ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La tardiva opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e la (in)applicabilità dell’art. 48, comma 3, c.p.a. (nota a Cons. Stato, Sez. I, parere 15 febbraio 2022, n. 361)
di Giuseppe La Rosa
Sommario: 1. Il caso e il principio di diritto. - 2. Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo. - 3. Irricevibilità e inammissibilità oltre il processo amministrativo. - 4. Natura, presupposti e finalità dell’opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Il caso e il principio di diritto.
La questione origina dalla proposizione di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per l’annullamento del decreto emesso dalla Corte di Appello di Roma con cui è stato dichiarato inamissibile il ricorso per la revocazione di un provvedimento giurisdizionale in quanto proposto dalla parte personalmente, senza l’assistenza di un difensore.Nel dettaglio il ricorso straordinario è stato depositato in data 12 marzo 2021 presso la Corte di Appello e da questa trasmesso al Ministero della Giustizia il 15 aprile 2021, il quale, dunque, ha proposto opposizione il 7 giugno 2021. Nonostante l’opposizione, tuttavia, il Consiglio di Stato non ha dichichiarato improcedibile il ricorso straordinario, sull’assunto che la stessa fosse stata tardivamente proposta, dovendo farsi decorrere il termine di sessanta giorni dal 12 marzo 2021 (data di deposito del ricorso presso la Corte di Appello), anziché dal successivo 15 aprile (data in cui il Ministero ne ha ricevuto formale notizia). E’ stato, quindi, affermato il principio di diritto secondo cui “spetta al Consiglio di Stato nella sede della trattazione del ricorso straordinario l’esame e la decisione della questione della tempestività o tardività della notifica dell’opposizione”.
Tale conclusione è riposta su ragioni sia normative sia sistematiche.
Quanto ai profili di ordine normativo, il Consiglio di Stato richiama, da un lato, l’art. 48, comma 3, c.p.a., secondo cui “qualora l’opposizione sia inammissibile, il tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria” (il cui contenuto troverebbe altresì conferma nell’art. 10, comma 3, d.p.r. n. 1199/1971) e, dall’altro, l’art. 35 c.p.a. che, nel disciplinare le pronunce di rito adottabili dal Giudice amministrativo, mantiene distinta l’ipotesi di irricevibilità da quella di inammissibilità. Ne deriverebbe, dunque, che il richiamo da parte dell’art. 48, comma 3, cit., alla sola inammissibilità dell’opposizione esprimerebbe la voluntas legis di riconoscere al Giudice amministrativo, nella sede giurisdizionale, la cognizione di tutte le questioni di inammissibilità dell’opposizione, esclusa però la (distinta) questione di tardività dell’opposizione, che resterebbe di conseguenza attribuita alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato chiamata a conoscere del ricorso straordinario.
Con riferimento alle questioni di sistema, si è ritenuto che l’opzione ermeneutica che voglia affermare l’improcedibilità del ricorso straordinario, anche nell’ipotesi in cui emerga la tardività dell’opposizione, potrebbe provocare un serio rischio di diniego di giustizia per la parte ricorrente, la quale, considerata la tardività dell’opposizione, potrebbe in buona fede non procedere alla trasposizione, confidando sulla prosecuzione della trattazione dell’affare nella sede straordinaria. E ciò determinerebbe l’impossibilità per la parte ricorrente di ottenere una pronuncia di merito, essendole preclusa sia la via giustiziale, attesa la pronuncia di improcedibilità, sia quella giurisdizionale, non avendo appunto in tesi proceduto alla tempestiva riassunzione.
La decisione che si annotta sollecita una riflessione sui concetti di irricevibilità e inammissibilità, consolidatisi tanto nel processo amministrativo (par. 2), quanto negli altri ambiti processuali (par. 3), nonché sulla natura dell’atto di opposizione al procedimento straordinario (par. 4). Tale riflessione è, dunque, condotta con la finalità di valutare la condivisibilità o meno della pronuncia laddove, applicando all’atto di opposizione le categorie di irricevibilità e inammissibilità giunge a limitare la portata dell’art. 48, comma 3, c.p.a.
2. Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo.
A tacere della loro diversa origine etimologica[i], irricevibilità e inammissibilità sono termini che fanno indiscutibilemte parte del tradizionale glossario comunemente in uso tra gli operatori del processo amministrativo[ii], sebbene la loro concreta portata sia di incerta perimetrazione. Originariamente, tanto la l. 1034/1971 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), quanto il r.d. 643/1907 (Regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) e il r.d. 1054/1924 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) recavano generici riferimenti alla irricevibilità e alla inammissibilità, mancando, tuttavia, di definire in modo puntuale i casi nei quali si sarebbe configurata l’una o l’altra. Infatti, l’art. 26 l. 1034/1971 si limitava a stabilire che “il tribunale amministrativo regionale, ove ritenga irricevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con sentenza” (comma 1) e che “nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata” (comma 3), così palesando che tanto la irricevibilità quanto la inammissibilità si contrappongono alle statuizioni nel merito del ricorso, senza tuttavia precisare quali circostanze determinassero l’una o l’altra dichiarazione, né chiarire in che cosa le stesse si differenziassero[iii]. Né utili spunti definitori erano rinvenibili nel r.d. 643/1907 e nel r.d. 1054/1924: il primo conteneva unicamente il riferimento alla irricevibilità, riconoscendola nel caso di “omessa notificazione del ricorso all’autorità dalla quale emana l’atto o il provvedimento impugnato o per altro motivo” (art. 17, comma 3); il secondo, invece, omesso qualsiasi riferimento alla irricevibilità, si riferiva solamente alla inammissibilità, stabilendo che “il ricorso incidentale non è efficace, se venga prodotto dopo che siasi rinunziato al ricorso principale, o se questo venga dichiarato inammissibile, per essere stato proposto fuori termine” (art. 37) e che “ove non dichiari inammissibile il ricorso, decide anche nel merito” (art. 45).
Il difettoso coordinamento delle richiamate disposizioni ha determinato una certa varietà di orientamenti[iv], su cui la più attenta dottrina ha proposto alcune ipotesi di sistematizzazione. In particolare, prendendo le mosse dalla distinzione tra presupposti di ammissibilità e di ricevibilità, è stato ritenuto[v] che alla prima categoria fossero ascrivibili le ipotesi relative alla legittimazione e all’interesse processuale, nonché alla mancanza di cause preclusive alla corretta instaurazione del processo, quali l’acquiescenza; mentre, nell’alveo della seconda categoria fossero riconducibili le ipotesi relative all’esistenza e alla regolare presentazione del ricorso, nonché alla regolarità del contraddittorio. Secondo una diversa ipotesi ricostruttiva[vi], invece, la distinzione tra inammissibilità e irricevibilità sarebbe più apparente che reale, con la conseguenza che le due ipotesi sarebbero invero riconducibili ad unità, dovendosi farsi unicamente riferimento alla inammissibilità quale pronuncia che preclude l’indagine sul merito della questione[vii].
Nella giurisprudenza amministrativa si è tradizionalmente consolidata l’interpretazione secondo cui l’irricevibilità del ricorso deriva dalla tardività della notificazione o del deposito del ricorso, sebbene non siano mancate letture volte a ricondurre pure tali ipotesi nel generale alveo della inammissibilità[viii]; mentre, di inammissibilità si parla tutte le volte che sussiste una originaria carenza dell’azione che ne preclude l’esame nel merito. Questa impostazione ha trovato conferma legislativa nell’art. 35 c.p.a. che mantiene distinta la irricevibilità dalla inammissibilità, riconducendo alla prima “la tardività della notificazione o del deposito” del ricorso (comma 1, lett. a) e alla seconda le ipotesi in cui “è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito” (comma 1, lett. b).
Il tenore delle richiamate disposizioni consente di circoscrivere l’irricevibilità ad una unica e sola ipotesi, ossia: al caso in cui il ricorso (di primo o di secondo grado; rectius, l’atto introduttivo del giudizio) sia tardivo, perché notificato o depositato oltre i termini di decadenza[ix]; qualsiasi altra ipotesi preclusiva all’esame del merito del ricorso deve essere ricondotta nell’alveo della inammissibilità. Tale lettura sembra poter essere confermata da due concorrenti ragioni.
In primo luogo, pare assumere rilevanza la lettura combinata delle lett. a) e b) dell’art. 35, comma 1, cit. Partendo dall’assunto che le due ipotesi ivi previste sono accomunate dalla circostanza che entrambe ostano parimenti alla decisione nel merito del giudizio, troncando il processo prima che lo stesso giunga al suo naturale sbocco di rendere giustizia fra le parti[x], non può non rilevarsi come esse stiano tra loro in rapporto di genere a specie. Segnatamente, l’inammissibilità si verifica laddove risulti carente l’interesse ovvero sussistano altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito (lett. b), diverse, tuttavia, dalla tardività della notificazione o del deposito del ricorso, sanzionata, come detto, con la irricevibilità (lett. a). Pare dunque di immediato riscontro come l’irricevibilità sia riscontrabile nell’unica ipotesi espressamente prevista dalla lett. a), determinando qualsiasi altra ragione ostativa alla pronuncia di merito (anche non espressamente prevista, ma comunque ostativa alla decisione di merito) inammissibilità del ricorso.
In secondo luogo, le ipotesi che comportano inammissibilità dell’azione hanno una natura assai eterogenea tra loro, mentre la natura monolitica della irricevibilità non consente di ricondurre alla stessa ipotesi di tardività o mancato rispetto dei termini diversi da quelli espressamente previsti per la notifica e il deposito del ricorso introduttivo. Tale considerazione trova conferma nella lettura sistematica del codice del processo amministrativo. I termini irricevibile/irricevibilità sono utilizzati in cinque occasioni e sempre assieme ai termini inammissibile/inammissibilità: oltre che nel già richiamato art. 35, essi sono utilizzati agli artt. 49 e 95, con riferimento all’integrazione del contraddittorio, all’art. 74, con riferimento alla sentenza in forma semplificata e all’art. 99, per il caso in cui l’Adunanza Plenaria può pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge. I termini inammissibile/inammissibilità, invece, sono utilizzati, oltre che nei cinque casi sopra riferiti con riferimento anche all’irricevibilità, in ulteriori cinque previsioni: ossia, all’art. 18, con riferimento alle ipotesi di ricusazione; all’art. 40, riguardo alla formulazione dei motivi di ricorso in modo non specifico; all’art. 48, nel caso di inammissibilità dell’opposizione al ricorso al PdR; all’art. 95, quanto alla necessità che l’impugnazione sia notificata ad almeno una delle parti interessate a contraddire; all’art. 96, per l’ipotesi in cui l’impugnazione incidentale perde efficacia nel caso di inammissibilità dell’impugnazione principale. Per l’analisi che qui si intende condurre sembra utile rilevare come l’inammissibilità sia prevista in ipotesi assai eterogenee tra loro, comprendendo anche il caso di violazione di termini previsti per il compimento di atti endo-processuali. È quanto si ricava dal richiamato art. 18, il quale, dopo avere stabilito che “la ricusazione si propone, almeno tre giorni prima dell'udienza designata, con domanda diretta al presidente, quando sono noti i magistrati che devono prendere parte all'udienza; in caso contrario, può proporsi oralmente all'udienza medesima prima della discussione” (comma 2), afferma che “il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l'istanza inammissibile o manifestamente infondata” (comma 4) e che “il giudice, con l'ordinanza con cui dichiara inammissibile o respinge l’istanza di ricusazione, provvede sulle spese” (comma 7). La norma in parola, in sostanza, prevede quale conseguenza in casi di vizi nella proposizione dell’istanza, tra i quali deve ricomprendersi anche la tardività, che la stessa sia considerata inammissibile[xi].
Le considerazioni che precedeno consentono di ritenere che nell’attuale sistematica codicistica: (i) l’irricevibilità è unicamente ed espressamente riferita all’ipotesi di tardività della notifica o del deposito dell’atto introduttivo del giudizio; (ii) qualsiasi ulteriore vizio originario, tanto dell’atto introduttivo del giudizio, quanto di atti endo-processuali rileva quale ipotesi di inammissibilità, salve le ipotesi di improcedibilità; (iii) il rapporto di genere a specie che sussiste tra inammissibilità e irricevibilità non consente di applicare la seconda oltre i confini tipologici espressamente previsti dall’art. 35, comma 1, lett. a, c.p.a.
3. Irricevibilità e inammissibilità oltre il processo amministrativo.
Valicando i confini del processo amministrativo la distinzione tra irricevibilità e inammissibilità perde di assoluta consistenza, venendo utilizzato ora l’uno ora l’altro termine per ricomprendere tutte le ipotesi che, concretandosi in un vizio originario, impediscono di giungere alla decisione del merito.
Nel processo civile e in quello tributario si riscontra unicamente il riferimento alla inammissibilità, mancando qualsiasi rilievo alla irricevibilità.
Nel Codice di procedura civile, l’inammissibilità trova una disciplina discontinua[xii] ed è richiamata con riferimento alle impugnazioni in generale (artt. 342, 448-bis, 348-ter, 350, 357), al ricorso per Cassazione (artt. 360-bis, 365, 366, 366-bis, 375, 380-bis, 391-bis), alla revocazione (art. 398), alla opposizione di terzo (art. 404), al ricorso in appello (artt. 434, 436-bis), ricomprendendo fattispecie molto eterogenee tra loro che attengono alla violazione dei requisiti di forma degli atti processuali previsti dalla legge, nonché a violazioni aventi natura più propriamente sostanziale, quali l’insussistenza originaria del potere impugnatorio, la maturazione di decadenze processuali e il contraddittorio difettoso.
Anche la disciplina del processo tributario non contiene alcun riferimento all’irricevibilità, riconducendo ogni profilo originario impeditivo della decisione di merito nell’alveo della inammissibilità. In particolare, il d.lgs. n. 546/1992 prevede la sanzione della inammissibilità del ricorso, tra l’altro, nell’ipotesi di violazione del principio di tassatività degli atti impugnabili (art. 19), di mancato rispetto delle formalità per la costituzione del ricorrente (art. 22), di proposizione dell’azione oltre i termini di decadenza previsti per la impugnazione dell’atto (art. 21), di difetto di difesa tecnica e di sottoscrizione (artt. 12 e 18).
Unicamente all’inammissibilità, inoltre, fa riferimento il d.p.r. n. 1199/1971 con riguardo al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: in particolare, l’art. 13, recante “Parere su ricorso straordinario”, prevede, quale contenuto del parere, la “dichiarazione di inammissibilità, se riconosce che il ricorso non poteva essere proposto”, così evidentemente ricomprendendo nell’alveo della inammissibilità qualsiasi causa ostativa alla decisione del merito, compresa la tardività della sua proposizione[xiii].
Spostando l’attenzione all’ordinamento euro-unitario, invece, è possibile rilevare come la disciplina relativa ai procedimenti giurisdizionali avanti al Tribunale di primo grado[xiv], alla Corte di Giustizia della Unione europea[xv] e alla Corte europea dei diritti dell’uomo[xvi] faccia unicamente riferimento all’irricevibilità quale generale categoria alla quale ricondurre qualsiasi ipotesi che non consenta al giudice l’esame del ricorso nel merito e che, quindi, determini un prematuro arresto del giudizio.
La rassegna che precede, seppur condotta con la brevità imposta dall’economia del presente lavoro, consente di lumeggiare la mancanza di una terminologia comunemente e trasversalmente diffusa nei diversi ambiti processuali e, di conseguenza, l’impossibilità di utilizzare i concetti di irricevibilità o inammissibilità oltre il circoscritto ambito nel quale li stessi sono previsti, assumendo, evidentemente, consistenza differente a seconda dello specifico ordinamento processuale nel quale vengono utilizzati.
4. Natura, presupposti e finalità dell’opposizione al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
Si ritiene ora necessario richiamare, seppur brevemente, i principali elementi caratterizzanti l’atto di opposizione e la successiva (eventuale) fase di trasposizione del ricorso nella sede giurisdizionale. L’argomento non può essere trattato senza collocare l’istituto nell’alveo del principio di alternatività, in ragione del quale la proposizione dell’azione in via giustiziale o giurisdizionale preclude la proposizione del rimedio alternativo. Il principio in parola si fonda su una pluralità di ragioni concorrenti: da un lato, evitare il rischio che sulla medesima questione vi siano due pronunce di organi distinti e, quindi, preservare l’esigenza di non incorrere nella violazione del principio del ne bis in idem[xvii]; dall’altro, garantire ragioni di economia processuale, che suggeriscono di evitare che sulla medesima vicenda contenziosa siano sollecitati più organi decisionali[xviii]. Tuttavia, la preclusione del rimedio giurisdizionale, derivante dall’applicazione del ridetto principio di alternatività, rischierebbe di violare il diritto di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 113 Cost., se ai soggetti nei confronti dei quali è stato proposto il ricorso straordiario (anziché quello giurisdizionale, per scelta del ricorrente) fosse preclusa la facoltà di optare per la via processuale, richiedendo, appunto, che il ricorso fosse trasposto avanti al TAR[xix]. Per tale ragione, la parte[xx] nei cui confronti è stato proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ha facoltà di notificare, nel termine di sessanta giorni, atto di opposizione, chiedendo la trasposizione del ricorso nella sede giurisdizionale. Il ricorrente che voglia insistere nel ricorso, quindi, è onerato di depositare nella segreteria del giudice amministartivo competente l’atto di costituzione in giudizio[xxi], dandone avviso mediante notificazione alle controparti. L’opposizione determina l’improcedibilità del ricorso straordinario, con la conseguenza che ogni questione, anche connessa all’atto di opposizione stesso, sarà oggetto di valutazione nella sede giurisdizionale. In sostanza, con la proposizione dell’opposizione si determina la sopravvenuta carenza di potere decisionale in capo tanto al Consiglio di stato in sede consultiva, quanto al Presidente della Repubblica, con la conseguenza che il decreto del Capo dello Stato adottato nonostante la proposizione dell’opposizione è affetto da nullità per assoluta carenza di potere.
L’instaurazione del giudizio avanti al Tribunale amministrativo, a seguito della trasposizione di un ricorso straordinario, quindi si realizza attraverso un procedimento composito che consta di due atti tra loro - ontologicamente - distinti, ossia: l’atto di opposizione e il successivo, eventuale, atto di trasposizione. Questi due atti, benché entrambi volti al concorrente scopo di determinare lo “spostamento” del giudizio dalla sede amministrativa a quella giurisdizionale, hanno natura diversa. Se è pacifica la natura giudiziale dell’atto di trasposizione – come, peraltro, confermato dall’espressa disciplina contenuta nell’art. 48 c.p.a. - con la conseguente soggezione dello stesso alle regole processuali (ad esempio, quanto ai requisiti formali, all’assistenza tecnica e alla necessaria specialità della relativa procura, nonché alla applicabilità della sospensione feriale al termine per la sua proposizione), lo stesso non può dirsi con riferimento all’atto di opposizione. Questo, infatti, precedendo l’instaurazione del giudizio avanti al Giudice amministrativo, non si inserisce in alcuna sequenza di rito, non potendogli, dunque, riconoscere natura processuale. La natura amministrativa dell’atto in questione, peraltro, giustificherebbe l’inapplicabilità della sospensione feriale al termine previsto per la proposizione dell’opposizione[xxii] e la non necessità dell’assistenza obbligatoria di un avvocato[xxiii]. E non può assumere dirimente rilievo, a parere di chi scrive, la circostanza che l’atto di opposizione sia espressamente richiamato all’art. 48 c.p.a., né che il rimedio straordinario sia stato sottoposto a un processo di giurisdizionalizzazione. Sembra infatti necessario evidenziare come, nonostante i richiami contenuti nel c.p.a. (il riferimento è non solo all’art. 48, ma anche all’art. 7, comma 8) e all’indubbio rafforzamento della natura giurisdizionale del rimedio, anche ad opera della l. 69/2009, che ha previsto la vincolatività del parere del Consiglio di Stato, il ricorso straordinario continua a trovare la sua disciplina agli artt. 8 ss. del d.p.r. 1191/1971, in disposizioni ancora in vigore non essendo state né integralmente riprodotte, né espressamente abrogate dal c.p.a., residuando profili non assorbiti. E ciò è significativamente vero proprio con riferimento alla disciplina dell’opposizione posta dall’art. 10d.p.r. 1191/1971, mentre l’art. 48 c.p.a. disciplina la fase della trasposizione[xxiv]. I due plessi normativi, adunque, offrono conferma di come le due fasi (opposizione e trasposizione) assurgano a due momenti cronologicamente e ontologicamente differenti, a cui corrisponde la diversità di natura giuridica.
Venendo alla questione che più direttamente rileva nell’ambito delle presenti riflessioni, l’art. 10, comma 2, d.p.r. n. 1191/1971 dispone che “il collegio giudicante, qualora riconosca che il ricorso è inammissibile in sede giurisdizionale, ma può essere deciso in sede straordinaria dispone la rimessione degli atti al Ministero competente per l'istruzione dell'affare”. La portata di questa disposizione – che evidentemente sembra fare un generico riferimento a qualsiasi ipotesi di inammissibilità – deve essere circoscritta in ragione del tenore dell’art. 48, comma 3, c.p.a., secondo cui “qualora l'opposizione sia inammissibile, il tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”. Dal combinato disposto delle richiamate disposizioni deriva che l’effetto restitutorio e la prosecuzione del giudizio nelle sede straordinaria non si determina per vizi che riguardino l’atto di trasposizione o l’inammissibilità originaria del ricorso straordinario[xxv], ma viene unicamente determinata dalla inammissibilità dell’atto di opposizione. In particolare, è stato precisato in giurisprudenza che la remissione in sede straordinaria si verifica laddove l’atto di opposizione manchi di un elemento essenziale, sia stato proposto da un soggetto non legittimato[xxvi] ovvero sia stato tardivamente proposto[xxvii].
5. Considerazioni conclusive
Le analisi sopra condotte inducono a ritenere la decisione che qui si annota non pienamente condivisibile, dal momento che, da un lato, trascura la natura e gli elementi caratterizzanti l’atto di opposizione e, dall’altro, estende il concetto di irricevibilità oltre i confini propri del processo amministrativo.
Come rilevato sopra, l’atto di opposizione non ha natura processuale, non inserendosi in alcuna sequenza di rito, come conferma anche la circostanza che esso trova la sua disciplina all’art. 10 d.p.r. 1191/1971, mentre all’art. 48 c.p.a. è rimessa unicamente la disciplina della diversa fase della trasposizione, avente pacifica natura processuale. Tale circostanza rende non condivisibile la soluzione adottata dal Consiglio di Stato, laddova ha ritenuto di ricondurre l’ipotesi di tardiva proposizione dell’atto di opposizione nell’alveo della irricevibilità, con la conseguenza che il ricorso straordinario non diverebbe improcedibile, non potendo trovare applicazione il meccanismo di cui all’art. 48, comma 3, c.p.a. che, riferendosi espressamente alla inammissibilità dell’opposizione, esprimerebbe la voluntas legis di mantenere il vaglio circa le questioni di tardività in capo al Consiglio di Stato in sede consultiva. Invero, la irricevibilità, a cui non può essere riconosciuto alcun significato trasversalmente applicabile nei diversi ordinamenti processuali, nel processo amministrativo ha un significato esclusivamente circoscritto all’ipotesi di tardiva notifica o deposito dell’atto introduttivo del giudizio, dovendo qualsiasi altra ipotesi originaria preclusiva all’esame del merito della vertenza essere ricondotta nell’alveo della inammissibilità. E ciò non può che valere con riferimento a un atto, come l’opposizione, che non solo non è qualificabile quale atto introduttivo del giudizio, ma ha natura procedimentale, non potendo allo stesso applicarsi regole e categorie espressamente elaborate per il diverso ambito processuale. A ben vedere, peraltro, la decisione che si commenta giunge finanche a dequotare la natura dell’atto di opposizione. Infatti, l’opposizione al ricorso straordinario è considerata quale rimedio necessario perché il sistema di tutela giustiziale risulti compatibile con l’art. 113 Cost., consentendo alla parte nei cui confronti è proposto il ricorso straordinario di manifestare la propria volontà a che la questione sia decisa dal TAR, con la conseguenza che la sua proposizione non potrebbe che determinarne l’automatica improcedibilità, spogliando – in modo automatico – il Consiglio di Stato, in sede consultiva, di ogni ulteriore potere decisionale. Tale automatica conseguenza, peraltro, non può riguardare unicamente il merito della questione controversa, ma deve estendersi a qualsiasi profilo, anche di rito, tra cui non può escludersi la tempestività o meno della stessa proposizione dell’atto di opposizione. Diversamente opinando, si giungerebbe al risultato di equiparare, sul piano degli effetti giuridici, la condizione dell’atto di opposizione nullo, perché carente dei requisiti essenziali affinché possa idoneamente manifestare la volontà della parte, a quello, pur valido, ma tardivamente proposto. Sembra doversi rilevare, sul punto, come nullità e tardività attengano a due fasi ontologicamente differenti da cui non possono che derivare effetti differenti, anche con riferimento alla questione che qui ci occupa. Infatti, mentre la nullità è conseguenza della carenza dei requisiti sostanziali dell’atto di opposizione, di guisa che non può darsi luogo alla valida manifestazione di volontà della parte e, dunque, non potrebbe determinarsi l’improcedibilità del procedimento straordinario; la tardiva proposizione non incide sulla presupposta valida manifestazione di volontà a che la questione sia trasposta in sede giurisdizionale, limitando i suoi effetti sul piano meramente procedimentale, ossia alla concreta possibilità che il giudizio possa proseguire avanti al TAR. Da qui può dedursi, sul piano sistematico, la conseguenza che la validità/nullità dell’atto di opposizione rientra nel sindacato del Consiglio di Stato in sede consultiva, spettando a questi la verifica circa la validità sostanziale dell’atto. Una volta che l’atto sia ritenuto valido - e dunque idoneamente espressivo della volontà di trasferire la questione in sede giurisdizionale - non può che conseguirne l’automatico arresto del procedimento straordinario. Laddove il ricorrente provveda alla trasposizione del giudizio avanti il TAR, dunque, spetterà a quest’ultimo il sindacato su tutti gli ulteriori profili di rito, che riguardino anche il rispetto delle formalità e delle tempistiche previste in sede procedimentale, tra i quali, oltre che i pacifici rilievi relativi alla fase di proposizione del ricorso straordinario, devono essere compresi anche ogni profilo relativo alla valida proposizione dell’atto di opposizione.
[i] Cfr. F. Ancora, Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022
[ii] A. Lugo, in Inammissibilità e improcedibilità (Diritto processuale civile), in Nss., Torino 1962, pp. 483.
[iii] Così, si v. R. Villata, Inammissibilità e improcedibilità. III) Procedimento e processo amministrativo, in Enc. giur., 1988.
[iv] In argomento, si v. O. Savini Nicci, Le sanzioni a difesa del rito giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato, in Scritti giuridici in onere di Santi Romano, Padova, 1940, spec. 584 e P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1982, spec. 355, che riconducono alla irricevibilità unicamente le ipotesi di tardività nella proposizione dell’azione; diversamente, R. Alessi, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1971, 817 e G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, spec. 318, ritengono di ricondurre nell’alveo della irricevibilità fatti ostativi alla proposizione del ricorso, quali l’acquiescenza e la rinuncia.
[v] Il riferimento è a A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1187.
[vi] Così R. Villata, Inammissibilità e improcedibilità. III) Procedimento e processo amministrativo, cit.
[vii] In questo senso, cfr. E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo italiano, Milano, 338, che ritiene sussistere una sostanziale equipollenza tra i termini di inammissibilità e irricevibilità.
[viii] In questo senso, si v. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 25 maggio 2010, n. 213; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12 giugno 2009, n. 3259; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 23 marzo 2009, n. 2972; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13 marzo 2009, 1908. Una lettura critica di questa impostazione è offerta da A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 127.
[ix] Contra F. Ancora, Irricevibilità e inammissibilità nel processo amministrativo, cit., il quale ritiene che la disposizione non chiarirebbe se il ricorso può essere dichiarato irricevibile anche per altre ipotesi e, dunque, non è idonea a stabilire una relazione biunivoca tra tardività e irricevibilità.
[x] G. Corso, Commento all’Art. 35, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato) Il processo amministrativo: commentario al D.lgs. 104/2010, Milano, 2011, 348. Sulle sentenze di rito nel processo amministrativo, ex multis, si v. F Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52-85, nonché C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005.
[xi] In questi termini si esprime la giurisprudenza amministrativa, secondo cui “è manifestamente inammissibile perché tardiva l'istanza di ricusazione del Collegio giudicante se proposta non già nel termine perentorio di cui all'art. 18 comma 2, c.p.a., ma successivamente al suo decorso” (Cons. Stato, Sez. IV, 3 luglio 2015, n. 3320).
[xii] Tra la vasta dottrina in materia, per una sistematica della problematica, si ritiene utile il richiamo a F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, Roma, 1956, 336; V. Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, spec. 823 ss.; M. Formini, Orientamenti in tema di improponibilità, inamissibilità e improcedibilità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, 1318; si v. A. C. Canova, Inammissibilità e improcedibilità. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., 1988.
[xiii] Ad eccezione delle ipotesi che si sostanziano in irregolarità sanabili, per le quali è prevista l’assegnazione al ricorrente di un termine per la regolarizzazione, e, se questi non vi provvede, la dichiarazione di improcedibilità del ricorso.
[xiv] Il riferimento è al Regolamento di procedura del Tribunale di primo grado, 2 maggio 1991, in GU 136 del 30 maggio 1991, che richiama la irricevibilità con riguardo ai vizi di forma del ricorso (art. 44), alla ipotesi in cui il gratuito patrocinio può essere negato (art. 94), al caso di decisione in forma di ordinanza (art. 111), alla rilevabilità d’ufficio delle questioni di irricevibilità di ordine pubblico (art. 113) ovvero alla forma con cui la parte può sollevare contestazione di irricevibilità (art. 114), nonché alla impugnazione (art. 145).
[xv] Nel dettaglio il Regolamento di procedura della Corte di giustizia, 25 settembre 2012, in GU 265 del 29 settembre 2012, richiama la irricevibilità in plurime dispsozioni, tra cui quelle relative all’ordine di trattazione delle cause (art. 53), ai vizi di forma dell’atto (art. 122), alle modalità e ai tempi di rilievo della irricevibilità (artt. 150, 159-bis), al contenuto dell’atto di impugnazione e alle carenze formali (art. 168) e alle modalità di decisione della impugnazione (art. 181) e agli effetti della irricevibilità sulle impugnazioni incidentali (art. 183).
[xvi] Il Regolamento della CEDU del 1 gennaio 2020 richiama ripetutamente la irricevibilità, pur senza fornirne una puntuale definizione, con riferimento alle modalità di decisione di un ricorso irricevibile (artt. 49, 52, 53, 54), alle modalità e ai tempi di formulazione della contestazione (art. 55), alle conseguenze in caso di mancato riscontro alle richieste di indormazioni o documenti formulati dalla Corte (pt. IV, indicazioni operative).
[xvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 1 agosto 2014, n. 4099, ove viene rilevato che “la regola dell’alternatività del ricorso straordinario al Capo dello Stato rispetto al ricorso giurisdizionale risponde ad una ratio di tutela non già dei privati bensì della giurisdizione, avendo lo scopo di evitare il rischio di due decisioni contrastanti sulla medesima controversia (divieto del “ne bis in idem”) e trova applicazione, pertanto, quando si tratta della medesima domanda o dell'impugnazione dello stesso atto, ovvero vi è identità del bene della vita oggetto del rimedio giustiziale esperito”, evidenziando altresì che tale regola “è stata, peraltro, interpretata con elasticità dalla giurisprudenza, nel senso che deve trovare applicazione, ad es., anche nel caso di due impugnative rivolte dal medesimo soggetto avverso punti diversi dello stesso atto (Consiglio di Stato, sez. II, 1/10/2013, n. 4489); oppure quando si tratta di atti distinti, ma legati tra loro da un nesso di presupposizione (Consiglio di Stato, sez. V, 3/09/2013, n. 4375); in sostanza, secondo la giurisprudenza, la regola dell'alternatività tra il ricorso straordinario al Capo dello Stato e quello giurisdizionale, sancita dall'art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, deve sempre ritenersi operante nei casi nei quali le due diverse impugnative siano sostanzialmente caratterizzate dall'identità del contendere e della relativa "ratio"”.
[xviii] Si v. L. Ragnisco, M. Rossano, I ricorsi amministrativi, Roma, 1954, 337.
[xix] Cfr. M. Immordino, La tutela non giurisdizionale. Il ricorso straordinario al Capo dello Stato, in (a cura di F.G. Scoca) Giustizia amministrativa, Torino, 2013, 631. Si v. anche Corte Cost. n. 78/1966, secondo cui “importa soltanto rilevare che il principio contestato, dando alla parte piena libertà di adire alla tutela giurisdizionale, e facendo dipendere dalla libera determinazione di lei la decadenza da quella tutela, non la rende né impossibile, né difficile, né fittizia: la legge anzi offre, in seno allo stesso ordinamento amministrativo, una protezione ai diritti soggettivi o agli interessi legittimi, che si aggiunge a quella giurisdizionale quando la parte ritiene di poterne fare a meno o da essa é decaduta. E in questo senso essa aumenta la possibilità di reazioni contro l'atto amministrativo illegittimo”. Nella giurisprudenza più recente, si v. TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 14 gennaio 2022, n. 41; Cons. Stato, sSez. III, 7 gennaio 2020, n. 112, secondo cui “listituto dell'opposizione rappresenta, infatti, lo strumento di ciascuna parte per adire il giudice precostituito per legge, in quanto il ricorso straordinario, rimedio alternativo a quello giurisdizionale, presuppone una concorde volontà di tutte le parti all'utilizzo di tale rimedio”.
[xx] L’atto di opposizione può essere proposto dal controinteressato, a cui espressamente si riferisce l’art. 10, comma 1, d.p.r. 1199/1971, dall’entepubblico, diverso dallo Stato, che ha emanato l'atto impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (cfr. corte cost., 29 luglio 1982, n. 148) e anche dalle Amministrazioni statali, giusta il tenore dell’art. 48 c.p.a. che si riferisce unicamente alla “parte”, così facendo ritenere che nel suo alveo sia da ricomprendere qualsiasi soggetto, anche l’Amministrazione statale: così, in dottrina, cfr. secondo parte della dottrina (si v. P. Carpentieri, Commento all’art. 48, in (a cura di R. Garofoli, G. Ferrari) Codice del processo amministrativo annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, Molfetta, 2012, 782) e in giurisprudenza Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464 e Cons. Stato, Ad. Plen. 6 maggio 2013, nn. 9 e 10. Parte della succesiva giurisprudenza (cfr. TAR Firenze, Sez. I , 27 maggio 2019, n. 793) ha poi ampliato la nozione di parte, al punto da ricomprendervi anche i cointeressati (in particolare, è stato rilevato che “la nozione di parte, nei confronti della quale sia stato proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ricomprende i controinteressati, i cointeressati e la pubblica amministrazione che ha emanato l'atto impugnato, nozione quest'ultima che assicura il pieno rispetto del contraddittorio e la generalizzazione della facoltà di opposizione, testimoniata dall'uso di una formula che comprende anche lo Stato, oltre alle altre pubbliche amministrazioni, ai controinteressati e ai cointeressati. Pertanto, anche i cointeressati sono legittimati a proporre opposizione ai sensi dell' art. 10 d.P.R. n. 1199/1971 , ovvero a chiedere la trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale”); contra, si v. Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 3 settembre 2020, n. 9332 e TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 3 giugno 2015, n. 1289.
[xxi] Sulla trasposizione, ex multis, si v. G. Pellegrino, Commento all’art. 48, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato), Il Processo amministrativo, Milano 2011, 463.
[xxii] La questione è, tuttavia, dibattuta in giurisprudenza: secondo un primo orientamento, “in tema di ricorso straordinario al Capo dello Stato è applicabile il periodo di sospensione dei termini feriali alla fase di opposizione: in conseguenza dell'entrata in vigore del nuovo codice del Processo Amministrativo si è progressivamente attenuata la diversità tra natura amministrativa e giurisdizionale delle decisioni conclusive, rispettivamente dei ricorsi al Capo dello Stato e delle sentenze del g.a. e, anche laddove non si intenda valorizzare le analogie tra i due giudizi, va rilevato che il termine di 60 giorni per l'opposizione dei controinteressati all'ulteriore corso del rimedio straordinario e per il trasferimento in sede giurisdizionale della controversia (previsto dall'art. 10, d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199), ha natura processuale, in quanto concernente il giudizio davanti al g.a. e non viceversa il ricorso straordinario; pertanto, si applicano le norme sulla sospensione dei termini in periodo feriale” (TAR Veneto, Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 1406); secondo opposta impostazione, invece, l’atto in parola non avrebbe natura processuale, non potendo, dunque, beneficiare della sospensione feriale (Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2010, n. 1186).
[xxiii] Così TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 557/2011.
[xxiv] Così G. Pellegrino, Commento all’art. 48, in (a cura di A. Quaranta, V. Lopilato), Il Processo amministrativo, Milano 2011, 463; contra, F. Saitta, Il ricorso straordinario, in (a cura di B. Sassani, R. Villata) Il codice del processo amministrativo, Milano, 2012, 1304).
[xxv] Si v. Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2009, n. 1194; id., Sez. VI, 7 febbraio 2014, n. 593. Contra, si v. l’isolata pronuncia resa da Cons. Stato, sez. VI, 9 ottobre 2012, n. 5248.
[xxvi] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; TAR Toscana Sez. II n. 663/2013; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 3 giugno 2015, n. 1289, secondo cui “è legittimato alla proposizione dell'”opposizione” al ricorso straordinario la sola “parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario”, non anche soggetti terzi, processualmente estranei al ricorso stesso. Pertanto, i cointeressati non possono chiedere che il ricorso sia trasposto in sede giurisdizionale”.
[xxvii] Si v. tra le altre CGA 2 luglio 2019, n. 631.
La responsabilità amministrativo-contabile degli avvocati e degli ordini professionali: profili sistematici
di Letterio Donato
Sommario: 1. Premessa - 2. I danni recati dal pubblico dipendente avvocato - 3. I danni recati dall’avvocato libero professionista - 4. Il caso dei danni arrecati dal libero professionista al proprio ordine professionale - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Le responsabilità dell’avvocato possono essere di ordine civile, penale e disciplinare.
La responsabilità amministrativo-contabile, in particolare, può essere configurata a certe condizioni, ad essa proprie e peculiari, la cui giurisdizione, ove sia stata promossa la relativa azione dalla Procura, è devoluta alla Corte dei conti, tenuto conto dell’art. 1 c. 1 del Codice di giustizia contabile, d. lgs. n. 174/2016 - secondo cui “La Corte dei conti ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all'erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica” – e dell’art. 103 c. 2 della Costituzione (“la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”[i]).
La vexata quaestio circa i confini della giurisdizione contabile, come noto, ha conosciuto latitudini assai oscillanti, tanto che si è parlato in dottrina di una vis expansiva a partire dalla seconda metà degli anni ’90, non senza sottolinearne gli eccessi[ii]. Non a caso, infatti, il legislatore (v. il c.d. “lodo Bernardo”[iii] ed oggi gli interventi del c.d. “decreto semplificazioni”[iv]) è talora intervenuto per evitare il moltiplicarsi delle responsabilità amministrative a vario titolo, in un continuo alternarsi di stagioni nelle quali la giurisdizione contabile ha conosciuto fortune alterne, anche al di là dei suoi pregi e dei suoi difetti. Non vi è dubbio, infatti, che la “aziendalizzazione”, la “privatizzazione”, l’introduzione di sistemi di valutazione delle performance, gli stringenti vincoli di bilancio, la rigidità dei procedimenti di spesa (soprattutto nella materia dei contratti pubblici), uniti al deficit dello Stato e delle Regioni, con gravissime ripercussioni sugli enti locali (in questi anni costretti a fare di necessità virtù), tutti riportati – condivisibilmente – ad una (ri)lettura dell’art. 97 della Costituzione (integrato dalla legge costituzionale n. 1/2012), abbiano condotto ad una nuova impostazione dei rapporti tra amministrazioni e tra esse e i cittadini, con particolare rilievo alla materia dei servizi pubblici, vera e propria cartina di tornasole su cui misurare i tratti della democraticità effettiva[v].
Segnatamente, il principio di buon andamento, in collegato con il vincolo di equilibrio di bilancio, ha assunto una dimensione assiologica ben più significativa e pregnante, ponendosi come clausola in grado di catalizzare le variabili dell’equazione che vede in gioco la legalità e l’efficienza, la trasparenza e l’anticorruzione, persino, in una certa misura, il sindacato diffuso sull’operato delle pubbliche amministrazioni. E se, in passato, tale principio era oscurato dall’imparzialità, tradotta dal giudice amministrativo all’interno dell’eccesso di potere, oggi può affermarsi che esso abbia trovato il suo “giudice naturale”, ossia la Corte dei conti, in un processo di biunivoca rispondenza e valorizzazione, tale che entrambi hanno trovato una nuova e fondamentale collocazione nell’ordinamento[vi].
L’anzidetta espansione delle ipotesi di illecito in grado di determinare l’inverarsi di fattispecie di responsabilità amministrativa ha investito anche l’ambito dei rapporti tra pubbliche amministrazioni e professionisti, siano essi medici, avvocati, ingegneri, geologi, architetti o commercialisti.
Le responsabilità da attività professionale discendono essenzialmente dalla inosservanza delle best practices, dei protocolli, della diligenza richiesta ad un professionista, ossia ad un soggetto la cui perizia e competenza si presumono una volta “abilitato” all’esercizio della professione stessa e iscritto all’Ordine di appartenenza[vii].
Quanto detto vale, ovviamente, anche per gli avvocati, relativamente ai quali – come per alcuni altri professionisti - occorre distinguere se del libero foro o alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Se è vero, infatti, che la perizia richiesta ad un avvocato è tendenzialmente la medesima, occorre anche considerare che la responsabilità amministrativo-contabile richiede, seppure in termini lati, un rapporto di servizio. Sicchè, è evidente che questo presupposto sarà rinvenibile nell’avvocato dipendente di una amministrazione, mentre, se del caso, dovrà essere rinvenuto nel caso dell’avvocato libero professionista, incaricato di un certo affare, ma solo a certe condizioni[viii].
Anticipando un discorso che sarà sviluppato ulteriormente di seguito, basti ricordare come, di recente, la giurisprudenza si sia occupata del tema, pervenendo a fissare alcuni punti fondamentali.
In un caso assai noto quanto recente, è giunta nella sede giurisdizionale contabile una vicenda nella quale un avvocato dell’Inps aveva omesso, in tesi, di presentare appello avverso una sentenza in presenza di pacifici indirizzi contrari della Corte di cassazione. La rilevanza del caso è legata al fatto che era stata emessa condanna a carico dell’ente di corrispondere quasi tre milioni per indennità di accompagnamento e per assegno sostitutivo di accompagnatori militari, sicchè il mancato appello era, in tesi, causa efficiente di danno erariale[ix].
In altro caso esemplificativo, è stata affermata la responsabilità per danni arrecati da liberi professionisti quali componenti del Consiglio dell'Ordine nel conferimento di incarichi professionali ad esperti esterni[x].
Mentre la responsabilità amministrativo-contabile è di più agevole e pressoché pacifica configurazione per gli avvocati dipendenti di pubbliche amministrazioni, come si vedrà, più complessa è la vicenda quando questa riguardi liberi professionisti.
Tra gli avvocati pubblici dipendenti, peraltro, rientrano gli Avvocati dello Stato, gli avvocati degli enti pubblici, gli addetti agli uffici contenziosi, anche se non avvocati.
In ogni caso, la configurazione della responsabilità professionale deve porsi in linea con la necessaria autonomia dell’avvocato nello svolgimento dell’attività libero professionale[xi]. L’ampiezza di tale autonomia è, infatti, inversamente proporzionale all’inverarsi di responsabilità colpose (quelle dolose sono escluse dal presente discorso per ovvie ragioni).
Si stima, dunque, di procedere ordinatamente, esaminando le diverse posizioni degli avvocati e le rispettive condizioni di responsabilità.
2. I danni recati dal pubblico dipendente avvocato
Se le responsabilità per danno erariale dei dipendenti pubblici – tra i quali i professionisti legati da un rapporto di servizio, anche occasionale – rientrano senza dubbio nella giurisdizione della Corte dei conti, altro discorso riguarda l’attività difensiva o consultiva.
I legali facenti parte delle avvocature degli enti pubblici sono iscritti nell’apposito elenco speciale annesso all’albo[xii]. In questo senso depone l’art. 23 della l. n. 247/2012, ai sensi del quale, i professionisti facenti parti di tali uffici interni, finché gli enti “siano partecipati prevalentemente da enti pubblici”, hanno garanzia di “piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente”. Essi godono di un trattamento “adeguato alla funzione professionale svolta”. Nel contratto di lavoro sono garantite “l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato”[xiii]. Sul piano della responsabilità, l’iscrizione nell’elenco speciale dell’albo non li esime dal potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine[xiv].
Discorso differente concerne gli Avvocati e i Procuratori dello Stato, per i quali non è richiesta alcuna iscrizione all’albo professionale ai sensi del t.u. del 1933 che li riguarda. Ma anche per essi, si pongono le medesime questioni, circa possibili profili di responsabilità anzitutto laddove vi sia una cattiva gestione del contenzioso.
A queste due macro-categorie se ne aggiunge una terza, ovvero quella dei dirigenti o funzionari preposti alla difesa dell’ente pur non appartenendo ai ruoli legali dello stesso, in tutti i casi in cui non sia necessaria la difesa tecnica, ossia con il patrocinio di un avvocato. Anche a costoro, nei limiti dell’attività svolta e della perizia richiesta, ovviamente, si estendono possibili profili di responsabilità.
Tutti costoro, in caso di cattiva gestione del contenzioso, laddove ne derivi un danno erariale (diretto o indiretto), possono essere esposti alla giurisdizione della Corte dei conti.
La casistica è la più varia, e discende, per lo più, dal diverso atteggiamento che, a volte, le amministrazioni (in primis) e gli stessi professionisti (in secundis) assumono nelle difese svolte o nei giudizi promossi o che si è colpevolmente omesso di promuovere.
Il tema è, invero, assai delicato, perché investe non solo la perizia e la professionalità del soggetto, rientrante nelle categorie di cui sopra, ma anche il comportamento delle stesse amministrazioni.
Le ipotesi immaginabili sono numerose, ma, si badi, non devono mai essere interpretate ex postinvestendo i profili della discrezionalità delle amministrazioni pubbliche, le quali possono legittimamente difendere il proprio operato senza il timore di venire dopo investite da responsabilità.
Si pensi, ad esempio, al mancato appello nei confronti di una sentenza che dichiari l’esistenza di mobbing, ove l’ente locale – anche questo è un caso reale ed assai diffuso prima della legge Gelli/Bianco nei confronti dei sanitari pubblici dipendenti – invece di appellare (anche su richiesta del diretto interessato che non era parte del giudizio, svoltosi tra il presunto danneggiato e l’Amministrazione), ha transatto la controversia, “scaricando” il danno sul malcapitato dipendente.
Da questo punto di vista, due osservazioni valgano incidenter tantum: a) la riconosciuta risarcibilità del danno inferto all’interesse legittimo, come anche le nuove ipotesi di responsabilità (esemplare, il c.d. danno da ritardo), hanno ampliato il novero dei casi di potenziale responsabilità amministrativo-contabile dei dipendenti pubblici, ancorchè, occorra dire che il giudice amministrativo pare, in linea di principio, non particolarmente incline ad assumere la fisionomia del giudice da “risarcimento del danno”[xv] (come, del resto, accade sovente dinanzi al giudice ordinario quando si tratti di disapplicare un provvedimento amministrativo o di far valere vizi che attengano alla sua legittimità); b) l’istruttoria contabile, anche prima della riforma del 2016, si caratterizza per una decisa autonomia, fatta eccezione per gli elementi di fatto accertati soprattutto in sede penale (ma anche in sede amministrativa) dei quali tiene conto, sicchè non è affatto detto che una condanna al risarcimento del danno dinanzi al giudice ordinario o amministrativo avrà analogo esito nei confronti del responsabile per danno indiretto. Anzi, la casistica dimostra che non di rado l’esito sarà differente. Infatti, può avvenire che il danno accertato (e corrisposto dalla p.a.) in altre sedi giurisdizionali sia frutto anche di difese non particolarmente attente, mentre il diretto interessato, affidandosi ad un libero professionista e ben conoscendo la vicenda, sovente si difende meglio e consente un accertamento che può portare anche all’assoluzione dall’imputazione.
Il fatto che le amministrazioni, talora, non si difendano al meglio è “strutturale” e forse anche “fisiologico”, al punto che, talora, lo stesso giudice – assumendosi un compito non completamente suo, ma comprensibilissimo – si erge esso stesso a difensore “aggiunto” delle p.a. “sonnecchianti”. Si consideri quanto ciò possa refluire sull’avvocato dell’ente pubblico, in molti casi “sovrastato” dal numero e dall’ampiezza del contenzioso in relazione ad un ufficio di modeste dimensioni ed al cospetto di collaboratori non sempre “rodati” all’agone del libero foro, talora abituè di casi seriali, al di fuori dei quali fanno fatica. Non solo. Spesso – non sempre, non si intende fare di tutta l’erba un fascio – le amministrazioni, impegnate nell’attività amministrativa ordinaria e negli adempimenti (in molti casi formali e non utili) posti dalla normativa più recente, non sono in grado di fornire tempestivamente la documentazione difensiva più appropriata o di redigere relazioni informative la cui importanza è fondamentale. Quest’ultima ipotesi, in realtà, può riguardare anche il professionista del libero foro incaricato della difesa dell’ente (quando il ricorso alla difesa “esterna” è consentito, beninteso), spesso privo di documentazione e dotato di procura (e deliberazione a stare in giudizio) solo in prossimità dell’udienza.
Analogo problema può investire anche la difesa erariale par excellence, ossia l’Avvocatura dello Stato, costituita da professionisti esperti e di altissimo profilo, anch’essi costretti a “scegliere” gli atti difensivi da redigere con più cura (ammesso che la documentazione ed un minimo di relazione giunga loro per tempo), trascurando le Camere di consiglio o “andando a braccio” (gli avvocati del libero foro sanno quanto pericolosa sia questa prassi) per difendere l’ente. In altri casi – si pensi ai giudizi in materia di concorsi pubblici – l’Avvocatura ora si limita a depositare gli atti con una memoria di forma, ora redige atti difensivi di grande spessore.
In termini generali, dunque, parlare di responsabilità dell’avvocato “pubblico” richiede una grande attenzione, rifuggendo dalla ricerca dell’addebito, semplicemente perché la p.a. è risultata soccombente in giudizio, con probabile condanna alle spese. Se nel caso del giudizio di ottemperanza che si traduca in un esborso evitabile – si pensi agli interessi maturati sul credito o alla nomina del Commissario ad acta – la responsabilità non è dell’avvocato, ma dell’amministrazione, la proposizione di un appello palesemente infondato o la resistenza meramente tuzioristica costituiscono un vulnus alla stessa giurisdizione, impegnando i Tribunali in controversie agevolmente risolvibili in via stragiudiziale. Il tema porterebbe assai lontano e non può qui essere affrontato: basti rammentare come l’uso dei poteri di autotutela, in funzione anche della funzione deflattiva propria della partecipazione al procedimento, abbia ceduto il posto alla (apparentemente più comoda) scelta di lasciare che il contenzioso si svolga, per poi vedere il da farsi[xvi].
La “crisi” dell’autotutela, d’altro canto, non può considerarsi una novità: il paradosso, semmai, è che essa sia ancora oggi (forse anche in misura maggiore rispetto al passato) direttamente collegata con il metus della responsabilità[xvii]. Si tratta di un paradosso perché il mancato ricorso all’autotutela sovente costituisce, in fin dei conti, un boomerang che conduce parimenti (e in condizioni nelle quali è assai più difficile la difesa) dinanzi al giudice contabile, il quale sanziona con particolare vigore le responsabilità omissive piuttosto che quelle commissive. Le prime sono, infatti, legate ad una incapacità di decidere, le seconde possono discendere da errori o sviste che, laddove non particolarmente evidenti – contrassegnate, cioè, da colpa grave, secondo la provvida riforma del 1994 – non dovrebbero portare ad addebito alcuno.
Ciò apre un ulteriore tema, qui solo accennato perché collaterale al tema trattato, ovvero quello della corretta interpretazione della presenza della colpa grave: la Corte dei conti, talora, non ne ha valorizzato l’importanza, “appiattendo” la colpa grave anche su ipotesi di colpa “lieve”, facendo perdere l’effetto voluto dal legislatore, che è quello di sollevare ragionevolmente l’amministratore nel trattare le questioni a lui sottoposte[xviii].
Tutte queste riflessioni convergono nel delineare un quadro composito delle responsabilità dei soggetti di cui si sta parlando, sia in quanto professionisti (esclusi i dirigenti e funzionari incaricati), sia in quanto dipendenti pubblici. La loro responsabilità – è questo il dato più evidente – non può che discendere da fatti gravi, evidenti omissioni (tra cui è stata fatta rientrare, ad esempio, l’omessa comunicazione di una udienza) o acquiescenze a tesi avversarie chiaramente infondate.
Ovviamente, quanto sopra non vale nel caso in cui l’attività difensiva sia contrassegnata da dolo, fermo restando che la dolosità del comportamento va debitamente accertata e non presunta (come pure talora accade concretamente).
È prassi, ad esempio, l’utilizzo del c.d. “copia e incolla” da parte degli uffici legali (anche dell’Avvocatura di Stato), della proposizione di appelli o di giudizi in Cassazione palesemente infondati fino alla lite temeraria (come nel caso di crediti prescritti), ovvero giudizi che non avrebbero dovuto intraprendersi, talora mediante l’utilizzo di strumenti transattivi e/o conciliativi e dello stesso potere di autotutela (non esercitato correttamente).
Le strategie processuali possono rilevare, ma qui il confine con l’autonomia del legale è labile e quindi occorre estrema attenzione per non sbilanciare la responsabilità oltre la misura della mancata diligenza richiesta.
Altra ipotesi che si verifica in concreto – anche nell’ambito delle difese spiegate da avvocati “esterni” – è quella concernente la “reinterpretazione” delle ragioni per le quali un certo atto sia stato adottato (o non adottato). Ci si chiede, infatti, se il difensore esorbiti dal mandato nella misura in cui tenti di “riannodare” i fili della legittimità dell’operato dell’amministrazione difesa, oltreché con strategie processuali dilatorie, sostanzialmente “correggendo il tiro” rispetto a quanto affermato dall’amministrazione medesima.
In questo caso si aprono due tematiche: una afferente l’attività processuale ed i limiti del mandato di rappresentanza; l’altra concernente la consulenza che (soprattutto) un ufficio legale interno (così come l’Avvocatura dello Stato riguardo alle amministrazioni difese ope legis), prima di intraprendere un giudizio o di svolgere una difesa, deve rendere.
Per quanto concerne il primo profilo, spetta anzitutto al giudice verificare la discrasia tra le posizioni dell’ente e quelle difensive “integrative”. In ogni caso, si tratta di una prassi che ha forse una sua logica processuale, ma che resta inaccettabile nella misura in cui, invece di tradursi in una consulenza legale nei confronti dell’ente per condurlo a rivedere i propri errori, senza informare l’ente assistito, accetti la difesa, anche laddove temeraria o comunque palesemente priva di argomenti giuridici in linea con gli orientamenti pacifici della giurisprudenza (come della dottrina) in materia.
Tale primo profilo si interseca, a ben guardare, con il secondo, in quanto l’assistenza legale, soprattutto quella erogata dagli uffici interni e dall’Avvocatura dello Sato, non può limitarsi a sostenere le tesi dell’ente – pur palesemente infondate – e/o a tentare surrettiziamente di modificarle in modo da renderle plausibili. Il danno che ne può discendere, in questo caso, è riferibile a colui il quale abbia omesso di rendere edotta la p.a. assistita degli errori commessi (e dei rischi connessi).
Altro discorso è se quest’ultima perseveri nell’errore: in tal caso, la difesa – non potendo essere abbandonata nel caso di avvocati “interni” – si impegnerà a limitare i danni, anche attraverso la formulazione di eccezioni in grado di paralizzare la pretesa avversaria (il che è perfettamente legittimo).
Ciò detto, occorre, tuttavia, tenere presente che le controversie in cui è parte una amministrazione pubblica non possono essere equiparate de plano alle questioni tra privati: mentre il privato, cioè, è “libero” di assumere su di sè il rischio di liti temerarie – che debbono essere rigidamente sanzionate dall’organo giurisdizionale adito – o, nel caso dell’avvocato, di comportamenti processuali scorretti (quando non fraudolenti), in violazione degli artt. 88 e ss. del c.p.c. e delle stesse norme del codice deontologico forense, la pubblica amministrazione non può consapevolmente perseguire fini diversi da quelli “legali” per ovvie ragioni attinenti alla funzione pubblica che ne connota l’attività.
La responsabilità degli avvocati “pubblici”, anche quando non ci si trovi in presenza di un contenzioso in essere, può discendere dal rilascio di pareri le cui indicazioni siano palesemente errate, abnormi, del tutto incoerenti con i pacifici orientamenti della giurisprudenza e dunque in grado di indirizzare l’ente assistito in una direzione incongrua dalla quale discende direttamente il danno o in termini di esborso o di apertura di un contenzioso. È stato, infatti, correttamente affermato che uno dei parametri attraverso i quali valutare la congruità (e comunque la non abnormità) di un parere pro veritate sia la c.d. “consapevole decisione” alla quale ogni avvocato, sia esso professionista del libero foro, sia esso avvocato di enti pubblici (o dello Stato), deve soggiacere. Il parere, cioè, può non essere completo e/o esaustivo, ed anche denunciare alcuni limiti di approfondimento senza che da questo possa derivare alcuna responsabilità civile o amministrativa. Il diretto interessato, sia esso l’ente o il privato, ne farà l’uso che crede e, se del caso, seguirà altre strade. Tuttavia, laddove il convincimento dell’ente o del privato sia effettivamente e decisivamente “coartato”, “indirizzato inderogabilmente”, “condotto indissolubilmente” ad una soluzione del tutto improvvida ed incongrua, foriera di danni non altrimenti evitabili con l’ordinaria diligenza (e competenza, quando si tratti di uffici dirigenziali), è assai probabile immaginare profili di responsabilità civile, nel caso del privato (salvo quanto appresso si dirà) e amministrativa nel caso di una pubblica amministrazione.
Deve essere chiaro che si tratta di situazioni “limite”, laddove la consulenza abbia prospettato soluzioni certamente errate ed abbia rappresentato con assoluta certezza esiti favorevoli nella soluzione di un certo contenzioso, sia esso potenziale o in essere.
Quando l’avvocato, cioè, si renda conto della assoluta impossibilità di impostare una certa difesa e far valere certe posizioni giuridiche, anche in relazione al suo ruolo di soggetto impegnato nella corretta esplicazione della giurisdizione e della legalità in genere, dovrà suggerire al proprio cliente, compreso l’ente pubblico, un percorso transattivo impegnato nella chiusura stragiudiziale della vicenda sottopostagli.
Qui, però, deve rilevarsi che, pur con interessanti e condivisibili temperamenti, gli orientamenti della Corte dei conti non sono sempre in linea con quanto detto. Le transazioni, anche in ottica di trasparenza e di corretto utilizzo della spesa pubblica, sono spesso viste con sospetto, al punto che le amministrazioni pubbliche addivengono alla stipula di atti transattivi solo ove la controparte rinunci a qualcosa (generalmente gli interessi e la rivalutazione sulla sorte capitale), così da dimostrarne la convenienza, anche quando, ad esempio, vi sarebbe spazio per coltivare l’appello[xix]. È questa una delle ragioni per le quali, pur laddove l’Avvocato suggerisca, anche in sede di consulenza orale, di trovare soluzioni stragiudiziali, gli enti pubblici sono sovente restii ad agire in tal senso, preferendo un contenzioso incongruo e dispendioso, presumibilmente diluito nel tempo, ad un accordo (compresi quelli previsti dall’art. 11 della l. n. 241/1990[xx]). Eppure, anche a parità di spesa, l’alternativa consensuale può spesso essere complessivamente più conveniente, consentendo un’azione amministrativa più efficace ed efficiente (si pensi, ad esempio, alle controversie in materia espropriativa, laddove il quadro delineato dalle recenti Adunanze plenarie sull’art. 42 bis suggerisce forme di definizione che non attingano alla sfera processuale[xxi]).
L’Avvocato impegnato ad assistere un ente pubblico, dunque, si trova sovente in una condizione nella quale non gli è agevole esplicare la propria consulenza ed indirizzare un ente che chiede solo di essere difeso nel migliore dei modi (possibili), ma non intende intervenire attraverso strumenti transattivi (giudiziali o stragiudiziali), accordi o attivando i propri poteri di autotutela.
Da questo punto di vista, il giudice amministrativo, con frequenza ormai elevata, sanziona le omissioni, le inerzie, le incoerenze e le cattive scelte delle amministrazioni pubbliche, trasmettendo gli atti – anche nel giudizio in materia di silenzio – alle procure contabili. E’ stato, in particolare, ritenuto legittimo un intervento in autotutela di un affidamento diretto di un servizio in presenza di una segnalazione, da parte della competente Procura contabile, circa la sua illegittimità e incongruità sul piano della sua economicità[xxii]. Occorrerebbe, da questo punto di vista, che fossero più chiari i meccanismi della responsabilità dei dipendenti e soprattutto dei dirigenti pubblici, i quali sono oggi impegnati in una serie di adempimenti formali, prima ancora che nell’amministrazione attiva, a risorse invariate e sul presupposto che essi debbano attendere ad ogni cosa, tanto che lo stesso giudice contabile considera esimente da responsabilità la gestione di un ufficio pletorico e di un numero di pratiche elevato con risorse non adeguate[xxiii]. L’Avvocato, dal canto suo, ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c., dovrà assolvere al suo mandato sollecitando il cliente a dargli tutte le informazioni necessarie, per poi informarlo adeguatamente circa lo svolgimento dello stesso ed ai suoi esiti.
Nella configurazione della responsabilità amministrativa concorrono tutti questi aspetti, i quali convergono poi nei presupposti per il suo concreto esercizio.
L’elemento psicologico, come si è detto, è la colpa grave.
La diligenza richiesta discende dalla natura dell’incarico, dalla sua complessità e quindi dalla conoscenza delle specifiche normative applicabili alla specie. A maggior ragione tale elemento potrà essere oggetto di esame ove si tratti di avvocati “specialisti”, come previsto dal d.m. Min. Giustizia n. 144/2015, recentemente modificato con d.m. n. 163/2020. E’ indubbio che, chi si rivolga ad un avvocato “certificato” dal Consiglio Nazionale Forense come specialista, si aspetti una prestazione adeguata nella specifica materia[xxiv].
Il nesso causale è comune a tutti gli avvocati, nel senso che esso ha normalmente natura omissiva, ma non solo, in quanto ancorato ad una serie di parametri come “la ragionevole certezza” o “il più probabile che non”[xxv]. Pertanto, la responsabilità, sia essa civile sia essa amministrativa, seguirà questa linea, in ragione della quale essa discenderà dalla frustrazione di “serie ed apprezzabili possibilità di successo” (non dalla certezza dell’esito favorevole del giudizio, ad esempio, dalla proposizione di un appello o di una opposizione ad una sanzione o ad un decreto ingiuntivo). La responsabilità si configura, nella buona sostanza, solo ed esclusivamente nel caso in cui si verifichi una vera e propria perdita di chance di vittoria, cioè dalla ragionevole probabilità che, laddove l’attività omessa (o l’attività in senso lato) fosse stata esplicata (o o esplicata correttamente), in termini di ordinaria diligenza professionale, l’esito avrebbe potuto essere differente e significativamente più favorevole. Si tratta, come noto, di orientamenti della Corte di Cassazione, che anche la Corte dei conti, per quel che concerne gli avvocati pubblici, può seguire.
Altro tema, del quale si è già fatto cenno, è quello della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, sancita, per la Corte dei conti, dall’art. 1 c. 1 della legge n. 20/1994. Secondo le Sezioni Unite, infatti, “l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti, in astratto, alla giurisdizione della Corte di Conti, non ne comporta la sottrazione a ogni possibile controllo. L'insindacabilità nel merito sancita all'art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994, infatti, non priva la Corte dei conti della possibilità di accertare la conformità alla legge dell'attività amministrativa, verificandola anche sotto l'aspetto funzionale, in ordine, cioè, alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore; limite all'insindacabilità delle scelte discrezionali della P.A. è l'esigenza di accertare che l'attività svolta si sia ispirata a criteri di ragionevole proporzionalità tra costi e benefici. La Corte dei conti, quindi, nella sua qualità di giudice contabile, può verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico”[xxvi]. Ed ancora: “La Corte dei Conti, nell’ambito della sua giurisdizione, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia - secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost. – che assumono rilevanza sul piano della legittimità, non della mera opportunità, dell'azione amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, e non potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti”[xxvii].
Ciò determina la sindacabilità di iniziative giudiziarie temerarie (sia dal lato attivo che da quello passivo), fondate su un parere chiaramente errato, il mancato appello rispetto a pretese completamente infondate (a nulla rilevando l’errore del giudice di prime cure), riversandosi de plano sul piano della responsabilità amministrativa riferita agli organi deputati alla difesa legale dell’ente (ma non solo, dipende dalle specifiche ipotesi).
Ovviamente, occorre distinguere: gli avvocati pubblici in senso lato (v. supra) arrecano il danno all’amministrazione ove prestano servizio (seppure qui si ponga l’ipotesi della responsabilità per danni ad altre amministrazioni), gli Avvocati dello Stato, in ragione dell’ampia delega difensiva ope legis e della totale autonomia nella gestione dei giudizi (anche, se del caso, di proporre appello o meno ad una sentenza, pur su invito della stessa amministrazione in specie rappresentata), ad una platea ben più vasta.
Altro tema, sul quale opinioni divergenti si sono manifestate – e sul quale già alcuni cenni sono stati fatti in sede introduttiva – riguarda il c.d. “doppio binario”, ossia la possibilità, da parte degli enti pubblici, di attivare essi stessi giudizi risarcitori nei confronti dei propri dipendenti a prescindere dall’azione delle Procure contabili: in linea di massima è ammessa la concorrenza di azioni, fermo restando il divieto della doppia condanna.
In realtà, non è la stessa cosa.
Il giudizio dinanzi al giudice ordinario e dinanzi alla Corte dei conti segue regole, procedure, riti, istruzione differenti e soprattutto – eccettuato il caso dei sanitari dopo la riforma operata dalla legge Gelli-Bianco[xxviii] – su differenti presupposti in merito all’elemento psicologico, che è la colpa lieve nel primo caso e la colpa grave nel secondo. In tesi, dunque, potrebbe persino essere più conveniente, per il dipendente pubblico, l’unificazione della giurisdizione in materia contabile, in quanto le garanzie – pur con tutti i dubbi espressi sulla corretta qualificazione della colpa grave in sede giuscontabile – sono maggiori dinanzi alla Corte dei conti, la quale, peraltro, oltre alla compensatio lucri cum damno, gode del potere riduttivo, la cui portata può avere latitudini assai significative laddove l’azione dannosa non sia contrassegnata da dolo, venendo in evidenza l’intero comportamento tenuto in specie dal pubblico dipendente[xxix].
Il quantum è anzitutto legato agli esborsi conseguenti alla condanna, anche alle spese del giudizio. Ma non è escluso che possano rientrare in tale voce anche i costi da disservizio, ossia i costi relativi all’impiego del personale per impostare difese del tutto inutili.
Va, poi, ricordato che la responsabilità amministrativo-contabile è personale e non solidale, dunque ancorata all’effettivo apporto causale dell’Avvocato.
Riprendendo un tema sul quale ci si è già soffermati, è evidente che un importante ruolo in tal senso può svolgerlo l’Amministrazione, la quale richieda, ad esempio, la proposizione dell’azione infondata o la resistenza in giudizio priva di ragioni giuridiche. Se il professionista del libero foro, in tesi, può rifiutarsi di accettare l’incarico, ben più difficile è la posizione dell’Avvocato dell’ente, il quale, ove si allinei a tale indirizzo – non avendo, si badi, potestà amministrative in tale veste – vedrà scemare notevolmente il proprio apporto causale. Ben diverso, ma lo si è detto, è il caso in cui il contenzioso sia avallato ed anzi promosso apertamente, attraverso una attività consulenziale (rientrante nei doveri d’ufficio come nel mandato difensivo) in grado di “deviare” la volontà dell’ente.
3. I danni recati dall’avvocato libero professionista
Quando una pubblica amministrazione conferisce un incarico di consulenza o di difesa ad un professionista esterno, in caso di gravi errori nell’attività difensiva o di pareri abnormi produttivi di danni all’ente, non è possibile, in linea di principio, configurare un rapporto di servizio, ma un rapporto contrattuale, come tale caratterizzato da ampio mandato e cioè non sottoposto a veri e propri vincoli da parte della p.a, anche sotto forma di direttiva.
Se, dunque, il danno si è verificato, la giurisdizione non potrà che essere del giudice ordinario e non di quello contabile.
D’altro canto, come si accennava nelle premesse, il concetto di “rapporto di servizio” ha conosciuto, soprattutto negli ultimi decenni, una elaborazione giurisprudenziale assai cospicua. La giurisdizione della Corte dei conti, dunque, è stata estesa a soggetti, inseriti a qualsiasi titolo (dunque, onorario, volontario o coattivo, di fatto, oltrechè, ovviamente, titolari di un vero e proprio contratto d’impiego pubblico) nell’apparato organizzativo di una amministrazione pubblica e che, in tale veste, esercitino in modo continuativo un’attività improntata alle regole proprie dell’azione amministrativa. Tale effettivo inserimento organizzativo è dunque ritenuto sufficiente (e necessario, per altro verso) per radicare la giurisdizione contabile. Si parla, in questo caso, da parte delle Sezioni Unite di una relazione funzionale tra l’autore dell’illecito e l’amministrazione pubblica, che, in particolare, prescinde dalla formale instaurazione di un rapporto d’impiego, ma postula la “compartecipazione del soggetto all’attività dell’amministrazione pubblica”[xxx]. Di converso, in presenza di prestazioni saltuarie (anche se ripetute) e quindi di mancato inserimento organizzativo all’interno dell’ente pubblico, la giurisdizione della Corte dei conti dovrà ritenersi esclusa.
La casistica concernente professionisti inclusi a vario titolo è la più varia: essa ricomprende ingegneri, architetti, commercialisti, anche in qualità di consulenti tecnici d’ufficio. Per quanto concerne gli Avvocati liberi professionisti, se, ordinariamente, non sono soggetti a responsabilità amministrativa (ma restano responsabili civilmente degli eventuali danni prodotti alla p.a. conferente), non è escluso che questi possano, in circostanze determinate, essere soggetti alla giurisdizione contabile.
Occorre, qui, una ulteriore precisazione: gli incarichi esterni non sono liberamente conferibili da parte delle Amministrazioni pubbliche. Anzi, l’idea che sembra prevalere ultimamente – determinando anche una serie di problematiche in materia di affidamento dei servizi legali degli enti pubblici, che ha coinvolto anche l’Anac[xxxi] – è quella di riservare la trattazione delle controversie ordinarie ad un ufficio legale interno appositamente costituito (ottenendo, nel contempo, un’economicità complessiva ed una conoscenza degli sviluppi del contenzioso che, parcellizzando gli incarichi conferiti all’esterno, non vi è[xxxii]; in ogni caso, non deve trattarsi di attività ordinarie, che l’amministrazione può svolgere con le risorse a sua disposizione[xxxiii].
Il conferimento di incarichi esterni, deve rispettare una serie di criteri tra i quali si segnalano i seguenti[xxxiv]:
a) anzitutto deve trattarsi di una controversia che non è gestibile, per qualsiasi ragione, dall’avvocatura interna;
b) in secondo luogo, deve trattarsi di un incarico di consulenza o di affidamento di una difesa in sede giudiziale che presupponga particolare specializzazione;
c) in terzo luogo, non deve comportare una spesa incongrua rispetto ai tariffari esistenti tenuto conto della complessità e specializzazione dell’incarico stesso.
Laddove manchino questi presupposti, potrà inverarsi un caso di responsabilità amministrativa a carico degli amministratori dell’ente che hanno conferito l’incarico, non, in linea di principio, del libero professionista, il quale accetta l’incarico e lo esegue sulla scorta di un contratto stipulato con l’ente.
Una ipotesi particolarmente rilevante è quella costituita dagli avvocati consiglieri dell’Ordine professionale i quali abbiano apposto il visto obbligatorio ad una parcella, consentendo al richiedente di ottenere un pagamento spropositato a danno dell’ente al quale la parcella è stata poi presentata[xxxv]. Altra ipotesi di responsabilità amministrativa a carico di un avvocato libero professionista sta nell’appropriazione di somme frutto di esecuzioni immobiliari curate su delega del giudice[xxxvi].
In linea di principio, dunque, resta ferma l’esclusione, nelle ipotesi “ordinarie”, della giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei liberi professionisti.
4. Il caso dei danni arrecati dal libero professionista all’ordine professionale
Gli ordini professionali sono enti pubblici economici ad appartenenza necessaria.
Ai sensi dell’art. 24 c. 3 della legge n. 247/2012 “il CNF e gli ordini circondariali sono enti pubblici non economici a carattere associativo istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela della utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale. Essi sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della giustizia”.
Il tema della responsabilità – se civile o amministrativo-contabile - si pone per gli Avvocati facenti parte dei consigli degli ordini professionali o anche delle casse previdenziali.
Ciò pone un primo problema, concernente la natura giuridica di tali enti.
Che si tratti di enti pubblici non economici ad appartenenza necessaria è fuor di dubbio. Ai sensi dell’art. 24 c. 3 della legge n. 247/2012, essi sono “istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela dell’utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale”. A parte queste nobili finalità, altresì, “sono dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria, sono finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti, determinano la propria organizzazione con appositi regolamenti, nel rispetto delle disposizioni di legge, e sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministro della Giustizia”.
Il quadro testé tratteggiato evidenzia una posizione “ibrida”, in quanto, da un lato gli ordini professionali perseguono finalità pubblicistiche e di chiara matrice costituzionale, dall’altro lato, sono dotati di una notevole autonomia, soprattutto sul piano patrimoniale e finanziario. Tutti i mezzi di finanziamento derivano sostanzialmente dalle diverse tipologie di contributo versate dagli iscritti, le quali, però, sono obbligatorie in quanto direttamente collegato all’esercizio dell’attività professionale. Tali contributi, peraltro, sono riscossi coattivamente tramite ruoli, quindi utilizzando procedure che, in caso di controversia, innestano – come pacificamente affermano le Sezioni Unite della Cassazione e lo stesso Consiglio Nazionale Forense[xxxvii] – la giurisdizione tributaria.
Si tratta di elementi in una certa misura contraddittori, che parrebbero suggerire, in capo agli ordini professionali, un ruolo analogo quello delle pubbliche amministrazioni, con tutte le conseguenze che ne derivano in materia di personale (assunzioni, licenziamenti, mobilità e relative controversie giurisdizionali), di uso delle procedure di evidenza pubblica in genere per gli acquisti di beni e servizi, l’applicazione delle norme in tema di procedimento amministrativo ed anticorruzione, consentendo di ipotizzare la giurisdizione contabile in capo agli avvocati-consiglieri per i danni arrecati all’ordine in tale veste.
In realtà, la giurisdizione della Corte dei conti per i danni discendenti dall’attività degli avvocati componenti dei consigli dell’ordine (o della cassa) è stata oggetto di un dibattito che ha impegnato la giurisprudenza e la dottrina più accreditata.
In giurisprudenza la casistica segnala la riconosciuta responsabilità amministrativa degli organi dei consigli per ammanchi di cassa, derivanti dall’omesso versamento di contributi ad un dipendente (da cui il pagamento di interessi moratori e delle connesse spese), dal mancato versamento dei contributi da parte degli iscritti, dall’attribuzione di consulenze in violazione dei vincoli posti, in particolare, dall’art. 7 della l.n. 165/2001 e così via.
A questi si aggiungano il cattivo uso dei beni, come anche la loro gestione infruttifera, il percepimento di rimborsi spese non dovuti perché non riferibili ad attività istituzionali, l’acquisto di forniture senza procedura di evidenza pubblica, i danni da lite temeraria dovuta al mancato esercizio dell’autotutela quando questo ragionevolmente si imponeva, il cattivo uso del potere disciplinare nei confronti di un avvocato palesemente inidoneo, il quale, con evidente imperizia, abbia recato danno a terzi senza che l’ordine, pur a conoscenza di questa deprecabile condizione, sia mai intervenuto.
Il dibattito ha trovato un significativo momento a seguito dell’orientamento manifestato nel 2013 dalla sezione giurisdizionale per il Veneto, dal quale è discesa l’esclusione della giurisdizione della Corte dei conti in presenza di un indebito conferimento di incarichi esterni[xxxviii].
In particolare, tale sezione ha ritenuto mancare, nella specie, la natura pubblica delle risorse impiegate (e potenzialmente distratte), pur in presenza di una attività resa da un ente pubblico, mettendo in crisi il criterio oggettivo per radicare la giurisdizione contabile, sostenuto da due presupposti fondamentali: la natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse impiegate. Secondo la sezione Veneto mancherebbe, in specie, il secondo presupposto, trattandosi di contributi provenienti da soggetti privati, in totale assenza di finanziamenti pubblici, escludendo, così, la possibilità di parlare di danno erariale.
Tale orientamento è stato ribaltato in sede d’appello nel 2016 e poi ha trovato nel 2019 l’avallo della Cassazione sul rilievo che, in realtà, i contributi privati hanno una destinazione pubblicistica, date le finalità degli ordini professionali, tenuto conto che la stessa attività libero-professionale presuppone necessariamente l’iscrizione all’albo[xxxix]. Peraltro, si tratta, come si è anticipato, di contributi obbligatori rispetto ai quali è ammessa la riscossione coattiva tramite ruoli, incardinando la giurisdizione tributaria.
La III Sezione Centrale ha rimarcato la natura pubblica dell’ente, del suo patrimonio e dei fini perseguiti, rilevando che la natura privata dei contributi percepiti non va risolta solo alla stregua dell’autofinanziamento per finalità, appunto, private, ma si riversa e si risolve in una prospettiva teleologicamente orientata al bene pubblico, al corretto esercizio della funzione giurisdizionale, alla tutela del diritto alla difesa, ma anche alla stessa tenuta degli albi ed all’esercizio del potere disciplinare ed a tutta una serie di attività la cui desinenza pubblicistica è fuor di dubbio.
5. Conclusioni
Gli avvocati sono, in misura correlata al proprio ruolo ed alla concreta attività espletata, soggetti alla responsabilità amministrativa, e con essi, a certe condizioni, i componenti dei loro ordini professionali, rispetto ai quali – sia detto per incidens – parrebbe esclusa la funzione di controllo contabile in ragione della non appartenenza alla c.d. “finanza pubblica allargata” trattandosi di risorse di provenienza privata.
L’esperienza giurisdizionale, con le sue concrete latitudini e la indubbia tassonomia, può essere ricomposta sulla scia di alcune traiettorie fondamentali, sulle quali è necessario discutere evitando petizioni di principio “innocentiste” o “giustizialiste”, sia nell’inverarsi delle responsabilità, sia nell’estendere la giurisdizione contabile.
Il rischio non è da poco, né può dirsi che la classe forense, attualmente, conosca una stagione particolarmente felice per numerose e ben note questioni irrisolte, dall’esame di abilitazione, ai costi dell’accesso alla professione, ad un mercato estremamente complicato da parcellizzazioni esasperate come dalla presenza di grossi studi associati in grado di assorbire le quote più interessanti di mercato (in modo del tutto legittimo, sia chiaro), dagli obblighi contributivi piuttosto onerosi anche per i neo iscritti.
Si consideri, infine, anche il rapporto con la Magistratura – non sempre felicissimo – la stretta fiscale (si parla dei regimi agevolati) ed i costi fissi dei giudizi (ad es., il contributo unificato, soprattutto in sede di giurisdizione amministrativa), nonché la disciplina in tema di condanna alle spese che assume a volte dimensioni eccessive e spropositate per il semplice fatto della soccombenza, persino quella virtuale.
Quanto si è andato osservando, dunque, va letto in un contesto maggiormente ampio, che concerne lo stato e le prospettive dell’avvocatura, del suo ruolo, quale soggetto impegnato nella corretta esplicazione della funzione giurisdizionale e della giustizia in senso lato. La caleidoscopica varietà della casistica, di cui si è dato solo un cenno, conduce ad essere prudenti nell’attribuzione di responsabilità che discendano meramente dall’esito dei giudizi e non da palesi sviste professionali, ferma restando l’evidente disparità con gli appartenenti all’ordine magistratuale, la cui responsabilità è assai vaga e rarefatta.
Non si invocano responsabilità per altri, ovviamente, ma è bene che il quadro sia compiuto secondo logiche di sistema e non affidate ad interventi estemporanei della giurisprudenza civile o contabile. Sono in gioco, infatti, l’autonomia e la professionalità degli avvocati – siano essi dipendenti di enti pubblici o liberi professionisti – ai quali deve essere consentito di svolgere gli incarichi conferiti con la debita serietà e serenità.
[i] A. Monorchio-L. Mottura, Compendio di contabilità dello Stato, Bari 2021, 455 ss.; AA.VV., La pubblica Amministrazione (Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso: artt.97-98), Bologna 1994; F. Tigano, Corte dei conti e attività amministrativa, Torino 2008, 117 ss.; AA.VV., Potere discrezionale e controllo giudiziario, a cura di V. Parisio, Milano 1998; AA.VV., Buon andamento della pubblica amministrazione e responsabilità degli amministratori, Milano 1985; AA.VV., Il nuovo processo davanti alla Corte dei conti. Commento sistematico al codice della giustizia contabile (D.Lgs. n. 174/2016), come modificato dal D.Lgs. n. 114/2019), a cura di A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo, Milano 2021.
[ii] F.G. Scoca, Fondamento storico ed ordinamento generale della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa, in Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme), Milano 2006, 37 ss.
[iii] Ci si riferisce, in specie, all'art. 17, comma 30-ter, decreto legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102 e modificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), decreto legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141.
[iv] Cfr. legge n. 29 luglio 2021, n. 108 (G.U. n. 81 del 30 luglio 2021), che ha convertito con modificazioni il decreto legge 31 maggio 2021, n. 77; in proposito, L. Carbone, Riflessioni a prima lettura dopo il c.d. 'decreto semplificazioni', in Federalismi n. 30 del 4.11.2020, in www.federalismi.it.
[v] F. Tigano, Efficienza amministrativa, principio di buon andamento e ruolo della Corte dei conti, in AA.VV., La cultura del controllo indipendente nell'ordinamento italiano, a cura di R. Scalia, Bari 2020, 123 ss.
[vi] A. Buscema, Il ruolo di garanzia della Corte dei conti e il sistema camerale (lectio magistralis), in www.corteconti.it.
[vii] Pubblicazione fondamentale sull'argomento, AA.VV., L'avvocato e le sue quattro responsabilità, a cura di V. Tenore, Napoli 2014, passim. Ad essa si deve buona parte delle seguenti riflessioni.
[viii] Cons. Stato, V, 27 gennaio 2016 n. 279: “Il professionista privato incaricato dalla P.A. deve ritenersi inserito in modo continuativo, ancorché temporaneo, nell'apparato organizzativo della P.A., tutte le volte in cui, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali, contribuisca ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali e, cioè, tutte le volte in cui la relazione tra l'autore dell'illecito e l'ente pubblico danneggiato integri un rapporto di servizio in senso lato. La nozione di rapporto di semplice servizio (in senso lato) è quindi configurabile tutte le volte in cui il soggetto, persona fisica o giuridica, benché estraneo alla P.A., venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della medesima P.A., nella cui organizzazione, perciò, si inserisce, assumendo particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali, cui l'attività medesima, nel suo complesso, è preordinata”.
[ix] Corte conti, sez. giur. Emilia Romagna, 30 aprile 2020 n. 40, in www.corteconti.it.
[x] Corte conti, s.g. III appello, 28 luglio 2016 n. 366 (riforma decisione Corte conti, Veneto, 12 giugno 2013 n. 199).
[xi] Tar Campania, Sa, sez. II 28 maggio 2015 n. 1197.
[xii] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 febbraio 2015 n. 937: “Gli avvocati dipendenti di enti pubblici, iscritti nell’albo speciale annesso all’albo professionale, sono abilitati al patrocinio esclusivamente per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera, onde la cessazione del rapporto di impiego (per morte, dimissioni o pensionamento), determinando la mancanza di legittimazione a compiere e a ricevere atti processuali relativi alle cause proprie dell’ente, comporta il totale venir meno dello “ius postulandi” per una causa equiparabile a quelle elencate dall’art. 301 cod. proc. civ., con conseguente interruzione dei processi in cui gli stessi siano costituiti, non potendosi equiparare l’ufficio legale di un’amministrazione pubblica all’Avvocatura dello Stato dotata "ex lege" di mandato collettivo”.
[xiii] Tar Friuli Venezia Giulia, Ts, sez. I, 4 gennaio 2017 n. 3; Tar Campania, Na, sez. V, 24 gennaio 2013 n. 547 sanziona il caso in cui sia introdotto l’uso del badge anche per gli avvocati degli enti locali: “E’ illegittima la delibera con la quale un Comune ha disposto la rilevazione automatica delle presenze anche per i dipendenti avvocati, esistendo un’incompatibilità logica e strutturale fra le mansioni implicate dal profilo professionale degli avvocati dipendenti del Comune e il sistema automatico di rilevazione fondato sul cd. "badge" che è stato loro fornito, dato che tale sistema si risolve, quanto meno in astratto, (anche al di là delle intenzioni di chi decide di adottarlo), in uno strumento idoneo obiettivamente a introdurre una limitazione dei profili di autonomia professionale e di indipendenza che vanno invece riconosciuti alla figura dell’avvocato, per prassi amministrativa, dalla costante giurisprudenza e soprattutto nel rispetto della vigente legislazione”; in proposito, anche Tar Lazio, sez. IIIq, 14 giugno 2019 n. 7713: “L’attività degli avvocati, anche se pubblici dipendenti, è soggetta a scadenze e ritmi di lavoro che sfugge alla potestà organizzativa delle Amministrazioni, dipendendo dalle esigenze dei processi in corso nei quali essi sono impegnati, l’esercizio dell’attività di avvocato pubblico comportando, infatti, operazioni materiali (precipuamente procuratorie) ed intellettuali (esemplificatamente studio della controversia e predisposizione delle difese) necessitate dai tempi delle scadenze processuali e proiettate all’esterno, direttamente ascrivibili alla responsabilità del professionista che le svolge; ne deriva che il principio da tenere fermo è che gli avvocati dipendenti da Enti Pubblici, nell’esercizio delle funzioni di rappresentanza e difesa giudiziale e stragiudiziale dell’Amministrazione, in attuazione del mandato in tal senso ricevuto, sono dei professionisti i quali non possono essere costretti ad un’osservanza rigida e rigorosa dell’orario di lavoro alla stessa stregua degli altri dipendenti, senza tenere conto della peculiarità dell’attività da loro svolta”.
[xiv] Tar Basilicata, sez. I, 11 ottobre 2014 n. 728.
[xv] Sulla distinzione tra indennizzo e risarcimento da ritardo, v. Tar Campania, Na, sez. V, 12 aprile 2021 n. 2346; sui presupposti (insufficienza solo annullamento provvedimento lesivo), Tar Lombardia, Bs, sez. I, 22 giugno 2020 n. 465; emblematico, Tar Lazio, Rm, sez. III stralcio, 13 gennaio 2020 n. 280.
[xvi] M. Trimarchi, L'inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli 2018; C. Napolitano, L'autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli 2018.
[xvii] C. Rizzo, Prime osservazioni sul nuovo abuso d’ufficio, in Federalismi, n. 14 del 21.6.2021, in www.federalismi.it; S. Perongini, L'abuso d'ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020, Torino 2020.
[xviii] F. Tigano, Inquadramento della responsabilità amministrativa, in AA.VV., Le responsabilità in ambito sanitario, a cura di G. Vecchio, S. Aleo, R. De Matteis, II, Milano 2014, 909 ss.
[xix] Molto puntuale ed interessante, da questo punto di vista, Corte conti, sez. contr. Lombardia n. 108/2018/PAR, la quale richiama la costante giurisprudenza in materia, i limiti ed i presupposti per la stipula delle transazioni:
"- i limiti alla stipulazione della transazione da parte di enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell'ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell'oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione. Sotto quest'ultimo profilo va ricordato che, nell'esercizio dei propri poteri pubblicistici, l'attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell'interesse intestato all'ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l'esercizio del potere dell'Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell'interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell'azione amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell'oggetto della stessa spetta all'Amministrazione nell'ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l'azione amministrativa. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell'ammissibilità della transazione è necessaria l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all'oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1966, co. 2 cod. civ.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E' nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge. In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (cfr. Sez. Lombardia n. 1116/2009 cit.);
- requisito essenziale dell'accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell'art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico".
[xx] G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino 2003; F. Tigano, Commento all'art. 11, in AA.VV., Codice dell'azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano 2017, 654 e ss.
[xxi] F. Tigano, Indennizzo “reale” ed attività espropriativa nel caleidoscopio dei poteri ablatori. Il punto delle Sezioni Unite, in Giustiziainsieme.it.
[xxii] Tar Piemonte, sez. I, 12 settembre 2016 n. 1139.
[xxiii] Sul punto, di recente, AA.VV., La responsabilità dirigenziale tra diritto ed economia, a cura di M. Immordino e C. Celone, Napoli 2020; V. Tenore, Profili ricostruttivi della responsabilità amministrativo-contabile dell’avvocato pubblico dipendente o del libero foro, in www.lexitalia.it.
[xxiv] Cfr., Decreto Min. Giustizia 1 ottobre 2020 n. 163 “Regolamento concernente modifiche al decreto del Ministro della giustizia 12 agosto 2015, n. 144, recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, ai sensi dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
[xxv] B. Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non»: Cassazione civile, sez. III, sentenza 14/11/2017, n. 26824, in Foro It., n. 2/2018, 562 ss.
[xxvi] SS.UU., 19 gennaio 2018 n. 1408.
[xxvii] SS.UU., 15 marzo 2017 n. 6820.
[xxviii] Legge 8 marzo 2017, n. 24; in tema, AA.VV., Responsabilità sanitaria, a cura di S. Aleo, P. D’agostino, R. De Matteis, Milano 2018.
[xxix] G. Bottino, Rischio e responsabilità amministrativa, Napoli 2017.
[xxx] SS.UU., 12 aprile 2012 n. 5756.
[xxxi] Cfr. Delibera ANAC 24 ottobre 2018 (G.U. n. 264 del 13 novembre 2018), Linee guida n. 12 recanti “Affidamento dei servizi legali” (Delibera n. 907).
[xxxii] Si veda, tuttavia, Tar Campania, Sa, sez. II, 16 luglio 2014 n. 1383.
[xxxiii] Corte dei Conti, Sez. II centr. App., 16 maggio 2022 n. 222; notorio il c.d. “Caso Alemanno”, laddove Corte dei conti, s.g. Lazio, con sentenza 29 maggio 2017 n. 124, si è espressa nei seguenti termini: “Sussiste la responsabilità amministrativa nei confronti del Sindaco di un Comune che ha conferito incarichi giudiziali a legali esterni, pur in presenza di un ufficio legale interno, senza una preventiva – seria e concreta - verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni regolamentari e più in generale, da norme di legge ordinaria, dovendo l’incarico essere adeguatamente motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del dirigente competente, sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”; così anche il c.d. “caso Formigoni”, laddove Corte dei conti, s.g. Lombardia 4 luglio 2017 n. 102 ha parimenti affermato: ” Sussiste la responsabilità amministrativa dei componenti della Giunta regionale per la decisione di avvalersi, per un giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, di un legale esterno, atteso che tale scelta appare ultronea, considerato che l’Avvocatura regionale annoverava, all’epoca dei fatti in contestazione, ben diciassette Avvocati di ruolo di cui sette abilitati al patrocinio in Cassazione, fra cui anche i due Avvocati che furono poi effettivamente impiegati oltre al legale esterno per il ricorso in Cassazione”.
[xxxiv] Tar Calabria, Cz, sez. I, 28 settembre2016 n. 1879; Tar Campania, Na, sez. V, 30 marzo 2020 n. 1301, nel ribadire l’autonomia organizzativa dell’Ufficio legale, precisa: “Anche se è vero che l'attività delle amministrazioni deve essere ordinariamente svolta dai propri organi e uffici, tuttavia sussiste la possibilità di far ricorso a professionalità esterne sia pure esclusivamente nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi e situazioni straordinarie non fronteggiabili con le disponibilità tecnico-burocratiche esistenti. In particolare, il conferimento di un incarico legale ad un professionista esterno deve tener conto sia dell'esistenza o meno di un ufficio legale interno ma soprattutto della qualificata prestazione da rendere in giudizio in relazione alla particolare complessità della questione controversa; l'accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi, da compiersi in via preventiva da parte del soggetto pubblico conferente, devono evidenziarsi nella motivazione della delibera di conferimento dell'incarico, che puntualmente deve riportare le ragioni della scelta compiuta”.
[xxxv]Laddove, invece, il visto non sia obbligatorio la giurisdizione contabile non si radica; cfr. Corte conti, s.g. Friuli Venezia Giulia, 17 gennaio 2013 n. 2.
[xxxvi] Quanto alla differenza strutturale e funzionale tra avvocati degli enti pubblici e professionisti privati, il Consiglio di Stato, sez. VI, 23 dicembre 2016 n. 5448, osserva quanto segue: “Sussistono varie differenze tra avvocati dipendenti da enti pubblici ed avvocati del libero foro, atteso che mentre questi ultimi, sul piano strutturale, stipulano con i clienti un contratto di prestazione d’opera professionale che è retto interamente dalle regole di diritto privato, con conseguente responsabilità secondo i principi civilistici, gli avvocati degli enti pubblici, invece, stipulano, da un lato, un contratto di lavoro con l’ente pubblico, in veste di datore di lavoro, che li inserisce, con qualifiche di funzionario o dirigente, nell’organizzazione dell’ente, dall’altro, un contratto di prestazione d’opera professionale con il medesimo ente pubblico, in veste di “cliente unico”, con il quale viene conferito, secondo modalità dipendenti dalla tipologia di Ente che viene in rilievo, incarico di svolgere una determinata attività difensiva. Sul piano funzionale, l’attività che gli avvocati degli enti pubblici pongono in essere deve essere eseguita in piena autonomia al fine di assicurare il rispetto delle regole che operano per tutti gli avvocati, con la conseguenza che non sono ammesse interferenze da parte dell’Ente “cliente” in grado di condizionare le scelte difensive da assumere, ferma la responsabilità dell’avvocato secondo le regole generali nei confronti del rappresentante legale dell’Ente medesimo. Un secondo ambito attiene al contenuto “esterno” dell’attività e cioè al suo inserimento nell’ambito della complessiva organizzazione pubblica, in relazione alla quale l’Ente “datore di lavoro” conserva i suoi poteri privati e pubblici volti ad assicurare, mediante ad esempio la previsione di un orario di servizio, l’inserimento coordinato dell’attività svolta dall’avvocato nell’ambito della propria organizzazione, che rispetti sempre il proprium dei compiti assegnati”.
[xxxvii] Cfr. Parere del Consiglio Nazionale Forense reso nell’adunanza del 15 dicembre 2017.
[xxxviii] Cfr. Corte dei conti, s.g. Veneto, 12 giugno 2013 n. 199.
[xxxix] Cfr. Corte dei conti, sez. centr. App. 28 luglio 2016 n. 366 e SS.UU., 26 giugno 2019 n. 17118.
Motivazione giurisdizionale e cultura condivisa*
di Pierpaolo Gori
1. Ringrazio molto Area DG per aver organizzato questo workshop sulla motivazione e il suo ruolo servente alla giurisdizione, cui mi è stato chiesto di partecipare, forse anche per il mio ruolo passato di ufficiale distaccato presso la divisione della ricerca della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
2. Ho aderito all’invito molto volentieri, così come con il medesimo spirito ho partecipato attivamente al gruppo di lavoro che, a partire dall’autunno scorso, facendo tesoro dell’insegnamento della giurisprudenza della Corte EDU e in particolare della sentenza Succi c. Italia, ha prodotto con numerosi validissimi colleghi un elaborato collettivo sulla motivazione delle decisioni della Corte di Cassazione, i cui risultati di contenuto tecnico sono stati messi a disposizione della Prima Presidenza e della Ges dell’ANM presso la Corte.
3. Tengo particolarmente a sottolineare come, pur non iscritto ad alcuno dei gruppi fondatori di Area DG, né Magistratura Democratica né Movimento per la Giustizia, cerco costantemente di offrire il mio apporto all’elaborazione associativa, anche di tutta l’ANM, nei limiti del tempo lasciato dalle funzioni di Consigliere presso la Corte, perché credo che solo un ragionamento ampio tra colleghi, ulteriormente esteso ad autorevoli esponenti dell’Accademia e dell’Avvocatura possa consentire il raggiungimento di risultati condivisi, tra l’altro, in questa materia.
4. C’è un ponte in Cina chiamato comunemente “Il ponte di Marco Polo”. Ormai molti anni fa alcuni amici cinesi della Beida (۹य़ o Università di Pechino) me ne parlarono, in occasione di un breve saluto in quella splendida città, e mi narrarono di una leggenda popolare del posto che ha ispirato anche un celebre passo de “Le città invisibili” di Italo Calvino.
5. Lo scrittore, riprendendo l’episodio della tradizione, narra che Marco Polo stia descrivendo pietra per pietra quel ponte di accesso alla capitale imperiale Khanbaliq. Kublai Kan gli chiede qual è la pietra che sostiene il ponte e Marco risponde che il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra,bensì dalla linea dell'arco che esse formano.
6. Allora Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo, e soggiunge:
“Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.”.
Tale è la motivazione giurisdizionale, un insieme di “pietre-parole” idonee e sufficienti a comporre l’arco argomentativo che, attraverso il fatto e le ragioni della decisione, è chiamato a sorreggere il dispositivo finale. È un percorso di trasparenza che attraversa il momento, segreto, in cui viene presa la decisione, e sorregge la modalità tipica in cui si esprime la funzione giurisdizionale. La giurisprudenza della Corte EDU individua nella motivazione il fulcro della libertà di espressione del magistrato inteso come funzione giudiziaria, e del suo rapporto tra trasparenza e rendicontabilità delle decisioni assunte nel contesto istituzionale.
7. Non c’è una locuzione che, da sola, sia idonea a sorreggere l’intero ragionamento di una sentenza. Al tempo stesso, leggendo come giudice di legittimità molte decisioni giurisdizionali impugnate, capita non di rado di imbattersi in un eccesso quantitativo di elementi argomentativi non necessari e talvolta non coerenti tra loro, inidonei nel loro complesso a costruire la pulita linea dell’arco motivazionale, così che possa essere compreso sia dal professionista che dal cittadino che legge la sentenza.
8. La continenza del linguaggio è un altro aspetto che suggerisce una scelta funzionale delle pietre necessarie per sorreggere l’”arco”, e si nutre del profondo rispetto per il ruolo professionale svolto l’Avvocatura, tanto quella dello Stato che del libero foro e della persona che concretamente ha articolato il ricorso, al meglio delle sue possibilità quali offerte dal singolo cliente, anche quando permette chiaramente di individuare un tentativo di difesa dal processo oltre che nel processo.
9. Non può essere minimizzata, anche in questa prospettiva, l’importanza dell’interlocuzione con la difesa, funzionale alla stessa efficiente strutturazione della motivazione. Innanzitutto l’Avvocatura è prezioso specchio della funzione giurisdizionale, in cui il ragionamento del Collegio giudicante e ancor più del Giudice unico si alimenta delle ragioni addotte dalle parti: si pensi al caso delle sempre più frequenti ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia o alle questioni incidentali di costituzionalità, per le quali si rinvia alla rassegna periodica delle ordinanze interlocutorie della Corte pubblicata dall’Ufficio del Massimario. Sia consentito anche un cenno al Protocollo n.16 di emendamento della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la cui mancata ratifica preclude all’Italia - a differenza di altri Paesi con analoga civiltà giuridica come la Francia - la possibilità di inviare a Strasburgo richieste di interpretazioni pregiudiziali che potrebbero incidere sulla motivazione in modo significativo, non solo in termini passivi come alcuni interpreti paventano, esattamente come il dialogo e il linguaggio non sono mai unidirezionali e la domanda stessa condiziona la risposta.
10. La collaborazione con l’Avvocatura sta svolgendo poi un ruolo centrale per il lento decollo del Desk, il processo telematico di legittimità, il quale è ancora largamente migliorabile anche raccogliendo alcuni suggerimenti di un gruppo di sperimentazione sviluppato dalla stessa Area DG in composizione mista avvocati-magistrati di cui ho avuto la fortuna di far parte, e riflettenti due visioni del medesimo applicativo che necessariamente devono completarsi a vicenda. Si pensi alla necessità, non ancora prevista dal Desk di consentire il deposito telematico anche dei provvedimenti di rinvio a nuovo ruolo, di quelli di riunione dei ricorsi connessi e in decisione contestuale, degli stessi statini delle udienze e adunanze celebrate, tutte funzionalità non ancora implementate. Ciò spiega il perché la fase sperimentale di deposito dei provvedimenti dal lato magistrato non si sia ancora conclusa ad oltre un anno dal suo inizio.
11. È stata inoltre significativa, anche in chiave di collaborazione e facilitazione dell’adempimento motivazionale da parte del giudice, l’importanza dei protocolli d’intesa conchiusi con l’Ordine forense e l’Avvocatura dello Stato per affrontare la fase dell’emergenza Covid - che si spera superata, ma senza certezza - e la stessa assenza di un PCT di legittimità interamente affidabile per il settore civile e a maggior ragione per il penale, lacune colmate anche grazie alla trasmissione via pec di atti di parte (auspicabilmente files pdf editabili e non mere immagini) caricati su Microsoft Teams a disposizione del collegio giudicante.
Infine, non può essere dimenticato il particolare meccanismo di accesso alla Corte di Cassazione che consente anche ad autorevoli professionisti e docenti universitari di entrare nel consesso di legittimità offrendo il loro qualificato apporto, un onore ma anche un onere vista la complessa e gravosa attività giurisdizionale da svolgere e di cui dare conto in primo luogo attraverso la motivazione.
12. Sulla linea di sviluppo di questa sinergia credo si debba investire energie e intelligenze, con maggiore convinzione e, soprattutto, nel rispetto reciproco, al fine di rafforzare il più possibile quella comune cultura giurisdizionale che da tempo si sta sfilacciando, lasciando spazio a troppe tensioni tra Avvocatura e Magistratura, acuite anche dalla crisi economica e sanitaria vissute negli ultimi anni.
La cultura condivisa e il rispetto reciproco sono infatti “pietre” necessarie - non meno di dotte locuzioni intrinseche alla motivazione scritta - perché possa esistere l’”arco”: sono il presupposto perché la lettura di qualsiasi argomentata decisione giurisdizionale possa essere effettivamente convincente e percepita come servizio efficace dello Stato anche quando inevitabilmente sgradita, per il cittadino e presso la sua difesa.
*Il testo riproduce l’intervento svolto al convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialogo a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da AreaDg Cassazione.
I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato: le origini e le evoluzioni del sistema antimafia*
di Giovanni Melillo
Saluto e ringrazio la Ministra della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la SSM e quanti contribuiscono con la loro partecipazione ai lavori di un corso così importante, poiché votato ad un ampio confronto sui tratti essenziali di una trentennale esperienza di contrasto della criminalità organizzata.
Avendo da pochi giorni assunto le funzioni di PNAA, dico subito che sono grandemente interessato ad ascoltare le tante e autorevoli voci raccolte attorno a quel progetto.
Seguirò attentamente, dunque, le varie sessioni del Corso, per trarne indicazioni utili al lavoro che a mia volta ho appena iniziato e che, come tutte le imprese umane appena complesse, abbisogna innanzitutto e soprattutto di ascolto.
Dallo sviluppo del dibattito verranno, infatti, indicazioni importanti anche nella prospettiva di lavoro della Procura nazionale, vale a dire dell’istituzione maggiormente dotata di carica innovativa fra quelle progettate per dare corpo, nel breve volgere di pochi mesi (dal marzo 1991, data di nascita dei servizi centrali di polizia, al novembre dello stesso anno, con l’istituzione della D.N.A., delle D.D.A. e della D.I.A.), ad un dispositivo antimafia che i fatti hanno dimostrato, anche in una prospettiva di comparazione europea e globale, essere stato il frutto di una coraggiosa e lungimirante azione riformatrice.
Un’azione riformatrice che complessivamente ruotava attorno ad una fondamentale intuizione di Giovanni Falcone, il quale capì, prima e meglio di tutti, che le indagini in materia di mafia hanno bisogno di una conoscenza profonda della struttura, delle regole e delle dinamiche di quelle organizzazioni criminali.
«In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla» disse Falcone nel novembre del 1988.
Quella intuizione conduceva alla rottura di schemi tradizionali dell’organizzazione giudiziaria e delle sue gerarchie e regole interne.
Al mito del magistrato capace di applicare indifferentemente il diritto ad ogni caso sottoposto alla sua attenzione si sostituiva l’idea che le indagini antimafia, come già si era compreso per quelle sul terrorismo, possono essere condotte solo da magistrati capaci di comprendere e analizzare fenomeni criminali complessi.
L’architettura normativa delle funzioni del pubblico ministero si arricchiva così di nuovi e pregnanti concetti: la tempestività e la completezza delle investigazioni, l’effettività del coordinamento investigativo e della relativa, eteronoma funzione di garanzia, la funzionalità dell’impiego della polizia giudiziaria, la raccolta, l’analisi e l’elaborazione delle informazioni attinenti alla criminalità organizzata e l’intero complesso degli strumenti di orientamento e alimentazione delle indagini cui fu presto dato il nome di pre-investigazioni.
Non stupisce, pertanto, che, al di là delle stesse, laceranti polemiche che segnarono l’istituzione della D.N.A., la stessa concentrazione della legittimazione investigativa in capo alle sole procure distrettuali e per esse alle direzioni distrettuali antimafia fosse circondata da diffidenza e pregiudizio.
Non dimentico che, nel 1993, la prima circolare del CSM sull’organizzazione delle DDA fissò in soli sei anni il termine massimo di permanenza in tali strutture dei suoi magistrati e che tanto si motivava nella relativa delibera adducendo il timore della “formazione di centri di potere” e di “pericolose incrostazioni”.
In quel momento, per chi, come me, lavorava in una d.d.a., quelle parole apparivano incomprensibili.
Tant’è. Il sistema originato dalla legislazione del 1991 rivelò immediatamente, sia pure con non poche asimmetrie, obiettiva capacità di efficace interpretazione del ruolo del p.m. disegnato dall’allora nuovo codice di rito.
Divenne presto chiaro, in particolare, che l’effettività del coordinamento investigativo era essenziale per evitare di pagare un prezzo elevatissimo in termini di incisività delle indagini relative ai più gravi fenomeni criminosi, ma anche di credibilità del sistema giudiziario.
Dunque, specializzazione estrema del lavoro giudiziario, quale condizione del governo razionale di tecniche investigative sempre più sofisticate.
Ma anche possesso di profonde conoscenze interdisciplinari, aprendosi il bagaglio culturale del magistrato al sapere sociologico e economico, necessario alla comprensione di fenomeni e dinamiche criminali complessi, sempre più proiettati su scala transnazionale e perciò bisognosi di un’intensa azione di cooperazione internazionale, sviluppata attorno ai medesimi cardini del coordinamento investigativo interno: la condivisione tempestiva delle informazioni e delle analisi e la capacità di efficace concertazione delle diverse, autonome iniziative.
Profetica fu l’attenzione riservata nel pensiero di Falcone al valore cruciale delle tecnologie poste al servizio delle indagini.
Alle norme del 1991, infatti, si deve l’introduzione nel codice del concetto di banche dati.
Un valore, quello delle tecnologie, ancor più decisivo oggi, nel tempo dell’Intelligenza Artificiale, destinato a determinare la trasformazione delle categorie del diritto penale classico, ma anche a divenire strumento formidabile di prevenzione e repressione di condotte criminali del tutto nuove.
Un terreno, quello attraversato dalle tecnologie impiegate a fini investigativi, tanto delicato, anche per la sorte delle garanzie individuali, quanto cruciale e perciò bisognoso di consapevoli e unitari approcci organizzativi degli uffici del pubblico ministero.
Soprattutto in questo ambito, infatti, alla subalternità cognitiva del pubblico ministero corrisponde un obiettivo rischio di svuotamento della funzione di direzione delle indagini che la legge gli assegna. Non poche, recenti vicende processuali offrono emblematica rappresentazione della concretezza di quel pericolo.
Quelle medesime categorie concettuali - specializzazione, interdisciplinarietà, capacità di governo delle tecnologie e di proiezione internazionale delle indagini – conservano tutto il loro fondamentale valore per affrontare le sfide che abbiamo di fronte.
Ma sono strumenti essenziali anche per preservare e valorizzare il nucleo originario della missione dell’ufficio che ho assunto la responsabilità di dirigere.
Perdonerete, se il mio intervento introduttivo esigerà ancora qualche minuto, ma l’occasione è importante anche per offrire, innanzitutto ai procuratori distrettuali, alcune osservazioni utili ad una prima definizione delle linee di orientamento futuro dell’azione della D.N.A., come tali suscettive di poter divenire immediatamente oggetto di confronto con i magistrati delle procure distrettuali.
Non nasconderò, infatti, il mio convincimento che occorra costruire un rapporto nuovo con gli uffici distrettuali.
Un rapporto che deve ispirarsi ad una visione orizzontale dei rapporti di coordinamento, lontana da pulsioni e impronte autoritarie, burocratiche e autoreferenziali, perché basata sulla condivisione di analisi, metodi e obiettivi del lavoro investigativo delle procure distrettuali.
Banalmente, vi è concreto e urgente bisogno:
- di aprire l’organizzazione della DNA alla partecipazione dei magistrati delle procure distrettuali: la sua stessa organizzazione interna non è pensabile, a mio avviso, prescindendo dal confronto con i procuratori distrettuali;
- di ridurre le distanze dal lavoro e dai bisogni delle procure distrettuali,
- di operare il coordinamento partendo dalle strategie investigative degli uffici distrettuali,
- di sostenere le indagini delle procure distrettuali, per estenderne la portata e svilupparne gli obiettivi, ma soprattutto per evitarne l’isolamento cognitivo e la frammentazione, rafforzandone la capacità di individuare le componenti più sofisticate del ciclo criminoso e, nello stesso tempo, impegnandosi a controllare i rischi propri di pericolose frammentazioni.
Dunque, occorre che la Procura nazionale pianti fermamente i piedi nel faticoso terreno delle indagini e dei processi.
In una battuta: meno intelligence e più lavoro giudiziario, negli uffici distrettuali, accanto agli uffici distrettuali, per gli uffici distrettuali, ripudiando ogni visione competitiva ed espansiva del ruolo processuale della DNA, rafforzando l’effettività delle funzioni di impulso e coordinamento investigativo.
In questa prospettiva, appare necessario sia consolidare le esperienze positive che innovare profondamente, nel segno di una funzione di servizio che è propria della giurisdizione e che deve esercitarsi secondo le rigorose logiche della giurisdizione, evitando il rischio di scivolamento in una impropria dimensione di prevenzione criminale lontana dalle concrete prospettive del lavoro delle procure distrettuali.
Esiste, peraltro, io credo, una diffusa e crescente domanda, oserei dire, di maggiore immersione della Procura nazionale nella dimensione operativa delle indagini che impegna e affanna quotidianamente le procure distrettuali.
Una domanda per certi versi paradossale e per altri molto confortante:
- paradossale, perché resiste al pur deciso incremento delle prerogative processuali della Procura nazionale realizzatosi nel tempo;
- confortante, perché ormai sostenuta da una diffusa e matura consapevolezza dell’importanza del ruolo della PN negli uffici distrettuali, superandosi le resistenze e gli ostacoli che, più o meno apertamente, il suo esercizio incontrava in passato.
Le procure distrettuali hanno ormai imparato a lavorare insieme.
Lo dimostra la pratica assenza negli ultimi anni di casi di contrasto, ma soprattutto una comune, costante vocazione a condividere obiettivi e metodi di lavoro, necessaria per isolare e contrastare ogni spinta contraria, di per sé generatrice di aporie, contraddizioni, tensioni e conflitti, tanto incomprensibili all’opinione pubblica quanto capaci di minare la credibilità della nostra azione.
Disponiamo per fortuna di patrimonio di esperienze comuni di straordinario rilievo, come non mancheranno di sottolineare le relazioni affidate ai Procuratori distrettuali, di ieri e di oggi.
Un patrimonio fondamentale per affrontare le sfide poste dalla velocità delle trasformazioni dei fenomeni criminali, su scala regionale e globale.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato.
Una sorta di riflesso della povertà di quelle società.
La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa.
Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”.
Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto.
Avere chiaro questo punto è essenziale per comprendere i nuovi scenari.
Ma anche per esplorare le difficoltà del ragionamento probatorio alle prese con fenomeni in costante trasformazione.
Un’analisi realistica di tali realtà ci indica la necessità di saggiare prudentemente il già visibile rischio di inadeguatezza di non poche categorie del diritto penale classico a riflettere e ad abbracciare ruoli e condotte propri della sempre maggiore complessità dei sistemi di relazioni che ruotano attorno a presenze e interessi prettamente mafiosi.
Sul primo versante, si staglia in tutta la sua impellente necessità, l’importanza di costruire impianti investigativi nutriti dalla consapevolezza della complessità degli scenari relazionali che connotano l’incontro fra organizzazioni mafiose, impresa e mercati e funzioni pubbliche di controllo.
In particolare, emerge l’importanza di adottare modelli interpretativi di quella così complessa realtà idonei a cogliere gli snodi dei reali processi decisionali che governano relazioni sempre più complesse e che sfuggono sovente alle categorie concettuali del delitto associativo.
Molti si affannano a stilare classifiche di pericolosità delle mafie, quasi ci fosse una speculare graduatoria di tollerabilità dei fenomeni mafiosi.
Per questa via si perdono di vista i processi di integrazione dei mercati e di strutture criminali delle quali si è grandemente espansa la dimensione transnazionale.
Anche questo ci aiuta a dire che le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia.
Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale.
A questa idea è indissolubilmente legato il destino dei processi di integrazione europea che anche la drammatica realtà di queste settimane di guerra ci dimostra sempre più necessari ed urgenti: in sintesi estrema, ci aiutano le parole di Mireille Delmas Marty, il superamento della logica della souveraineté solitaire”, in vista della creazione in Europa di una souveraineté solidaire.
Le mafie non sono un’emergenza.
Tanto meno un’emergenza cui alcuni Stati possono guardare con preoccupazione minore.
Esse sono connotazioni strutturali di parte significativa dei processi economici che si realizzano in ambiti nazionali, regionali e globali.
Alle organizzazioni mafiose corrisponde il movimento di autentiche costellazioni di imprese, che continuano a nutrirsi dei profitti delle tradizionali attività illegali, ma che operano nei mercati utilizzando con naturale abilità gli strumenti della frode fiscale e della corruzione, che sono largamente conosciuti e praticati nel mercato e dal mercato.
In altre parole, dinanzi alla pressione esercitata dai flussi di denaro provenienti dai grandi traffici criminali e dalle correlate strategie di reinvestimento speculativo, occorre riconoscere che non siamo in presenza di fenomeni e fattori di oppressione dei mercati legali, quanto di sistemici e raffinati processi di alimentazione finanziaria e di intermediazione relazionale del sistema economico e finanziario di parte significativa dell’Europa.
Da ciò l’importanza di disporre di regole comuni, per ridurre le asimmetrie e le contraddizioni dei sistemi nazionali.
L’efficacia e la maturità del dispositivo antimafia italiano consente di guardare con fiducia alle sfide che abbiamo di fronte. A condizione che siano preservate alcune condizioni del suo efficace dispiegamento.
Il nostro sistema sarà presto chiamato a dare coerente attuazione alla trama di principi delineata dal magistero costituzionale per superare la logica dell’assoluta ostatività delle condanne per delitti di mafia e terrorismo alla concessione di benefici e misure alternative alla detenzione.
Nell’imminenza del varo delle nuove norme, sono dunque necessarie analisi non condizionate da illusioni e pregiudizi, poiché ciò è essenziale per abbandonare le sponde dell’allarme catastrofista, ma anche per conservare consapevolezza che la materia è intrisa di delicati e complessi significati simbolici dei quali occorre tenere il massimo conto, poiché l’efficacia complessiva dell’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo dipende anche dalla difesa di alcuni valori emblematici dell’attuale legislazione.
Una consapevolezza che, tuttavia, non sembra riflessa pienamente nella scelta prefigurata nel testo approvato dalla Camera dei Deputati di prevedere, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, una distinzione fra condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, a seconda che tali delitti siano stati commessi o meno mediante “atti di violenza”.
Sembra quasi un’eco distorta di quelle dottrine d’oltralpe in tema di asilo, in passato invocate per negare all’Italia cooperazione giudiziaria, ma che anche in quei sistemi non hanno mai trovato espressione legislativa.
Soprattutto non posso tacere le mie preoccupazioni sulla capacità del sistema penitenziario e giudiziario di reggere adeguatamente il peso del prevedibile impatto applicativo delle norme oggi prefigurate, in mancanza di urgenti adeguamenti delle infrastrutture tecnologiche, dei sistemi informativi e delle risorse complessivamente disponibili per l’esercizio dei nuovi compiti affidati alla magistratura di sorveglianza.
I dati aiutano a misurare il potenziale impatto applicativo delle nuove disposizioni.
Sono circa 16mila i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis o.p., dei quali circa 10mila condannati definitivamente; di essi circa 13mila sono tali per delitti di cui al primo comma dell’art. 4-bis (dei quali circa 8mila condannati definitivamente), essendo poco più di 1.200 i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis condannati alla pena dell’ergastolo.
Per la sua cronica debolezza strutturale, ben difficilmente il sistema penitenziario potrà rivelare piena e immediata capacità di restituire informazioni qualificate e affidabili sulla condotta inframuraria e gli esiti del trattamento di un tal numero di persone detenute per delitti di mafia.
Soprattutto, ciò che preoccupa è la visione delle reali condizioni di lavoro della magistratura di sorveglianza, alla quale si richiede di assumere una straordinaria responsabilità.
Responsabilità tanto più gravosa se si considera, da un lato, il deciso innalzamento degli oneri motivazionali e, dall’altro lato, la previsione della potestà di disporre (e di valutare) complessi e defatiganti accertamenti patrimoniali, reddittuali e sul tenore di vita delle persone legate al condannato da vincoli familiari.
Certo colpisce che, mentre chi sceglie la collaborazione con la giustizia è tenuto ad integrale e immediata esposizione delle informazioni relative alle proprie ricchezze, per chi sceglie di non collaborare l’accesso ai benefici risulta svincolato da ogni onere di allegazione su un versante invero sovente decisivo per valutare l‘effettiva recisione dei legami criminali.
Soprattutto, le esigenze di garanzia di una corretta ed uniforme attuazione delle scelte legislative che si profilano esigono, in particolare, l’urgente apprestamento presso i tribunali di sorveglianza di interventi di deciso potenziamento delle infrastrutture tecnologiche nonché l’apporto di risorse analoghe a quelle destinate agli altri uffici giudicanti per le attività proprie dell’Ufficio per il processo.
Rispetto alle difficoltà che possono scorgersi attraverso la lente delle concrete condizioni gestionali di quei tribunali, appare di gran lunga meno preoccupante la pur rilevantissima difficoltà delle verifiche e degli adempimenti cui saranno chiamati la procura nazionale e le procure distrettuali, poiché, in ogni caso, quel che dovrà farsi, sarà fatto, e sarà fatto per il meglio, per gravoso che sia.
Anche questo contribuisce a rendere attuale il cruciale valore della relazione fra effettività della giurisdizione e capacità di governo razionale della sua organizzazione.
Una relazione che interroga innanzitutto la visione del lavoro giudiziario di ciascun magistrato, riflettendo quella, più profonda, che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza, ma anche di rigore e compostezza dei comportamenti individuali, imponendosi di tenere distanti da sé la tentazione di presentarsi come depositari dell’etica pubblica e di cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari.
Un peso che rischia di accrescere se venisse data attuazione ad una direttiva di delega contenuta nelle pieghe della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario appena approvata dal Parlamento che mi sembra essere sfuggita all’attenzione generale.
Mi riferisco alla disposizione (art. 1, comma 2, lett. c) che prevede di subordinare l’efficacia dei provvedimenti organizzativi fondamentali degli uffici giudiziari, anche di quelli requirenti - a meno di dover attendere la necessaria approvazione del CSM e, dunque, la positiva conclusione di un procedimento dai tempi assai lunghi - alla condizione che non vi siano osservazioni dei magistrati e che il Consiglio Giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità.
Non credo vi siano altri esempi di organizzazioni umane che subordinino al consenso unanime dei loro componenti la tempestività e dunque la pratica efficacia delle misure necessarie al loro buon funzionamento.
Né credo che una regola del genere sia in grado di assecondare l’adozione delle misure organizzative maggiormente proiettate verso il cambiamento di un sistema, come quello giudiziario, quanto mai bisognoso di rafforzare i propri legami di responsabilità sociale.
Eppure, la storia della magistratura dimostra quanto quei legami siano importanti per l’efficienza e la trasparenza della giurisdizione e persino come e quanto tale importanza sia stata immediatamente chiara anche alle organizzazioni criminali che hanno avuto ragione di temerne la capacità di innovazione organizzativa.
Mi riferisco, in particolare, al lugubre comunicato di Prima Linea, con il quale 42 anni fa veniva rivendicato il feroce assassinio di Guido Galli, additato, testaulamente, come giudice “impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alle necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento e … alla contemporanea, crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere…”.
Si potrebbe dire che anche i terroristi di allora erano un passo avanti a noi, come i mafiosi nella definizione di Falcone che ho prima ricordato e che sarebbe buona cosa non dimenticare mai.
*Intervento introduttivo al Corso della Scuola Superiore della Magistratura, Roma, 20 giugno 2022.
In memoria di Giuseppe Tesauro[1]
di Luigi Salvato
1. Sono grato agli organizzatori del convegno per la possibilità di partecipare al ricordo del prof. Giuseppe Tesauro, a pochi giorni dall’anniversario della sua scomparsa, e, soprattutto – nella certezza che ci starà guardando dall’alto, con il suo sorriso bonario e schietto che traspare dall’immagine riportata nella bella locandina – di ringraziarlo pubblicamente (in privato l’ho fatto molte volte).
Devo ringraziarlo per avermi permesso di collaborare con lui per nove anni, allorché ha svolto le funzioni di giudice e presidente della Corte costituzionale, e quindi, di vivere un’esperienza entusiasmante sotto il profilo professionale. Ma soprattutto, per avermi gratificato di un’esperienza umana bellissima; al rapporto professionale si era infatti affiancato negli anni un rapporto di amicizia.
Ho un solo rammarico: averlo conosciuto troppo tardi ed avere troppo presto perduto un amico.
2. Grato per l’invito, devo confessarvi la difficoltà nel partecipare al ricordo: per ragioni emotive e per almeno tre ulteriori motivi.
Il primo è che i giudizi davanti alla Corte costituzionale sono (e restano) connotati da una collegialità forte, anche nella fase della stesura della motivazione dei provvedimenti. Principi ed argomenti vanno dunque sempre ascritti alla Corte nella sua collegialità. Una personalizzazione è possibile nell’unico caso ammesso di dissenting opinion, traducentesi nel cambio del relatore.
Il secondo è determinato dal segreto che investe anche l’attività ancillare e prodromica alla decisione svolta dagli assistenti di studio. In particolare, il preliminare confronto in vista della preparazione della c.d. scheda del giudizio, ‘guidata’ dal giudice, e della riunione degli assistenti; le interlocuzioni preparatorie tra giudici, talora svolte alla presenza degli assistenti. Il racconto di tale attività preparatoria riveste interesse per comprendere dinamiche e ragioni della decisione, ma di essa non è possibile parlare.
Il terzo è che alla figura di Giuseppe Tesauro quale giudice costituzionale ho dedicato alcune considerazioni negli scritti in suo onore, che è superfluo ripetere oggi; comunque, la riflessione, per i profili tecnici, è opportuno che resti riservata agli altri interventori, ben più titolati di me.
Da tali difficoltà mi solleva l’invito degli organizzatori a fare del convegno «una giornata di ricordo», sottolineando che «sarebbe bello, perciò, […] condividerne uno proprio con il prof. Tesauro».
3. Mi limito dunque ad un breve racconto della mia esperienza professionale ed umana con Giuseppe Tesauro.
Non lo conoscevo personalmente; quindi, fui sorpreso dalla sua telefonata, la sera del 4 novembre 2005, di una semplicità disarmante, tipica della caratura umana della persona. La ricordo come fosse ora. Disse: «buona sera, sono Giuseppe Tesauro. Forse avrà appreso che sono stato nominato giudice costituzionale. Mi farebbe piacere scambiare due chiacchiere sull’attività degli assistenti di studio».
Ovviamente, mi dissi onorato. Ci incontrammo nell’appartamento in Roma dove all’epoca abitava. Ero emozionato; non potevo non esserlo di fronte ad un Maestro. Mi rivolse alcune domande sulle mie esperienze professionali e percepii immediatamente la sua capacità di ascoltare e di valutare l’interlocutore al di là delle parole. Dal suo canto, si soffermò, con semplicità sbalorditiva, su tre argomenti, forse per cogliere le mie reazioni:
– sulle problematiche del rapporto tra ordinamento nazionale e sovranazionale, ricordando con sintetici tratti, come è solo dei grandi, l’annosa vicenda dipanatasi da Costa/Enel a Granital;
– sulla vulgata comune, ma errata, dell’attenzione dell’Europa esclusivamente all’homo economicus;
– sulla perdurante centralità della Costituzione anche all’interno di un ordinamento sovranazionale.
Mi parlò poi della sua famiglia e della fondamentale importanza che aveva per lui, dandomi chiara l’idea di chi dà il giusto peso ai valori della vita.
In seguito, ancora più ho apprezzato Giuseppe Tesauro come uomo non chiuso nella torre eburnea delle grandi questioni giuridiche e degli altissimi incarichi istituzionali che da decenni rivestiva. Egli aveva lo sguardo aperto su tutti gli aspetti della vita, sui quali amava confrontarsi: dallo sport (in particolare, il calcio, e condividevamo le molte sofferenze e le rare gioie che ci dava la squadra del Napoli), alla musica (era anche un pianista; nel 2010 riprese le lezioni di piano e mi parlava con ammirazione di Roberto Mastroianni, perché fine giurista, ma con un pizzico di invidia per le sue doti di valente musicista), alla letteratura, al cinema. Con semplicità, a volte, mi telefonava e diceva: vengo a prendere il caffè, così parliamo un po’. E veniva a casa mia, che abito in provincia di Napoli, da solo con la sua auto (appunto, guidata da lui), come un amico qualunque.
La sua semplicità, il profondo, vero e non di facciata, rispetto per la dignità dell’uomo, mi furono peraltro chiari il primo giorno in cui ci recammo insieme alla Corte.
Nell’avvicinarci all’ascensore, ci precedeva una signora, impiegata della Corte, che, non appena lo vide, arretrò. Giuseppe Tesauro accennò ad un inchino e le disse: “prego signora, non sia mai che io entri prima di lei”. La signora, visibilmente emozionata, ringraziò ed entrò nell’ascensore prima di lui.
Può sembrare un episodio banale, ma non lo è, ricordando che talora accadeva di non ottenere risposta al saluto d’uso nell’incrociarsi, forse perché ritenuto da riservare ai pari. Giuseppe Tesauro era invece cortese con tutti, sempre attento e sensibile alle esigenze di quanti lavoravano con lui (quale che fosse il loro compito, il loro ‘grado’) e con una buona parola per coloro che avevano un problema personale.
Questo era Giuseppe Tesauro nella quotidianità lavorativa.
La sua grande umanità era reale, non di facciata; erano in lui radicati i più pregnanti valori costituzionali. Tra questi, quello della dignità dell’uomo, alla base della concezione, da lui praticata, dell’essere il diritto non un luogo di astratte dissertazioni e di formali costruzioni logiche, bensì un mezzo per il raggiungimento di fini che sono quelli della protezione degli interessi individuali e collettivi.
Questa concezione, vivificata dalla sua umanità e semplicità, e la sua matrice di giurista comunitario gli hanno permesso di contribuire all’apertura al diritto europeo quale strumento di garanzia della dimensione costituzionale della tutela dei diritti:
– attraverso l’impiego del criterio dello «effetto utile» (efficacemente evidenziato nella sentenza n. 199 del 2012 in tema di referendum abrogativo);
– mediante il rafforzamento del dialogo con la Corte di giustizia grazie al rinvio pregiudiziale (non è senza significato che l’apertura si è avuta mentre egli era giudice costituzionale) ed alla “declinazione” comunitaria di concetti in precedenza oggetto di equivoci. Il riferimento è, tra l’altro, a quelli in tema di tutela della concorrenza – con riguardo all’impossibilità di ricondurre a questa gli aiuti di stato (sentenza n. 63 del 2008) – ed all’esigenza di rifuggire da una lettura esasperata della libertà di iniziativa economica, alimentata dalla valorizzazione della centralità della persona anche nel diritto dell’Unione, da una completa e puntuale ricostruzione della giurisprudenza eurounitaria e dalla formula dell’art. 41 Cost., per affermarne la legittimità della compressione, quando costituisca l’unica misura in grado di garantire al giusto la tutela degli interessi coinvolti dalla stessa (sentenza n. 270 del 2010);
– grazie al principio di proporzionalità ed al relativo test quale criterio di controllo della «coerenza e congruità rispetto al fine della norma» (scandita dalla sentenza n. 227 del 2010 in tema di arresto europeo).
Significativa è la modalità con cui maturò la proposta poi accolta e trasfusa in una delle sentenze ‘gemelle’, la cui narrazione è ovviamente riservata, per gli aspetti tecnici, ad altri, più autorevoli, interventori. Eppure, non posso non ricordare che nel mese di luglio 2007, quando da tanto discutevamo del criterio di composizione del contrasto della norma interna con la CEDU, nel corso di una gita in barca nel golfo di Napoli, insieme alle altre due sue assistenti, ebbi la fortuna di ascoltare una lectio magistralis sulla valenza costituzionale ed internazionale del rapporto tra norme interne ed esterne, sul significato e sulle differenze degli artt. 10, 11 e 117, comma 1, Cost. Il risultato cui la Corte giunse con il suo contributo è di avere definito un sistema che magistralmente: ha permesso di adeguare il nostro ordinamento a quello della CEDU; ha valorizzato al giusto compiti e ruolo del giudice comune; ha mantenuto ferma l’ineludibile distinzione tra ordinamento dell’UE e della CEDU; ha preservato il significato più profondo della nostra Costituzione quale Carta fondamentale dei diritti in vista della realizzazione del livello più alto di tutela, all’interno di un sistema in cui non può esservi nessun “diritto tiranno”.
La chiarezza della sua ricostruzione è stata ulteriormente scandita dalla precisa identificazione operata dalla Corte, anche in sentenze di cui è stato relatore:
– dell’art. 11 Cost. quale specifico parametro in cui trova «sicuro fondamento» l’ingresso nel nostro ordinamento della norma UE, con tutte le note conseguenze che fondano la differenza rispetto alla norma CEDU che entra invece per il tramite dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 227 del 2010);
– della rilevanza dei «controlimiti», del cui rispetto non può direttamente occuparsi il giudice comune (ordinanza n. 454 del 2006, che pose un argine al tentativo di debordamento realizzato da una sentenza del Consiglio di Stato del 2005), attivati (dalla sentenza n. 238 del 2014) come soltanto un grande internazionalista ed europeista poteva fare, confermando che in materia di diritti fondamentali la Costituzione “resta al centro”. Palesemente inesistente è infatti l’ipotizzata contraddittorietà derivante dalla presunta, erronea, «prospettiva monistica di un ordinamento sovranazionale (o globale)», come è inesatta l’asserita operatività degli stessi soltanto rispetto alle norme internazionali successive all'entrata in vigore della Costituzione, sostenuta dimenticando l’insegnamento della prima sentenza della Corte (n. 1 del 1956).
Tanto, in armonia con la sua concezione, posta in luce anche nella premessa del gennaio 2020 al suo Manuale, che l’Unione europea costituisce «una vera e propria “Comunità di diritto”, in cui è centrale il rispetto della Rule of Law», riferita anche ai «principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ed ai diritti inalienabili della persona», dimostrando di applicare al meglio l’imperativo “Uniti nella diversità”, motto originario dell’Unione europea.
Il rispetto della Rule of Law egli lo dimostrava con l’attenzione dimostrata per evitare sconfinamenti indebiti e pericolosi per la democrazia e per la tenuta dello Stato costituzionale e di diritto (tra l’altro, valorizzando il test di proporzionalità quale rimedio alle criticità del principio di ragionevolezza). Per quanto ho compreso, non rientrava tra coloro che – per utilizzare le parole del giudice costituzionale Nicolò Zanon, contenute in un intervento ad un seminario dello scorso anno – ritengono la Costituzione un living document che sta al passo coi tempi, cui far dire oggi quel che vorrebbe si dicesse, anziché ciò che dice. E neppure tra quanti, sulla scorta di questa concezione, sono inclini a trasformare in diritti i desideri, come non è accaduto, ad esempio, neppure nel caso della fecondazione eterologa (sentenza n. 162 del 2014), in cui magistralmente è stata data tutela a precisi diritti fondamentali, senza lederne nessun altro, come non è stato capito soltanto da chi non ha compreso la precisa attenzione avuta per il diritto alla salute, esattamente considerato nei suoi molteplici profili.
Giuseppe Tesauro non era uno dei tanti eruditi e non aveva bisogno di ricorrere a citazioni erudite, non di rado soltanto evanescenti ed espressive dell’incapacità di cogliere la sostanza delle questioni e degli interessi meritevoli di tutela.
Dire che ha lasciato un vuoto incolmabile non è una formula di rito; per la scienza giuridica lo è soprattutto in anni tempestosi quali stiamo vivendo, che bene avrebbero potuto giovarsi del suo apporto.
A me manca anzitutto un amico.
L’unica consolazione, soprattutto per i suoi cari figli, colpiti in questi giorni dall’ulteriore immenso dolore per la scomparsa dell’amata mamma, Paola, è che nella caducità che segna il passaggio terreno, la cui unica traccia è per i più niente altro che un’orma destinata ad essere cancellata dal primo alito di vento, egli ha lasciato un’impronta che rimarrà ben più a lungo nella storia del nostro Paese e dell’Europa.
[1] Lo scritto riproduce l’intervento al “Convegno in memoria del Prof. Giuseppe Tesauro”, Napoli 1 e 2 luglio 2022, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e dalla Associazione Italiana Studiosi di Diritto dell’Unione Europea.
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