
La scelta. Da magistrato di sorveglianza, abituata a lavorare a contatto con una popolazione di detenuti stranieri aventi un passato di migrazione, penso che un’esperienza di questo tipo, oltre alla finalità di umana solidarietà, potrebbe rappresentare un tassello ulteriore per la mia formazione professionale.
In un primo momento sono però incerta sul fatto di essere all’altezza, di sapere gestire emotivamente la situazione che mi attende o, ancora, di riuscire ad affrontare un contesto di eventuale pericolo: mi hanno parlato di gruppi di giovani neonazisti che hanno trascorso in passato le vacanze proprio a Lesbo, con lo scopo di trovare l’occasione per aggredire i migranti all’atto dello sbarco sulla costa. Bastano però pochi giorni di riflessione per farmi capire che il bisogno di conoscere una realtà così distante, ancorché europea, e di tale portata supera ogni mia esitazione o paura. Decido quindi di partire.
Il viaggio è ovviamente lungo, ma non insopportabile, ed è così che alla sera, assieme ad alcuni compagni di missione, arriviamo all’aeroporto di Mitilene, città in cui pernotteremo, ospiti della stessa struttura di altri volontari che sono giunti non solo dall’Italia, ma da diverse parti d’Europa: al momento del mio arrivo siamo circa quaranta italiani, tra genovesi e romani, e dieci ragazzi cechi e slovacchi.
Domenica 22 agosto: l’arrivo al campo. Il campo profughi è oggi chiamato Moria 2.0 dal momento che nel settembre 2020 l’originario accampamento, che allora arrivava a ospitare 22.000 profughi ed era ubicato altrove, è stato incendiato. Se n’è resa perciò necessaria una collocazione diversa, seppure sempre a Lesbo. Di qui la nuova denominazione. Il nuovo campo ha dimensioni più ridotte: attualmente ospita circa 4.300 persone, di cui più della metà è costituita da bambini; le etnie prevalenti sono afghana e siriana, in misura significativamente inferiore sono presenti africani. I profughi considerati in eccesso e presenti invece fino a settembre 2020 sono stati ridistribuiti fra altri campi nella Grecia interna o in quella un tempo denominata Tracia.
Gli sbarchi attuali sull’isola sono invero contingentati ad esito del monitoraggio delle acque costiere da parte di Frontex, l’Agenzia Europea della Guardia di frontiera e costiera. Questa è oggi sotto processo dinanzi alla Corte di Giustizia UE, dopo che due migranti, supportati da diverse organizzazioni non lucrative, ne hanno denunciato respingimenti non autorizzati e condotte che configurano palesi violazioni dei diritti umani.
Nel corso delle riunioni che si tengono per organizzare le attività apprendo che il nuovo campo – che si estende su una collina pietrosa dinanzi al mare – è in condizioni lievemente migliori di quello precedente, semplicemente perché vi sono strutture in compensato o tende impermeabili per ripararsi, anziché semplici teli; inoltre sono oggi presenti luce elettrica ed un maggior numero di servizi igienici, ancorché non per singolo alloggio; l’acqua potabile è distribuita in diverse fontane, nelle cinque zone del campo, con erogatori multipli. Ai disabili è dedicata un’area più a valle, delimitata in parte dal canale (a cielo aperto) di scolo dei liquami.
Sento spesso parlare nelle descrizioni di mental desease. A poco a poco, grazie ai racconti di volontari più esperti e degli stessi migranti, capisco che tra i profughi i disagi psichici sono frequenti, legati all’esperienza traumatica vissuta; perciò non sono isolati i casi di bambini che si svegliano alla notte con crisi di pianto poiché hanno assistito al rogo della propria casa o all’uccisione di un parente, di bambini con disturbi nell’eloquio e di bambini dallo sguardo ancora traumatizzato; non mancano adulti rimasti invalidi nel corso della traversata.
Il campo è oggi chiuso: i migranti, salvo specifiche deroghe, possono allontanarsene solo per tre ore al giorno con obbligo di rientro entro le 20; al sabato devono rientrare addirittura entro le 18; la domenica nessuna uscita viene consentita; sono vietate le foto all’interno.
Alla Comunità di Sant’Egidio è consentito l’accesso al campo da parte della Direzione dello stesso solo per lo svolgimento di attività didattiche, ludiche e di distribuzione del vitto in un’area esterna, collocata presso uno degli accessi laterali di Moria 2.0.
Secondo l'organizzazione dei lavori decisa dalla Comunità stessa, la mattina è dedicata alle attività ludico-scolastiche (l’inglese è la lingua-veicolo) in favore dei minori, infanti e adolescenti, che consumano sul posto anche il pranzo. Nel pomeriggio tutte le tende della solidarietà (così sono chiamate dalla Comunità di Sant’Egidio) vengono rivoluzionate ed allestite per la distribuzione del vitto a tutti i profughi invitati al ristorante. La sera è volta al riordino, alla pulizia ed alla nuova preparazione dei banchi di scuola per la mattina successiva.
I ritmi sono ben scanditi, i compiti affidati a ciascun volontario sono davvero molti, ed ogni giorno vengono ridistribuiti in modo tale che ognuno possa partecipare a tutte le attività, conoscendo così il numero maggiore di persone e di storie.
Lunedì 23 agosto: “hi teacher”. La mattina vengo destinata alle attività ludiche da svolgere insieme ad un gruppo di bimbe afghane di otto-nove anni; arrivano alla struttura scaglionate in gruppetti di amiche o parenti, trasportate da un piccolo pulmino di volontari. Corrono gioiose verso i banchi colorati: nel campo infatti mancano del tutto i colori accesi, gli unici che si vedono sono il bianco (delle tende), il grigio (della ghiaia) ed il marrone (della sabbia); il verde è presente solo in un piccolo angolo dove è stato piantato qualche albero. Nulla più.
Qualche bambina arriva munita della cartella che le è stata fornita all’inizio del progetto (avviato quest’anno il 18 luglio), qualche altra se l’è dimenticata nella tenda, qualche altra ancora porta con sé solo il proprio quadernino; al cancello di ingresso è un susseguirsi di voci stridule che esclamano “hi teacher”, “how are you teacher?” ed è subito una gara di corsa per raggiungere per prime la scrivania ed aggiudicarsi il posto più gradito.
I pennarelli e le matite non mancano, così come gli acquerelli e le tempere; è tenero ritrovare nei disegni le stesse immagini che tutti noi occidentali abbiamo riprodotto da piccoli: una casa, un prato verde, il sole, gli uccelli. Viene da domandarsi come possano queste bambine conservare la memoria della dimensione domestica, dal momento che in alcuni casi dimorano nel campo anche da tre anni: “such a long time, teacher”.
La loro euforia è tale che è difficile da contenere. Ci vogliono tante idee, sempre nuove, per riuscire a trasmettere le prime regole (mantenere la fila; lavare le manine prima del pasto; rimanere seduti al banco) e per strappare qualche sorriso nell’esercizio di qualche nuova attività.
Terminata la didattica del lunedì mattina, nel pomeriggio, assieme ai miei compagni, vengo impegnata nell’allestimento del ristorante, con igienizzazione e disposizione dei tavoli in modo da rispettare la distanza di sicurezza in occasione della cena e successiva distribuzione dei pasti per tutte le persone che arriveranno (nei giorni di mia permanenza la media di pasti servita ha superato i cinquecento giornalieri).
Colpisce la dignità di molti tra quanti sono seduti ai tavoli; nel loro volto – spesso rivolto verso il basso come a provare vergogna per quella opportunità – si leggono ritrosia, timore, rispetto e tristezza; al termine della cena mille sono i ringraziamenti verso chi serve, chi aiuta, chi pulisce o sparecchia; mi domando se anche io sappia essere tanto felice dopo avere consumato un pasto.
E poi si è di nuovo a pulire, risistemare i tavoli per la scuola del giorno dopo, allestire ancora la sala e preparare le scorte di cibo per i giorni a venire.
Martedì 24 agosto: miseria, liquami, risate di bambini. La mattina entro finalmente al campo di Moria 2.0. Sono insieme ad alcuni compagni e ad Alì, mediatore culturale di riferimento di nazionalità afghana. Visitiamo la zona che ospita alloggi prefabbricati in compensato e alcune tende, queste posizionate sulla parte più alta della collina; sono dimore abitate sia da famiglie (talora 6-8 persone in una superficie che a colpo d’occhio risulta circa di 8 metri quadri), sia da singoli e da lontano, sentendo le tante urla ed un buon baccano, capisco che è una zona popolata da bambini.
Nel tragitto ne incontriamo tantissimi, taluni davvero piccoli (sono molti i bambini che nati e vissuti solo nel campo) e poco oltre vediamo un gruppetto di bimbi afghani di cinque o sei anni che gioca, qualcuno anche scalzo, in un piccolo lembo di terra attraversato da liquami; così tanta desolazione mi ferisce ed offende: perché a quei bambini non è riconosciuta la stessa dignità che pretendiamo per un nostro figlio, nipote o conoscente?
Ci avviciniamo alla prima area di accampamento che andremo ad esplorare; l’aria è mefitica, la zona è altamente abitata e attorno alla struttura è un ammassarsi di persone, oggetti, cibo, rifiuti, pozzanghere e liquidi di scolo.
Bussiamo alla porta di diversi alloggi (divisi per zone, numeri e lettere) per incontrare le persone, invitarle a consumare il pasto alla mensa della Comunità e per ascoltare le loro storie e raccogliere le loro testimonianze.
Tutti i racconti che raccogliamo sono accomunati da sofferenza, morte e solitudine; sono i bambini a regalare un sorriso quando a turno strillano per uscire dalla tenda, per giocare o perché incuriositi dalla nostra presenza. E’ stupefacente come nessuno si lamenti dell’ingiustizia della propria sorte, nessuno esterni rabbia o rancore verso chi ha negato loro i più elementari diritti. Ciò che invece trapela dalle loro parole è voglia di salvezza, anche se in molti casi (dopo tanti respingimenti subiti ad opera di diversi Paesi) è la rassegnazione a sovrastare le loro storie.
Passiamo diverse ore a conoscere persone diversissime tra loro, chi anziano, chi sposato, chi vedovo con figli, chi giovane e solo e chi ammalato, lasciato disteso in un materasso sotto il sole (la temperatura nei giorni di mia permanenza ha oscillato fra i trenta e i trentacinque gradi, senza vento).
Dopo l’ora del pranzo ci ricongiungiamo agli altri volontari ed insieme organizziamo la distribuzione del vitto; martedì e mercoledì pomeriggio, durante la cena, vengo destinata all’accoglienza dei migranti ed avrò così il piacere di salutarli uno per uno guardandoli in viso.
È bello incontrare nuovamente i bimbi che al mattino frequentano le attività scolastiche; nessuno di loro manca di salutarmi con un bel sorriso.
Mercoledì 25 agosto: voglia di scuola. Alle 7.30 alcuni bimbi si presentano già pronti dinanzi al cancello d’ingresso della scuola, sebbene l’inizio delle loro attività sia previsto per le 9.30 ed il pulmino neppure sia passato a raccoglierli: ognuno è arrivato da solo, alla spicciolata, con la propri cartella, davanti alle nostre tende dell’amicizia per essere subito pronto all’avvio delle attività. Sorrido al solo pensiero: non credo di avere mai anticipato l'orario di ingresso a scuola, neppure alle elementari, ed escludo anche di avere mai declinato un passaggio in pulmino per percorrere il tragitto fino a scuola a piedi sotto il sole.
Quella mattina, assieme ad altri colleghi, partecipo alla scuola di inglese che accoglie circa 40 persone, fra adulti, giovani e adolescenti, desiderosi di migliorare la conoscenza o imparare i primi rudimenti di inglese.
Sono destinata all'aiuto ai beginners ed è così che insieme ad una collega ceca mi ritrovo ad insegnare l'alfabeto latino ad un signore di almeno sessant’anni che scrive e riscrive ogni lettera sul proprio quaderno, la associa ad una parola chiave e annota a fianco la traduzione in farsi (arabo) così da non scordarne il significato; infinite sono le volte che mi richiama al suo banco per ripetere l'esatta pronuncia dei vocaboli e ogni volta, nello sbagliare lo spelling, sorride.
Affianco anche una giovinetta afghana di tredici anni che, accompagnata da tre amichette, si siede per la prima volta al banco di una scuola; attraverso il dialogo con le conoscenti comprendiamo che la ragazzina è analfabeta, mai andata a scuola, incapace di leggere e di scrivere.
Anche al termine della English school viene offerto il pranzo, quindi tutto viene riassettato e riordinato e ci si ricongiunge ai compagni.
Giovedì 26 agosto: goodbye human rights graveyard. Per me è già l’ultimo giorno. Venerdì dovrò infatti dedicarlo totalmente al viaggio. Partecipo nuovamente alla scuola per i bambini ed alla mensa.
La mattina collaboro alle attività di un gruppo di bimbi di varie età, sempre afghani. Insieme ci divertiamo a disegnare e ritagliare maschere colorate a forma di animale, da mettere sul viso, che i piccoli decidono di realizzare anche per i propri amici per darle loro una volta rientrati al campo. Quindi si accende un po’ di musica, si balla e si gioca tutti assieme.
Nel pomeriggio è di nuovo allestimento del ristorante e distribuzione del vitto; ogni giornata così si ripete operosa.
Lascio per l’ultima volta le tende a fianco del campo alle 21. E’ buio e c'è vento, penso che quello che sto vivendo è l’ultimo momento in cui ho concretamente modo di partecipare al dolore di quelle persone. Nonostante la stanchezza per le giornate vissute così intensamente, sento che non vorrei andarmene, perché mi sembra di lasciare qualcosa in sospeso. Mi domando quando potrò tornare, ma ancora di più mi interrogo su quando finirà quel confinamento di diritti, "human rights graveyard", come bene descritto da un writer sulle mura di cinta del vecchio campo di Moria.
Il ritorno e una domanda. L'esperienza è ormai conclusa, sono tornata a casa, ho ritrovato i miei affetti e ho ripreso anche il servizio in ufficio. E’ difficile dare forma e nome a ciò che provo, al di fuori di una grande tristezza. Senza tregua mi martella costante una domanda "perché noi sì e loro no?".
E’ trascorso qualche giorno e ancora non ho trovato una risposta.
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