ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Diritto dell’Unione europea e articolo 111 co. 8 Cost. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata*
di Enrico Zampetti
Sommario: 1. Premessa. - 2. Sul principio di autonomia procedurale tra effettività ed equivalenza. - 3. Sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura. - 4. Osservazioni conclusive. Sulle attuali criticità dell’articolo 111 co. 8 Cost.
1. Premessa.
I fatti alla base del caso Randstad sono ormai ampiamente noti e non serve ripercorrerli in dettaglio. In estrema sintesi, la vicenda origina dall’impugnazione proposta da una società, in qualità di concorrente ad una gara pubblica, per l’annullamento del provvedimento di esclusione adottato nei suoi confronti e della procedura nel suo complesso. A seguito del rigetto dell’impugnazione da parte del giudice di primo grado, che aveva giudicato legittima tanto l’esclusione quanto la gara nel suo complesso, il Consiglio di Stato confermava la legittimità del provvedimento di esclusione ma dichiarava il difetto di legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura, assumendo che, in ragione della sua legittima esclusione, la società fosse priva “non solo del titolo a partecipare alla gara, ma anche della legittimazione a contestarne gli esiti sotto altri profili, giacché diviene portatrice di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico de settore che non ha partecipato alla gara”[i].
La società ricorreva in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, co. 8, Cost., contestando la decisione del Consiglio di Stato per avere erroneamente dichiarato inammissibile l’impugnazione avverso la gara nel suo complesso, in violazione del diritto dell’Unione europea e, in particolare, del diritto ad un ricorso effettivo così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.
Senonchè, la Corte di Cassazione rilevava come, allo stato, l’ammissibilità del ricorso fosse ostacolata da una “prassi interpretativa nazionale”, da ultimo esplicitata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, in forza della quale la violazione del diritto eurounitario non sarebbe riconducibile a un motivo di giurisdizione, ma integrerebbe una semplice violazione di legge, o comunque un ordinario error in iudicando, come tale non censurabile attraverso il ricorso per Cassazione di cui all’articolo 111, co.8, Cost. Conseguentemente, riteneva di sottoporre in via pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue le seguenti questioni, che possono così sintetizzarsi[ii]:
i) se il diritto dell’Unione osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., così come da ultimo interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, esclude la proponibilità del ricorso per Cassazione per contestare sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con il diritto dell’Unione[iii];
ii) se il diritto dell’Unione osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., esclude la proponibilità del ricorso in Cassazione per contestare le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano immotivatamente omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia[iv];
iii) se il diritto dell’Unione, anche alla luce di specifici precedenti della Corte di giustizia[v], osti a una prassi giurisprudenziale nazionale che, come quella applicata dall’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, nega la legittimazione del concorrente escluso a contestare gli esiti della gara, sebbene l’esclusione non risulti definitivamente accertata e l’eventuale accoglimento dell’impugnazione possa determinare l’indizione di una nuova procedura.
Con la decisione 21 dicembre 2021, causa C-497/20[vi], la Corte di giustizia ha definito la prima e la terza questione posta dall’ordinanza della Cassazione, senza rispondere alla seconda in quanto ritenuta irrilevante ai fini della controversia. La sentenza, da un lato, ha escluso l’incompatibilità con il diritto dell’Unione dell’articolo 111 co. 8 Cost, così come interpretato dalla Corte costituzionale; dall’altro, ha stigmatizzato la violazione del diritto eurounitario perpetrata dal Consiglio di Stato per avere il giudice italiano negato al concorrente escluso la legittimazione ad impugnare gli esiti complessivi della procedura.
La pronuncia ha da subito suscitato un particolare interesse.
In primo luogo, perché tocca il tema generale dell’effettività della tutela giurisdizionale, con particolare riferimento alle ipotesi in cui la pronuncia del giudice nazionale violi il diritto eurounitario. In secondo luogo, perché riguarda da vicino il nostro assetto costituzionale imperniato su di un modello giurisdizionale dualista, che vede le decisioni del giudice ordinario soggette al ricorso in Cassazione per violazione di legge e quelle del giudice amministrativo ricorribili in Cassazione soltanto per “motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111 co. 8 Cost.). In terzo luogo, perché, nella specifica materia dei contratti pubblici, rimarca la distanza tra la giurisprudenza amministrativa e quella europea sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura di gara.
Nei paragrafi seguenti verranno più a fondo esaminate le argomentazioni con le quali la Corte di giustizia ha risposto alle questioni sollevate dalla Cassazione. Conclusivamente, saranno segnalate alcune criticità attualmente poste dall’articolo 111 co. 8 Cost, ulteriori rispetto a quelle prospettate nell’ordinanza di rimessione.
2. Sul principio di autonomia procedurale tra effettività ed equivalenza.
Con riferimento alla prima questione, la Corte di giustizia osserva che, in forza del “principio dell’autonomia procedurale”, spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro “stabilire le modalità processuali” dei rimedi giurisdizionali atti a garantire il “diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva”. Più esattamente, afferma che, in linea di principio, il diritto dell’Unione “non osta a che gli Stati membri limitino o subordinino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione”, a condizione che “siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza”. Sotto questo profilo – sottolinea la Corte - la disciplina processuale italiana non si porrebbe in contrasto né con il principio di equivalenza né con il principio di effettività. Il principio di equivalenza sarebbe rispettato dall’esperibilità del ricorso per motivi di giurisdizione sia quando sono in rilievo situazioni giuridiche protette dal diritto eurounitario sia quando sono in rilievo situazioni giuridiche protette dal diritto interno[vii]. Quanto al principio di effettività, il diritto dell’Unione “non produce l’effetto di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno”, salvo che “dalla struttura dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione”. Poiché il sistema processuale italiano garantisce l’accesso a un giudice indipendente e imparziale (anche) a tutela delle situazioni giuridiche riconosciute dalla normativa europea, la Corte conclude che “una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall’organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all’articolo 47 della stessa”.
Una risposta al quesito in questi termini non sorprende ed era anzi prevedibile, considerato che, con riferimento alle questioni processuali, il principio di autonomia procedurale viene spesso invocato sul presupposto che in materia l’Unione europea non abbia una specifica competenza[viii]. In quest’ambito, l’unico limite imposto dal diritto dell’Unione è il rispetto dei principi di effettività ed equivalenza, nel senso già precisato che le discipline processuali nazionali non devono creare discriminazioni per la tutela delle situazioni giuridiche tutelate dal diritto eurounitario e devono garantire l’accesso a un giudice imparziale, in conformità all’articolo 47 della Carta di Nizza[ix]. Se la normativa interna rispetta questi principi, lo Sato membro è libero di disciplinare il proprio sistema processuale senza ostacoli derivanti dal diritto dell’Unione. Del resto, la garanzia sancita nell’articolo 47 della Carta, così come anche rimarcato nelle conclusioni dell’Avvocato generale[x], “non impone un doppio grado di giudizio”, ma si limita a garantire il diritto di accesso “soltanto a un giudice”. Di conseguenza, se la disciplina dello Stato membro garantisce l’accesso a un giudice, conferendo a tale giudice la competenza a esaminare il merito della controversia, i principi di tutela giurisdizionale sanciti dall’articolo 47 della Carta di Nizza e dalla Direttiva 89/665 non possono ritenersi violati, proprio in quanto non “impongono un ulteriore grado di giudizio per porre rimedio a un’applicazione erronea di dette norme da parte del giudice di appello”[xi].
Nel descritto quadro di riferimento, la ritenuta compatibilità con il diritto dell’Unione dei limiti al ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato è pienamente condivisibile. Sebbene la limitazione ai motivi inerenti alla giurisdizione impedisca di per sé di contestare in Cassazione una decisione del Consiglio di Stato adottata in violazione del diritto dell’Unione, non si ravvisa in ciò alcuna incompatibilità con il principio di effettività, proprio in quanto il diritto italiano garantisce pacificamente l’accesso a un giudice imparziale per l’esame nel merito della controversia[xii].
Va ancora evidenziato che, coerentemente con l’invocato principio di autonomia procedurale, la Corte non si preoccupa di chiarire se il contrasto rilevato dia luogo a un motivo di giurisdizione deducibile con il ricorso in cassazione o se, invece, integri un errore di giudizio estraneo al campo di applicazione del rimedio[xiii]. Una volta escluso che l’articolo 111 co. 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, presenti aspetti d’incompatibilità con il diritto eurounitario, diventa, infatti, irrilevante ogni più accurata indagine sui presupposti del ricorso previsto dalla citata norma costituzionale. Piuttosto, alla Corte interessa rimarcare che, quando le istanze giurisdizionali previste dal diritto nazionale non consentono più di eliminare la violazione inferta al diritto eurounitario, il rimedio debba essere individuato “nell’obbligo, per ogni giudice amministrativo dello Stato membro interessato, compreso lo stesso supremo giudice amministrativo, di disapplicare tale giurisprudenza non conforme al diritto dell’Unione” e, in caso di inosservanza di un tale obbligo, “nella possibilità per la Commissione europea di proporre un ricorso per inadempimento contro tale Stato membro” (fermo restando che i singoli lesi nel diritto a un ricorso effettivo possono pur sempre “far valere la responsabilità di tale Stato membro, purché siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza di un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subìto dal soggetto leso”). Si ribadisce così che il primato del diritto eurounitario può realizzarsi attraverso strumenti che lasciano impregiudicato il principio di autonomia procedurale.
Per altro verso, il richiamo al principio di autonomia procedurale ha levato la Corte di giustizia dall’imbarazzo di sindacare un assetto processuale sancito direttamente a livello costituzionale. Se, in ipotesi, anche le norme costituzionali degli Stati membri possono rivelare delle incompatibilità con il diritto dell’Unione, prospettare un’interpretazione di tale diritto in contrasto con le norme costituzionali degli Stati membri potrebbe risvegliare il tema dei controlimiti, rivelando una netta contrapposizione tra diritto nazionale e diritto eurounitario non facile da gestire[xiv]. Non è questa la sede per affrontare più a fondo il problema e verificare se effettivamente l’assetto costituzionale in esame possa integrare un controlimite rispetto al diritto dell’Unione. Resta il fatto che l’aver risolto la questione in base al principio di autonomia procedurale impedisce anche solo di ipotizzare un problema di controlimiti, scongiurando opportunamente qualsiasi eventuale scontro tra Corte di giustizia e Corte costituzionale.
3. Sulla legittimazione del concorrente escluso ad impugnare gli esiti della procedura.
Nel rispondere al primo quesito la Corte affronta anche la questione della legittimazione ad agire del concorrente escluso, stigmatizzando il contrasto della decisione del Consiglio di Stato con il diritto dell’Unione, per avere il giudice italiano negato al concorrente escluso la legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura.
In base agli articoli 1 e 2 bis della Direttiva ricorsi[xv], la giurisprudenza della Corte di giustizia assume che la legittimazione a contestare gli esiti della gara spetti ai concorrenti esclusi la cui esclusione non sia “definitiva” e non debba, invece, riconoscersi ai concorrenti la cui esclusione sia “definitiva”, ossia quando sia stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o quando non possa più essere oggetto di una procedura di ricorso. Secondo la Corte, il concetto di definitività implica che l’accertamento sulla legittimità dell’esclusione sia ormai incontestabile ovvero provvisto dell’efficacia tipica del giudicato[xvi]. Solo in questi casi il concorrente escluso sarebbe privo della legittimazione a contestare gli esiti della gara; diversamente, quando manchi il definitivo accertamento sulla legittimità dell’esclusione, la legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura non potrebbe negarsi.
Dal punto di vista delle situazioni giuridiche, il riconoscimento della legittimazione in capo al concorrente escluso mira a tutelare il suo interesse strumentale alla ripetizione della gara, considerato che l’eventuale accoglimento del ricorso, se pur inidoneo a garantire l’utilità finale rappresentata dall’aggiudicazione, avrebbe pur sempre come effetto la rinnovazione della gara, rivelando in ciò il concreto interesse a coltivare l’impugnazione. Del resto, la stessa attenzione per una tutela piena ed effettiva che ricomprenda in sé l’interesse strumentale è alla base della giurisprudenza della Corte Ue sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, secondo la quale il ricorso principale deve essere esaminato anche quando sia accolto il ricorso incidentale, sul presupposto che l’eventuale annullamento dell’aggiudicazione potrebbe indurre la stazione appaltante a rinnovare la procedura[xvii].
In conformità alla sua giurisprudenza, la Corte ritiene, dunque, che il difetto di legittimazione pronunciato dal Consiglio di Stato violi il diritto a un ricorso effettivo, osservando che sia al momento di proposizione del ricorso al giudice di primo grado, sia al momento della decisione del ricorso da parte di tale giudice, l’esclusione non poteva ritenersi definitiva in quanto non precedentemente “ritenuta legittima da quest’ultimo giudice o da qualsiasi altro organo di ricorso indipendente”. L’inciso non brilla per chiarezza perché non sembra tenere adeguatamente in conto che anche il Consiglio di Stato, e non solo il Tar adito in primo grado, aveva giudicato legittima l’esclusione. Tuttavia, ciò che la Corte intende affermare è che, al momento in cui è stata instaurata e decisa per la prima volta l’impugnazione, non esisteva alcun accertamento definitivo e irretrattabile sulla legittimità dell’esclusione. Sicché, rifiutando di esaminare nel merito la domanda volta all’annullamento dell’aggiudicazione, il Consiglio di Stato avrebbe negato tutela ad una situazione giuridica protetta dal diritto eurounitario, quale appunto l’interesse strumentale alla rinnovazione della gara[xviii].
Senonché, secondo una diversa ricostruzione emersa principalmente in dottrina[xix], un’interpretazione della direttiva ricorsi più aderente alla sua formulazione letterale escluderebbe di ricollegare la definitività dell’esclusone al passaggio in giudicato della decisione che ne accerti la legittimità[xx]. Piuttosto, ad integrare il concetto di definitività, sarebbe sufficiente una decisione amministrativa o giurisdizionale che abbia riconosciuto la legittimità dell’esclusione. In questa prospettiva, la decisione del Consiglio di Stato apparirebbe corretta, in quanto, a prescindere dalla formazione del giudicato, il difetto di legittimazione ad impugnare gli esiti della procedura verrebbe a colpire un concorrente “definitivamente” escluso in virtù di un provvedimento giudicato due volte legittimo, sia dal giudice di primo grado che dal giudice di appello[xxi].
Tra le due la ricostruzione preferibile appare quella avallata dalla Corte di giustizia, poiché il prospettato ampliamento della legittimazione ad agire garantisce piena tutela ad una situazione giuridica strumentale che, a differenza di quanto ritenuto dal Consiglio di Stato, non sembra potersi sottrarre all’ordinaria protezione riservata all’interesse legittimo. Sotto questo profilo, il paventato rischio che, nel seguire la giurisprudenza europea, il processo amministrativo venga ad assumere una connotazione marcatamente oggettiva deve essere probabilmente ridimensionato, considerato che l’interesse strumentale è pur sempre riferibile a un soggetto che originariamente ha partecipato alla procedura e che, in quanto operatore economico in un determinato settore, aspira a partecipare alle gare pubbliche di quel settore.
In ogni caso, il contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di giustizia testimonia la perdurante attualità di una riflessione sulle situazioni giuridiche soggettive e sulla consistenza degli interessi che ne sono oggetto. Rapportata al diritto interno, la riflessione non può, però, adagiarsi sulla dicotomia interesse legittimo/interesse di fatto, ma deve adeguatamente misurarsi con le concezioni strumentali e finali dell’interesse legittimo[xxii].
4. Osservazioni conclusive. Sulle attuali criticità dell’articolo 111 co. 8 Cost.
La sentenza della Corte di giustizia induce ad alcune osservazioni conclusive sull’assetto giurisdizionale sancito dalla nostra Costituzione, che proprio nell’articolo 111 co. 8 rinviene una delle norme più significative e problematiche.
Va sottolineato che la questione posta dall’articolo 111 co. 8 Cost. è ben più ampia e generale di quella prospettata dalla Cassazione nell’ordinanza di rinvio alla Corte di giustizia. Nella sua portata più generale, infatti, la questione si sostanzia nel diverso trattamento processuale riservato a tutte le decisioni del Consiglio di Stato che, a differenza di quelle del giudice ordinario, possono essere impugnate in Cassazione solo per motivi di giurisdizione ma non per violazione di legge. Si tratta, dunque, di una questione che tocca il complesso delle decisioni assunte dal Consiglio di Stato, non soltanto quelle contrastanti con il diritto dell’Unione, ma anche quelle pronunciate in violazione del diritto nazionale. Solo in questa più ampia prospettiva possono adeguatamente cogliersi le attuali criticità poste dalla norma costituzionale, ulteriori e diverse rispetto a quelle indicate dalla Corte di Cassazione.
Una prima criticità riguarda direttamente l’articolo 111 co. 8 Cost, laddove prevede una disciplina del ricorso in Cassazione diversa da quella riservata alle sentenze del giudice ordinario. È noto, al riguardo, che il differente trattamento processuale riflette il modello giurisdizionale dualistico sancito nella nostra Costituzione, ripartito tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa[xxiii]. Nell’originario contesto costituzionale, il modello veniva giustificato con ragioni di continuità con il sistema, ovvero in funzione della diversa natura delle situazioni giuridiche devolute all’una o all’altra giurisdizione, ovvero ancora in base alle differenti tipologie di tutela rispettivamente dispensabili dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario. Pertanto, nell’ambito di un siffatto sistema dualistico, non appariva incoerente sottrarre le decisioni del Consiglio di Stato al controllo di legittimità previsto per le sentenze del giudice ordinario, dal momento che in tal modo la funzione nomofilattica della Cassazione avrebbe investito la sola giurisdizione ordinaria, così da porre le condizioni per lo sviluppo di un’autonoma nomofilachia della giurisdizione amministrativa rapportata alla specificità delle controversie sugli interessi legittimi.
Il quadro originario ha, però, subito dei progressivi mutamenti. L’interesse legittimo ha cambiato profondamente fisionomia; la tutela dispensabile dal giudice amministrativo non è più solo quella costitutiva di annullamento ma anche quella risarcitoria o più in generale di condanna; nonostante la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, il giudice amministrativo mantiene una significativa cognizione sui diritti soggettivi, considerato il progressivo aumento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva; il giudice amministrativo dispone degli stessi poteri e mezzi istruttori del giudice ordinario. Pur non eliminandola, una tale evoluzione riduce di molto l’originaria distanza tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, poiché tanto il giudice amministrativo quanto il giudice ordinario possono decidere sui diritti con gli stessi poteri e tanto l’uno quanto l’altro sono spesso chiamati ad applicare le stesse norme, come accade nelle controversie risarcitorie rispettivamente attribuite all’una o all’altra giurisdizione. Ciò non di meno, a causa del differente regime costituzionale del ricorso in Cassazione, la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa conservano ciascuna una propria e autonoma nomofilachia. Il regime differenziato rivela così la carenza di una funzione nomofilattica unitaria, anche quando le controversie devolute alle rispettive giurisdizioni abbiano ad oggetto la medesima situazione giuridica di diritto soggettivo e richiedano l’applicazione della medesima disciplina. A fronte di questo stato di cose, talvolta, è stata evocata la violazione del principio di uguaglianza o di certezza del diritto, nel convincimento che solo una funzione nomofilattica unitaria possa garantire quella uniforme interpretazione del diritto altrimenti compromessa[xxiv]. Se, concettualmente, una funzione nomofilattica unitaria presuppone una giurisdizione unica, l’obiettivo di un’uniforme interpretazione del diritto può raggiungersi anche per altra via. Al di là dell’eventualità di estendere, almeno in alcuni casi, il ricorso in cassazione per violazione di legge alle decisioni del Consiglio di Stato[xxv], varie, infatti, sono le proposte per ovviare all’impasse: istituire una giurisdizione unitaria con sezioni specializzate applicate alle controversie di diritto amministrativo[xxvi]; inserire, in determinate ipotesi, una quota di magistrati amministrativi nel collegio delle sezioni unite della Corte di cassazione[xxvii]; coltivare spazi di confronto ed elaborazioni comuni tra consiglieri della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato[xxviii]. Si tratta di aspetti estremamente complessi e non soltanto perché alcune delle soluzioni prospettate implicano una modifica costituzionale. Ma anche perché un ipotetico superamento della doppia nomofilachia, pur se avvenga con l’introduzione di una giurisdizione unica, deve comunque confrontarsi con l’esigenza di preservare una funzione giurisdizionale centrata sui rapporti tra privato e pubblica amministrazione, capace di adattarsi alle diverse dinamiche che ancora distinguono il diritto amministrativo dal diritto comune[xxix]. Di certo una questione così rilevante non può compiutamente risolversi a Costituzione vigente, né coinvolgendo il diritto dell’Unione su profili processuali interni e di rilevanza costituzionale.
Una seconda criticità non riguarda direttamente l’articolo 118 co. 8 Cost, ma le sue possibili implicazioni nelle concrete dinamiche del sistema di giustizia amministrativa. Tralasciando la questione della nomofilachia, il differente regime processuale del ricorso in Cassazione di per sé non pregiudica la pienezza ed effettività della tutela. Se, infatti, la previsione costituzionale del ricorso per violazione di legge garantisce che tutte le decisioni del giudice ordinario siano sottoposte ad un successivo controllo giurisdizionale, ugualmente, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, la previsione costituzionale di “organi di giustizia amministrativa di primo grado” garantisce che le decisioni di tali organi siano sempre sottoposte al successivo controllo giurisdizionale del Consiglio di Stato[xxx]. In altri termini, il differente regime del ricorso in Cassazione non scalfisce quel generale principio d’impugnabilità pervasivo dell’ordinamento giuridico che richiede di sottoporre la decisione del primo giudice almeno ad un successivo controllo giurisdizionale.
Ciò, tuttavia, non toglie che, in alcune specifiche ipotesi, proprio il differente regime del ricorso in Cassazione possa far sì che una decisione di merito del giudice amministrativo sia di fatto sottratta a un successivo controllo giurisdizionale. Si considerino i casi in cui il Consiglio di Stato, sulla base di una giurisprudenza ormai pacifica che interpreta restrittivamente le cause di rimessione al primo giudice, decida per la prima volta nel merito la lite dopo aver riformato la decisione di primo grado che abbia omesso di pronunciarsi su una o più domande o che abbia erroneamente dichiarato il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile[xxxi]. In queste ipotesi, la mancata previsione del ricorso in Cassazione per violazione di legge impedisce, infatti, alla decisione del Consiglio di Stato che per la prima volta abbia deciso nel merito la lite di essere sottoposta ad un successivo controllo giurisdizionale, poiché un ipotetico ricorso in Cassazione resterebbe necessariamente circoscritto ai profili giurisdizionali. Verrebbe così a determinarsi una violazione del principio d’impugnabilità che, nella giurisdizione amministrativa, si realizza compiutamente attraverso la garanzia costituzionale del doppio grado di giudizio[xxxii]. In realtà, il discorso non è così semplice e lineare, perché, secondo la prevalente giurisprudenza, la decisione di merito assunta dal Consiglio di Stato in riforma di un’erronea sentenza di rito non violerebbe affatto il principio del doppio grado, sul presupposto che tale principio si esaurirebbe nella pura e semplice possibilità di appellare la decisione di primo grado, quale che ne sia il contenuto se di rito o di merito[xxxiii]. Ove, invece, si ritenga che il doppio grado richieda un secondo controllo giurisdizionale necessariamente esteso ai contenuti di merito delle pronunce giurisdizionali, i soli idonei a definire la lite con l’efficacia del giudicato sostanziale, il fatto che la decisione di merito resa per la prima volta dal giudice di appello resti sottratta ad un successivo controllo giurisdizionale, che non sia quello limitato ai profili di giurisdizione, rivela delle indubbie criticità rispetto alla garanzia del diritto di azione nel cui ambito è inquadrabile il principio del doppio grado. Volendo accogliere questa accezione “forte” del doppio grado, la questione si risolverebbe agevolmente attraverso un’interpretazione meno restrittiva della disciplina sulla rimessione e più aderente a una concezione evolutiva del diritto di azione[xxxiv], tale da ricondurre all’ipotesi generale di “lesione del diritto di difesa”[xxxv] anche i casi di omessa pronuncia o di erronea chiusura in rito[xxxvi].
Dalle considerazioni esposte emerge, dunque, che le attuali criticità poste dall’articolo 111 co.8 Cost. investono aspetti centrali del nostro sistema giurisdizionale e non si esauriscono in quelle segnalate dalla Cassazione. Tali criticità devono essere affrontate e superate all’interno del nostro ordinamento, attraverso le opportune o necessarie modifiche alla Costituzione, ovvero mediante interpretazioni della legge processuale meno restrittive e più attente all’evoluzione delle garanzie costituzionali. Viceversa, anche per le ragioni desumibili dalla decisione sul caso Randstad, le rilevate criticità non possono essere affrontate e superate affidandosi esclusivamente al diritto dell’Unione.
*Il presente contributo è destinato al volume Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2021, a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, in corso di pubblicazione.
[i] Cons. St., sez. III, 7 agosto 2019 n. 5606, in www.giustizia-amministrativa.it.
[ii] Ci si riferisce, più esattamente, all’ordinanza della Corte di cassazione, sez. un.,18 settembre 2020 n. 19598; sull’ordinanza e le sue implicazioni, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 30 novembre 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co.8, della Costituzione e il diritto dell’Unione Europea: la parola alla Corte di Giustizia, in Giustizia Insieme, 11 dicembre 2020; Id., L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it, (2021); F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustizia Insieme, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi.it, n. 34/2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Giustizia Insieme, 7 ottobre 2020; A. Travi, I motivi inerenti alla giurisdizione e il diritto dell’Unione europea in una recente ordinanza delle sezioni unite, in Foro it., 11/2020, parte I, 2415 ss.; A. Carbone, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue e rapporti tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1/2021, 65 ss; A. Carratta, a cura di, Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. Un. n. 19598/2020, Roma, 2021; R. Bin, È scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 18 novembre 2020; R. Baratta, Le pregiudiziali Randstad sull’incensurabilità per cassazione della violazione di norme europee imputabile al giudice amministrativo, in Eurojus 1/2021, 167 ss.; all’ordinanza della Cassazione è dedicato il fascicolo n. 1 del 2021 della Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario; in una prospettiva più ampia, che inquadra l’ordinanza nell’attuale struttura pluralistica del sistema giurisdizionale designato dalla Costituzione, F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021, anche in Questione giustizia, 1/2021, 133 ss.
[iii] Più esattamente, le norme europee invocate dalla Corte di cassazione a sostegno della prima questione pregiudiziale sono gli artt. 4 par. 3 e 19, par. 1 TUE; artt. 2, parr. 1 e 2, 267 TFUE; art. 47 della Carta dei diritti fondamentali.
[iv] Le norme europee invocate a sostegno di questa seconda questione sono le stesse richiamate a proposito della prima questione (v. nota precedente).
[v] Il riferimento è a Corte di giustizia Ue, 4 luglio 2013, c. 100/12, in Foro it., 2014, IV, 395 con nota di A. Travi; Corte giustizia UE, 5 aprile 2016, C- 689/13, in Foro it., 2016, IV, 324 con nota di G. Sigismondi, Ricorso incidentale escludente: l’ultimo orientamento della Corte di giustizia porta all’emersione di un contrasto più profondo; Corte giustizia Ue, 5 settembre 2019, C – 333/18, Lombardi, in Foro it., 2020, IV, 55, con nota di E. Zampetti.
[vi] Sulla sentenza della Corte di giustizia Ue, F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Ialia spa, in Federalismi.it, 9 febbraio 2022; intervista di R. Conti a F. Francario, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte giust., G.S., 21 dicembre 2021 – causa C-497/20, Randstad Ialia?, in Giustizia Insieme, 18 gennaio 2022; intervista di R. CONTI a G. Montedoro, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 18 gennaio 2022; intervista di R. Conti a P. Biavati, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 21 gennaio 2022; intervista di R. Conti a R. Rordorf, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 31 gennaio 2022; intervista di R. Conti a E. Cannizzaro, La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, in Giustizia Insieme, 22 febbraio 2022; M. Mazzamuto, Il dopo randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in Giustizia Insieme, 16 marzo 2022; P. Biavati, Brevi osservazioni sul caso Randstad Italia, in Questione giustizia, 9 marzo 2022; in una prospettiva più ampia, che prende in specifica considerazione anche la sentenza in esame della Corte di giustizia, M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, in Giustizia Insieme, 21 aprile 2022.
[vii] Per quanto riguarda il rispetto del principio di equivalenza, la Corte sottolinea che, alla luce degli elementi forniti nell’ordinanza di rinvio, “l’articolo 111, ottavo comma della Costituzione, come interpretato nella sentenza n. 6/2018, limita con le medesime modalità, la competenza della Corte suprema di cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati su disposizioni di diritto nazionale o su disposizioni di diritto dell’Unione” e che, di conseguenza, “una siffatta norma di diritto interno non violi il principio di equivalenza”.
[viii] Cfr., ad esempio, Corte di giustizia Ue, 17 marzo 2016, C-161/15, Abdelhafid Bensada Benallal, la quale afferma che “in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilirle, in forza del principio di autonomia procedurale, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività)”.
[ix] Come noto, l’articolo 47 della Carta di Nizza stabilisce che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”. Il successivo articolo 52 prevede che “eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà” e che ”nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Dal suo canto, l’articolo 1, par. 3 della Direttiva Cee 21 dicembre 1989, n. 89/665/Cee, sancisce che “gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”; in argomento, si veda, in particolare, F. Aperio Bella, Tra procedimento e processo. Contributo allo studio delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 2017, 279 ss., nonché S. Tranquilli, Una rivoluzione che parte dall’effettività della tutela giurisdizionale. Imparzialità e indipendenza del giudice secondo i Giudici di Lussemburgo, in Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2019, a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, Roma, 2020, 31 ss.
[x] Così le conclusioni dell’Avvocato generale nella causa c-497/20 originata dal rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione con la citata ordinanza n. 19598 del 2020, cit.; per un sintetico inquadramento delle conclusioni dell’Avvocato generale, E. Zampetti, Le conclusioni dell’Avvocato generale sulle questioni pregiudiziali poste dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 13 settembre 2021.
[xi] Così sempre le conclusioni dell’Avvocato generale.
[xii] Più esattamente, la Corte rileva che, sebbene “spetti al giudice del rinvio verificare se nell’ordinamento giuridico italiano esista, in linea di principio, un siffatto rimedio giurisdizionale nel settore dell’aggiudicazione degli appalti pubblici” (ossia un rimedio che consenta di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione), nessun elemento menzionato nell’ordinanza di rimessione o nelle successive osservazioni presentate al giudicante “induce a ritenere a priori che il diritto processuale italiano abbia, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, in tale settore del diritto amministrativo, dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione”.
[xiii] All’indomani dell’ordinanza di rimessione una parte della dottrina ha rilevato che la questione posta alla Corte di giustizia Ue avrebbe potuto essere pacificamente risolta dalla stessa Corte di cassazione, alla stregua di una questione di giurisdizione sindacabile ai sensi dell’articolo 111 co. 8 Cost. Più esattamente, si argomenta che, nella misura in cui ha dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione l’impugnazione del concorrente escluso avverso il provvedimento di aggiudicazione, il Consiglio di Stato abbia di fatto negato tutela giurisdizionale all’interesse strumentale alla ripetizione della gara, opponendo un vero e proprio rifiuto di giurisdizione nei confronti di una situazione giuridica pacificamente tutelata dal diritto eurounitario. Tale ricostruzione è stata sostenuta, in particolare, da F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Ialia spa, cit., 7 ss., il quale rileva che non vi sarebbe “necessità di ridisegnare i contorni dell’eccesso di potere giurisdizionale, né di reinvestire la Corte costituzionale della questione, dal momento che la sentenza 6/2018 non ha certo espunto dal novero dei motivi di giurisdizione la figura del rifiuto di giurisdizione, ma ha solo chiarito che tale figura non può essere dilatata oltre i limiti tradizionalmente noti. Pertanto, una sentenza che continuasse a negare in termini assoluti l’interesse strumentale alla ripetizione della gara ben potrebbe e dovrebbe essere cassata dalle Sezioni Unite per rifiuto di giurisdizione” (sul punto, si veda sempre F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), cit.). Al di là di quella che può ritenersi l’esatta perimetrazione dell’eccesso di potere giurisdizionale, il rifiuto di giurisdizione viene, infatti, tradizionalmente inquadrato nei motivi inerenti alla giurisdizione che possono essere dedotti con il ricorso ex articolo 111 co.8 Cost. In tal senso si è recentemente espressa la citata decisione n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, la quale, oltre che ai casi di sconfinamento, riferisce l’eccesso di potere giudiziario anche alle ipotesi in cui il Consiglio di Stato o la Corte dei conti neghino la propria giurisdizione “sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento)”. Da qui, secondo la ricostruzione in esame, l’inquadramento della decisione del Consiglio di Stato in un’ipotesi di rifiuto di giurisdizione avrebbe consentito alla Corte di cassazione di decidere l’impugnazione senza rivolgersi preliminarmente alla Corte di giustizia Ue. Da un’altra prospettiva, si ritiene, invece, che il difetto di legittimazione pronunciato dal Consiglio di Stato sia inquadrabile in un error in iudicando e non in un motivo di giurisdizione (nemmeno sub specie di rifiuto di giurisdizione). In questi termini, M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto, cit., par.3: “da parte nostra si condivide pienamente l’idea che si tratti di error in iudicando, poiché attinente al merito, così del resto già sostenuto dall’antica dottrina (così ad es. Federico Cammeo; v. M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.) e così come del resto si ricava da ciò che normalmente fa la giurisprudenza civile quando, anche nel caso che ricorra invero un interesse di fatto, rigetta un’azione perché il diritto vantato non sussiste, pronunciandosi cioè sul merito e non dichiarando il difetto di giurisdizione”. Va da sé che, nel caso di specie, un ipotetico error in iudicando potrebbe anche investire le regole sulla legittimazione ad agire, ove si assuma che il Consiglio di Stato abbia negato tutela all’interesse strumentale non perché lo ritenga sottratto in assoluto alla sua cognizione giurisdizionale, ma perché reputi il concorrente legittimamente escluso carente della legittimazione ad azionarlo; in generale sul tema, anche con specifico riferimento alla tormentata vicenda dell’eccesso di potere giurisdizionale con tutte le sue evoluzioni (o involuzioni) giurisprudenziali, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, cit., 119 ss; in un contesto più ampio, anche oltre il caso Randstad, la questione è affrontata da M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, cit., par. 4.
[xiv] Sul tema, si veda G. Tropea, Il Golem europeo e i “motivi inerenti alla giurisdizione”, cit., par. 4, il quale, in una riflessione sviluppata anteriormente alla pronuncia della Corte di giustizia, non escludeva un’ipotetica attivazione dei controlimiti, nel caso in cui la Corte di giustizia avesse rilevato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione dell’assetto processuale interno, e in particolare dell’articolo 111 co. 8 Cost.
[xv] Al riguardo viene in rilievo il combinato disposto degli articoli 1 e 2 bis della Direttiva ricorsi nella parte in cui prevedono, rispettivamente, che gli Stati membri debbano rendere accessibili le procedure di ricorso a “chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione” e che “gli offerenti sono considerati “interessati se non sono già stati definitivamente esclusi”, laddove s’intende esclusione definitiva quella che “è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente” ovvero quella che “non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”.
[xvi] Corte di giustizia Ue., 21 dicembre 2016, C -355/15, Bietergemainschaft Technische Gebäudebetreuung und Caverion Österreich, secondo cui “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”. Sebbene la decisione non chiarisca esattamente quando l’esclusione debba considerarsi definitiva, nel caso di specie l’esclusione adottata nei confronti del concorrente era stata confermata da una decisione giurisdizionale passata in giudicato prima che il giudice investito del ricorso avverso l’aggiudicazione di quella stessa procedura decidesse. Da questa circostanza si evince che le conclusioni della Corte di giustizia nella citata sentenza sono assunte sul presupposto che la definitività dell’esclusione è correlata al passaggio in giudicato della decisione che ne accerti la legittimità. In tal senso si è del resto chiaramente espressa la sentenza della Corte di giustizia Ue, 11 maggio 2017, C – 131/16, Archus e Gama. Nel ribadire il principio per cui “all’offerente che ha proposto ricorso deve essere riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario che può portare, se del caso, alla constatazione dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare”, la decisione ha tenuto a precisare che la diversa conclusione assunta nella citata sentenza del 21 dicembre 2016 non sconfessa il principio affermato, considerato che, in quel caso, l’esclusione dell’offerente era “stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto statuisse, in modo tale che detto offerente doveva essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione”. Nel che viene espressamente confermato che, per la Corte di giustizia, l’esclusione è definitiva quando l’accertamento della sua legittimità abbia acquisto l’autorità della cosa giudicata.
[xvii] Si fa riferimento alle note decisioni della Corte di giustizia Ue, 4 luglio 2013, c. 100/12, cit. 395; Corte giustizia UE, 5 aprile 2016, C- 689/13, cit., 324; Corte giustizia Ue, 5 settembre 2019, C – 333/18, Lombardi, cit., 55. Tuttavia, le fattispecie coinvolte in queste decisioni sono parzialmente diverse da quella in rilievo nel caso Randstad, considerato che, nelle prime, l’esclusione del concorrente è l’effetto dell’accoglimento del ricorso incidentale, mentre, nella seconda, l’esclusione del concorrente è adottata direttamente dalla stazione appaltante (sul punto, cfr. Corte di giustizia Ue, 21 dicembre 2016, cit., paragrafi 30-33).
[xviii] Da qui la conclusione della Corte secondo la quale “la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Valle d’Aosta da parte del Consiglio di Stato, che ha dichiarato irricevibile la parte del ricorso della Randstad con cui quest’ultima contestava l’aggiudicazione dell’appalto al raggruppamento Synergie-Umana, è incompatibile con il diritto a un ricorso effettivo garantito dall’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, di quest’ultima”.
[xix] Si vedano i rilievi di R. Villata, La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo qual figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., n. 2/2018, 325 ss. anche in Id., Scritti in tema di questioni di giurisdizione, Milano, 2019, 121 ss.
[xx] Come si è già ricordato, ai sensi dell’articolo 2 bis della direttiva ricorsi (21 dicembre 1989 n. 89/665/Cee), l’esclusione si intende definitiva quando “è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente” o quando “non può più essere oggetto di una procedura di ricorso”. Secondo la ricostruzione esaminata, la definitività dell’esclusione non sarebbe testualmente correlata al passaggio in giudicato della decisione giurisdizionale che abbia accertato la legittimità della medesima esclusione.
[xxi] Del resto, la decisione in esame del Consiglio di Stato recepisce le conclusioni della sentenza dell’Adunanza Plenaria 7 aprile 2011, n. 4, in Foro it., 2011, III, 306, con nota di G. Sigismondi, secondo la quale “la mera partecipazione (di fatto) alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso”, posto che “la situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva”; pertanto, “non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui impugnazione sia stata respinta”. Come è agevole constatare, la decisione dell’Adunanza Plenaria non collega la definitività dell’esclusione al passaggio in giudicato della decisione, ma al solo fatto che l’impugnazione avverso l’esclusione sia stata respinta, ossia alla circostanza manifestatasi nel caso in esame, laddove i motivi d’impugnazione proposti dall’operatore economico avverso l’esclusione sono stati respinti sia dal giudice di primo grado che dal giudice di appello; sulle condizioni dell’azione nella materia dei contratti pubblici, si veda, recentemente, D. Capotorto, Le condizioni dell’azione nel contenzioso amministrativo in materia di appalti: “l’interesse meramente potenziale” nuovo paradigma dell’ordinamento processuale?, in Dir. proc. amm., 3/2020, 665 ss.
[xxii] Sul punto, F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), cit., par. 5, il quale, rievocando l’Ebbene, ch’ei si rassegni di Pasquale Stanislao Mancini, pone chiaramente la seguente alternativa: “ecco, siamo praticamente tornati innanzi al medesimo bivio, perché anche oggi si tratta di stabilire se il cittadino debba rassegnarsi o se sia giusto e doveroso tutelare l’interesse strumentale al corretto esercizio del potere; ovvero se l’interesse legittimo debba irrigidirsi sul carattere di una situazione finale o possa o debba sfruttare l’elasticità propria di una situazione strumentale”. Sulla concezione strumentale dell’interesse legittimo, si rinvia per tutti a F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, spec. 410 ss.; sulla concezione finale dell’interesse legittimo, G. Greco, Dal dilemma del diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale – interesse finale, in Dir. proc. amm., 3/2014, 479 ss.; di recente, sul tema generale delle situazioni giuridiche soggettive, M. Trimarchi, Decisione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, in R. Ursi – M. Renna (a cura di), La decisione amministrativa, Napoli, 2021, 131 ss; A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[xxiii] Sul tema, di recente, M. Clarich, Il dualismo giurisdizionale nel sistema della giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., 2/2021, 215 ss.
[xxiv] Si veda, ad esempio, A. TRAVI, Unità della giurisdizione e costituzione, in E. Fabiani – A. Tartaglia Polcini (a cura di), Sull’unità della giurisdizione in ricordo di Franco Cipriani, Napoli, 2011, 72, il quale evidenzia la difficoltà di accettare che “disposizioni identiche (o disposizioni diverse, riconducibili però a principi o a contesti identici) vengano interpretate ed applicate in modo diverso solo perché parte in causa è un’amministrazione”, rilevando che “nella situazione attuale mi pare evidente una violazione grave dei un principio basilare dell’ordinamento costituzionale, ossia del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.”; F. Bile, Intorno all’unità della giurisdizione, in Foro it., 4/2011, 95, osserva che “la limitazione del ricorso in Cassazione per violazione di legge alla sola giurisdizione ordinaria e la correlativa sua esclusione per quella amministrativa potrebbero oggettivamente risolversi nella mancanza di una sede istituzionale per comporre eventuali contrasti fra giudici ordinari e giudici ammnistrativi nell’interpretazione delle stesse norme, pur se relative (come si è detto) a diritti fondamentali. Si restringerebbe così l’esercizio effettivo del potere di nomofilachia e si porrebbe in pericolo il bene essenziale della certezza del diritto, cioè il principio supremo dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge proclamato dall’art. 3 della Carta”.
[xxv] Ci si riferisce, ad esempio, ai casi in cui le decisioni del Consiglio di Stato vertano su diritti soggettivi; sul punto, M. Clarich, Il dualismo giurisdizionale nel sistema della giustizia amministrativa, cit., 223, evidenzia la difficoltà di raggiungere il risultato attraverso un’interpretazione estensiva dell’articolo 111 co.8 Cost.: “appare del resto arduo, a Costituzione invaiata, imboccare la via di interpretare l’art. 111, comma 8, nel senso di ammettere il ricorso in Cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato per violazione di legge almeno limitatamente ai casi nei quali esse si pronuncino sui diritti soggettivi”.
[xxvi] A. Travi, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia, 1/2021, 27, il quale sottolinea che “il superamento della pluralità delle giurisdizioni è possibile solo in un quadro di reale specializzazione del giudice ordinario, come d’altra parte esiste in altri paesi europei”; in ogni caso, l’evocazione della giurisdizione unica investe profili generali e non resta circoscritto all’esigenza di una nomofilachia unitaria: sul tema, C. Marzuoli - A. Orsi Battaglini, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione ?, in Dir. pubbl., 1997, 895 ss.; A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello stato di diritto, cit., 33 ss.; A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, in E. Fabiani - A. Tartaglia Polcini (a cura di), Sull’unità della giurisdizione in ricordo di Franco Cipriani, cit., 89 ss.; L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni: annotazioni brevi, in Questione giustizia, 3/2015, 106 ss.
[xxvii] R. Rordorf, Il ragno e la tela: note a margine di uno scritto di Scoditti e Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni, in Questione giustizia, 1/2021, 82 ss., spec. 85.
[xxviii] A. Cosentino, Qualche riflessione su pluralità delle giurisdizioni e nomofilachia, in Questione e giustizia, 1/2021, 96 ss., spec. 100-101.
[xxix] La mancata valorizzazione della specificità della giurisdizione amministrativa è criticata, tra gli altri, da M. A. Sandulli,La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione e giustizia n. 1/2021, 38 ss. Più esattamente, l’A. osserva che il giudice amministrativo deve mantenere la sua peculiarità, “che è e deve restare quella di impedire che gli atti amministrativi ingiustamente lesivi di posizioni giuridicamente tutelate producano effetti – evidentemente pregiudizievoli anche per l’interesse generale alla “buona amministrazione” – e non deve cedere alle spinte verso una progressiva assimilazione al giudice ordinario (che è invece giudice della controversia), che, inevitabilmente, pongono il problema della ragionevolezza e della proporzionalità di una sostanziale duplicazione della stessa funzione”. Proprio al fine di valorizzare la specificità della giurisdizione amministrativa, senza che a ciò possa opporsi un’ingiustificata duplicazione della funzione giurisdizionale (ordinaria e amministrativa), l’A. non esclude che vada forse “ripensata anche l’attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria, ipotizzando magari una mera partecipazione del relatore della sentenza al collegio giudicante ordinario”; F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, cit., par.4, nel valorizzare la specificità della giurisdizione amministrativa, evidenzia come l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento dei danni non debba mai allontanare il giudice amministrativo dalla sua “mission istituzionale (e costituzionale)”, che è quella di assicurare “giustizia nell’amministrazione”. L’A. ritiene prioritario evitare qualsiasi tendenza volta ad una progressiva sostituzione della tutela risarcitoria alla tutela di annullamento, rilevando che “la patrimonializzazione dell’interesse legittimo ha senso, là dove sia possibile, se vale a concentrare la tutela risarcitoria innanzi a un unico giudice, non se diventa un pretesto per fornire un surrogato e, soprattutto, per abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità e se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo”. Conclusivamente, l’A. evidenzia che il diritto amministrativo e il suo giudice debbano necessariamente conservare la loro specialità “perché forme e modi della cura e della protezione sostanziale degli interessi pubblici ubbidiscono a principi fondamentali differenti rispetto a quelli propri della cura e della protezione degli interessi privati, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello giustiziale, non mutuabili dal sistema di diritto privato”.
[xxx] Il riferimento è all’articolo 125 Cost., ai sensi del quale “nella regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica”.
[xxxi] Il riferimento alle decisioni dell’Adunanza Plenaria, 30 luglio 2018 nn. 10 e 11, nonché 28 settembre 2018 n. 15, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo queste decisioni, il giudice di appello che riformi un’erronea decisione in rito (che, cioè, abbia erroneamente dichiarato inammissibile, improcedibile o irricevibile il ricorso) sarebbe tenuto a decidere nel merito la controversia senza dover rinviare la causa al primo giudice. Ugualmente, il giudice di appello che riformi una decisione che abbia erroneamente omesso di pronunciarsi su una o più domande sarebbe tenuto a decidere sulla domanda dimenticata senza dover rinviare la causa al primo giudice. La Plenaria giunge a queste conclusioni sul presupposto che l’articolo 105 c.p.a. non preveda espressamente tra le cause di rimessione al primo giudice i casi di omessa pronuncia o di erronea decisione in rito e che tali casi non possano essere ricondotti alla causa di rimessione rappresentata dalla “lesione del diritto di difesa”.
[xxxii] Sul principio del doppio grado nel processo amministrativo, si veda, da ultimo, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli esiti del giudizio di appello, Napoli, 2020, 41 ss.; tra la dottrina che si è occupata del principio del doppio grado, si veda, in particolare, G. Serges, Il principio del doppio grado di giurisdizione nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1993 e F. Sorrentino, Il doppio grado di giudizio nel giudizio amministrativo, in Scritti in onore di Alberto Predieri, II, Milano, 1996, 1387 ss.
[xxxiii] Secondo le decisioni dell’Adunanza Plenaria, nn. 10 e 11 del 2018, cit., il fatto che il giudice di appello decida il merito della controversia quando riformi l’erronea sentenza di rito non determinerebbe alcuna violazione del principio del doppio grado, poiché tale principio non implicherebbe che “il merito debba essere sempre esaminato in ciascun grado, conformemente alla natura devolutiva del mezzo d’appello”, sicchè il giudice di appello sarebbe comunque chiamato ad un nuovo esame dell’intera controversia, senza che rilevi in contrario la circostanza che il primo giudice, sia pure erroneamente, non abbia pronunciato anche sul merito.
[xxxiv] In quest’ottica, la garanzia costituzionale del diritto di difesa deve intendersi a tutela di una pronuncia di merito, nel senso che tende ad assicurare che le domande proposte in giudizio siano esaminate dal giudice per addivenire a una soluzione della lite nei suoi aspetti sostanziali. Di conseguenza, se il giudice di primo grado, per un suo errore, non decide nel merito la lite, tale errore rivelerebbe una violazione del diritto di difesa perché impedisce di ottenere una pronuncia di merito; conseguentemente, il giudice di appello deve rinviare la causa al primo giudice e ciò anche al fine di garantire la piena realizzazione del doppio grado di giudizio.
[xxxv] Come noto, l’articolo 105 c.p.a. prevede che “il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”.
[xxxvi] Per questi aspetti, anche in relazione alla concezione “forte” del principio del doppio grado nella giurisdizione amministrativa, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli esiti del giudizio di appello, cit.,183 ss.
Il Cognome della Madre - Giustizia Insieme sulla Sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale. Editoriale
1. Il lettore non giurista che, incuriosito dalle notizie di stampa sulla sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale sul cognome materno (Presidente Amato, estensore Navarretta), cercasse l’articolo di legge che stabiliva in via generale l’attribuzione del cognome paterno ai figli, scoprirebbe con sorpresa che tale norma, così come la immagina, non esiste in alcun testo di legge italiano. Eppure, nessuno ha mai dubitato che, in Italia - salve le limitate deroghe formalizzate, queste sì, negli articoli del codice civile che disciplinano il riconoscimento operato in successione dai genitori - il figlio nato da una madre e da un padre assuma, di regola, il cognome del padre.
Per giungere al risultato di cui tutti abbiamo letto nelle scorse settimane - e di cui sentiremo parlare ancora a lungo - la Consulta, infatti, dopo la dichiarazione di illegittimità del primo comma dell’art. 262 c.c., relativo all’attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio, avvalendosi del meccanismo estensivo previsto dall’art. 27 della legge costituzionale n. 87 dell’11 marzo 1953 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma “desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.
Paradossalmente, dunque, la regola del patronimico era tanto imprescindibile nel sistema italiano da non avere neppure bisogno di essere tradotta in norma scritta, pur costituendo il sostrato necessario ma implicito delle altre norme citate, relative alla attribuzione del cognome ai figli non matrimoniali ed ai figli adottivi.
Questa pervasiva immanenza della tacita regola è stata, peraltro, ad un tempo ragione, e conseguenza, della sua percezione non tanto come una scelta normativa, ma come una sorta di preesistente “fatto” naturale, con il corollario di essere necessariamente sottratta, in quanto tale, al dovere di coerenza con i principi costituzionali che grava su tutte le norme positive.
È per questo che la decisione della Corte si inscrive, a buon diritto, tra quelle che - mutuando il titolo da una serie di podcast realizzati dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale - sono destinate a “cambiare la vita” dei cittadini italiani.
Neppure il Tribunale di Bolzano, autorità remittente, aveva infatti osato chiedere quello che la Corte ha poi realizzato: la questione sollevata innanzi alla Consulta aveva ad oggetto esclusivamente l’incostituzionalità del secondo periodo dell’art. 262 c. 1 c.c., norma applicabile al caso specifico sottoposto all’esame del giudice.
La Corte, invece, ha sollevato innanzi a sé la questione di costituzionalità delle ulteriori norme poi censurate ed ha alzato lo sguardo, o lo ha spinto oltre, e attraverso, la specifica norma sfidata di incostituzionalità, “smascherando” l’irrinunciabile scelta valoriale che rimaneva sullo sfondo, tanto scontata quanto ingiustificabile, una volta identificata come tale, per il sorprendente - oggi che è stato portato alla luce - stridente contrasto con i fondamentali principi di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale e, per il tramite dell’art. 117 primo comma, con gli artt. 8 e 14 CEDU, in ragione della escludente discriminazione ai danni della madre e della lesione della integrità della identità familiare del figlio che provoca.
Una discriminazione, ed una dimidiazione del patrimonio identitario costituito dal cognome - il nome che si aggiunge al nome proprio per definire l’appartenenza sociale - che la sentenza n. 131 porta alla luce con tanta lucidità e chiarezza da mostrarne in modo irrevocabile la natura oggettivamente odiosa.
Facendo un ulteriore passo, peraltro, si potrebbe in futuro ipotizzare anche di ridiscutere la compatibilità di un sistema che identifica pubblicamente l’individuo con il riferimento alla sua ascendenza familiare con gli emergenti diritti alla riservatezza; il cognome può, infatti, assumere un indubbio potere condizionante, che chi lo porta non ha scelto. Ciò rende possibile ipotizzare un conflitto tra identità familiare e sociale designate dal cognome e identità autoattribuita, tantopiù in un momento storico in cui anche l’identità di genere registrata alla nascita è oggetto di rinegoziazione in casi meno residuali che in passato. Si vedrà se tale questione, che non sembra essersi posta fin quando il cognome è stato soltanto quello paterno, emergerà ora che il cognome legale riporta entrambe le ascendenze.
2. Per la portata della decisione, Giustizia Insieme ha scelto di dedicare alla sentenza n. 131 una intera giornata di pubblicazioni, offrendo ai lettori i contributi di analisi di tre Autrici ed Autori illuminati, che hanno affrontato con il rigore, la visione e la passione che gli sono propri le molte questioni che la Corte pone al lettore, all’interprete e, da subito, al legislatore.
Ciascuno dei contributi, complementari ma del tutto autonomi, affronta ed esamina la sentenza da un diverso punto di vista: Gabriella Luccioli ricostruisce il percorso delle decisioni che hanno, pezzo per pezzo, eroso il muro oggi abbattuto dalla sentenza n. 131, evidenziandone l’importanza rivoluzionaria e ricordando i pilastri valoriali sui quali si fonda. Michele Sesta, dopo un inquadramento delle disposizioni in tema di cognome del figlio incise dalla sentenza commentata, si spinge oltre rilevando ulteriori profili discriminatori tuttora non rimossi; Mirzia Bianca, ricordate le tradizioni in materia di matronimico e patronimico di alcuni paesi europei a noi culturalmente più affini, accende un faro sul ruolo della Corte costituzionale quale organo deputato al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, in particolare in materia di diritto di famiglia, secondo l'applicazione del principio di effettività. Tutti gli Autori, infine, rivolgono un richiamo pressante al legislatore perché si occupi, urgentemente, in modo organico della materia, tantopiù in ragione della immediata applicabilità del nuovo regime emerso a seguito della pronuncia in commento.
Offriamo ai lettori questi contributi perché siamo convinti che il percorso di consapevolezza e di riflessione, non soltanto giuridica, che la sentenza della Corte ha innescato, sarà tanto più fruttuoso quanto più condiviso. E, infine, una nota: come hanno ricordato alcuni dei nostri Autori, oltre ad essere una sentenza storica, per tutte le ragioni che abbiamo sommariamente indicato, la sentenza n. 131 è bella, bella e intensa, ariosa e appassionante.
La abbiamo attesa tanto tempo, adesso godiamocela.
L’estate del 1982, gli anni ’80 ed emozioni non da poco
di Andrea Venegoni
Già poco meno di due anni fa, la scomparsa di Maradona mi aveva suscitato una serie di riflessioni – che peraltro avevo tenuto per me senza rendere pubbliche – seppure partendo dal presupposto (che oggi posso confessare sperando davvero di non compromettere i rapporti con i tanti collegi e amici napoletani) che io appartenevo a quel partito, forse visto con gli occhi di oggi un po' troppo perbenista e moralista, secondo il quale sarà stato pure il miglior calciatore di tutti i tempi, però aveva quel modo di fare, anche nelle interviste a bordo campo o in quello che si sapeva sulla sua vita fuori dal campo, che me lo rendeva certamente poco simpatico.
Giudicando da quanto vedevo in tv, preferivo di gran lunga lo stile e la classe di Platini, la sua eleganza, la sua “r” francese simil-aristocratica, su una faccia che sembrava non gliene importasse nulla di nulla e guardasse tutti dall'alto, il suo (per me) secondo gol più bello della storia del calcio, Juventus - Argentinos Juniors, finale di coppa Intercontinentale dell'8 dicembre 1985, che però, piccolo particolare, fu annullato e non entrò mai negli annali, e ho ancora impressa negli occhi la sua reazione ironica, sdraiato sul prato su un fianco, con il braccio destro piegato a sorreggere la testa, con un sorrisetto verso l'arbitro che diceva tutto, con un distacco come se il gol fosse stato annullato a qualcun altro e lui fosse stato uno spettatore che passava di lì per caso.
Però, quando Maradona se ne andò, sentii di avere perso un altro di quei pezzi, chiamateli simboli, miti o come volete, che avevano accompagnato la mia vita da giovane. E mi sono sentito un po' più solo.
Per noi, nati intorno alla metà degli anni '60, e che quindi non abbiamo vissuto consapevolmente quel decennio, gli anni '80 sono stati i nostri anni '60.
Sarà che eravamo giovani, ma li ricordo come anni di spensieratezza, forse perché si usciva dal periodo del terrorismo, delle tensioni sociali degli anni '70, e, per chi aveva 14-15 anni, il decennio che iniziava rappresentava davvero l'apertura alla vita.
È vero, i primissimi anni del decennio erano stati ancora turbolenti, in Italia e nel mondo: il terrorismo imperversava ancora in Italia, la mafia stava diventando stragista e nel 1980 c'era stata la morte violenta di John Lennon, ma noi i Beatles non li avevamo vissuti in prima persona; per i ragazzi di allora, invece, si apriva comunque una stagione di leggerezza che ha segnato la nostra adolescenza.
Adesso, bisognava vivere, e tra l'ennesima festa in casa, sperando di poter trovare la mia Vic del “Tempo delle mele” alla quale posare sulle orecchie la cuffietta con una melodia a cui non si poteva dire di no, le sciate sulle piste di Courmayeur e Cervinia e l'eterna competizione tra Pirmin Zurbriggen e Marc Girardelli (oggi qualcuno se li ricorda?), lo sprint di Mennea a Mosca ‘80, il calcio inglese alle primissime apparizioni sulle tv locali, lo sconosciuto Aston Villa che vince la Coppa dei Campioni, avevamo una carica ed un entusiasmo che ancora oggi, quarant’anni dopo, riesce a farci sentire sempre vivi.
In questo, si inserì nel 1982, ultima estate prima della maturità al liceo “Vittorino da Feltre” dei Padri Barnabiti, la vittoria al Mondiale di Spagna. La serata dell’11 luglio la ricordo come fosse ieri. Il rigore sbagliato di Cabrini, sul quale, secondo me, in quel momento si abbattè una sorta di benefico processo di rimozione collettiva, tra gli azzurri ma anche nei milioni di italiani allo stadio e davanti alla tv, che voleva spingere la squadra comunque verso la vittoria; il guizzo di Paolo Rossi, l’urlo epico di Tardelli e l’ultimo gol di Spillo che, come suo stile, esultò come se avesse segnato in una partita di scapoli-ammogliati su un campetto di periferia.
Gli anni ‘80, gli anni della nostra giovinezza, si aprivano, quindi, con una grandissima emozione per tutta l’Italia, e di questo bisogna essere grati per sempre ai giocatori ed ai tecnici di quella squadra.
Quello è stato davvero il decennio nel quale ci siamo formati, in cui abbiamo gettato le basi per diventare quello che siamo oggi; per questo, il Mundial dell’82, ma anche – allargando l’orizzonte - Michael Jackson, il Live Aid da Wembley, il coro di We are the World, Boris Becker che vince Wimbledon partendo dalle qualificazioni, le prime gare di Ayrton Senna e i duelli con Prost, sono stati come dei compagni di viaggio con i quali siamo cresciuti, ci hanno dato delle emozioni sul cui ricordo - parlo per me -, ancora oggi si può fare leva per superare i momenti di tristezza o difficoltà.
Ingenuità da ragazzi, si dirà. Forse è vero.
Peraltro, devo riconoscere che anche Maradona, e non solo la vittoria del 1982, è stato parte di questo processo collettivo. Tra i tanti ricordi del decennio, infatti, non riesco a dimenticare la diretta di Argentina – Inghilterra del 22 giugno 1986. Il primo gol, la “mano de Dios”, ed il secondo, il “gol del secolo”, li ho ancora vivi nella mia mente nel momento in cui si verificavano, inconsapevole, in quell'attimo, che stavo assistendo a qualcosa che sarebbe entrato nel mito del piccolo/grande mondo del pallone e oltre.
Certo, quel giorno non avevo più 14-15 anni, ne avevo quasi ventuno e, ormai all'Università, ero nel periodo della preparazione dell'esame di procedura penale, ovviamente “vecchio rito” sul mitico Cordero, che avrei dato da lì a pochi giorni, ai primi di luglio.
La partita la vidi nel salottino della casa dove – dopo mille giri per l'Europa ed il mondo - vivo ancora oggi e dove ho lo stesso studio di trentasei anni fa. Nella poltrona accanto, mia mamma, che sapeva appassionarsi al calcio come a tutte le cose belle della vita, e che, a partire dallo stesso anno in cui se ne andò Maradona, non la avrebbe occupata più, lasciandomela, vuota, tra i pensieri che riaffiorano e le dolci malinconie del tempo andato.
Davanti alla tv, quella sera, si viveva un momento che sarebbe entrato nella memoria di molti, condito dalla rivalità per la guerra delle Falkland/Malvinas, la tradizione di due nazioni insegnanti di football, lo scenario maestoso dello stadio Azteca di Città del Messico.
Ci gustammo la partita in una calda sera di estate da tenere già le finestre aperte di notte, un'estate a metà degli anni '80, mentre le note di “True Blue”, il nuovo album di Madonna, iniziavano a conquistare le radio italiane e risuonavano dalle autoradio delle macchine che si fermavano al rosso sotto le finestre della casa.
La palla roteava veloce su quel prato verde, liscio, che dalla tv sembrava tosato alla perfezione.
La partita era tesa, io non mi staccavo dal televisore, pensando che ogni passaggio, ogni tiro, ogni errore, potesse essere quello decisivo, mentre i giocatori, per il gran caldo (a Città del Messico era mezzogiorno o giù di là), dovevano rinfrescarsi spesso a bordo campo.
Poi, nell'equilibrio generale, i due lampi.
Ripensando oggi a quelle serate del 1982 e del 1986 davvero magiche, sentimenti contrastanti mi assalgono. Un po' di malinconia, per tante ragioni: perchè ero più giovane e la vita era ancora tutta da scrivere, per il tempo passato e chi si è portato via. Ma, non distinta, dolcezza; dolcezza perchè, forse, quel tempo non è passato invano, anche grazie a chi non c'è più, e un dolce languore per emozioni individuali di tanti anni fa, che erano anche componenti di emozioni collettive.
Oggi penso che chi regala belle emozioni, in fondo, regala amore, che poi, molto probabilmente, sarà l'unica cosa che avrà contato il giorno in cui lasceremo questa terra.
Se è così, anche se all'epoca non mi piaceva come persona, in realtà il nostro Diego si sarà conquistato un'ampia salvezza, perchè ha regalato un'infinità di emozioni a milioni di persone, e lo stesso gli azzurri dell’82 che se ne sono già andati, grazie a quella grandissima impresa coronatasi l’11 luglio di quaranta anni fa.
Quanto a me, finita la serata di Argentina-Inghilterra, il giorno dopo ripresi il mio studio sul Cordero; passai l'esame, e, sempre sullo scorrere degli anni '80, mi laureai ed affrontai il concorso di magistratura.
Superai l'orale, con la certezza di essere nei 300 del bando, il 28 novembre 1990.
Gli anni '80 erano, così, al tramonto: nel 1991 Maradona avrebbe smesso di giocare in Italia; Platini si era già ritirato da tempo; era finita l'Unione Sovietica, nel 1992 iniziava Mani Pulite e venivano uccisi Falcone e Borsellino. Una nuova pagina si apriva per l'Italia, per il mondo e, nel mio piccolo, per me.
Ma questa, è un'altra storia.
Giovanni Salvi
di Andrea Apollonio
Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, lascia la magistratura per raggiunti limiti d'età. Nei suoi 42 anni di servizio, sempre nei ruoli inquirenti (ad eccezione di una prima parentesi come pretore di Monza), ha visto l'Italia, e con essa la magistratura, cambiare volto. E, in un certo senso, proprio dei radicali cambiamenti dell'Italia repubblicana, Giovanni Salvi è stato testimone, occupandosene da una posizione investigativa privilegiata: la Procura di Roma (in cui ha prestato servizio dalla metà degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta), teatro delle inchieste giudiziarie sui grandi misteri italiani: dalla strage di Ustica all'omicidio Pecorelli, passando per la morte del banchiere Roberto Calvi.
Si è anche occupato del primo radicamento di Cosa Nostra a Roma per mano di Pippo Calò con i soldi dei corleonesi, e di uno degli ultimi - e più tragici - colpi di coda delle Brigate Rosse (l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona), prima di essere eletto, nel 2002, al CSM, punto d'arrivo del suo intenso impegno tra le file della magistratura progressista ed in quella associata.
Ed è ancora uno snodo della recente storia d'Italia che lo vede protagonista, questa volta da procuratore di Catania: l'immane strage dei migranti nel canale di Sicilia del 18 aprile 2005, in cui perse la vita un numero elevatissimo e imprecisato di migranti (oltre 700, forse 1000). A partire da quella strage l'Europa si avvede del problema migratorio ed avvia una sistematica politica di accoglienza, e contrasto dell'immigrazione clandestina; ma è intanto l'ufficio all'epoca guidato da Giovanni Salvi ad assicurare alla giustizia gli scafisti.
Immagini in Super 8 e in digitale che raccontano il suo lungo percorso. Eppure, di tutto ciò di cui si è occupato, raramente parla con chi ha il privilegio di frequentarlo, e mai in termini autoreferenziali: può succedere, questo sì, che ai colleghi più giovani mostri, delle sue indagini più importanti, qualche atto giudiziario da lui redatto, magari dattiloscritto e ammantato da un fascino d'archivio (una richiesta, una memoria), e solo per dare l'idea più tangibile e concreta di qualche suo discorso. Egli, per esempio, riflette spesso coi suoi interlocutori sul concetto di prova nel processo penale, riflessioni che ha puntualmente trasfuso, via via, nell'esercizio della giurisdizione. E, da Procuratore Generale della Cassazione, poteva capitare che si presentasse in udienza, magari davanti le Sezioni Unite, accompagnando i suoi interventi con fitte memorie: e anche qui, ne emergeva l'importanza della prova, e soprattutto di saperla riconoscere e valorizzare nel processo.
Ma va detto, soprattutto, che i tre anni di Giovanni Salvi alla Procura Generale sono stati gli anni di un rapporto (mai così) costante e proficuo con le Procure generali, impostato sul confronto e, all'esito, sull'emanazione di linee guida non vincolanti, ma utili per meglio orientare gli uffici di merito.
Anni, per inciso, segnati dalla pandemia: quella legata all'emergenza sanitaria da Covid-19, che ha avuto effetti devastanti sul funzionamento della giustizia; quella legata ai veleni dell'hotel Champagne, lo scandalo delle nomine correntizie che ha avuto effetti devastanti sulla credibilità della magistratura. E le ha dovute fronteggiare entrambe: la prima, elaborando orientamenti sulla colpa medica, sulla insolvenza delle imprese, sui sequestri dei vaccini, sulle misure cautelari (per evitare il sovraffollamento delle carceri), consentendo - in un momento tanto drammatico per il Paese - di uniformare l'azione penale in alcuni settori, pur preservandone il principio di obbligatorietà; la seconda, esercitando il potere disciplinare sui magistrati che si erano resi partecipi delle degenerazioni correntizie in punto di nomine.
Anni difficilissimi, che pure, se raccontati dalla sua viva voce, sembrano stemperarsi in un carattere mite, dubbioso e speculativo, di cui si coglie l'ironia - che Sciascia afferma essere la principale qualità dell'intellettuale, dacché consente di osservare le cose, e in primo luogo la propria vita, con disilluso distacco; qualità che innerva impercettibilmente i suoi discorsi, quale antidoto al peso, spesso opprimente, delle responsabilità (che tanto più sono gravi quanto più innescano, nell'intellettuale, il dubbio che tutto possa essere fatto meglio: così dovrebbe essere); e forse anche questo, assieme alle sue capacità organizzative, gli ha permesso di traghettare la magistratura inquirente italiana lungo i tre anni più intensi e riottosi di tutta la sua storia: anni di gratuiti e ingenerosi attacchi, all'intera categoria; e ancor più ingenerosi, alla sua persona, da fuori e dentro la magistratura. Nei quarantadue anni di servizio ha visto cambiare la magistratura, dicevamo: l'ha vista cambiare in peggio, purtroppo.
A proposito di Sciascia, scriveva di recente Giovanni Salvi: “Abbiano appreso da Sciascia la virtù del dubbio, l’impegno per la chiarezza della scrittura, la diffidenza verso il potere, anche quello che noi stessi esercitiamo”. L'esercizio del potere coltivato nel dubbio: un'antinomia, forse. O forse no. E le parabole di alcuni illuminati percorsi professionali, nella magistratura e non solo, sono lì a comprovarlo.
“La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica
di Bruno Montanari
Sommario: 1. Per una introduzione - 2. Una parola-chiave: “legittimazione” - 3. La colpa e il ragionevole dubbio - 4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa.
1. Per una introduzione
Il testo scritto da Tomaso Epidendio su “Giustizia Insieme “, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha un titolo inquietante, che invita il lettore ad una riflessione spregiudicata e a sua volta inquieta. Partiamo da alcune parole dell’autore: “Stiamo tutti vivendo − proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura…la fondazione di una magistratura interclassista cui si accede per meriti tecnico - giuridici accertati da pubblico concorso (art. 106 Cost.), costituita come ordine istituzionale… [autonoma e indipendente e dotata di potere effettivo disponendo della polizia giudiziaria] e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione -quella alla legge, ma ‘soltanto’ alla legge -…:un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione quella a una ‘legge’ di fronte alla quale… (art.3 Cost.)”.
Epidendio usa in questo brano un termine-chiave per l’ordinamento giuridico, e non solo per il nostro novecentesco, ma “chiave” per ogni potere effettivo, che abbia inteso assumere nella storia una configurazione di “sistema”, fondata su regole stabilizzanti: il termine è “legittimazione”. Termine, che sottolinea l’esigenza di giustificare un potere che un essere umano esercita, introducendo una disuguaglianza (comando-obbedienza), su di un altro essere umano, antropologicamente pari. Ecco perché ho qualificato quel termine come “chiave” e a buon diritto Epidendio lo ricorda, data la configurazione del potere affidato alla magistratura, nel suo complesso.
Tuttavia, il sogno è finito: il tema della “soggezione alla legge” (pur nelle diverse modalità di interpretazione consentite dall’ordinamento) è nei fatti superato, per le ragioni proprie della attuale visione del mondo, passate in rassegna dall’autore. Tale tema, infatti, nella prospettiva di molti, magistrati e dottrina, non sarebbe in grado di fronteggiare efficacemente le richieste di giustizia della società contemporanea. Occorre incamminarsi, allora, in quello che ormai viene definito “diritto vivente”, che si costruisce non più tramite l’interpretazione, ma attraverso una sorta di “oltrepassamento”, secondo la felice definizione di Mario Barcellona ([1]). “Il giudice – scrive Epidendio - è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di ‘sussunzione’ del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di ‘bilanciamenti’ di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili….Da organo soggetto ‘soltanto’ alla legge’…il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante…”
È vero, per restare ancora nel testo, che non si può restare laudatores temporis acti, ma neppure è possibile assumere l’accadere come l’ineluttabilità del fato (avrebbero detto gli antichi), ma occorre ancora esercitare la libertà intellettuale propria dello spirito critico formatosi nella tradizione filosofica e culturale della Modernità (con tutti i suoi inevitabili difetti).
2. Una parola-chiave: “legittimazione”
La riflessione che intendo prospettare può sintetizzarsi nel modo seguente. La parola-chiave è appunto, come ho già ricordato, “legittimazione”. Il potere funzionale esercitato dalla Magistratura, in quanto Organo indipendente dello Stato (il quale ultimo, perciò, si definisce “di Diritto”), ha il suo fondamento in quella determinazione costituzionale che ne stabilisce sia i modi di investitura nelle funzioni, sia i modi di esercizio del relativo potere (la subordinazione alla Legge). Allora il punto è in questa considerazione che contiene un interrogativo: se si è investiti in una determinata funzione, che si esprime attraverso l’esercizio di un potere, secondo le norme dettate dalla Costituzione, come è possibile esercitare quel potere, così formalmente fondato e determinato, secondo modalità in fatto diverse, che lo trasformano da “funzionale” in meramente “effettivo”? Detto con una sintesi rozza: l’ordinamento va bene per l’investitura e acquisire il potere, ma è possibile poi mettere da parte l’ordinamento allorché quel potere viene esercitato. Con una conseguenza assai rilevante per uno Stato di Diritto: mentre il primo potere è per definizione responsabile, il secondo potere è per definizione irresponsabile. È una mera questione epistemologica: mentre l’esercizio di una funzione implica sempre un giudizio conformità; al contrario, il fatto, in quanto accadimento, non si conforma a nulla, se non al suo stesso accadere, se così si può dire secondo l’epistemologia funzionalistica ([2]).
Ho ritenuto di affrontare un tema così delicato seguendo il paradigma epistemologico, che garantisce da interpretazioni politico-ideologiche. Intendo applicare questo medesimo paradigma ad un altro tema, altrettanto delicato, che ancora ho trovato nel testo di Epidendio: quello della differenza tra magistratura inquirente e requirente, innescato dalla riforma del processo penale che ha trasformato l’inquisitorio (sia pure temperato) in accusatorio. Dico subito, che la differenza tra inquisitorio e accusatorio è fondamentalmente epistemologica, in quanto dipende dalla differenza concettuale tra “colpa” e “accusa”: la “colpa” è oggettiva, l’accusa è soggettiva (ma di questo più avanti). E’ una distinzione così radicale che richiede, per coerenza, la distinzione delle carriere.
3. La colpa e il ragionevole dubbio
Andiamo per ordine. Innanzitutto il tema della verità processuale, come oltrepassamento ragionevole del dubbio: un marchingegno logico ma socialmente necessario.
Entrano in gioco, come è noto, due capisaldi del processo: il complesso probatorio ed il libero convincimento del giudice. Non si tratta di formule matematiche (lato sensu) per una possibile determinazione dell’evento, ma di due sguardi (rubo l’idea ad un autorevole filosofo del ‘900, Ernst Cassirer ([3]): quello dell’investigatore e quello del giudice. Alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, intesa come rappresentazione corrispondente ad una “verità” detta, appunto, “processuale”. Fictio terminologica, per la quale assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, per cui poi si spiega l’“oltre”.
La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio, per altro necessaria; ha perciò aggirato il problema, spostandone la soluzione sul tipo di legittimazione dei soggetti processuali, sulla legittimazione dei loro “sguardi”. In breve, la “verità” del giudizio dipende dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. È questo il contesto nel quale prende forma la configurazione dei due modelli processuali: l’inquisitorio e l’accusatorio.
Prova ne sia, che in quel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero in quel bellissimo libro che è Riti e sapienza del diritto ([4]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’“inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”. Contrappunto che, come ho già sottolineato, è legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’“accusa”. Il contrappunto: la “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’“accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento, operata dal magistrato dell’istruzione.
La “colpa”, quindi, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso. Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al giudizio di Dio, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica. A ciò segue che l’attribuzione della colpa è, dal punto di vista razionale, un atto di verità. È necessario, perciò, che un tale atto sia posto in essere da un soggetto strutturalmente legittimato ad esprimerla e deve essere fondato su di un dispiegamento probatorio analogo a quello di un esame scientifico. Nell’esperienza storico-istituzionale della “Modernità”, un tale compito appartiene allo Stato, ente sovrano, guardiano ed anche creatore della giustizia. Il giudizio ricostituisce l’ordine sociale turbato solo se è giusto; ed è giusto solo se è vero. Il mezzo per affermare la colpa è l’applicazione della legge tramite la sentenza, la quale conferma e qualifica come vero ciò che è già stato già ricostruito come vero.
In definitiva, affinché la giustizia soddisfi il suo legame con la verità, occorre che il magistrato inquirente sia un ricercatore di verità. Magistrato inquirente e magistrato giudicante si presentano entrambi sulla scena processuale, sia pure in momenti differenti, come “bocca della legge”, poiché è quest’ultima - la legge – che realizza la giustizia, declinando insieme ricerca della verità e diritto. È epistemologicamente corretto, perciò, che le due figure siano indifferenziate nella loro qualificazione e configurazione ordinamentale.
4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa
Il paradigma concettuale dell’“accusa” è del tutto differente.
“Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, riposa sull’idea che la verità umana si manifesti in via argomentativa e dialettica: un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. In un tale contesto, l’offesa colpisce l’uomo e la società, prima ancora che il “cittadino” in quanto membro dello Stato. Quest’ultimo, lo Stato, assolve ad una funzione organizzativa e strumentale. Emergono allora due caratteristiche legate al modello. La prima: nella possibile tensione tra libertà individuale e difesa sociale, di principio prevale la prima. La seconda caratteristica ha per oggetto il profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa corrispondono a soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una ipotesi argomentativamente sostenibile, attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa ipotesi, attraverso altri elementi di prova.
Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari. Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.
In definitiva, nel modello accusatorio l’investigatore è sicuramente un magistrato, sia per l’indipendenza della sua investitura sia per il modello argomentativo che lo porta a rappresentare determinati eventi come “fatti” costitutivi di “elementi” di prova, per prospettarli come ipotesi per una accusa sostenibile, da sottoporre alla valutazione probatoria dell’organo giudicante. Ne segue, per coerenza epistemologica, che si tratta di due profili di magistrati, quello requirente e quello giudicante, concettualmente e strutturalmente distinti; di qui la distinzione delle carriere.
In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”.
Non v’è dubbio: il testo di Tomaso Epidendio suscita davvero l’esercizio di un pensiero “critico” (nel senso kantiano del termine) su tematiche che investono e turbano nel profondo il nostro attuale sistema istituzionale.
[1] Cfr., Norme e prassi giuridiche: giurisprudenza usurpativa e interpretazione funzionale, Mucchi ed. Modena 2022
[2] Cfr., N.Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, tr.it Laterza, Bari 1985.
[3] Cfr., I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R. Puttello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015
[4] Laterza, Bari 1981.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
