ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Cognome della Madre - Giustizia Insieme sulla Sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale. Editoriale
1. Il lettore non giurista che, incuriosito dalle notizie di stampa sulla sentenza n. 131/2022 della Corte Costituzionale sul cognome materno (Presidente Amato, estensore Navarretta), cercasse l’articolo di legge che stabiliva in via generale l’attribuzione del cognome paterno ai figli, scoprirebbe con sorpresa che tale norma, così come la immagina, non esiste in alcun testo di legge italiano. Eppure, nessuno ha mai dubitato che, in Italia - salve le limitate deroghe formalizzate, queste sì, negli articoli del codice civile che disciplinano il riconoscimento operato in successione dai genitori - il figlio nato da una madre e da un padre assuma, di regola, il cognome del padre.
Per giungere al risultato di cui tutti abbiamo letto nelle scorse settimane - e di cui sentiremo parlare ancora a lungo - la Consulta, infatti, dopo la dichiarazione di illegittimità del primo comma dell’art. 262 c.c., relativo all’attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio, avvalendosi del meccanismo estensivo previsto dall’art. 27 della legge costituzionale n. 87 dell’11 marzo 1953 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma “desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.
Paradossalmente, dunque, la regola del patronimico era tanto imprescindibile nel sistema italiano da non avere neppure bisogno di essere tradotta in norma scritta, pur costituendo il sostrato necessario ma implicito delle altre norme citate, relative alla attribuzione del cognome ai figli non matrimoniali ed ai figli adottivi.
Questa pervasiva immanenza della tacita regola è stata, peraltro, ad un tempo ragione, e conseguenza, della sua percezione non tanto come una scelta normativa, ma come una sorta di preesistente “fatto” naturale, con il corollario di essere necessariamente sottratta, in quanto tale, al dovere di coerenza con i principi costituzionali che grava su tutte le norme positive.
È per questo che la decisione della Corte si inscrive, a buon diritto, tra quelle che - mutuando il titolo da una serie di podcast realizzati dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale - sono destinate a “cambiare la vita” dei cittadini italiani.
Neppure il Tribunale di Bolzano, autorità remittente, aveva infatti osato chiedere quello che la Corte ha poi realizzato: la questione sollevata innanzi alla Consulta aveva ad oggetto esclusivamente l’incostituzionalità del secondo periodo dell’art. 262 c. 1 c.c., norma applicabile al caso specifico sottoposto all’esame del giudice.
La Corte, invece, ha sollevato innanzi a sé la questione di costituzionalità delle ulteriori norme poi censurate ed ha alzato lo sguardo, o lo ha spinto oltre, e attraverso, la specifica norma sfidata di incostituzionalità, “smascherando” l’irrinunciabile scelta valoriale che rimaneva sullo sfondo, tanto scontata quanto ingiustificabile, una volta identificata come tale, per il sorprendente - oggi che è stato portato alla luce - stridente contrasto con i fondamentali principi di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale e, per il tramite dell’art. 117 primo comma, con gli artt. 8 e 14 CEDU, in ragione della escludente discriminazione ai danni della madre e della lesione della integrità della identità familiare del figlio che provoca.
Una discriminazione, ed una dimidiazione del patrimonio identitario costituito dal cognome - il nome che si aggiunge al nome proprio per definire l’appartenenza sociale - che la sentenza n. 131 porta alla luce con tanta lucidità e chiarezza da mostrarne in modo irrevocabile la natura oggettivamente odiosa.
Facendo un ulteriore passo, peraltro, si potrebbe in futuro ipotizzare anche di ridiscutere la compatibilità di un sistema che identifica pubblicamente l’individuo con il riferimento alla sua ascendenza familiare con gli emergenti diritti alla riservatezza; il cognome può, infatti, assumere un indubbio potere condizionante, che chi lo porta non ha scelto. Ciò rende possibile ipotizzare un conflitto tra identità familiare e sociale designate dal cognome e identità autoattribuita, tantopiù in un momento storico in cui anche l’identità di genere registrata alla nascita è oggetto di rinegoziazione in casi meno residuali che in passato. Si vedrà se tale questione, che non sembra essersi posta fin quando il cognome è stato soltanto quello paterno, emergerà ora che il cognome legale riporta entrambe le ascendenze.
2. Per la portata della decisione, Giustizia Insieme ha scelto di dedicare alla sentenza n. 131 una intera giornata di pubblicazioni, offrendo ai lettori i contributi di analisi di tre Autrici ed Autori illuminati, che hanno affrontato con il rigore, la visione e la passione che gli sono propri le molte questioni che la Corte pone al lettore, all’interprete e, da subito, al legislatore.
Ciascuno dei contributi, complementari ma del tutto autonomi, affronta ed esamina la sentenza da un diverso punto di vista: Gabriella Luccioli ricostruisce il percorso delle decisioni che hanno, pezzo per pezzo, eroso il muro oggi abbattuto dalla sentenza n. 131, evidenziandone l’importanza rivoluzionaria e ricordando i pilastri valoriali sui quali si fonda. Michele Sesta, dopo un inquadramento delle disposizioni in tema di cognome del figlio incise dalla sentenza commentata, si spinge oltre rilevando ulteriori profili discriminatori tuttora non rimossi; Mirzia Bianca, ricordate le tradizioni in materia di matronimico e patronimico di alcuni paesi europei a noi culturalmente più affini, accende un faro sul ruolo della Corte costituzionale quale organo deputato al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, in particolare in materia di diritto di famiglia, secondo l'applicazione del principio di effettività. Tutti gli Autori, infine, rivolgono un richiamo pressante al legislatore perché si occupi, urgentemente, in modo organico della materia, tantopiù in ragione della immediata applicabilità del nuovo regime emerso a seguito della pronuncia in commento.
Offriamo ai lettori questi contributi perché siamo convinti che il percorso di consapevolezza e di riflessione, non soltanto giuridica, che la sentenza della Corte ha innescato, sarà tanto più fruttuoso quanto più condiviso. E, infine, una nota: come hanno ricordato alcuni dei nostri Autori, oltre ad essere una sentenza storica, per tutte le ragioni che abbiamo sommariamente indicato, la sentenza n. 131 è bella, bella e intensa, ariosa e appassionante.
La abbiamo attesa tanto tempo, adesso godiamocela.
L’estate del 1982, gli anni ’80 ed emozioni non da poco
di Andrea Venegoni
Già poco meno di due anni fa, la scomparsa di Maradona mi aveva suscitato una serie di riflessioni – che peraltro avevo tenuto per me senza rendere pubbliche – seppure partendo dal presupposto (che oggi posso confessare sperando davvero di non compromettere i rapporti con i tanti collegi e amici napoletani) che io appartenevo a quel partito, forse visto con gli occhi di oggi un po' troppo perbenista e moralista, secondo il quale sarà stato pure il miglior calciatore di tutti i tempi, però aveva quel modo di fare, anche nelle interviste a bordo campo o in quello che si sapeva sulla sua vita fuori dal campo, che me lo rendeva certamente poco simpatico.
Giudicando da quanto vedevo in tv, preferivo di gran lunga lo stile e la classe di Platini, la sua eleganza, la sua “r” francese simil-aristocratica, su una faccia che sembrava non gliene importasse nulla di nulla e guardasse tutti dall'alto, il suo (per me) secondo gol più bello della storia del calcio, Juventus - Argentinos Juniors, finale di coppa Intercontinentale dell'8 dicembre 1985, che però, piccolo particolare, fu annullato e non entrò mai negli annali, e ho ancora impressa negli occhi la sua reazione ironica, sdraiato sul prato su un fianco, con il braccio destro piegato a sorreggere la testa, con un sorrisetto verso l'arbitro che diceva tutto, con un distacco come se il gol fosse stato annullato a qualcun altro e lui fosse stato uno spettatore che passava di lì per caso.
Però, quando Maradona se ne andò, sentii di avere perso un altro di quei pezzi, chiamateli simboli, miti o come volete, che avevano accompagnato la mia vita da giovane. E mi sono sentito un po' più solo.
Per noi, nati intorno alla metà degli anni '60, e che quindi non abbiamo vissuto consapevolmente quel decennio, gli anni '80 sono stati i nostri anni '60.
Sarà che eravamo giovani, ma li ricordo come anni di spensieratezza, forse perché si usciva dal periodo del terrorismo, delle tensioni sociali degli anni '70, e, per chi aveva 14-15 anni, il decennio che iniziava rappresentava davvero l'apertura alla vita.
È vero, i primissimi anni del decennio erano stati ancora turbolenti, in Italia e nel mondo: il terrorismo imperversava ancora in Italia, la mafia stava diventando stragista e nel 1980 c'era stata la morte violenta di John Lennon, ma noi i Beatles non li avevamo vissuti in prima persona; per i ragazzi di allora, invece, si apriva comunque una stagione di leggerezza che ha segnato la nostra adolescenza.
Adesso, bisognava vivere, e tra l'ennesima festa in casa, sperando di poter trovare la mia Vic del “Tempo delle mele” alla quale posare sulle orecchie la cuffietta con una melodia a cui non si poteva dire di no, le sciate sulle piste di Courmayeur e Cervinia e l'eterna competizione tra Pirmin Zurbriggen e Marc Girardelli (oggi qualcuno se li ricorda?), lo sprint di Mennea a Mosca ‘80, il calcio inglese alle primissime apparizioni sulle tv locali, lo sconosciuto Aston Villa che vince la Coppa dei Campioni, avevamo una carica ed un entusiasmo che ancora oggi, quarant’anni dopo, riesce a farci sentire sempre vivi.
In questo, si inserì nel 1982, ultima estate prima della maturità al liceo “Vittorino da Feltre” dei Padri Barnabiti, la vittoria al Mondiale di Spagna. La serata dell’11 luglio la ricordo come fosse ieri. Il rigore sbagliato di Cabrini, sul quale, secondo me, in quel momento si abbattè una sorta di benefico processo di rimozione collettiva, tra gli azzurri ma anche nei milioni di italiani allo stadio e davanti alla tv, che voleva spingere la squadra comunque verso la vittoria; il guizzo di Paolo Rossi, l’urlo epico di Tardelli e l’ultimo gol di Spillo che, come suo stile, esultò come se avesse segnato in una partita di scapoli-ammogliati su un campetto di periferia.
Gli anni ‘80, gli anni della nostra giovinezza, si aprivano, quindi, con una grandissima emozione per tutta l’Italia, e di questo bisogna essere grati per sempre ai giocatori ed ai tecnici di quella squadra.
Quello è stato davvero il decennio nel quale ci siamo formati, in cui abbiamo gettato le basi per diventare quello che siamo oggi; per questo, il Mundial dell’82, ma anche – allargando l’orizzonte - Michael Jackson, il Live Aid da Wembley, il coro di We are the World, Boris Becker che vince Wimbledon partendo dalle qualificazioni, le prime gare di Ayrton Senna e i duelli con Prost, sono stati come dei compagni di viaggio con i quali siamo cresciuti, ci hanno dato delle emozioni sul cui ricordo - parlo per me -, ancora oggi si può fare leva per superare i momenti di tristezza o difficoltà.
Ingenuità da ragazzi, si dirà. Forse è vero.
Peraltro, devo riconoscere che anche Maradona, e non solo la vittoria del 1982, è stato parte di questo processo collettivo. Tra i tanti ricordi del decennio, infatti, non riesco a dimenticare la diretta di Argentina – Inghilterra del 22 giugno 1986. Il primo gol, la “mano de Dios”, ed il secondo, il “gol del secolo”, li ho ancora vivi nella mia mente nel momento in cui si verificavano, inconsapevole, in quell'attimo, che stavo assistendo a qualcosa che sarebbe entrato nel mito del piccolo/grande mondo del pallone e oltre.
Certo, quel giorno non avevo più 14-15 anni, ne avevo quasi ventuno e, ormai all'Università, ero nel periodo della preparazione dell'esame di procedura penale, ovviamente “vecchio rito” sul mitico Cordero, che avrei dato da lì a pochi giorni, ai primi di luglio.
La partita la vidi nel salottino della casa dove – dopo mille giri per l'Europa ed il mondo - vivo ancora oggi e dove ho lo stesso studio di trentasei anni fa. Nella poltrona accanto, mia mamma, che sapeva appassionarsi al calcio come a tutte le cose belle della vita, e che, a partire dallo stesso anno in cui se ne andò Maradona, non la avrebbe occupata più, lasciandomela, vuota, tra i pensieri che riaffiorano e le dolci malinconie del tempo andato.
Davanti alla tv, quella sera, si viveva un momento che sarebbe entrato nella memoria di molti, condito dalla rivalità per la guerra delle Falkland/Malvinas, la tradizione di due nazioni insegnanti di football, lo scenario maestoso dello stadio Azteca di Città del Messico.
Ci gustammo la partita in una calda sera di estate da tenere già le finestre aperte di notte, un'estate a metà degli anni '80, mentre le note di “True Blue”, il nuovo album di Madonna, iniziavano a conquistare le radio italiane e risuonavano dalle autoradio delle macchine che si fermavano al rosso sotto le finestre della casa.
La palla roteava veloce su quel prato verde, liscio, che dalla tv sembrava tosato alla perfezione.
La partita era tesa, io non mi staccavo dal televisore, pensando che ogni passaggio, ogni tiro, ogni errore, potesse essere quello decisivo, mentre i giocatori, per il gran caldo (a Città del Messico era mezzogiorno o giù di là), dovevano rinfrescarsi spesso a bordo campo.
Poi, nell'equilibrio generale, i due lampi.
Ripensando oggi a quelle serate del 1982 e del 1986 davvero magiche, sentimenti contrastanti mi assalgono. Un po' di malinconia, per tante ragioni: perchè ero più giovane e la vita era ancora tutta da scrivere, per il tempo passato e chi si è portato via. Ma, non distinta, dolcezza; dolcezza perchè, forse, quel tempo non è passato invano, anche grazie a chi non c'è più, e un dolce languore per emozioni individuali di tanti anni fa, che erano anche componenti di emozioni collettive.
Oggi penso che chi regala belle emozioni, in fondo, regala amore, che poi, molto probabilmente, sarà l'unica cosa che avrà contato il giorno in cui lasceremo questa terra.
Se è così, anche se all'epoca non mi piaceva come persona, in realtà il nostro Diego si sarà conquistato un'ampia salvezza, perchè ha regalato un'infinità di emozioni a milioni di persone, e lo stesso gli azzurri dell’82 che se ne sono già andati, grazie a quella grandissima impresa coronatasi l’11 luglio di quaranta anni fa.
Quanto a me, finita la serata di Argentina-Inghilterra, il giorno dopo ripresi il mio studio sul Cordero; passai l'esame, e, sempre sullo scorrere degli anni '80, mi laureai ed affrontai il concorso di magistratura.
Superai l'orale, con la certezza di essere nei 300 del bando, il 28 novembre 1990.
Gli anni '80 erano, così, al tramonto: nel 1991 Maradona avrebbe smesso di giocare in Italia; Platini si era già ritirato da tempo; era finita l'Unione Sovietica, nel 1992 iniziava Mani Pulite e venivano uccisi Falcone e Borsellino. Una nuova pagina si apriva per l'Italia, per il mondo e, nel mio piccolo, per me.
Ma questa, è un'altra storia.
Giovanni Salvi
di Andrea Apollonio
Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, lascia la magistratura per raggiunti limiti d'età. Nei suoi 42 anni di servizio, sempre nei ruoli inquirenti (ad eccezione di una prima parentesi come pretore di Monza), ha visto l'Italia, e con essa la magistratura, cambiare volto. E, in un certo senso, proprio dei radicali cambiamenti dell'Italia repubblicana, Giovanni Salvi è stato testimone, occupandosene da una posizione investigativa privilegiata: la Procura di Roma (in cui ha prestato servizio dalla metà degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta), teatro delle inchieste giudiziarie sui grandi misteri italiani: dalla strage di Ustica all'omicidio Pecorelli, passando per la morte del banchiere Roberto Calvi.
Si è anche occupato del primo radicamento di Cosa Nostra a Roma per mano di Pippo Calò con i soldi dei corleonesi, e di uno degli ultimi - e più tragici - colpi di coda delle Brigate Rosse (l'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona), prima di essere eletto, nel 2002, al CSM, punto d'arrivo del suo intenso impegno tra le file della magistratura progressista ed in quella associata.
Ed è ancora uno snodo della recente storia d'Italia che lo vede protagonista, questa volta da procuratore di Catania: l'immane strage dei migranti nel canale di Sicilia del 18 aprile 2005, in cui perse la vita un numero elevatissimo e imprecisato di migranti (oltre 700, forse 1000). A partire da quella strage l'Europa si avvede del problema migratorio ed avvia una sistematica politica di accoglienza, e contrasto dell'immigrazione clandestina; ma è intanto l'ufficio all'epoca guidato da Giovanni Salvi ad assicurare alla giustizia gli scafisti.
Immagini in Super 8 e in digitale che raccontano il suo lungo percorso. Eppure, di tutto ciò di cui si è occupato, raramente parla con chi ha il privilegio di frequentarlo, e mai in termini autoreferenziali: può succedere, questo sì, che ai colleghi più giovani mostri, delle sue indagini più importanti, qualche atto giudiziario da lui redatto, magari dattiloscritto e ammantato da un fascino d'archivio (una richiesta, una memoria), e solo per dare l'idea più tangibile e concreta di qualche suo discorso. Egli, per esempio, riflette spesso coi suoi interlocutori sul concetto di prova nel processo penale, riflessioni che ha puntualmente trasfuso, via via, nell'esercizio della giurisdizione. E, da Procuratore Generale della Cassazione, poteva capitare che si presentasse in udienza, magari davanti le Sezioni Unite, accompagnando i suoi interventi con fitte memorie: e anche qui, ne emergeva l'importanza della prova, e soprattutto di saperla riconoscere e valorizzare nel processo.
Ma va detto, soprattutto, che i tre anni di Giovanni Salvi alla Procura Generale sono stati gli anni di un rapporto (mai così) costante e proficuo con le Procure generali, impostato sul confronto e, all'esito, sull'emanazione di linee guida non vincolanti, ma utili per meglio orientare gli uffici di merito.
Anni, per inciso, segnati dalla pandemia: quella legata all'emergenza sanitaria da Covid-19, che ha avuto effetti devastanti sul funzionamento della giustizia; quella legata ai veleni dell'hotel Champagne, lo scandalo delle nomine correntizie che ha avuto effetti devastanti sulla credibilità della magistratura. E le ha dovute fronteggiare entrambe: la prima, elaborando orientamenti sulla colpa medica, sulla insolvenza delle imprese, sui sequestri dei vaccini, sulle misure cautelari (per evitare il sovraffollamento delle carceri), consentendo - in un momento tanto drammatico per il Paese - di uniformare l'azione penale in alcuni settori, pur preservandone il principio di obbligatorietà; la seconda, esercitando il potere disciplinare sui magistrati che si erano resi partecipi delle degenerazioni correntizie in punto di nomine.
Anni difficilissimi, che pure, se raccontati dalla sua viva voce, sembrano stemperarsi in un carattere mite, dubbioso e speculativo, di cui si coglie l'ironia - che Sciascia afferma essere la principale qualità dell'intellettuale, dacché consente di osservare le cose, e in primo luogo la propria vita, con disilluso distacco; qualità che innerva impercettibilmente i suoi discorsi, quale antidoto al peso, spesso opprimente, delle responsabilità (che tanto più sono gravi quanto più innescano, nell'intellettuale, il dubbio che tutto possa essere fatto meglio: così dovrebbe essere); e forse anche questo, assieme alle sue capacità organizzative, gli ha permesso di traghettare la magistratura inquirente italiana lungo i tre anni più intensi e riottosi di tutta la sua storia: anni di gratuiti e ingenerosi attacchi, all'intera categoria; e ancor più ingenerosi, alla sua persona, da fuori e dentro la magistratura. Nei quarantadue anni di servizio ha visto cambiare la magistratura, dicevamo: l'ha vista cambiare in peggio, purtroppo.
A proposito di Sciascia, scriveva di recente Giovanni Salvi: “Abbiano appreso da Sciascia la virtù del dubbio, l’impegno per la chiarezza della scrittura, la diffidenza verso il potere, anche quello che noi stessi esercitiamo”. L'esercizio del potere coltivato nel dubbio: un'antinomia, forse. O forse no. E le parabole di alcuni illuminati percorsi professionali, nella magistratura e non solo, sono lì a comprovarlo.
“La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica
di Bruno Montanari
Sommario: 1. Per una introduzione - 2. Una parola-chiave: “legittimazione” - 3. La colpa e il ragionevole dubbio - 4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa.
1. Per una introduzione
Il testo scritto da Tomaso Epidendio su “Giustizia Insieme “, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, ha un titolo inquietante, che invita il lettore ad una riflessione spregiudicata e a sua volta inquieta. Partiamo da alcune parole dell’autore: “Stiamo tutti vivendo − proprio tutti, magistrati e non – la fine di un grande sogno, quello del disegno costituzionale della magistratura…la fondazione di una magistratura interclassista cui si accede per meriti tecnico - giuridici accertati da pubblico concorso (art. 106 Cost.), costituita come ordine istituzionale… [autonoma e indipendente e dotata di potere effettivo disponendo della polizia giudiziaria] e dal radicamento della legittimazione giudicante in una soggezione -quella alla legge, ma ‘soltanto’ alla legge -…:un’autonomia e una indipendenza che si legittima in una sottomissione quella a una ‘legge’ di fronte alla quale… (art.3 Cost.)”.
Epidendio usa in questo brano un termine-chiave per l’ordinamento giuridico, e non solo per il nostro novecentesco, ma “chiave” per ogni potere effettivo, che abbia inteso assumere nella storia una configurazione di “sistema”, fondata su regole stabilizzanti: il termine è “legittimazione”. Termine, che sottolinea l’esigenza di giustificare un potere che un essere umano esercita, introducendo una disuguaglianza (comando-obbedienza), su di un altro essere umano, antropologicamente pari. Ecco perché ho qualificato quel termine come “chiave” e a buon diritto Epidendio lo ricorda, data la configurazione del potere affidato alla magistratura, nel suo complesso.
Tuttavia, il sogno è finito: il tema della “soggezione alla legge” (pur nelle diverse modalità di interpretazione consentite dall’ordinamento) è nei fatti superato, per le ragioni proprie della attuale visione del mondo, passate in rassegna dall’autore. Tale tema, infatti, nella prospettiva di molti, magistrati e dottrina, non sarebbe in grado di fronteggiare efficacemente le richieste di giustizia della società contemporanea. Occorre incamminarsi, allora, in quello che ormai viene definito “diritto vivente”, che si costruisce non più tramite l’interpretazione, ma attraverso una sorta di “oltrepassamento”, secondo la felice definizione di Mario Barcellona ([1]). “Il giudice – scrive Epidendio - è sempre meno il tecnico che effettua operazioni di ‘sussunzione’ del fatto nella fattispecie descritta dalla norma ed è sempre più l’autore diretto di ‘bilanciamenti’ di valori, attraverso i quali ricostruisce il senso e seleziona le disposizioni applicabili….Da organo soggetto ‘soltanto’ alla legge’…il giudice finisce per risultare non più soggetto a nulla: inebriato da una libertà mai prima conosciuta, non si avvede di perdere la radice costituzionale della sua legittimazione giudicante…”
È vero, per restare ancora nel testo, che non si può restare laudatores temporis acti, ma neppure è possibile assumere l’accadere come l’ineluttabilità del fato (avrebbero detto gli antichi), ma occorre ancora esercitare la libertà intellettuale propria dello spirito critico formatosi nella tradizione filosofica e culturale della Modernità (con tutti i suoi inevitabili difetti).
2. Una parola-chiave: “legittimazione”
La riflessione che intendo prospettare può sintetizzarsi nel modo seguente. La parola-chiave è appunto, come ho già ricordato, “legittimazione”. Il potere funzionale esercitato dalla Magistratura, in quanto Organo indipendente dello Stato (il quale ultimo, perciò, si definisce “di Diritto”), ha il suo fondamento in quella determinazione costituzionale che ne stabilisce sia i modi di investitura nelle funzioni, sia i modi di esercizio del relativo potere (la subordinazione alla Legge). Allora il punto è in questa considerazione che contiene un interrogativo: se si è investiti in una determinata funzione, che si esprime attraverso l’esercizio di un potere, secondo le norme dettate dalla Costituzione, come è possibile esercitare quel potere, così formalmente fondato e determinato, secondo modalità in fatto diverse, che lo trasformano da “funzionale” in meramente “effettivo”? Detto con una sintesi rozza: l’ordinamento va bene per l’investitura e acquisire il potere, ma è possibile poi mettere da parte l’ordinamento allorché quel potere viene esercitato. Con una conseguenza assai rilevante per uno Stato di Diritto: mentre il primo potere è per definizione responsabile, il secondo potere è per definizione irresponsabile. È una mera questione epistemologica: mentre l’esercizio di una funzione implica sempre un giudizio conformità; al contrario, il fatto, in quanto accadimento, non si conforma a nulla, se non al suo stesso accadere, se così si può dire secondo l’epistemologia funzionalistica ([2]).
Ho ritenuto di affrontare un tema così delicato seguendo il paradigma epistemologico, che garantisce da interpretazioni politico-ideologiche. Intendo applicare questo medesimo paradigma ad un altro tema, altrettanto delicato, che ancora ho trovato nel testo di Epidendio: quello della differenza tra magistratura inquirente e requirente, innescato dalla riforma del processo penale che ha trasformato l’inquisitorio (sia pure temperato) in accusatorio. Dico subito, che la differenza tra inquisitorio e accusatorio è fondamentalmente epistemologica, in quanto dipende dalla differenza concettuale tra “colpa” e “accusa”: la “colpa” è oggettiva, l’accusa è soggettiva (ma di questo più avanti). E’ una distinzione così radicale che richiede, per coerenza, la distinzione delle carriere.
3. La colpa e il ragionevole dubbio
Andiamo per ordine. Innanzitutto il tema della verità processuale, come oltrepassamento ragionevole del dubbio: un marchingegno logico ma socialmente necessario.
Entrano in gioco, come è noto, due capisaldi del processo: il complesso probatorio ed il libero convincimento del giudice. Non si tratta di formule matematiche (lato sensu) per una possibile determinazione dell’evento, ma di due sguardi (rubo l’idea ad un autorevole filosofo del ‘900, Ernst Cassirer ([3]): quello dell’investigatore e quello del giudice. Alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, intesa come rappresentazione corrispondente ad una “verità” detta, appunto, “processuale”. Fictio terminologica, per la quale assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, per cui poi si spiega l’“oltre”.
La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio, per altro necessaria; ha perciò aggirato il problema, spostandone la soluzione sul tipo di legittimazione dei soggetti processuali, sulla legittimazione dei loro “sguardi”. In breve, la “verità” del giudizio dipende dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. È questo il contesto nel quale prende forma la configurazione dei due modelli processuali: l’inquisitorio e l’accusatorio.
Prova ne sia, che in quel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero in quel bellissimo libro che è Riti e sapienza del diritto ([4]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’“inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”. Contrappunto che, come ho già sottolineato, è legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’“accusa”. Il contrappunto: la “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’“accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento, operata dal magistrato dell’istruzione.
La “colpa”, quindi, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso. Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al giudizio di Dio, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica. A ciò segue che l’attribuzione della colpa è, dal punto di vista razionale, un atto di verità. È necessario, perciò, che un tale atto sia posto in essere da un soggetto strutturalmente legittimato ad esprimerla e deve essere fondato su di un dispiegamento probatorio analogo a quello di un esame scientifico. Nell’esperienza storico-istituzionale della “Modernità”, un tale compito appartiene allo Stato, ente sovrano, guardiano ed anche creatore della giustizia. Il giudizio ricostituisce l’ordine sociale turbato solo se è giusto; ed è giusto solo se è vero. Il mezzo per affermare la colpa è l’applicazione della legge tramite la sentenza, la quale conferma e qualifica come vero ciò che è già stato già ricostruito come vero.
In definitiva, affinché la giustizia soddisfi il suo legame con la verità, occorre che il magistrato inquirente sia un ricercatore di verità. Magistrato inquirente e magistrato giudicante si presentano entrambi sulla scena processuale, sia pure in momenti differenti, come “bocca della legge”, poiché è quest’ultima - la legge – che realizza la giustizia, declinando insieme ricerca della verità e diritto. È epistemologicamente corretto, perciò, che le due figure siano indifferenziate nella loro qualificazione e configurazione ordinamentale.
4. L’accusa e la sua plausibilità argomentativa
Il paradigma concettuale dell’“accusa” è del tutto differente.
“Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, riposa sull’idea che la verità umana si manifesti in via argomentativa e dialettica: un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. In un tale contesto, l’offesa colpisce l’uomo e la società, prima ancora che il “cittadino” in quanto membro dello Stato. Quest’ultimo, lo Stato, assolve ad una funzione organizzativa e strumentale. Emergono allora due caratteristiche legate al modello. La prima: nella possibile tensione tra libertà individuale e difesa sociale, di principio prevale la prima. La seconda caratteristica ha per oggetto il profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa corrispondono a soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una ipotesi argomentativamente sostenibile, attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa ipotesi, attraverso altri elementi di prova.
Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari. Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.
In definitiva, nel modello accusatorio l’investigatore è sicuramente un magistrato, sia per l’indipendenza della sua investitura sia per il modello argomentativo che lo porta a rappresentare determinati eventi come “fatti” costitutivi di “elementi” di prova, per prospettarli come ipotesi per una accusa sostenibile, da sottoporre alla valutazione probatoria dell’organo giudicante. Ne segue, per coerenza epistemologica, che si tratta di due profili di magistrati, quello requirente e quello giudicante, concettualmente e strutturalmente distinti; di qui la distinzione delle carriere.
In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”.
Non v’è dubbio: il testo di Tomaso Epidendio suscita davvero l’esercizio di un pensiero “critico” (nel senso kantiano del termine) su tematiche che investono e turbano nel profondo il nostro attuale sistema istituzionale.
[1] Cfr., Norme e prassi giuridiche: giurisprudenza usurpativa e interpretazione funzionale, Mucchi ed. Modena 2022
[2] Cfr., N.Luhmann, Come è possibile l’ordine sociale, tr.it Laterza, Bari 1985.
[3] Cfr., I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R. Puttello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015
[4] Laterza, Bari 1981.
Quaranta anni fa. 5 luglio 1982
di Paolo Spaziani
“Telespettatori italiani, buongiorno da Barcellona”.
Così, alle 17.15 di quarant’anni fa, con la magica voce di Nando Martellini, cominciava un bellissimo sogno dove il verde-oro, allegro e brillante, sarebbe stato sopraffatto dall’azzurro, dapprima timido, indi spregiudicato, infine trionfale.
Il verde-oro era sulle bandiere festanti che sventolavano da Plaça de Catalunya al Barrio Gotico, animando la Rambla e il vicino mercato della Boqueria; nelle ragazze di Bahia, di Belo Horizonte, di Rio, che danzavano sugli spalti del vecchio Estadio de Sarrià; nelle stelle che avrebbero illuminato il prato dell’Español: Zico, Falcao, Cerezo, Socrates, Junior. Tra queste, forse ancora più brillante delle altre, quella del bellissimo Eder Aleixo de Assis (corsa e sinistro irresistibili e una storia romantica di ragazzo maudit alle spalle) che dalla strada del Minais Gerais, era diventato l’idolo delle ragazze di tutto il mondo.
L’azzurro, meno luminoso ma rasserenato da una crescente fiducia, era nei torpedoni tricolori che avevano percorso la Via Laietana e risalito la teleferica del Mont Juick; nei ventimila italiani che dalla Casa Batllot, da Parc Guell e dalla Sagrada Familia, erano confluiti ordinatamente verso il vecchio stadio, che per una volta (forse l’unica volta) avrebbe sottratto la ribalta al superbo Camp Nou; nell’entusiasmo che in cuori intorpiditi ma ancora vivi avevano ridestato qualche giorno prima Tardelli e Cabrini, battendo vittoriosamente Fillol, il portiere campione del mondo; infine, nell’aroma del virile ma raffinato tabacco che avvolgeva l’incedere di un gentiluomo friulano: nel fresco, signorile portamento con cui - giacca sulle spalle, camicia moderatamente arrotolata, cravatta e occhiali da sole, pipa fumante in bocca - era entrato sul terreno di giuoco incandescente di trentacinque gradi, detergendolo con la sua eleganza.
Dopo Bearzot, il padre, ecco i figli: Zoff, il maggiore, Gentile (ha appena ricevuto l’istruzione che dovrà marcare l’avversario più temibile, il funambolico Artur Antunes Coimbra, detto "Zico"), Scirea, Rossi (avrebbe voglia di piangere, non sa ancora che farà piangere il Brasile), Antognoni, Graziani (la spalla fedele, il silenzioso alleato di Paolino) e, infine, dopo tutti gli altri, timido, il più piccolo, che il vero papà ha perduto, ma ha trovato tanti fratelli, Beppe Bergomi (non sa ancora che dovrà giocare a 18 anni la partita del secolo senza ancora averne giocato alcuna, ma è pronto, come tutti).
Brasileiro Sampaio de Sousa Vieira de Oliveira è il capitano dei verde-oro: è il volto pulito di una nuova generazione di brasiliani: è un calciatore ma è anche colto, sa di storia e di filosofia: lo chiamano “Socrates”; è un calciatore, ma è anche laureato in medicina; è un calciatore, ma è anche un attivista dei diritti civili e politici: nella sua squadra, il Corinthians, ha fatto scrivere sulle magliette una parola sinora vietata non solo in Brasile, ma anche in Argentina, in Cile, in quasi tutto il Sud America: la parola “Democracia”.
Si giuoca a pallone, finalmente; si giuoca un calcio che, rivisto oggi, sa di tesoro perduto, di preziosi smarriti, di gioielli depositati da qualche parte, lontana, e lì dimenticati.
Ecco, nell’ordine, i tesori contenuti nello scrigno.
Dribbling secco di Conti su Eder; esterno sinistro a cercare Cabrini sull’altra fascia; traversone a rientrare in area (della serie: quando una volta ti insegnavano a crossare); colpo di testa di Paolino a spiazzare il portiere e a mettere la palla sul palo lungo: 1-0 per l'Italia.
Fraseggio a metà campo tra Cerezo e Junior, palla a Zico; non si capisce come faccia: si libera di Gentile con un dribbling rapidissimo e funambolico e di destro accarezza la palla smarcando Socrates in area; diagonale da biliardo sul primo palo a trafiggere un incolpevole Zoff: 1-1.
Rinvio di Valdir Perez sul proprio terzino; pallone a Cerezo che di piatto cerca un difensore centrale; scatto felino di Rossi a ghermire la palla tra Junior e Luizinho; collo pieno a bucare l’uscita del portiere: 2-1 per l’Italia.
Avanzata elegante di Leovigildo Junior sulla sinistra; conversione al centro ed esterno destro per Falcao: Paulo Roberto ha la palla sul destro; finge di servire Cerezo, smarcatosi sulla fascia; la finta disorienta tutta la difesa e crea il vuoto dinanzi a Zoff; Falcao torna sui suoi passi, si porta il pallone sul sinistro (quel sinistro che non sapeva di avere) e di collo esterno pareggia i conti: forse Zoff l’avrebbe presa se la coscia di Bergomi non l’avesse, quasi impercettibilmente, toccata; ma è un dettaglio: quella dell’ottavo re di Roma è una prodezza che si ricorderà finché esisterà il calcio: 2-2.
Antognoni cerca un varco sulla sinistra e crossa trovando deviazione difensiva e calcio d’angolo; sul corner di Conti, prova il gran tiro a volo, dal limite, Tardelli; per qualche strano incantesimo la palla finisce ancora tra i piedi di Paolino, che sigla la sua tripletta: 3-2 per l’Italia.
Paolino Rossi da Prato, uno dei più grandi centravanti che la storia del calcio ricordi, aveva cominciato a scrivere la propria quattro anni prima, in Argentina. Era una storia contraddittoria come quella del paese in cui veniva scritta, dove le urla disperate delle madri dei ragazzi gettati nel Rio de la Plata, poco oltre il maestoso delta del Paranà, tra Buenos Aires e Montevideo, si confondevano con i caroselli festosi dei tifosi che uscivano dagli stadi di Cordoba, di Mar del Plata, di Rosario.
In una piccola parentesi felice costretta dentro quell’immonda disperazione, Paolino aveva ridimensionato la Francia, aveva sconfitto l’Ungheria, aveva raccolto la classe del tocco di Causio contro l’Austria, aveva sublimato il gioco più bello del mondo nel sontuoso triangolo con Bettega in una splendida notte nel cuore di Baires.
Poi, tornato in Italia, aveva pianto anche lui per un’offesa ingiusta, un’ingiuria immeritata, che gli aveva tolto tre anni di calcio e forse più di vita.
Ma, come il Sud America risorgerà a nuova vita anche grazie alla parola “Democracia” stampata sulle maglie della nuova generazione di giocatori simboleggiata da Socrates, anche Paolino ora risorge, e diventa (ora e per sempre) Pablito, colui che ha fatto tre gol ad un Brasile che forse non è la più forte squadra di tutti i tempi solo perché, dodici anni prima, un altro Brasile aveva cinque numeri 10 e uno dei cinque si chiamava Pelè.
Paolino diventa, per la storia del calcio, “Pablito” intorno alle 18.30 del 5 luglio 1982, sul prato dell'Español, mentre il sole tramonta dietro Parc Guell, mentre il caldo afoso di Barcellona degrada in una fresca serata, mentre si illuminano le luci sulla Rambla, e tutta la Costa Brava si accende di un rosso scarlatto.
Ma la partita non è ancora finita.
Sulla tre quarti sinistra, l’israeliano Abraham Klein (che ha un figlio al fronte in Libano e ha arbitrato solo perché glielo ha chiesto lui, in una telefonata da Beirut) comanda un calcio di punizione per il Brasile. Sulla palla vanno Eder e il suo temibile sinistro. Il cross in area è perfetto (della serie: una volta sapevano crossare). Anche il colpo di testa di Oscar è preciso, all’angolino, forse addirittura imparabile.
Per gli altri, ma non per Zoff, che si getta sul pallone con il peso dei suoi 40 anni e la sua immensa classe, bloccandolo a terra prima che varchi la linea del gol.
Vi era stato, poco prima, anche un gol di Antognoni, da ricordare perché il nostro talentuoso numero 10 non potrà giocare la finale e avrebbe meritato che quel gol gli fosse assegnato, anche perché era valido; ma l’arbitro lo aveva annullato.
A quarant'anni da allora, rinchiuso lo scrigno, resta la sensazione di aver vissuto qualcosa di meraviglioso: forse perché io e mia sorella avevamo 12 e 7 anni e avevamo accompagnato nostro padre, ispettore del tesoro, ad una missione alla cartiera di Fabriano, per tutto il mese di luglio; forse perché eravamo sicuri che l'Italia avrebbe vinto tanto da scommettere con tutti i colleghi del papà un gelato al giorno alla zuppa inglese di Otello, il cui profumo ancora mi sembra di sentire mentre si spande nel parco della bella cittadina marchigiana ove si trovava il suo bar.
Dopo il fischio di Klein, mentre tutti si abbracciavano, rimanemmo incollati allo schermo del televisore che Otello aveva sistemato fuori dal bar, sui tavoli ordinatamente disposti al fresco del parco. Col cono in mano e la zuppa inglese gocciolante, prima che fosse chiuso il collegamento in Eurovisione, tra i momenti del post-partita ve ne è uno che non abbiamo mai dimenticato: il momento in cui, in mezzo al campo, quasi silenziosi tra le feste altrui, si abbracciarono Bearzot e Rossi.
Non erano un allenatore e un giocatore; erano il padre e il figlio che si trovavano nel luogo in cui si erano dati appuntamento: orgogliosi il padre per aver creduto nel figlio e il figlio per essere andato oltre le stesse attese del padre. In quel “loro” momento non c’era più il Brasile, la partita, il Mundial. Questi erano accidenti che avevano lasciato il posto alla sostanza: c’erano solo loro due, il loro reciproco affetto, il loro bene: il loro essere figli di un mondo migliore, un mondo fatto di uomini.
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