ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“L’inganno” prove di un populismo garantista* di Giovanni Melillo
Proverò ad indicare le ragioni di una diversa possibilità di comprensione delle cose attratte e certe volte scaraventate nel fuoco polemico di un libro che, nel denunciare veri e soprattutto immaginari abusi della cd. Antimafia, sembra ripetere non pochi dei vizi e delle perversioni del mostro giudiziario contro il quale si scaglia.
Certo, il pamphlet muove da una nobile radice culturale e dal dichiarato intento di denunciare le pericolose oscillazioni delle prassi giudiziarie sull’orlo dell’abisso che può aprirsi ad ogni passo e verso il quale tutti dovrebbero, saper volgere lo sguardo, per meglio guardarsi dal rischio di precipitazione.
Ma non è necessario dubitare, come taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero, della sincerità degli intenti dell’Autore, bastando rammentare che di buone intenzioni sono notoriamente lastricate le strade dell’inferno.
Più interessante è tuttavia notare che se è vero, come Massimo Nobili ci mostrava nel suo addolorato attraversamento della perenne immoralità del processo penale, che l’ardore, il fervore, la passione, persino la sincerità di intenti sono doti che non mancano a quelli che scrivono le pagine più dolorose e immorali della giustizia penale, quelle stesse connotazioni della passione civile dell’Autore non bastano a porre al riparo la sua opera dal rischio di ripetere le perversioni del peggior sistema inquisitorio, per di più affiancando ai vizi di questo quelli di una paradossale corrente garantista del più acre populismo.
Il furore inquisitorio di Alessandro Barbano non risparmia nessun istituto della legislazione antimafia e nessuna delle istituzioni chiamate ad applicarla, investendo indiscriminatamente ogni aspetto del nostro sistema di contrasto della criminalità mafiosa.
Il fuoco polemico arde senza sosta e travolge ogni cosa, tutto venendo raccolto e usato come legna da ardere.
Anche quando magari si tratta di legna giovane, in grado di fare soltanto fumo, o addirittura a dar vita a piccoli fuochi destinati a spegnersi subito.
Certo, la realtà offre non pochi e persino inquietanti esempi di ciò che accade quando la giustizia si allontana, per le ragioni più varie, dall’unica strada praticabile, quella che i maestri hanno indicato: “restare coi piedi per terra, tenersi stretti alle prove e alle regole: senza voli”.
Ma questi esempi ed altri ancora non possono giustificare la conclusione tranchant che nel libro si propone, secondo la quale le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili e inconsistenti illazioni.
Né l’estremismo delle tesi fondamentali può giustificarsi quando investe il pur delicato impianto del sistema italiano di sequestro e confisca dei patrimoni illeciti, essendo esso coerentemente inscritto, anche sul versante delle procedure di prevenzione, all’interno di un modello comune, pur variamente declinato nei diversi sistemi giuridici degli Stati democratici, proteso ad intensificare un doveroso controllo dell’origine delle ricchezze, sul presupposto che le accumulazioni patrimoniali e la stessa libertà di impresa debbano trovare un limite nella loro derivazione dai profitti derivanti dalla commissione di gravi delitti.
Un eccesso di ius vindicandi espone qualunque accusatore al destino che inesorabilmente tocca a quanti cessano dal guardarsi continuamente dal rischio di hybris che pure si è solitamente pronti a riconoscere negli altri. Vale per tutti gli accusatori, soprattutto se animati dal furore iconoclasta che anima il libro.
Così come soltanto come provocazione potrebbe accogliersi l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito solo di pulsioni giustizialiste, anziché un ambito della nostra giurisdizione che, al pari degli altri, è continuamente sottoposto all’opera di verifica, adeguamento ed evoluzione che naturalmente discende dal sindacato di costituzionalità, dal rapporto con la giurisdizione sovranazionale, dall’evoluzione del diritto internazionale convenzionale e, soprattutto, dal controllo che delle sue applicazioni fa quotidianamente il giudice nel contraddittorio delle parti.
Per ridurre le distanze dalle prospettive privilegiate dall’Autore potrei dar conto della mia condivisione dell’allarme conseguente:
-alla frequente, parallelo corso rispetto allo sviluppo di indagini e processi di famelici e strumentali cori mediatici;
-all’ancora attuale coltivazione in magistratura di un’idea di sé e della propria funzione come baluardo contro ogni fenomeno criminale, poiché all’idea stessa di baluardo, tanto più se, come è, formidabile, corrisponde una visione che ha in sé i semi del conflitto e dell’esaltazione dei miti punitivi e vendicativi di quella “società giudiziaria” che si nutre di ansia da complotti e di un rancore estinguibile solo imboccando scorciatoie autoritarie;
-ai pericoli di dilatazione dell’area di specialità connessa all’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo conseguente nel tempo realizzatasi oltre ragionevole misura, e di altrettanto gravi derive securitarie rette soltanto dalla percussione del giustizialismo mediatico e politico;
-alla necessità di una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria per introdurre nella gestione degli uffici giudiziari dosi massicce di trasparenza ed efficienza, che i riti corporativi intorno ai quali si costruiscono gli esoterici testi che dettano i criteri di funzionamento dei nostri tribunali sovente accantonano, assecondando piuttosto visioni burocratiche del lavoro giudiziario;
-alla consapevolezza dei pericoli di una impossibile missione del giudice a farsi amministratore di ingenti patrimoni e manager di aziende nelle procedure di sequestro e confisca, avendo l’esperienza (e non solo gli scandali, che pure è stata la magistratura stessa a sollevare), rivelato che quel modello normativo di gestione dei patrimoni illeciti rischia di alimentare una gigantesca mano morta, capace, anche per l’intollerabile durata delle procedure, soltanto di attirare le professioni, anche accademiche, nella distribuzione di grandi e piccole prebende;
-più in generale, al perdurare dell’idea che il contrasto delle mafie sia missione esclusiva della magistratura e delle forze di polizia, anziché obiettivo prioritario del complesso delle politiche pubbliche: educative, fiscali, del lavoro, della protezione e dell’integrazione sociale, come di quelle urbanistiche e culturali, progressivamente private di visione adeguata e della stessa possibilità di coerente attuazione di programmi e interventi che richiedono una amministrazione pubblica forte e autorevole, perché competente, trasparente, efficiente, dunque assai lontana dal grave stato di debolezza strutturale nel quale versano le funzioni statuali, soprattutto nelle regioni meridionali.
Sono temi che impongono ripensamenti profondi, anche delle prassi, poiché lo stato di salute di una democrazia dipende in grande misura da corrette relazioni fra politica e magistratura e dalla capacità di entrambe di svolgersi con equilibrio e correttezza, facendo prevalere il sentimento del dovere su quello del potere, la consapevolezza del proprio limite sulla tentazione dell’arbitrio.
Così come occorre riconoscere che la realtà impone di interrogarsi sulla trasformazione delle prerogative processuali del pubblico ministero, sempre più poste a contatto con la logica della prevenzione criminale dalla gravità dei fenomeni criminali. Ma le risposte non possono ricercarsi nella progressiva burocratizzazione della funzione requirente, ormai quasi soffocata dal moltiplicarsi di adempimenti formali che nulla aggiungono all’effettività delle garanzie difensive, né tantomeno nell’indebolimento progressivo di una funzione di direzione delle indagini invece essenziale per la tenuta reale del principio di legalità processuale anche nella fase delle indagini preliminari. In queste sempre più marcate tendenze sembra esprimersi una neanche troppo celata vena nostalgica dei tempi nei quali la giustizia scorreva lungo i mattinali delle questure ed era un po’ più lontana dal finalismo dei valori costituzionali.
Tuttavia, la complessità dei nodi ancora da sciogliere nulla toglie alla radicalità del dissenso da riservare al senso profondo delle accuse rivolte alla cd. Antimafia.
La scelta dell’obiettivo polemico dell’ardore iconoclasta che permea l’intero programma accusatorio, innanzitutto: il pubblico ministero e i capisaldi della legislazione che ne sostiene da trent’anni l’azione in materia antimafia.
Non è solo un obiettivo troppo facile di questi tempi, ma è soprattutto sbagliato.
Non perché la legislazione antimafia non sia bisognosa di revisione continua ed anche profonda, né perché la cd. Antimafia non abbia rivelato gravi limiti e precise responsabilità, né, ancora, perché quello stesso dispositivo abbia acquisito meriti che sarebbe comunque sciocco svilire, se è vero, come è vero, che una secolare condizione di impunità delle mafie è venuta meno, procedendo secondo le regole dello Stato di diritto, a meno di ridicolizzare, in uno ad una trentennale stagione legislativa, il ruolo della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e della Corte EDU, le quali, al pari dei giudici di merito, ad ipotetici abusi sistematici avrebbero altrimenti assistito e ordinariamente avallato.
Ma l’obiettivo prescelto è sbagliato semplicemente perché il furore iconoclasta che ne anima la cattura finisce per oscurare all’inquisitore alcune realtà, che avrebbero richiesto ben altra considerazione.
Restano, infatti, sullo sfondo, ad esempio, la relazione, intima e profonda, affatto esaurita, fra giustizialismo e populismo e quella di entrambi con la crisi che attraversa la democrazia rappresentativa e liberale, definendosi per questa strada uno dei volti di quel mostro del fanatismo che è costantemente in agguato ed il cui spettro si aggira ancora per l’Europa delle piccole patrie e dei risorgenti movimenti nazionalisti e xenofobi.
Come non risultano presi in considerazione il peso e gli effetti dell’obiettivo ritrarsi della politica dalla responsabilità di dare una risposta, diversa da quella possibile nelle aule di giustizia e secondo le categorie del diritto penale, al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana e che, obiettivamente, appaiono come brutali prove di forza ispirate e guidate da strategie di destabilizzazione ed insieme di cinica preservazione di oscuri equilibri di potere.
Se si ricordassero le parole di Carlo Azeglio Ciampi pronunciate in Parlamento all’indomani degli attentati di Roma e Milano o, più recentemente, quelle di Sergio Mattarella sulla pesantezza dell’ipoteca mafiosa e terroristica a lungo gravata sui destini italiani forse si ritroverebbe una parte almeno della spiegazione dell’anomalia italiana che vede ancor oggi i magistrati impegnati a far luce sulle stragi che vanno dal 1969 al 1980, come su quelle degli anni ’90.
Soprattutto, si eviterebbe di guardare agli sforzi ancora in atto per individuare moventi e responsabilità di quei delitti, non criticamente, come certo sarebbe legittimo, ma considerandoli con attenzione e rispetto, anziché con il disprezzo che trasuda la definizione di “fogna di maleodoranti congetture” nel quale si risolverebbe il difficile lavoro di molti magistrati.
Infine, non solo è taciuta la realtà attuale delle mafie, ma si giunge ad affermare che delle mafie non avremmo nessuna rappresentazione attuale e attendibile. Naturalmente, sempre per responsabilità di una macchina dell’investigazione giudiziaria additata come perversa e autoreferenziale.
Potrebbe, forse, convenire ricordare che l’asserita mancanza di una rappresentazione di un fenomeno sociale non dovrebbe, a meno di smentire i precetti guida del nuovo populismo garantista, richiedersi alla macchina giudiziaria, ma ai centri decisionali delle politiche di prevenzione e più in generale al patrimonio di conoscenza al servizio del complessivo sistema sociale e istituzionale.
Del resto, un tempo ciò che si sapeva delle mafie lo si doveva alla funzione parlamentare, come nel caso dell’inchiesta Franchetti-Sonnino, ovvero alla coraggiosa sapienza dell’amministrazione prefettizia, come nel caso dell’inchiesta Saredo del 1901.
Anche nei decenni successivi, il peso dell’azione di vigilanza, denuncia e contrasto ricadde quasi soltanto sulle spalle dei partiti, dei sindacati e della cultura democratica, non certo su quelle della magistratura, che anzi flirtava con le élite criminali e ne negava l’esistenza nelle pompose inaugurazione degli anni giudiziari.
Oggi, invece, le indagini e i processi consentono all’osservatore che non voglia distogliere lo sguardo di cogliere la nitida realtà dei fenomeni mafiosi, superando la vana pretesa di considerarli emergenze, persino ormai superate, anziché per ciò che sono: componenti strutturali del tessuto economico e sociale di parti significative del territorio nazionale, ma anche, osservando le dinamiche su scala globale, forze in grado di travolgere la stabilità politica e sociale di interi paesi e regioni.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato. Una sorta di riflesso della povertà di quelle società. La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa. Giovanni Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto, governando il ciclo continuo della trasformazione della violenza in ricchezza.
Le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia. Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale. A questa idea è indissolubilmente legato anche il destino dei processi di integrazione europea. Basterebbe pensare a cosa accadrebbe se si diffondesse la sola percezione che le risorse del PNRR fossero disperse, perché intercettate e sottratte ai loro fini da imprese mafiose o disperse nei mille rivoli di abusi e ruberie che crescono esponenzialmente all’ombra dei condizionamenti mafiosi.
Su questi terreni si misura tutta la necessità di non rimediare alla debolezza delle funzioni di regolazione amministrativa e politica dei processi economici e delle dinamiche sociali continuando ad indebolire la capacità di azione repressiva.
Non è l’ennesimo passo indietro su questo terreno che serve, in omaggio al pendolo che regola le stagioni legislative.
Quel che serve è una incessante serie di passi in avanti sul terreno della ricostruzione della autorevolezza ed insieme della trasparenza e della controllabilità delle complessive funzioni dello Stato.
Ma di tutto questo non vi è traccia in un libro che, infine, sembra meritare la nemesi inscritta nel suo titolo, perché di un tentativo di inganno si tratta.
Ordito con sapienza ed abilità narrativa, ma che contribuisce ad erodere la speranza riposta nell’invito che fu rivolto da Zeus ad Ermes a non dimenticare, nel ripartire la giustizia fra gli uomini in parti uguali, di donare loro innanzitutto il rispetto: quel sentimento reciproco essenziale a preservare la convivenza civile e, in questo caso, la credibilità di un sistema giudiziario sempre più segnato dal vizio letale della perenne contrapposizione polemica e ideologica.
*Testo revisionato dell’intervento svolto da Giovanni Melillo alla presentazione del libro di Alessandro Barbano “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” (Roma, 1 dicembre 2022)
Comunicazione all’interessato ed onere di motivazione nei procedimenti per il rilascio di interdittive antimafia (nota a T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, sent. 14 settembre 2022, n. 1518)
di Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda giuridica – 2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011 – 3. La decisione del T.A.R. Calabria – 4. Notazioni conclusive
1. Inquadramento della vicenda giuridica
La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato, negli ultimi decenni, spazi sempre più ampi anche sul versante del diritto amministrativo, laddove il pericolo di inquinamento criminoso ha indotto il legislatore a predisporre un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “a monte” i contatti della pubblica amministrazione con soggetti potenzialmente sottoposti ad infiltrazioni mafiose, anche indirette[i].
La sentenza annotata offre l’occasione per affrontare il tema, assolutamente centrale ed ampiamente dibattuto, relativo alla partecipazione dei privati ai procedimenti amministrativi preordinati all’emanazione di provvedimenti interdittivi antimafia. Il caso sottoposto alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria trae origine dall’emissione di un’informativa interdittiva a carico del titolare di uno stabilimento balneare, dalla quale erano derivati – a cascata – la revoca della concessione demaniale marittima da parte del Comune ed il “rigetto” della SCIA per l’esercizio delle attività del bar annesso allo stabilimento. Il provvedimento de quo, fondato sull’esistenza di diversi precedenti penali e di polizia per reati, anche di tipo mafioso, in capo ai familiari del destinatario, era stato tuttavia emanato in assenza di comunicazione di avvio del procedimento, escludendo dunque – a monte – la partecipazione dell’interessato.
Prima di esaminare più nel dettaglio la questione giuridica e la decisione assunta a riguardo dal Giudice amministrativo, appare opportuno richiamare brevemente la disciplina sostanziale sulla quale essa si è incardinata e, in particolare, soffermarsi sulla particolare natura degli interessi coinvolti nel procedimento interdittivo, da cui discende la rilevanza della stessa vicenda processuale[ii].
L’informazione interdittiva antimafia è, com’è noto, un provvedimento di natura cautelare e preventiva che determina in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la pubblica amministrazione. Quel che vale a connotare spiccatamente tali provvedimenti è il fatto che essi si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si esprime in un ampio grado di discrezionalità in merito a valutazioni fisiologicamente opinabili, poiché attinenti all’apprezzamento – avendo riguardo ad elementi sintomatici e indiziari – del rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento della effettiva sussistenza del fatto[iii]. La valutazione è condotta, dunque, secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere ad un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio”, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa[iv].
In tale contesto, la declinazione del principio di legalità presenta una forma atipica, poiché l’esercizio del potere amministrativo non si esprime semplicemente attraverso la riconduzione del fatto ad una fattispecie normativa astratta, ma contempla la preventiva espressione di un’apposita valutazione – che definiamo “giudizio di eventualità” – sul potenziale sviluppo del fatto in questione, ai fini della sua attinenza alla fattispecie stessa.
L’estensione della normativa antimafia al sistema amministrativo presenta, invero, un tema di fondo che si sostanzia nella propensione legislativa a massimizzare l’interesse pubblico primario ad essa sotteso. Il difficile bilanciamento tra la “ragion pubblica” e le garanzie dei cittadini dinnanzi al potere viene, infatti, radicalmente operato in favore della prima. Così, l’istituto dell’informativa antimafia è passato dall’essere un elemento necessario soltanto nei casi in cui un operatore economico intendesse stipulare contratti con la pubblica amministrazione, ricevere da essa sovvenzioni o sfruttare economicamente beni pubblici, al diventare un fattore preclusivo all’emanazione di qualsivoglia provvedimento autorizzatorio da parte dell’amministrazione stessa a favore di soggetti ritenuti potenzialmenteinfluenzati da sistemi di natura mafiosa, determinando, di fatto, l’insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di tutte quelle situazioni giuridiche soggettive che determinino rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione[v].
Emerge, allora, in tutta evidenza, la centralità e l’importanza della sottoposizione del potere prefettizio ad una attenta procedimentalizzazione, che, soprattutto attraverso l’accorta estrinsecazione della fase istruttoria, rappresenta il più importante – forse l’unico – elemento di garanzia per i cittadini, da far valere anche nella eventuale successiva sede giudiziaria.
2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011
Il procedimento di rilascio dell’informazione antimafia è disciplinato dagli artt. 90 ss. del d.lgs. 159/2011. La vera e propria istruttoria procedimentale si apre, ai sensi dell’art. 92, laddove in sede di consultazione della Banca dati unica presso il Ministero dell’Interno si registrino profili indizianti astrattamente ostativi al rilascio dell’informazione liberatoria e si estrinseca in una serie non tipizzata di accertamenti riservati al Prefetto.
Tradizionalmente, in tali procedimenti il contraddittorio partecipativo era escluso o confinato ad ipotesi eventuali e non vincolanti[vi], come quella[vii] prevista dall’art. 93, comma 7, a ragione della particolare connotazione del provvedimento emanato e delle (presuntivamente) intrinseche necessità di celerità e segretezza.
Com’è noto, è la stessa legge n. 241/1990 a contemplare quelli in dottrina sono stati denominati “atti necessitati”[viii], ovvero provvedimenti amministrativi in cui l’urgenza di agire giustifica «modificazioni strutturali derivate»[ix] dell’atto ai fini della tutela dell’interesse pubblico[x]. Tipico esempio è la deroga all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento previsto in via generale dall’art. 7 nei casi in cui emergano «particolari esigenze di celerità» ed al fine di evitare il protrarsi di situazioni antigiuridiche[xi]. Tuttavia, in materia di informative antimafia, la giurisprudenza amministrativa era giunta a qualificare l’urgenza alla stregua di un ineliminabile presupposto di fatto dell’atto, tale da giustificare la totale assenza di qualsivoglia comunicazione all’interessato, suscitando in dottrina dubbi in merito alla stessa compatibilità dell’istituto con i principi, anche costituzionali, dell’azione amministrativa[xii].
A seguito dell’importante modifica al Codice antimafia introdotta dal d.l. n. 152/2021, lo scenario pare parzialmente differente. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 91 prevede infatti che, laddove in sede di primo accertamento si riscontrino elementi indiziari tali da giustificare la possibile emanazione di un provvedimento interdittivo – ossia la sussistenza di cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84, comma 4 – il Prefetto debba darne tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è, poi, assegnato al privato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere audizione dinnanzi all’autorità prefettizia, secondo le modalità già previste dall’art. 93.
L’istituto appare come una sorta di comunicazione “tardiva” di avvio del procedimento, sicuramente atipica, poiché di natura eventuale e collocata in una fase procedimentale già avanzata. La circolare del Ministero dell’Interno n. 77635/2021 l’ha qualificata come “preavviso di interdittiva”, accostandola alla ratio del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della l. n. 241/1990, del quale non può tuttavia essere considerata una species, non collocandosi nell’ambito di procedimenti ad istanza di parte.
Come opportunamente rilevato[xiii], peraltro, la previsione rischia di perdere nella prassi la sua effettività, a causa dell’ampio margine di discrezionalità che ne determina l’applicazione e che si traduce in un duplice limite. Il primo è rappresentato dalla valutazione delle «particolari esigenze di celerità del procedimento»; l’altro riguarda l’esclusione della comunicazione di «elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose». Di talché, ogni qual volta l’Amministrazione prefettizia ritenga sussistente una motivata urgenza di provvedere ovvero valuti gli elementi istruttori interamente (o quasi) non disvelabili, la comunicazione diverrebbe, rispettivamente, preclusa o inutile.
Malgrado tali limitazioni, non può non rilevarsi come l’evidente capovolgimento prospettico della norma operato dalla riforma del 2021, imponga ora che l’eventuale provvedimento adottato de plano illustri – con un’adeguata motivazione – le ragioni per cui l’adempimento dell’obbligo comunicativo avrebbe potuto compromettere il soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento è rivolto[xiv]. In sostanza, se prima l’assenza di contraddittorio era la regola, ora è la stessa assenza a dover essere giustificata, seppur con l’agevole ricorso ad ampie fattispecie di esclusione.
3. La decisione del T.A.R. Calabria
La sentenza in commento – che interviene proprio sull’adeguatezza della motivazione in merito all’esclusione delle garanzie partecipative previste dall’art. 92, comma 2-bis del Codice antimafia – coglie perfettamente la ratio di rinnovamento della riforma legislativa sopra richiamata. Dopo aver accolto la domanda di tutela cautelare monocratica ai sensi dell’art. 56 c.p.a., il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha adottato la decisione con sentenza breve, ex art. 60 c.p.a., considerando assorbente e dirimente la vicenda in esame.
Nel caso di specie, infatti, le «particolari esigenze di celerità del procedimento» previste dalla norma erano state genericamente motivate dalla Prefettura di Catanzaro facendo riferimento alla necessità di interrompere tutti i rapporti tra la società destinataria del provvedimento e la pubblica Amministrazione, sulla scorta dei rapporti, anche familiari, intrecciati con ambienti malavitosi locali, nonché all’opportunità di revocare la concessione demaniale marittima di cui la stessa è titolare prima della fine del periodo estivo.
Il Giudice amministrativo ha considerato tale motivazione insufficiente ed in contrasto con la nuova disciplina normativa alla luce di due considerazioni.
La prima attiene agli elementi di “collegamento” mafioso rilevati dall’amministrazione, che pur potendo costituire la ragione per l’emissione del provvedimento interdittivo alla chiusura del procedimento, non sono ritenuti in grado di giustificare ex se le esigenze di celerità e, dunque, l’esclusione del contraddittorio. L’onere di motivazione, sotto tale punto di vista, avrebbe dovuto, diversamente, esprimersi in una “urgenza qualificata”, congruamente rappresentata con riguardo alle concrete esigenze di soddisfacimento del pubblico interesse cui il provvedimento è proteso. D’altro canto, ragionando diversamente, si finirebbe per svuotare di significato la stessa novella legislativa dell’art. 92, poiché l’istruttoria – finalizzata all’acquisizione di ulteriori rilevanti elementi conoscitivi da parte dell’Amministrazione – verrebbe assorbita a monte dai profili indiziari riscontrati in prima analisi.
La seconda argomentazione di lega alla possibile applicazione delle c.d. misure amministrative di prevenzione collaborativa, pure introdotte dalla riforma del 2021. Si tratta, com’è noto, di disposizioni volte ad evitare il pesante effetto interdittivo ed adottabili laddove in fase istruttoria emergano ipotesi di agevolazione mafiosa meramente occasionale. Tali misure consentono dunque – a fronte del carattere meramente occasionale dei tentativi di infiltrazione e coerentemente con la volontà legislativa di diversificare le azioni amministrative di prevenzione – di anticipare nella fase amministrativa le misure di self cleaning previste per il controllo giudiziario, aprendo la via ad una collaborazione tra imprese ed amministrazione[xv].
Secondo la ricostruzione del Giudice amministrativo, l’amministrazione prefettizia avrebbe dovuto, anche in questo caso, motivare adeguatamente l’impossibilità di neutralizzare il rischio di infiltrazione attraverso l’applicazione dell’art. 94-bis, facendo applicazione del principio di proporzionalità amministrativa[xvi].
4. Notazioni conclusive
La pronuncia annotata si inserisce in un filone giurisprudenziale che manifesta apprezzabili aperture verso le garanzie partecipative nell’ambito dei procedimenti amministrativi interdittivi[xvii], seppur con i temperamenti dovuti alla particolarità degli interessi coinvolti ed alla natura del provvedimento adottato. All’amministrazione prefettizia non si chiede più soltanto di rappresentare il pericolo di infiltrazione come elemento giustificativo della “specialità” della vicenda procedimentale, ma anche di adempiere correttamente agli oneri istruttori e motivazionali, giustificando espressamente il mancato coinvolgimento del privato interessato.
La strada verso la realizzazione di un contraddittorio effettivo appare, tuttavia, lunga e la “ragion pubblica preventiva” risulta ancora assolutamente prevalente nel bilanciamento con gli interessi delle imprese. Basti pensare che il termine di venti giorni previsto dall’art. 92, comma 2-bis per la presentazione di osservazioni e documenti è inferiore a quello di trenta giorni previsto dalla legge generale sul procedimento per la formazione del silenzio rigetto sull’istanza di accesso agli atti. Ciò vuol dire che, in caso di tardiva (o tacitamente negata) ostensione dei documenti da parte dell’Amministrazione, la partecipazione dell’interessato potrebbe svolgersi in assenza di elementi conoscitivi anche importanti e senza la possibilità di adire il Giudice amministrativo.
Si tratta di distorsioni che andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria[xviii]. In tale prospettiva, la valorizzazione del dialogo con il privato destinatario del provvedimento, anziché rappresentare un fattore di rallentamento o di pregiudizio dell’azione amministrativa, potrebbe determinarne invece un proficuo rafforzamento[xix].
*Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro.
[i] Sul punto si veda, ex multis, AA.VV., Diritto amministrativo e criminalità, Atti del XVIII Convegno di Copanello, 28-29 giugno 2013, a cura di F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta, Milano, 2013, passim.
[ii] Per un approfondimento, si rinvia a F. Figorilli e V. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali e di tutela giurisdizionale, in Federalismi.it, n. 14/2021; M. Mazzamuto, Pil salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in Sistema penale, 2020; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e costituzionalità della lotta «anticipata» alla criminalità organizzata, in Giustamm, 2018.
[iii] Cfr., ex multis, da ultimo Cons. St., sez. III, 21.06.2022, n. 5086, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] Cfr., per tutte, Cons. St., sez. III, 30.012019, n. 758; Cons. St., sez. III, 3.05.2016, n. 1743, e la giurisprudenza successiva, tutta conforme, da considerarsi qui richiamata, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina: F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Il dir. dell’econ., 3/2018, 1125 ss.
[v] Cfr., Consiglio di Stato Ad. Plen., 6.04.2018, n. 3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vi] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 7 dicembre 2021, n. 8178, in www.giustizia-amministrativa.it. La giurisprudenza non mancava, tuttavia, di auspicare «un quantomeno parziale recupero delle garanzie procedimentali (…) in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale»: così, Cons. Stato, Sez. III, 30 luglio 2020, n. 4979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vii] L’art. 93, comma 7 del Codice antimafia, nella formulazione precedente alla riforma del 2021, riconosceva al Prefetto, ove ritenuto opportuno, la facoltà di invitare, ove lo ritenesse utile, «i soggetti interessati a produrre» documenti ed informazioni.
[viii] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur compl. Cass. sez. civ., XXVII, I quadr., 1948, ora in Scritti, vol. II, 1939-1948, Giuffrè, Milano, 949 ss.
[ix] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, cit., 952.
[x] Per un approfondimento sul tema, sia consentito il rinvio a S. Gardini, Note sui poteri amministrativi straordinari, in Il Diritto dell’economia, 2/2020.
[xi] Per un preciso inquadramento dottrinale dell’art. 7 della l. 241, si rinvia a R. Proietti, La partecipazione al procedimento amministrativo, Commento agli artt. 7-8, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. Sandulli, Giuffrè, Milano, 2017, 566 ss. e, più in generale, a E. M. Marenghi, I confini del diritto alla partecipazione, Giuffrè, Milano, 2013, passim.
[xii] Cfr., F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza, cit..
[xiii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio nel procedimento di rilascio d’informazione antimafia, intervento svolto al convegno “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del P.N.R.R.”, T.A.R. Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, 8 aprile 2022. Sul punto, anche M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio nelle informazioni interdittive antimafia, in Federalismi.it, 2022.
[xiv] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xv] Cfr., M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in questa Rivista, 2022.
[xvi] La norma prevede, in particolare, che il Prefetto, quando accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, prescriva all’impresa, società o associazione interessata l’osservanza, per un periodo compreso tra sei e dodici mesi, di una o più misure tra: l’adozione e l’efficace attuazione di misure organizzative, anche ai sensi del d. lgs. 231/2001, per rimuovere e prevenire le cause di agevolazione; la comunicazione al gruppo interforze di una serie di atti (di disposizione, acquisto, pagamento effettuati, di pagamenti ricevuti, di incarichi professionali conferiti e di amministrazione e gestione fiduciaria ricevuti), di valore non inferiore a 5.000 euro (o valore superiore definito dal prefetto), entro quindici giorni dal loro compimento; la comunicazione al gruppo interforze, da parte di società di persone o capitali, dei finanziamenti in qualsiasi forma erogati da parte di soci o di terzi; la comunicazione al gruppo interforze dei contratti di associazione in partecipazione stipulati; l’utilizzo di un conto corrente dedicato, per pagamenti, riscossioni e finanziamenti elencati (cfr., art. 94-bis, Cod. ant.).
[xvii] Si vedano, a riguardo, i contributi di R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020); R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979); Id., Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a T.A.R. Lecce, sez. III, 116/2022) e la giurisprudenza ivi citata, tutti in questa Rivista, a cui si rinvia per ulteriore approfondimento.
[xviii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xix] Cfr., M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio, cit.
Scheda n. 14 - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (Art. 131-bis c.p.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’art. 1 comma 1 lett. c) d. lgs. 150/2022 modifica parzialmente la disciplina dell’art. 131-bis c.p. al fine di ampliare l’ambito di operatività dell’istituto in ottica di deflazione del sistema penale.
CATEGORIE DI REATI PER I QUALI È APPLICABILE L’ART. 131-BIS C.P.
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 131-bis. Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. 1. Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. 2. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. L'offesa non può inoltre essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, nonché dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, ovvero per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni, e nell'ipotesi di cui all'articolo 343. L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 391-bis, 423, 423-bis, 600-ter, primo comma, 613-bis, 628, terzo comma, 629, 644, 648-bis, 648-ter, nonché per i delitti di cui agli articoli 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 3. Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. 4. Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69. 5. La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. |
Il nuovo art. 131-bis c.p. prevede l’applicabilità generalizzata dell’art. 131-bis c.p. a tutti i reati puniti con pena minima pari o inferiore a due anni.
Cade, invece, il riferimento al limite massimo di pena, cosicché tale causa di esclusione della punibilità potrà essere applicata anche a reati con pena edittale massima superiore a cinque anni di reclusione.
Conseguenze sul piano applicativo
Il nuovo istituto potrà applicarsi a un più ampio novero di fattispecie, tra cui, a titolo d’esempio, il delitto di falso di cui all’art. 495 c.p., la rapina tentata di cui al comma 1 dell’art. 628 c.p., il furto nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 625, comma 1, c.p.
Le eccezioni
Il comma 4 dell’art. 131-bis introduce delle eccezioni espresse alla regola generale, avendo il legislatore ritenuto che, in relazione a determinati reati, l’offesa non possa mai essere considerata di speciale tenuità. Si tratta delle seguenti categorie di reati:
a) delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, quando sono commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
b) delitti di violenza e minaccia al pubblico ufficiale, resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a pubblico ufficiale (quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni), nonché per il delitto di oltraggio a magistrato in udienza;
c) la maggior parte dei delitti, consumati o tentati, contro la Pubblica Amministrazione, segnatamente, il peculato di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., la concussione, le varie fattispecie di corruzione e l’indebita induzione a dare o promettere utilità;
d) incendio colposo e incendio boschivo;
e) costrizione o induzione al matrimonio;
f) lesioni personali nelle ipotesi aggravate:
- di cui agli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 (quindi nei casi di lesioni commesse in occasione dei delitti di cui all’art. 612-bis, 572, 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.)
- di cui all’art. 577, primo comma, numero 1, e secondo comma (quindi nei casi di lesioni ai danni di ascendente, discendente, coniuge – separato o divorziato – persona stabilmente convivente o legata al colpevole da relazione affettiva, fratello o sorella, affine in linea retta);
- di cui all’art. 583, secondo comma (lesioni personali gravissime);
g) altri reati contro la persona quali pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, interruzione colposa di gravidanza, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minore, corruzione di minorenne, adescamento di minori, atti persecutori, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, tortura;
h) alcuni reati contro il patrimonio tra cui rapina nelle sole ipotesi aggravate di cui all’art. 628, terzo comma, estorsione, usura, riciclaggio e impiego di denaro o beni o utilità di provenienza illecita;
i) delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194 (interruzione volontaria di gravidanza effettuata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge);
l) reati in materia di sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 309/1990, fatta eccezione per le ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5;
m) reati di abuso o comunicazione illecita di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato (artt. 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA SPECIALE TENUITÀ |
Nel comma secondo del nuovo art. 131-bis c.p. si specifica che, per stabilire se l’offesa sia di particolare tenuità, può prendersi in considerazione anche la «condotta susseguente al reato».
Con tale specificazione si chiarisce che il giudice, ai fini della valutazione del carattere di tenuità dell’offesa, può valorizzare le condotte risarcitorie o riparatorie poste in essere successivamente al fatto di reato: in tal modo il legislatore delegato pone fine alle incertezze applicative insorte in ordine alla possibilità di valutare anche tale profilo ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p.
DISCIPLINA TRANSITORIA
La norma è applicabile – a seguito della modifica introdotta dall’art. 6 d.l. 31 ottobre 2022 n. 162 che ha posticipato l’entrata in vigore della riforma introducendo il nuovo art. 99-bis – a partire dal 30 dicembre 2022.
Secondo una parte della dottrina, invece, il nuovo art. 131-bis c.p., essendo norma sostanziale più favorevole rispetto alla vecchia formulazione, potrebbe trovare applicazione anche nel periodo di prolungata vacatio legis, quindi già a partire dal 2 novembre 2022: tale opzione interpretativa si fonda sull’assunto secondo cui la ratio di garanzia della conoscibilità della legge penale, connessa al termine di vacatio legis, è un indispensabile presupposto per l’applicazione di norme penali sfavorevoli, non anche di norme penali favorevoli all’agente[1].
In ogni caso il nuovo art. 131-bis c.p. sarà applicabile anche ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 2, comma 4, c.p., proprio perché si tratta di norma più favorevole rispetto a quella previgente.
[1] cfr. G.L. Gatta “Rinvio della riforma Cartabia: una scelta discutibile e di dubbia legittimità costituzionale. E l’Europa?” in www.sistemapenale.it
Scheda n. 13 - Riti alternativi: giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato
IL GIUDIZIO ABBREVIATO
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Lo scopo della riforma è quello di incentivare l’accesso al giudizio abbreviato e di ampliare i presupposti di ammissibilità del rito, da un lato, prevedendo che il supplemento probatorio richiesto in abbreviato debba essere posto a confronto, sotto il profilo della sua compatibilità con le finalità di deflazione del rito, con l’attività istruttoria da svolgersi in dibattimento e disciplinando espressamente la facoltà di reiterare, prima dell’apertura del dibattimento, la richiesta di ammissione al rito abbreviato illegittimamente rigettata o dichiarata inammissibile, (salvo che si tratti di inammissibilità dichiarata ai sensi del comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p., per la quale è dettata una specifica disciplina); e, dall’altro prevedendo, per il caso di mancata impugnazione della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato, una ulteriore riduzione della pena di un sesto in fase esecutiva.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 438 c.p.p. – Presupposti del giudizio abbreviato (Omissis) 3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. (Omissis) 5. L'imputato, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti in- dicati nell'articolo 442, comma 1-bis, può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti e utilizzabili, l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l'ammissione di prova contraria. Resta salva l'applicabilità dell'articolo 423. (Omissis) 6-ter. Qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell'udienza preli- minare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1-bis, il giudice, se all'esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione della pena ai sensi dell'articolo 442, comma 2. In ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato. (Omissis) |
Al comma 3 della norma in questione, avente ad oggetto le modalità e le forme di manifestazione della volontà dell’imputato di accedere al rito alternativo, risulta semplicemente specificato quanto era già previsto dal testo previgente mediante il richiamo dell’art. 583, comma 3, c.p.p. (ora abrogato), e, pertanto, anche ai sensi della nuova disciplina, la volontà dell’imputato dovrà essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione dovrà essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore.
Al comma 5 è introdotta una delle novità più significative e maggiormente incidenti sui presupposti di ammissione del rito.
Ed invero, secondo il testo previgente, il giudice, nel disporre il giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, avrebbe dovuto valutare se l’integrazione probatoria richiesta fosse necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.
Secondo il testo novellato, invece, il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale.
Ciò che viene richiesto al giudice, ai fini dell’ammissione del rito, non è più dunque la valutazione circa la compatibilità dell’integrazione probatoria richiesta con le finalità deflative del rito, ma la valutazione dell’economia processuale derivante dall’accesso al giudizio abbreviato in rapporto alla prevedibile durata dell’istruttoria dibattimentale, secondo una sorta di giudizio prognostico.
Al comma 6-ter viene espressamente previsto che, in ogni altro caso - diverso dalla ipotesi di declaratoria di inammissibilità del giudizio abbreviato ai sensi del comma 1-bis della medesima norma - in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato.
È stato recepito a livello normativo l’orientamento già emerso a livello giurisprudenziale in ordine a detto specifico profilo (cfr. Cass. pen., sez. un., 27-10-2004, n. 44711, Wajib e Corte costituzionale 23 maggio 2003 n. 169).
TESTO RIFORMATO |
Art. 441 c.p.p. – Svolgimento del giudizio abbreviato (Omissis) 6. All'assunzione delle prove di cui al comma 5 del presente articolo e all'articolo 438, comma 5, si procede nelle forme previste dall'articolo 422, commi 2, 3 e 4. Le prove dichiarative sono documentate nelle forme previste dall’articolo 510. |
Al comma 6 è espressamente previsto che all’assunzione delle prove in caso di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria (art. 438, comma 5, c.p.p.), ovvero in caso di supplemento probatorio disposto dal giudice (art. 441 comma 5 c.p.p.), le prove dichiarative devono essere documentate nelle forme previste dall’art. 510 c.p.p. e, cioè, con mezzi di riproduzione audiovisiva e con trascrizione della riproduzione audiovisiva disposta solo se richiesta dalle parti.
TESTO RIFORMATO |
Art. 442 c.p.p. – Svolgimento del giudizio abbreviato (Omissis) 2-bis. Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. 3. Abrogato. (Omissis) |
Al comma 2-bis è stata introdotta la cosiddetta diminuente in sede esecutiva, elemento di assoluta novità rispetto alla disciplina previgente.
È stato cioè previsto che, qualora né l’imputato, né il suo difensore propongano impugnazione avverso la sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione.
Si tratta con ogni evidenza di una disposizione finalizzata, da un lato, ad incentivare l’accesso al giudizio abbreviato e, dall’altro, a disincentivare l’impugnazione della sentenza di condanna, attraverso l’introduzione di un ulteriore meccanismo premiale in sede esecutiva.
L’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Come nel caso del giudizio abbreviato, anche nel caso del patteggiamento, la ratio della riforma deve essere ricondotta alla volontà di incentivare il ricorso ai riti alternativi.
Nel caso del patteggiamento, tuttavia, l’obiettivo perseguito dal legislatore è stato attuato non già mediante un ampliamento dei presupposti di accesso al rito, ma attraverso un intervento riformatore incidente, per un verso, sulla possibilità per l’imputato ed il pubblico ministero di raggiungere un accordo anche in ordine alla mancata applicazione delle pene accessorie, ovvero alla durata delle stesse, salvo quanto previsto dall’art. 444, comma 3 bis, c.p.p. (specifiche ipotesi di reati contro la P.A.), nonché in materia di confisca; per altro verso, sul ridimensionamento degli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, con particolare riferimento alla esclusione dell’efficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili, tributari e disciplinari, amministrativi e relativi alla responsabilità erariale.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 444 c.p.p. – Applicazione della pena su richiesta delle parti 1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato. (Omissis) 2. Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, le determinazioni in merito alla confisca, nonché congrue le pene indicate, ne dispone con sentenza l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti. Se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda; l'imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3. Si applica l'articolo 537-bis. (Omissis) |
Al comma 1 è espressamente previsto che l’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice, nel caso del solo “patteggiamento allargato”, di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis e, in ogni caso di patteggiamento, di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.
Già sotto la vigenza della previgente disciplina, il comma 3-bis della norma in oggetto, rimasto inalterato dopo la novella legislativa, prevedeva che, nei procedimenti aventi ad oggetto i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, c.p., 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p., la parte, nel formulare la richiesta di patteggiamento, potesse subordinarne l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis c.p., ovvero all’estensione degli effetti della sospensione condizionale della pena anche a tali pene accessorie. Veniva altresì previsto che il giudice, qualora avesse ritenuto di applicare le pene accessorie, ovvero di non concedere l’estensione della sospensione condizionale anche a dette pene, avrebbe dovuto rigettare la richiesta.
Al peculiare assetto già contemplato dal comma 3-bis limitatamente al settore dei reati contro la P.A. sopra elencati e rimasto inalterato anche dopo la riforma, il legislatore ha voluto aggiungere una ulteriore previsione implicante un notevole ampliamento dei poteri di negoziazione delle parti, ben potendo l’accordo avere ad oggetto anche la mancata applicazione delle pene accessorie e la determinazione della loro durata con riferimento alle ipotesi di “patteggiamento allargato”, ovvero la mancata applicazione della confisca facoltativa o la sua applicazione fino a concorrenza di un importo determinato, o ancora l’incidenza della stessa solo su alcuni beni, con riferimento ad ogni ipotesi di patteggiamento.
Al comma 2 è conseguentemente previsto che il sindacato giurisdizionale in merito all’accordo raggiunto dalle parti debba estendersi anche alle determinazioni in merito alla confisca, nonché alla valutazione circa la congruità “delle pene” indicate, espressione, quest’ultima, chiaramente riferibile anche alle pene accessorie.
TESTO RIFORMATO |
Art. 445 c.p.p. – Effetti dell’applicazione della pena su richiesta delle parti (Omissis) 1-bis. La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna. (Omissis) |
Il comma 1-bis introdotto dalla novella legislativa prevede che la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p., anche se pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.
Il legislatore, mediante l’introduzione del comma sopra riportato, ha perseguito dunque i seguenti obiettivi:
- escludere l’efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare, mediante l’abrogazione dell’inciso contenuto nel testo previgente “salvo quanto previsto dall’art. 653”, senza dovere intervenire sulla formulazione testuale della norma in questione che, quindi, continua a riferirsi alle sole sentenze di condanna e di assoluzione;
- escludere l’efficacia di giudicato e la rilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in tutti gli altri casi di giudizi “extrapenali” (civili, tributari, amministrativi, ivi compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile), ogniqualvolta il fatto storico oggetto della sentenza di patteggiamento possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi;
- prevedere - con una formulazione che ricorda quella dell’art. 20 c.p., ai sensi del quale “le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa” – il venir meno di ogni effetto penale ogniqualvolta, a seguito della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie (e cioè ex lege, nel caso di applicazione di pena concordata entro i due anni e in caso di eventuale accordo tra le parti nell’ipotesi di cd. patteggiamento allargato).
Per effetti penali devono intendersi tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una molteplicità di ipotesi previste dalle leggi speciali.
La formulazione proposta ha indubbiamente il vantaggio di non dovere intervenire sulle leggi speciali, che rimarranno dunque in vigore e continueranno ad applicarsi ogni volta che con la sentenza di patteggiamento verranno applicate delle pene accessorie.
La parte finale del comma 1-bis, che si pone quale diretta conseguenza dei periodi antecedenti, specifica la portata ed i limiti della equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, attraverso la clausola di salvezza “salvo quanto previsto dal primo o dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge”.
TESTO RIFORMATO |
Art. 446 c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena e consenso 1. Le parti possono formulare la richiesta prevista dall'articolo 444, comma 1, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli articoli 421, comma 3, e 422, comma 3, e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabilite dall'articolo 458, comma 1 o all’udienza prevista dal comma 2-bis dello stesso articolo. (Omissis) 3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o a mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. (Omissis) |
Quanto al nuovo testo dell’art. 446 c.p.p., si tratta di una norma che non ha richiesto significativi interventi di adattamento a seguito della disciplina adottata in attuazione dell’articolo 1, comma 12, della legge delega, in materia di rito monocratico a citazione diretta. Le necessarie modifiche, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento nei procedimenti a citazione diretta, sono state apportate, infatti, in attuazione del criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 12, lett. a), attraverso l’interpolazione dell’art. 552, comma 1, lett. f) e la disciplina dettata con il nuovo art. 554-ter c.p.p.
Il comma 1 prevede che, nel caso di notifica del decreto di giudizio immediato, la richiesta di patteggiamento deve essere formulata entro il termine e con le forme stabilite dall’art. 458, comma 1, c.p.p., ovvero all’udienza prevista dal comma 2-bis dello stesso articolo 458 c.p.p..
Con riferimento a tale specifico aspetto, si rimanda, per un maggiore organicità e per ragioni di chiarezza espositiva, alla parte della presente scheda relativa al giudizio immediato.
Al comma 3, con formulazione testuale analoga a quella già utilizzata in tema di giudizio abbreviato al comma 3 dell’art. 458 c.p.p., vengono disciplinate le modalità e le forme di manifestazione della volontà dell’imputato di accedere al rito alternativo, mediante mera specificazione di quanto era già previsto dal testo previgente con il richiamo dell’art. 583, comma 3, c.p.p. e, pertanto, anche ai sensi della nuova disciplina, la volontà dell’imputato dovrà essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione dovrà essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore.
TESTO RIFORMATO |
Art. 447 c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari 1. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice, se è presentata una richiesta congiunta o una richiesta con il consenso scritto dell'altra parte, fissa, con decreto in calce alla richiesta, l'udienza per la decisione, assegnando, se necessario, un termine al richiedente per la notificazione all'altra parte. Almeno tre giorni prima dell'udienza il fascicolo del pubblico ministero è depositato nella cancelleria del giudice. Nel decreto di fissazione dell’udienza è indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa. (Omissis) |
Al comma 1, nel caso di richiesta di applicazione di pena concordata proposta congiuntamente, ovvero da una sola delle parti con il consenso dell’altra nel corso delle indagini preliminari, viene stabilito che il giudice deve fissare con decreto l’udienza per la decisione, con eliminazione della possibilità di emettere detto decreto in calce alla richiesta e con espressa previsione che nel decreto di fissazione dell’udienza deve essere indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
TESTO RIFORMATO |
Art. 448 c.p.p. – Provvedimenti del giudice (Omissis) 1 bis. Nei casi previsti dal primo comma, quando l’imputato e il pubblico ministero hanno concordato l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 545 bis commi 2 e 3. (Omissis) |
Nei casi previsti dall’art. 448, co. 1 c.p.p. (sentenza di patteggiamento pronunciata all’esito dell’udienza di cui all’art. 447 c.p.p., all’esito di giudizio direttissimo o di giudizio immediato, sentenza di patteggiamento pronunciata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado a seguito di riproposizione dell’istanza dopo il dissenso del P.M. o il rigetto del G.I.P., sentenza pronunciata dal giudice dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione nel caso di dissenso del P.M. o di rigetto della richiesta ritenuti ingiustificati), la nuova norma prevede, al comma 1-bis, che, quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente.
Poiché l’applicazione della pena concordata dalle parti può essere richiesta all’esito di una preventiva interlocuzione tra pubblico ministero e difensore dell’indagato o dell’imputato, le parti possono presentarsi al giudice con una proposta già delineata e solo da delibare, ipotesi, questa, che dovrebbe quella fisiologica o quantomeno auspicabile.
La norma in oggetto prende in considerazione, quindi, le seguenti ipotesi:
a) che le parti si trovino già davanti al giudice e non abbiano potuto o voluto per qualsiasi causa raggiungere un consenso sull’applicazione di una sanzione sostitutiva;
b) che sia raggiunto almeno un accordo sulla pena e sulla sua applicazione ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.
Dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, si evince che l’espressione “quando l’imputato e il pubblico ministero hanno concordato l’applicazione di una sanzione sostitutiva”, deve essere intesa nel senso che l’accordo, almeno generale, deve essere già raggiunto e deve precedere la richiesta di differimento dell’udienza, di cui costituisce il presupposto, onde evitare ed anzi disincentivare richieste esplorative o dilatorie, che possano determinare un inutile aggravio del carico di lavoro dell’Ufficio esecuzione penale esterna.
In questi casi, se il giudice non può decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. La norma contiene il rinvio all’applicazione dei soli commi 2 e 3 dell’art. 545-bis c.p.p., che disciplinano le attività e i poteri del giudice, delle parti e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, allo scopo di determinare i contenuti e la fisionomia della sanzione sostitutiva da sottoporre al giudice stesso.
IL GIUDIZIO DIRETTISSIMO
L’unica novità introdotta dalla riforma in materia di giudizio direttissimo ha riguardato l’art. 450, comma 3, c.p.p. e, segnatamente, la previsione che nella citazione a comparire all’udienza per il giudizio direttissimo devono essere inseriti tutti i requisiti di cui all’art. 429, comma 1, c.p.p. e, quindi, anche il requisito di cui alla lettera d-bis) della citata norma, ossia l’avviso all’imputato e alla persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
IL GIUDIZIO IMMEDIATO
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Anche nel caso delle modifiche apportate alle norme che disciplinano il giudizio immediato, lo scopo del legislatore sembra essere quello di incentivare la scelta di riti alternativi successivamente alla notifica del decreto di giudizio immediato, compresa la sospensione del procedimento con messa alla prova.
I criteri di delega sono infatti finalizzati a favorire la trasformazione del giudizio immediato (ordinario) in un rito speciale con caratteristiche deflative, come si evince dalla previsione dell’obbligo per il giudice di fissare, a richiesta dell’imputato, una udienza camerale, nel corso della quale, anche nell’ipotesi di non accoglimento della richiesta originaria, l’imputato possa presentare richieste ulteriori, sempre nell’ottica di una definizione anticipata del procedimento. Solo come ultima e residuale opzione viene disciplinata l’eventualità che nessuna richiesta di rito alternativo vada a buon fine e che si debba procedere con la celebrazione del dibattimento.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 456 c.p.p. – Decreto di giudizio immediato (Omissis) 2. Il decreto contiene anche l'avviso che l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato, ovvero l'applicazione della pena a norma dell'articolo 444 ovvero la sospensione del procedimento con messa alla prova. (Omissis) |
L’intervento sull’art. 456, comma 2, c.p.p. è finalizzato esclusivamente a recepire le statuizioni contenute nella sentenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 19 del 2020, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 456, co. 2, c.p.p., per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedeva che il decreto che dispone il giudizio immediato contenesse l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Si è conseguentemente ritenuto di dover menzionare la sospensione del procedimento con messa alla prova come possibile oggetto di richiesta all’udienza camerale anche negli artt. 458 e 458-bis c.p.p.. Non è stato necessario inserire la previsione del diritto di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in via principale, perché detta possibilità è già contemplata dall’art. 464-bis, comma 2, c.p.p., secondo periodo, ai sensi del quale “se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1”.
TESTO RIFORMATO |
Art. 458 c.p.p. – Richiesta di giudizio abbreviato (Omissis) 2. Il giudice fissa in ogni caso con decreto l'udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all'imputato, al difensore e alla persona offesa. Qualora riconosca la propria incompetenza, il giudice la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Nel giudizio si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 438, commi 3, 5 e 6-ter, 441, 441-bis, 442 e 443; nel caso di cui all'articolo 441-bis, comma 4, il giudice, revocata l'ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato, fissa l'udienza per il giudizio immediato. 2-bis. Se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova. 2-ter. Se non è accolta alcuna richiesta di cui al comma precedente, il giudice rimette le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate. (Omissis) |
Al comma 2 della norma in oggetto è previsto che il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa. Qualora riconosca la propria incompetenza, il giudice la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Nel giudizio si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 438, commi 3, 5 e 6-ter, 441, 441-bis, 442 e 443; nel caso di cui all’articolo 441-bis, comma 4, il giudice, revocata l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato, fissa l’udienza per il giudizio immediato.
Come già anticipato, l’elemento di novità, rispetto alla disciplina antecedente, è costituito dall’obbligo per il giudice di fissare “in ogni caso” con decreto l’udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta, mentre in precedenza l’emissione del decreto di fissazione dell’udienza implicava una valutazione in termini positivi circa l’ammissibilità dell’istanza, con particolare riferimento alla sua tempestività ed alla legittimazione del richiedente.
Altro elemento di novità, dovuto alla necessità di raccordare la disciplina del giudizio immediato con quella del giudizio abbreviato e con le modifiche normative in quella sede introdotte, è l’inserimento, tra le disposizioni richiamate in tema di giudizio abbreviato, dell’art. 438, comma 6-ter, c.p.p., già esaminato in precedenza.
Al comma 2-bis è previsto che, se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444, oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova
Si tratta di una previsione che amplia notevolmente la possibilità per l’imputato di accedere a diversi riti alternativi, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria e ciò indipendentemente dalla formulazione di richieste in via subordinata contestualmente alla richiesta formulata in via principale entro il termine decadenziale di quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, ben potendo detta facoltà essere esercitata per la prima volta in sede di udienza camerale.
Viene dunque recepito normativamente ed esteso a tutte le possibili richieste di rito alternativo il principio che era già stato enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, per effetto del quale, qualora l'imputato ha tempestivamente richiesto il giudizio abbreviato condizionato e l'istanza è stata rigettata dal G.I.P., è legittima la riproposizione della richiesta di rito speciale, a diverse o senza condizioni, formulata all'udienza camerale fissata ai sensi dell'art. 458, comma secondo, c.p.p. (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 29912 del 07/06/2016 Cc. (dep. 14/07/2016) Rv. 268019 – 01). In questo caso, la Suprema Corte aveva evidenziato la correttezza di una simile soluzione, per ragioni logico-sistematiche e di economia processuale, dato che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 23 maggio del 2003, che aveva dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 458, comma 2, cod. proc. pen. (e dell'art. 438, comma 2 cod. proc. pen., come si vede assimilando le due norme), la richiesta di abbreviato condizionato, rigettata dal G.I.P., può essere riproposta davanti al giudice del dibattimento, il quale, se l'accoglie, dispone il giudizio abbreviato.
Tornado alla disamina della nuova normativa, solo in caso di rigetto di ogni richiesta di rito alternativo e, quindi, in via, con ogni evidenza, residuale, è previsto, al comma 2-ter, che il giudice debba rimettere le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate.
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 458-bis c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena 1. Quando è formulata la richiesta prevista dall’articolo 446, il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa. 2. Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 458. Nel caso di rigetto delle richieste, si applica l’articolo 458, comma 2-ter. |
L’art. 458-bis c.p.p. di nuova introduzione prevede, al comma 1, che, quando è formulata la richiesta prevista dall’articolo 446, il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa.
L’art. 446, al comma 1, secondo la nuova formulazione, contempla la possibilità per l’imputato di formulare la richiesta di patteggiamento o entro il termine e con le forme di cui all’art. 458, comma 1, c.p.p. e, quindi entro quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, o all’udienza prevista dal comma 2-bis dell’art. 458 c.p.p. e, quindi, in sede di udienza camerale, anche dopo il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria.
Al comma 2 dell’art. 458-bis c.p.p., è previsto che, nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 458. Nel caso di rigetto delle richieste, si applica l’articolo 458, comma 2-ter.
Si tratta con ogni evidenza di una disposizione finalizzata ad uniformare la disciplina dettata in materia di richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. a seguito della notifica del decreto di giudizio immediato a quella dettata in materia di richiesta di giudizio abbreviato conseguente alla notifica del decreto di giudizio immediato.
Ed invero, l’art. 458-bis, comma 2, c.p.p. e l’art. 458, commi 2-bis e 2-ter, sono norme del tutto sovrapponibili ed ispirate dalla medesima ratio di deflazione e di notevole ridimensionamento dei casi di celebrazione del giudizio dibattimentale.
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore e applicazione di questa parte della riforma, l’art. 6 del D.L. n. 162 del 31/10/2022, ha introdotto, dopo l'articolo 99 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, l’art. 99 bis, ai sensi del quale il sopraindicato decreto entrerà in vigore il 30/12/2022.
Da ciò discende che, mentre prima di detto decreto-legge, non essendovi disposizioni specifiche e/o derogatorie, per il generale principio del tempus regit actum, sarebbe stato corretto ancorare la data di entrata in vigore delle disposizioni in precedenza esaminate al 1° novembre 2022 (15° giorno dalla pubblicazione del D.L.vo n. 150/2022), a seguito dell’introduzione della specifica disciplina sopra riportata, la data di entrata in vigore delle disposizioni in oggetto dovrà essere individuata nel 30/12/2022.
Si evidenzia, tuttavia, nel caso di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria che implichi l’assunzione di prove dichiarative, che la norma richiamata dall’art. 442, comma 5, c.p.p. e cioè l’art. 510 c.p.p. avente ad oggetto la documentazione della prova mediante riprese audiovisive, in relazione alla quale era stata prevista l’entrata in vigore entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 150/2022 (art. 94 delle disposizioni transitorie), a seguito delle modifiche introdotte con l’art. 5-undecies del D.L. n. 162 del 31/10/2022, convertito con modificazioni dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199, entrerà in vigore nel più breve termine di sei mesi.
Stereotipi e pregiudizi di genere: una storia ancora attuale
di Sara Posa e Lucia Spirito
Il percorso di cui questo contributo racconta in qualche modo la storia è l’incontro tra una competenza, che stimola una nuova sensibilità, che genera curiosità, che a sua volta fa nascere competenza; un cammino che è il nostro: una sintesi tra elementi di conoscenza e di dubbio.
“La difesa è sacra ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati – e qui parlo come avvocato – si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali sicuri da difendere, ebbene, nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori: “Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere un po’ è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!”. Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto (…). Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano più denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa”.
Questo brano è un frammento dell’arringa pronunciata nel 1978 dall’avvocato Tina Lagostena Bassi, che aveva assistito la persona offesa, una giovane donna, Fiorella, nel processo per violenza carnale in cui erano imputati quattro uomini, celebrato innanzi al Tribunale di Latina. Da questo processo era stato tratto il documentario “Processo per stupro”, trasmesso nel 1979 dalla R.A.I. e conservato anche negli archivi del M.O.M.A. di New York, che voleva mostrare per la prima volta all’opinione pubblica italiana come le donne che denunciavano di aver subito uno stupro divenivano automaticamente nelle aule di giustizia le principali accusate perché costrette a dover difendere se stesse, la propria vita e la propria morale da domande, poste dalle difese degli imputati, che esulavano dai fatti oggetto dell’imputazione, volte esclusivamente a screditarle e, conseguentemente, a minarne la credibilità, facendo leva sullo stereotipo secondo cui una donna “onesta” non poteva subire una violenza sessuale[1].
Nel 2015, a distanza di trentasette anni, in plurimi passaggi della motivazione della sentenza di assoluzione emessa all’esito del processo di secondo grado relativo a fatti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo, i Giudici della Corte d’Appello di Firenze si sono soffermati a descrivere il tipo di biancheria intima indossata dalla persona offesa, il suo orientamento sessuale, le sue relazioni sentimentali e ad esaminare aspetti della sua vita familiare e privata, definendola come “una vita non lineare”.
Anche in questo processo, così come tutt’ora frequentemente nei procedimenti per reati in materia di violenza di genere che si celebrano nelle aule dei Tribunali, alla persona offesa escussa come testimone non solo sono state poste domande su questioni non pertinenti e di natura strettamente personale e intime[2], ma questi argomenti sono stati utilizzati e valorizzati persino nella sentenza: ciò appare indicativo di un atteggiamento culturale, persistente, radicato e attuale, che tende a minimizzare la violenza di genere, a colpevolizzare la persona offesa, esponendola così ad una vittimizzazione secondaria, e di conseguenza a perpetuare gli stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società.
Tale impostazione è stata infatti stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel caso J.L contro Italia, con decisione del 21.05.2021, ha condannato lo Stato italiano a risarcire la ricorrente, ritenendo che la citata sentenza della Corte d’Appello di Firenze abbia violato l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e vieta le ingerenze delle autorità pubbliche nell’esercizio dello stesso. La Corte ha affermato che il linguaggio colpevolizzante e moraleggiante, nonché gli argomenti utilizzati nella sentenza trasmettono “i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente”.
L’attuale persistenza nella società italiana di diffusi pregiudizi e stereotipi di genere è stata peraltro segnalata anche da un altro organismo internazionale, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), istituito proprio allo scopo di monitorare l’attuazione delle norme della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nelle sue osservazioni conclusive sul settimo rapporto sull’Italia, pubblicato il 4.07.2017, il Comitato ha rappresentato di notare con preoccupazione “il radicamento di stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società, perpetuando i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe e compromettendo il loro status sociale e le loro prospettive di istruzione e di carriera”.
Simili pregiudizi, come dimostrato dall’indagine relativa agli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale dell’Istat pubblicata nel 2019, condizionano anche la valutazione delle violenze agite contro le donne. In particolare, è emerso come sia tutt’ora sussistente il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita: il 39% della popolazione ritiene infatti che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire e il 15,1% ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3%della popolazione, infine, le accuse di violenza sessuale sono spesso false.
A fronte di queste plurime segnalazioni di allarme, peraltro provenienti da diversi soggetti qualificati, appare opportuno che tutti i professionisti, magistrati, avvocati, forze di polizia, psicologi e assistenti sociali, a vario titolo coinvolti nei procedimenti giudiziari concernenti casi di violenza di genere o domestica, sia nel settore penale che in quello civile, prendano atto dell’esistenza di stereotipi e condizionamenti socio-culturali, che, inconsapevolmente e quindi in modo insidioso, possono incidere negativamente sull’approccio a questo tipo di vicende, influenzando così lo svolgimento delle indagini e di conseguenza l’acquisizione di tutti gli elementi necessari a ricostruire il fatto, la valutazione degli elementi emersi, delle condotte dell’indagato/imputato e della persona offesa, delle dichiarazioni di quest’ultima e infine la decisione.
È, innanzitutto, imprescindibile evitare di essere condizionati da quello che è il nostro modello culturale e comportamentale di riferimento nella valutazione delle condotte della persona offesa e della sua credibilità. L’aver sopportato violenze fisiche e psicologiche per anni prima di sporgere una denuncia per maltrattamenti nei confronti del proprio partner, ad esempio, potrebbe sembrare inconcepibile per molti uomini e molte donne, ma ciò non può tuttavia escludere che vi siano persone che invece, per diversi motivi, quali dipendenza affettiva, dipendenza economica, condizionamenti familiari, tollerino vessazioni e soprusi anche per un ampio lasso temporale.
È dunque essenziale liberarsi da pre-giudizi che si fondano su quello che è o sarebbe il nostro modo di ragionare, atteggiarci e reagire a fronte di situazioni simili a quelle riferite dalla persona offesa poiché non esiste un modello comportamentale universale, unico o corretto a fronte di episodi di violenza e, quindi, occorre essere consapevoli che ogni vittima potrebbe reagire in modo diverso dal nostro di fronte ad un medesimo fatto, senza che ciò tuttavia possa di per sé costituire un indice di non credibilità della persona offesa.
Stereotipi culturali e criteri di giudizio
Quando in un procedimento si hanno limitate fonti di prova - come quando si hanno a disposizione solo due versioni contrapposte dei fatti e nessun testimone diretto - la decisione non può che fondarsi sulla valutazione di maggior attendibilità e ragionevolezza del racconto, dunque su impressioni e sulla (percepita) logicità degli argomenti proposti.
Rispetto alle impressioni, va in particolare considerato il cosiddetto “errore di persistenza”, che dipende dall’impressione iniziale che ci si forma di un soggetto (sia esso imputato o persona offesa) e rappresenta la tendenza a resistere al cambiamento, alternando il processo di acquisizione e l’interpretazione di informazioni successive.
A sua volta, nell’opera di selezione della ricostruzione più credibile, il Pubblico Ministero, prima, e il Giudice, poi, utilizzano quelle che vengono definite “rappresentazioni cognitive”, che sono fondate sulle impressioni e sull’insieme di conoscenze sedimentatesi nella memoria sulla base dell’esperienza. Tuttavia, nonostante la pratica quotidiana, anche la psicologia del magistrato è una “psicologia ingenua”, intendendosi per tale quella tendenza tipica di ciascun individuo all’interpretazione dei comportamenti altrui, che tuttavia poco ha a che fare con la psicologia intesa come scienza[3]. Le stesse massime di comune esperienza, soprattutto quando riguardano la spiegazione di comportamenti umani, rappresentano spesso semplici convenzioni diffuse, non sorrette da un congruo sapere scientifico. Le credenze, le teorie, le convinzioni che ciascuno matura sul comportamento altrui sono, peraltro, inevitabilmente legate alla cultura di provenienza e alla cosiddetta “psicologia implicita”[4].
Alla luce di queste considerazioni deve dunque ritenersi pressoché inevitabile il ricorso, più o meno consapevole, nel giudizio a stereotipi e pregiudizi.
Esperimenti condotti da psicologi sociali hanno, in proposito, dimostrato come gli stereotipi impliciti (associazioni mentali che influiscono sui giudizi, senza che se ne abbia consapevolezza) vengano mantenuti anche quando il soggetto a livello cosciente non condivide i contenuti dello stereotipo[5].
Ecco perché nessuno (neppure le donne![6]) può dirsi esente da stereotipi e pregiudizi e, come anticipato, non possono essere sottovalutati i citati richiami provenienti – tra l’altro - da una pluralità di organismi internazionali, che evidenziano il rischio “di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria” (J.L. v. Italia – CEDU 2021).
Alcuni esempi di “massime di comune esperienza” basate su presupposti fallaci[7]
Una delle distorsioni cognitive (bias) spesso operanti nei giudizi relativi a reati di violenza di genere è quella definita del “doppio standard”, che consiste nel ritenere accettabile un determinato comportamento se applicato agli uomini, inaccettabile se, al contrario, applicato alle donne. Caso tipico è quello del doppio standard sessuale. La condotta sessuale femminile influenza, infatti, come sopra anticipato i giudizi sulle vittime di stupro.
L’incidenza di tale bias cognitivo è stata avvalorata da uno studio condotto in California,[8] che ha mostrato come a fronte di un medesimo racconto, una vittima vergine venisse considerata significativamente meno responsabile di una promiscua, sul presupposto implicito che la prima non si fosse posta in condizioni di essere stuprata e che la seconda avesse, invece, mentito sull’accaduto.
Rientrano a pieno titolo nelle false credenze fondate su stereotipi e pregiudizi che riguardano vittime e autori di violenza sessuale i cosiddetti “miti dello stupro”[9], responsabili della (e funzionali alla) giustificazione delle aggressioni sessuali nei confronti delle donne, con effetti discriminatori.
I principali “miti dello stupro” sono i seguenti:
1. La violenza sessuale è dettata da un irrefrenabile impulso sessuale
Il mito si basa su uno stereotipo di genere che descrive la sessualità maschile come compulsiva, riconducendo la violenza ad un istinto biologico e minimizzando il tema del desiderio di dominio. La violenza sessuale è, tuttavia, più che espressione di impulso erotico, una forma di violenza che si avvale della sessualità, una imposizione violenta su un’altra persona, un atto di potere.
In una prospettiva più generale, molto spesso la violenza di genere viene rappresentata come un gesto incontrollabile che esplode all’improvviso, modalità che deresponsabilizza l’autore della condotta. La stessa narrazione difensiva dell’autore come “brava persona”, ponendone in evidenza – come se si trattasse di elementi aventi valore dirimente - l’integrazione sociale o economica, ostacola il riconoscimento della violenza e dei relativi meccanismi, che non attengono tuttavia esclusivamente a situazioni di marginalità.
Anche la narrazione centrata sulla gelosia e sul presunto eccesso di sentimenti nasconde relazioni possessive, dinamiche di potere e di controllo, incapacità di affrontare le differenze e i conflitti.
2. Solo un certo tipo di donna viene violentata
Il mito è espressione del cosiddetto “sessismo benevolo”, ovverosia di una forma di sessismo che protegge le donne che rispettano gli standard patriarcali e del “sessismo ostile”, che – viceversa - attacca quelle donne che non si attengono ad essi. La convinzione comune sottostante è che con alcuni comportamenti (assunzione di alcool, vestiario…) la vittima se non abbia dato causa, quanto meno, abbia reso ragionevole per l’aggressore ritenerla disponibile (e, quindi, consenziente[10]).
Si tratta di stereotipo a tutt’oggi ampiamente diffuso, se solo si considera che – come sopra anticipato – secondo dati Istat il 23,9% degli italiani pensa che una donna possa provocare la violenza sessuale con il suo modo di vestire e il 15,1% che una donna che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.
Per una visione libera da questo stereotipo, anche implicito, è necessario non dare per scontato né normalizzare lo sguardo e il comportamento maschile sul corpo delle donne e sulle loro vite e ripartire dal riconoscimento della libertà femminile.
3. La violenza sessuale è opera di un estraneo: maggiore è il grado di relazione tra vittima e aggressore, meno probabilità ci sono che la violenza sessuale sia uno stupro
In tale prospettiva molti studi hanno mostrato come le donne stuprate da conoscenti siano ritenute maggiormente responsabili dell’accaduto[11], a fronte di dati di incidenza statistica di segno contrario rispetto all’enunciazione del mito.
Gran parte della violenza, in particolare quella più grave, è tuttavia commessa da partner, familiari o conoscenti. Gli stupri sono commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici (Istat, 2014). Dal 2000 al 2019 sono state uccise in Italia 3.230 donne di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner (Eures, 2019).
4. Le donne non sono affidabili/attendibili perché si inventano stupri per rimpianto o per vendetta
Secondo l’Istat, come visto, per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false.
Si tratta di mito falsificato – tra l’altro – da un’indagine condotta nel Regno Unito tra il 2005 e il 2006, che ha stimato che la percentuale di falsi abusi era pari al 2% del totale degli stupri denunciati[12].
In realtà il sommerso è molto alto: i tassi di denuncia riguardano solo il 12,2% delle violenza da parte del partner e il 6% di quelle da non partner (Istat, 2014).
Tutte le ricerche sottolineano i numerosi ostacoli che rendono difficile per una donna denunciare la violenza, fra cui il timore di non essere credute. Le denunce arrivano spesso alla fine di un lungo percorso e costituiscono solo una minima parte di un fenomeno molto più diffuso. Secondo l’Istat in Italia 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni.
5. Se la donna davvero non vuole il rapporto sessuale può sempre opporsi con resistenza attiva
Secondo dati Istat il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole.
In realtà la possibilità di evitare un’aggressione sessuale non dipende dal grado di resistenza della vittima, ma dalle caratteristiche dell’aggressore[13].
Come visto, dunque, quelle sin qui esposte sono tutte false credenze che servono tuttavia ad illuderci, da un lato di poter evitare di divenire potenziale vittima, attraverso l’adozione di comportamenti socialmente adeguati, dall’altro di marginalizzare la violenza maschile, senza dover prendere in seria considerazione i modelli culturali che sono alla base di questo fenomeno.
Una chiara stigmatizzazione del ricorso a miti dello stupro si ha nell’opinione del Comitato CEDAW luglio 2010 nel caso Vertido vs. Philippines. Segnatamente, il Comitato ha osservato come l’uso degli stereotipi di genere incida sul diritto delle donne a un processo equo e giusto. Il Comitato ha, poi, sottolineato come l’autorità giudiziaria debba prestare attenzione a non creare standard inflessibili su quel che le donne o le ragazze dovrebbero essere o quello che avrebbero dovuto fare in una situazione di stupro, basandosi solamente in nozioni preconcette di ciò che definisce una vittima di stupro e di violenza basata sul genere.
È il tema del comportamento atteso. Nel commentare una sentenza emessa nel 2017 dal Tribunale di Torino, che aveva assolto l’imputato di violenza sessuale, proprio sulla base della assenza del comportamento atteso[14], Paola Di Nicola scrive “chi può sapere qual è la reazione giusta a una violenza se non chi l’ha vissuta rispetto a quell’uomo, rispetto a quella situazione, rispetto a quel rapporto di conoscenza, rispetto a quella vicenda umana che si è consumata? Nessuno, se non la vittima”[15].
Quella che si fonda sul comportamento atteso è, appunto, un’impostazione da “psicologi ingenui”; a mero titolo esemplificativo ci sono, infatti, ricerche scientifiche condotte dall’American Association for the Advancement of Science che dimostrano come la maggior parte delle donne vittime di violenza reagisca allo stupro con una paralisi involontaria. Ci si blocca, non si urla, si resta pietrificate[16].
Se si assume una prospettiva più attenta, l’utilizzo di questo genere di stereotipi non è poi così lontano da quello della nota sentenza della Cassazione sui “jeans”[17] o dall’argomento utilizzato nell’arringa difensiva nel citato “Processo per stupro”: “Signori! una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. Passa assolutamente la voglia a chiunque di continuare e l’azione quindi mal si coniuga con la ipotesi della violenza anzi è incompatibile con l'ipotesi della violenza”.
Anche se in maniera cosciente ci riteniamo liberi da stereotipi, l’analisi della prassi giudiziaria ci mostra come nessuno possa dirsi esente da stereotipi impliciti, non meno pericolosi, sul piano della corretta comprensione e valutazione, di quelli oggetto di comune stigmatizzazione.
Altri stereotipi giudiziari nel settore penale
Il rischio di essere influenzati da stereotipi e pregiudizi si manifesta anche nei casi di c.d. progressione dichiarativa, qualora cioè il racconto della persona offesa venga arricchito nel tempo di nuovi particolari. Nelle aule dei Tribunali, l’argomento della non sovrapponibilità delle dichiarazioni della vittima viene utilizzato non solo dalle difese, ma talvolta anche dal Giudice come indice di inattendibilità del racconto. In realtà, come peraltro indicato dalla Suprema Corte di Cassazione, il contributo dichiarativo della persona offesa può arricchirsi progressivamente in occasione delle sue audizioni senza diventare automaticamente e solo per questo inattendibile, soprattutto qualora i nuovi elementi forniti costituiscano un completamento e un’integrazione dei precedenti, il racconto risulti coerente e fermo e i singoli episodi siano contestualizzati (cfr. Cass., Sez. III, sent. 23202/2018). Accade spesso infatti che le dichiarazioni accusatorie della vittima non siano immediatamente complete ed esaustive, ma che al contrario si sviluppino in un complesso percorso di disvelamento, che può essere condizionato dal timore nei confronti dell’autore del reato, soprattutto quando lo stesso è il coniuge o un familiare, dalla vergogna, dal grado di affidamento nei confronti dell’autorità procedente e dalla rivisitazione e dal superamento del trauma patito.
Queste indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità in ordine agli elementi da tenere in considerazione nel vagliare le dichiarazioni della persona offesa e delle possibili cause di discrasie e di progressioni dichiarative, rendono evidente come in questa materia la preparazione e le competenze tecnico giuridiche devono essere affiancate anche da conoscenze di tipo psicologico, che possono aiutare il giurista a superare stereotipi e pregiudizi e quindi ad interpretare e comprendere comportamenti e dichiarazioni che potrebbero apparire contraddittori e sintomatici della non credibilità della persona offesa: a differenza di altre tipologie di reato, infatti, in questo ambito l’acquisizione di elementi utili alla ricostruzione del fatto ed alla responsabilità del presunto autore si fonda sostanzialmente sulle dichiarazioni della vittima, la quale a sua volta è sovente condizionata da una serie di fattori come la dipendenza economica o affettiva dal partner, con il quale la stessa, nonostante le violenze subite, potrebbe anche volersi riconciliare.
Nel corso dei procedimenti penali per reati di violenza domestica, invero, accade non di rado che la persona offesa si riavvicini al partner e che quindi, non potendo rimettere denuncia-querela sporta a causa dell’irrevocabilità prevista per i delitti di violenza sessuale e della procedibilità d’ufficio per i maltrattamenti in famiglia, sia indotta a modificare, attenuare o addirittura ritrattare integralmente le dichiarazioni accusatorie precedentemente rese, in genere senza fornire alcuna plausibile spiegazione in ordine alle diverse versioni fornite.
La riappacificazione e la conseguente ripresa della convivenza quindi, in diverse sentenze di merito e di legittimità, sono ritenute integranti quegli “elementi concreti” idonei ad incidere sulla genuinità dell’esame testimoniale di cui all’art. 500, co. 4, c.p.p., che consentono di acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dalla persona offesa e contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Il tema appare collegato a quello dell’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima nei confronti dell’indagato/imputato, che emerge dalle dichiarazioni e dall’atteggiamento della donna nel corso del procedimento penale. Anche questo aspetto deve essere ponderato con attenzione e non deve condurre automaticamente ad un giudizio di inattendibilità del narrato, sebbene a chi procede possa sembrare inverosimile o incomprensibile che la vittima di violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali possa continuare a nutrire affetto nei confronti del proprio aggressore.
In proposito, fondamentali indicazioni sono fornite ancora una volta dalla Suprema Corte di Cassazione, che, in tema di valutazione della prova testimoniale, ha osservato che l’ambivalenza dei sentimenti non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni rispetto al complesso degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice. La Cassazione ha inoltre puntualmente illustrato quei motivi di natura psicologica che potrebbero condizionare il rapporto tra la persona offesa e l’imputato, evidenziando che, “senza dover pensare al caso limite conosciuto nella letteratura scientifica come “sindrome di Stoccolma”, non è inconsueto riscontrare nella prassi, soprattutto in contesti familiari consolidati o comunque connotati da legami sentimentali particolarmente intensi, quella situazione emotiva - che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva – che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un’altra e la predisposizione ad accettare qualunque compromesso, piegandosi alla volontà dell’altro fino ad annullare la propria dignità, per ottenere affetto e riconoscimento. Ancora, nei rapporti tra soggetto maltrattante e vittima delle violenze e vessazioni è frequente riscontrare un’ambiguità di sentimenti suscettibile di portare quest’ultima, nonostante le sofferenze cagionate dal partner, ad accettare la prosecuzione della relazione, da un lato, per l’esistenza di un forte legame affettivo, di un “amore malato”, tale da creare una controspinta dovuta a dinamiche da dipendenza; dall’altro, per la soggezione psicologica determinata proprio dall’azione di coartazione esercitata dall’agente nei confronti della persona offesa. Ancora la resistenza a formalizzare una denuncia nei confronti del soggetto maltrattante può dipendere dal timore di compiere scelte che possano provocare la dissoluzione dell’unità familiare e comportare pregiudizi di natura economica o scompensi affettivi per i figli, piuttosto che dalla paura di subire gravi reazioni aggressive da parte di chi si sappia aduso abbandonarsi ad eccessi violenti” (Cass. Sez VI 31309/2015).
Con riguardo poi ai reati di violenza domestica, commessi all’interno del nucleo familiare, occorre inoltre tenere in considerazione le dinamiche del c.d. ciclo della violenza, che vede la condotta violenta svilupparsi in modo graduale, quasi sempre crescente e ciclico: alla prima fase in cui si realizzano le azioni preliminari alla violenza, seguono i comportamenti violenti e poi il periodo di calma e di ricostituzione del rapporto, durante il quale il partner violento promette che non reitererà le azioni aggressive, si mostra attento e premuroso e tende ad attribuire la responsabilità del proprio atteggiamento a fattori esterni o addirittura alla stessa persona offesa, in modo da riconquistarne la fiducia, anche in nome dell’interesse familiare, inducendo la vittima a sperare che la situazione possa cambiare. In questo circolo, la donna finisce per riprendere la relazione. Ebbene, in questa fase, la persona offesa verosimilmente tenderà a nascondere e minimizzare ciò che le sta accadendo fino al successivo episodio di violenza, in un ciclo ripetitivo che può protrarsi anche per molti anni.
È quindi importante tenere presente le dinamiche del ciclo della violenza nella valutazione temporale delle dichiarazioni della vittima.
Stereotipi e pregiudizi nei procedimenti civili e minorili
La recente relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha evidenziato come nei procedimenti civili relativi all’affidamento dei figli minori di cui agli artt. 337 bis e ss. c.c. e in quelli che hanno ad oggetto domande di limitazione o di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui agli artt. 330 e 333 c.c. il fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne è sottovalutato.
Dallo studio condotto dalla Commissione, in particolare, è emersa l’assenza di una specifica formazione nella materia della violenza di genere e dei suoi effetti in ambito familiare sui figli minorenni da parte delle varie figure professionali che a vario titolo operano in questi procedimenti (non solo magistrati, ma soprattutto psicologi che ricoprono incarichi di consulenti tecnici d’ufficio, e assistenti sociali), che quindi non sono in grado di riconoscere la violenza domestica e quella assistita e conseguentemente di valutarla adeguatamente: ciò si pone peraltro in contrasto con l’art. 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
In proposito, il rapporto redatto nel 2019 all’esito del monitoraggio sull’Italia del Grevio, il Gruppo di esperti indipendenti del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, ha segnalato come i meccanismi esistenti in questi procedimenti, anziché proteggere le vittime-madri ed i figli, si ritorcono contro le donne che tentano di tutelare i loro bambini denunciando la violenza subita, e le espongono ad una vittimizzazione secondaria.
È proprio in questo ambito infatti che trovano spazio altri stereotipi, come quelli relativi al ruolo genitoriale che si ritiene debba assumere una madre sottoposta a violenza, con assunzione di un modello colpevolizzante che presuppone, come nel caso dello stupro, un unico atteggiamento da tenere da parte della donna vittima-madre, senza indagare quale sia la ragione di eventuali omissioni o ritardi nella denuncia. La donna viene quindi ritenuta responsabile per non essersi sottratta prima alla spirale della violenza.
Il rischio è quello di una vittimizzazione secondaria che deriva dal ricollegare direttamente l’incapacità genitoriale all’aver subito violenza e al non averla tempestivamente denunciata. Ma anche in questo caso non si tiene conto del fatto che per chi decide di parlare il tempo ha una funzione di elaborazione: tempo per capire cosa sta avvenendo, riconoscerlo come reato e trovare le risorse per denunciare.
Un ulteriore stereotipo è quello che riconduce la violenza domestica ad una mera situazione di conflitto tra coniugi o conviventi. Nel suo rapporto, il GREVIO ha specificamente rilevato che i consulenti tecnici d’ufficio e gli assistenti sociali che collaborano con i giudici “spesso assimilano gli episodi di violenza a situazioni di conflitto e dissociano le considerazioni relative al rapporto tra la vittima e l’autore della violenza da quelle riguardanti il rapporto tra il genitore violento ed il bambino”: in tal modo, da un lato si minimizza fino a negarla la violenza che viene agita unilateralmente da un partner ai danni dell’altro, e dall’altro si ignora completamente la violenza assistita a cui viene esposto il minore e i suoi effetti deleteri anche in relazione al suo sviluppo psico-fisico.
Il mancato riconoscimento della violenza domestica, degradata a mero conflitto interpersonale, nonché della violenza assistita e, di conseguenza, l’omessa valutazione delle stesse sono alla base di un ulteriore pregiudizio nei confronti della donna-madre-vittima, che frequentemente – come emerge ancora una volta dal rapporto del GREVIO ed altresì dalla citata relazione della Commissione parlamentare – viene incolpata per la riluttanza dei figli ad incontrare il padre violento. L’assenza di un’indagine sui reali motivi del rifiuto del minore, quali la violenza diretta o assistita, può infatti comportare il rischio rilevante di una non corretta valutazione e comprensione di tale atteggiamento, che potrebbe essere imputato allo stereotipo della condotta alienante e manipolativa della madre, volta ad allontanare il figlio dall’altro genitore. A tali conclusioni spesso i consulenti tecnici d’ufficio giungono utilizzando la teoria della sindrome di alienazione parentale, anche nota con il suo acronimo P.A.S., secondo la quale il rifiuto del figlio nei confronti di uno dei genitori dipenderebbe dalle condotte dell’altro genitore intenzionalmente volte ad influenzare il bambino.
Tale teoria, elaborata nel 1985 dallo psichiatra Richard Gardner, ha trovato ampia diffusione in varie parti del mondo e anche in Italia, ma non è mai stata riconosciuta come sindrome dai manuali diagnostici internazionali in materia. Benché la validità scientifica della P.A.S. sia diffusamente contestata, la teoria ed i criteri diagnostici per l’identificazione di tale sindrome elaborati da Gardner hanno avuto ampia applicazione, prevalentemente ad opera dei Consulenti Tecnici d’Ufficio, nei procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli minori e la titolarità della responsabilità genitoriale.
Anche la Corte di Cassazione, proprio in relazione ad un giudizio in cui era stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica conclusasi con la diagnosi di sindrome da alienazione parentale, ha affermato che il giudice di merito è tenuto “a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare” (Cass., 13217 del 17.05.2021)
Un ulteriore stereotipo in cui si rischia di cadere in questo tipo di procedimenti è costituito dalla convinzione che sia necessario garantire sempre la presenza del padre per assicurare l’equilibrato sviluppo del minore, a prescindere dalla disamina dei suoi comportamenti violenti: anche in situazioni di violenza domestica, il rispetto del principio di bigenitorialità è considerato preminente e, al fine di darvi attuazione, nei procedimenti in parola le parti vengono invitate alla mediazione ed alla conciliazione proprio al fine di pervenire ad accordi che prevedano l’esercizio condiviso della genitorialità, in contrasto peraltro con quanto previsto dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul, che invece vieta il ricorso a questi strumenti di soluzione alternativa delle controversie in relazione a tutte le forme di violenza domestica e nei confronti delle donne.
Strumenti di superamento degli stereotipi culturali e dei pregiudizi di genere
L’unico modo per evitare di cadere in stereotipi impliciti e rappresentazioni fallaci è quello di prendere consapevolezza di non esserne esenti e imparare a conoscerli e riconoscerli attraverso una seria formazione, che abbracci competenze multidisciplinari.
In tale prospettiva il C.S.M., nella “risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione di procedimenti relativi a reati di violenza di genere” ha sottolineato la necessità di una formazione specialistica per la trattazione di procedimenti in materia di violenza di genere e domestica e del possesso di un bagaglio di conoscenze non solo di natura strettamente giuridica. Il Consiglio, nella medesima risoluzione, ha indicato come buone prassi anche quelle soluzioni organizzative adottate negli Uffici di Procura e nei Tribunali volte a garantire la specializzazione dei magistrati destinati alla trattazione di questi reati.
Un ulteriore strumento utile per approfondire le proprie conoscenze e competenze in questa materia e, più nello specifico, in relazione a ciascun caso da trattare, è quello del rafforzamento della cooperazione interna al sistema giudiziario tra Procure ordinarie, Tribunale civile e Magistratura minorile. La collaborazione ed il coordinamento tra gli Uffici, anche mediante accordi e protocolli, che disciplinino le comunicazioni, lo scambio di informazioni e l’eventuale trasmissione degli atti, è infatti di fondamentale importanza ad esempio per scongiurare la sottovalutazione di situazioni di violenza domestica nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli minori ed alla titolarità della responsabilità genitoriale.
Il richiamo alla necessità di prestare attenzione alle vittime e di contrastare stereotipi e pregiudizi non è, del resto, espressione di una “sensibilità femminista”, ma di precisi obblighi assunti dall’Italia.
In proposito, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato come “l'interesse per la tutela della vittima costituisce da epoca risalente tratto caratteristico dell'attività delle organizzazioni sovranazionali sia a carattere universale, come l'ONU, sia a carattere regionale, come il Consiglio d'Europa e l'Unione Europea, e gli strumenti in tali sedi elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione e cogenza nei confronti dei legislatori nazionali tenuti a darvi attuazione”[18]
Sul piano della formazione l’art 15 della Convenzione di Istanbul, impone alle parti di fornire e rafforzare un’adeguata formazione delle figure professionali. A sua volta, la direttiva 2012/29/UE all’art. 25 stabilisce che “Gli Stati membri provvedono a che i funzionari suscettibili di entrare in contatto con la vittima, quali gli agenti di polizia e il personale giudiziario, ricevano una formazione sia generale che specialistica, di livello appropriato al tipo di contatto che intrattengono con le vittime, che li sensibilizzi maggiormente alle esigenze di queste e dia loro gli strumenti per trattarle in modo imparziale, rispettoso e professionale”.
Il richiamo alla necessità di specifica formazione si rinviene anche dal rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria del 23.06.2021 e dalla citata relazione sulla vittimizzazione secondaria nei procedimenti civili e minorili, entrambe della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.
Coltivare il dubbio (anche sulla oggettività dei criteri logici che utilizziamo) e una specifica formazione multidisciplinare, accogliere gli spunti di riflessione che ci vengono, tra gli altri, dagli organismi sovranazionali sono gli unici antidoti “giudiziari” a forme di vittimizzazione secondaria, che, ostacolando l’accesso alla giustizia delle vittime, finiscono esse stesse per perpetuare la violenza.
[1] Processo per stupro quando i talebani eravamo noi-documentario - YouTube
[2] Si richiama in proposito il disposto dell’art. 54 della Convenzione di Istanbul, secondo cui “le parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o penale le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie” e dell’art. Art. 472 co. 3 bis c.p.p. ”In tali procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto”.
[3] A. Forza, G. Menegon, R. Ruminati, Il giudice emotivo, Il Mulino 2017, p. 96.
[4] Ibidem, p. 98.
[5] Ibidem, p. 113.
[6] Occorre invero considerare, tra gli altri, il fenomeno della cosiddetta misoginia interiorizzata ovverosia l’assimilazione non consapevole degli stereotipi e dei pregiudizi della cultura paternalistica, di cui è – a mero titolo di esempio - espressione il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie o violenza o, sotto diverso profilo, il mito della “donna forte”.
[7] La trattazione che segue raccoglie e sintetizza una serie di argomenti esposti nel testo “Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie” a cura di Claudia Pecorella, Giappichelli 2021.
[8] C.L: Muehlenhard, J.K. Sakaluk, K.M. Esterline, Duble standard, in P. Whelehan, A Bolin (a cura di), International Encyclopedia of human sexuality, 2015.
[9] K.E. Edward, M.D. Macleod, The Reality ad myth of rape: implications for the criminal Justice system, in Expert Evidence, 2000.
[10] Sul tema del consenso vale richiamare quanto di recente osservato dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha avuto modo di evidenziare come “non sia ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito delle entrata in vigore della legge n. 66 del 1996 […], un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenere perfezionati gli elementi costitutivi del reato stesso, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale; si deve piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”.
[11] S. Ben-David, O. Schneider, Rape perceptions, gender role attitudes, and victim perpetrator acquaintance, in Sex Roles, 2005.
[12] A Walker, C. Kershaw, S. Nicholas, Crime in Engrand and Wales 2005/2006
[13] M.P. Koss, the hidden rape victim: personality, attitudinal, and situational characteristics, in Psychology of Women Quarterly, 1985.
[14] Si legge in un passaggio motivazionale “pare abbia continuato il turno dopo gli abusi. Non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazione di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo”.
[15] Paola Di Nicola, la mia parola contro la sua, Harper Collins 2018, p. 174-175.
[16] Paola Di Nicola, ibidem.
[17] Si legge in un passaggio motivazionale della sentenza “È dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare, anche in parte, i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, perché trattasi di un’operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa”.
[18] SS.UU. 10959/2016.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.