ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Tutti saprebbero fare un giornale se solo occorresse l’inchiostro tipografico. E invece ci vuole qualcos’altro. Non basta saper non pensare: per fare un giornale, bisogna anche saper esprimere l’assenza di pensiero. Il pensiero, caustico, di un giornalista e scrittore austriaco, è l’occasione per una critica di quelle frequenti letture massimaliste - già presenti e riaffermate con cadenza regolare all’interno e all’esterno della magistratura - che pretendono di spingere il dovere di imparzialità ancora oltre. Verso l’affermazione di un vuoto, radicale e pericoloso dovere di manifestare il non pensiero valoriale - apparire imparziali - tangibile espressione del dovere di astenersi dal pensiero valoriale - essere imparziali. Apparire imparziali, essere imparziali. Essere imparziali, apparire imparziali. Non troppo sullo sfondo c’è il tentativo, mediaticamente molto efficace, di riduzione partitica del discorso valoriale e la volontà di attribuire ad un pezzo delle istituzioni colpe non altrimenti attribuibili. Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?
Essere imparziali, apparire imparziali.
Imperativo ipotetico.
Riecheggia profonde dispute filosofiche sul rapporto apparenza/sostanza/fenomeno/essenza. Propende per la sintesi, afferma la coincidenza.
Richiama quel sentire per cui ciò che sappiamo sull’altro, e ciò che gli altri sanno di noi, si fonda su manifestazioni esteriori. Non c’è un accesso diretto al pensiero altrui e non c’è un obbligo di manifestazione del pensiero. È l’apparente paradosso per cui la profondità coincide con la superficie. È la constatazione per cui, nel rapportarsi, gli esseri umani non possono evitare di prendere le cose per come esse appaiono.
Imperativo ipotetico. Trasformato in martellante citazione, in immediata sensazione.
Al centro del dibattito in questi giorni, come in altri passati e in altri che verranno, mostra la sua natura stratificata e i pericoli che affiorano sulla sua superficie.
Il dovere di non manifestare il proprio pensiero.
Lo strato più profondo, nucleare e indiscusso dell’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di non manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, in merito ai procedimenti e ai giudizi assegnati quale giudice naturale.
Il dovere di manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, con equilibrio e misura.
Lo strato intermedio, mobile e dai confini incerti, è quello per cui il magistrato ha il diritto di manifestare, nel dibattito pubblico, il proprio pensiero e il dovere di farlo con equilibrio e misura.
È la forma-contesto della manifestazione (frequentazione partitica o associativa, articolo, convegno, cena, manifestazione di piazza, “like”, conflittualità, ecc…) al centro di un complesso dibattito, intriso di divisioni valoriali e politiche, di concetti inafferrabili e, a volte, di una velata ipocrisia, che in ogni caso ha il pregio di tentare una comprensione della realtà.
La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica (…) Il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. L’esercizio di questi ultimi diritti gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica (Corte Costituzionale n. 170/2018).
«C'è un punto di etica professionale che va chiarito: un magistrato, per il suo specifico ruolo costituzionale, ha doveri più stringenti di un qualsiasi altro funzionario pubblico. Da qui il dovere di non partecipare a manifestazioni conflittuali che possano mettere in discussione la sua credibilità come soggetto imparziale. Si possono manifestare in modo corretto, non conflittuale, le proprie opinioni.» Come? «Con studi, articoli, interventi in sedi proprie; evitando sempre di essere e di apparire parte di un conflitto sociale o politico» (un ex magistrato e politico).
Il magistrato (…) può anche partecipare ai partiti politici purché in maniera “non sistematica né continuativa” (Sezioni Unite civili n. 8906/2020 così massimata: Ai fini della configurabilità dell'illecito disciplinare, mentre la condotta della iscrizione, per la sua valenza di atto formale, che rivela di per sé una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico, lo integra indipendentemente dal ricorso di particolari circostanze, la condotta della partecipazione a partiti politici costituisce, invece, illecito solo quando sia qualificabile secondo i parametri di cui alle clausole generali della "sistematicità" e della "continuatività"; con riguardo a tale fattispecie, è pertanto escluso ogni automatismo sanzionatorio).
Ma la vera perversione è il potere. Qui non esistono la destra e la sinistra; esiste solo il centrotavola (un giornalista).
Complesso, fragile, calibrare il dovere di equilibrio e misura in ragione della forma. Complesso, insidioso, farlo in ragione del contenuto della manifestazione del pensiero. Una società realmente pluralista non può permettersi di pesare la libertà in base a delle semplici petizioni di principio o in ragione del solo contenuto o della sola forma del pensiero.
Le difficoltà più serie di un uomo cominciano quando egli è libero di fare ciò che vuole (un naturalista e filosofo)
È comunque il ruolo del magistrato nella società al centro effettivo di quel dibattito valoriale. L’esser magistrato impone di non partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di non manifestare il proprio pensiero. Dicono alcuni. L’esser magistrato impone di partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di manifestare il proprio pensiero. Dicono altri.
Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico (art. 1 Codice etico A.N.M.).
L’aderente al Gruppo si riconosce nei seguenti principi: (…) l’espressione del proprio pensiero con equilibrio e senso della misura (Statuto Unicost).
Riconosce il diritto del magistrato a partecipare alla discussione pubblica, in particolare sui temi inerenti la tutela dei diritti e le politiche giudiziarie. In nessun caso, tale partecipazione deve pregiudicare l'immagine di imparzialità del magistrato (Carta dei Valori Area DG).
Da sempre pensiamo che un magistrato debba parlare solo attraverso i suoi provvedimenti e proprio per questo chiediamo che la critica muova dal loro contenuto, sulla base di un confronto intellettualmente onesto, basato sul rifiuto del metodo dell'argumentum ad hominem (comunicato Magistratura Indipendente del 4 ottobre 2023).
L’appassionata partecipazione alla conoscenza e alla critica del mondo, l’impegno civile nella vita del Paese non rendono il magistrato meno imparziale: semmai, lo rendono meno misero e non lo espongono al rischio di cadere vittima del potere e del sapere della parte processualmente più forte. Crediamo non ci sia cittadino, di destra o di sinistra, a volere un giudice sulle nuvole, debole e ignaro. La vera imparzialità è equidistanza dalle parti in carne ed ossa del caso concreto, non è, invece, lontananza dalla realtà, indifferenza ai valori e dai principi della Costituzione e delle Convenzioni internazionali (comunicato Magistratura democratica del 7 ottobre 2023).
Il dovere di manifestare il non pensiero.
Lo strato superficiale, quasi gassoso, che si vuole attribuire all’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di manifestare il non pensiero, l’assenza di pensiero.
L’imperativo ipotetico essere imparziali, apparire imparziali è declinato così nella pretesa e manifesta neutralità del giudice e del suo pensiero. Declinazione che assume, quando esteso in eccesso, anche il dovere di manifestare il pensiero con equilibrio e misura.
Da ragazzo, in un paese più povero ma non infelice, conoscevo un magistrato, il padre di un amico di scuola divenuto insigne storico, che la sera stava sempre e rigorosamente a casa salvo eccezioni famigliari contenute, e ascoltava l'”Italiana” di Mendelssohn. Sbirciò cinque minuti di Italia-Germania 4 a 3, ma non di più, mentre noi incasinavamo di urla la stanza della televisione nel suo appartamento (un giornalista liberale su un giornale liberale).
La Costituzione prevede che la legge può stabilire il divieto di iscrizione a partiti politici per i magistrati. La neutralità comporta che vi sia un distacco dagli interessi dei partiti politici. Quindi sarebbe bene che i magistrati fossero imparziali e neutrali e che quindi non partecipassero a delle riunioni pubbliche (un ex giudice costituzionale intervenuto in una trasmissione televisiva).
Sono sempre stato un modesto e semplice soldato (...) Io non ho partecipato e non parteciperei mai ad una manifestazione di qualsiasi tipo. Non solo che abbia un connotato politico ma anche una semplice presa di posizione in un senso o nell'altro (…) Ribadisco che per me il magistrato non deve fare esternazioni sui temi che lambiscono l'esercizio delle sue funzioni (un ex magistrato in una intervista).
E qui arriviamo al terzo punto del problema, ovvero alla deriva, ci sia concesso, “eversiva” di un pezzo di magistratura convinta da anni di dover rispondere a una vocazione politica (editoriale di un giornale garantista).
Basta magistrati che interpretano le leggi in vigore. Il loro compito è applicarle (un giornalista ed ex politico).
È sollecitata l’immagine ideale di un magistrato giusto, imparziale poiché neutro. Grazie alla padronanza della tecnica. In ragione della distanza da tutto e tutti. Nell’asetticità della sua stanza chiusa la coscienza e la scienza permettono al magistrato di assumere una decisione che appare di diritto e di giustizia e che quindi è resa secondo diritto e secondo giustizia.
Condizione culturale e sociale, dal sapore pandemico, che garantisce, echeggiando profili di giuridica santità, l’imparzialità e la genuinità della tecnica per mezzo della castità politica ed etica.
E in tale ordine di pensiero si colloca il dovere di manifestare l’astensione dal pensiero.
Il giudice ideale è un puro della tecnica e si mostra quale puro della tecnica.
Il giudice ideale non ha-manifesta alcun convincimento che si collochi all’interno di uno dei grandi temi dell’umanità, della propria comunità e quindi del dibattito pubblico (questione economica, questione femminile, questione ambientale, questione del lavoro debole, questione migratoria, ecc..). La presenza di un pensiero trascina il magistrato nella polvere della politica, strappandolo dalle candide braccia della tecnica.
Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia (un umorista).
E lungo il sentiero di tale pensiero, comunque non indifferente alla realtà delle cose, viene poggiata la trappola logico-giuridica dell’astensione per opportunità, accompagnata dal ventaglio disciplinare. E un po’ più in qua c’è la trappola della incompatibilità ambientale e, un po’ più in là, quella della valutazione di professionalità.
Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di esprimere sui social - e addirittura in una manifestazione pubblica - idee molto precise e schierate in tema di immigrazione, in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo e di suoi esponenti apicali; e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti. Padronissima la Giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ad una elementare condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorché di quei temi (…) Esiste l’istituto dell’astensione, la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere - come dice la stessa Corte di Cassazione - ma ancor prima di apparire imparziale. Un sistema sano innanzitutto previene simili situazioni, ed eventualmente chiede conto della infrazione di queste basilari regole di civiltà giuridica. A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e le loro mogli. (Un avvocato in un articolo apparso su un giornale riformista).
Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura (…) quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialita' (Regio Decreto 31 maggio 1946, n. 511).
L’imparzialità consiste nell’esercizio della giurisdizione condotto in modo obiettivo ed equo rispetto alle parti (…) Il giudizio ‘negativo’ in ordine a tale profilo è determinato dalla gravità del fatto o dei fatti ascrivibili al magistrato. La gravità del fatto o dei fatti va valutata anche alla luce delle possibili ripercussioni negative nel tempo sulla credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie da parte del magistrato (Circolare C.S.M. sulle valutazioni di professionalità).
Essere imparziali, apparire imparziali.
Se sostanza e apparenza devono coincidere allora il dovere di manifestare l’assenza di pensiero è anche e prima di tutto dovere di assenza di pensiero in merito ai grandi temi valoriali che inevitabilmente arrivano, anche a causa di una legislazione assente o confusa, sulla scrivania del giudice.
In disparte l’artificiosa scissione tra tecnica, valori, diritto, politica, la sollecitazione dell’immagine di un giudice, tecnico neutro - assente dal pensiero pubblico e assente nel pensiero, indifferente ai grandi temi etici - contribuisce ad un inganno culturale collettivo, ad un processo e ad un rischio.
Dicono una cosa che sanno che non è vera nella speranza che, se continueranno a dirla a lungo, sarà vera (un drammaturgo inglese)
Il processo, ormai da tempo in corso, è quello della degradazione culturale e valoriale della funzione giurisdizionale e del magistrato. Degradazione che conduce ad un giudice statistico-tecnocrate dotato di una cultura artificiosa, di una intelligenza artificiale e di una spiccata sensibilità numerica - fragile stampella della democrazia pluralista - il cui unico compito è scrivere sentenze “a palate” senza doversi occupare di quel che accade poco fuori la sua stanza, figuriamoci oltre.
Non è l’intelligenza artificiale che ha imparato a pensare come noi, siamo noi che abbiamo smesso di pensare (un professore di filosofia teoretica).
Al di là di tali circostanze, occorre evitare che un’eccessiva e impropria dilatazione del requisito dell’imparzialità porti ad una mortificazione assoluta della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato, sul quale incombe sia il dovere di salvaguardare il prestigio della funzione giudiziaria, sia quello di contribuire alla crescita culturale della propria comunità (un magistrato).
L’inganno culturale collettivo è l’affermazione di tre assiomi che sfuggono alla discussione e alla critica: la possibilità di un pensiero neutro, con la conseguenza di nascondere la centralità della realtà e del discorso valoriale; l’applicazione della dialettica schmittiana amico-nemico come unico canone di interpretazione del politico e della discussione politico-valoriale; la coincidenza di quest’ultima con la discussione partitica, con la conseguenza di strattonare la magistratura nella lotta partitica ogni volta in cui è chiamata a pronunciarsi su temi di discussione politica e valoriale.
È pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale (Sezioni Unite civili n. 8906/2020)
È pura illusione pensare che anche la stessa intelligenza artificiale sia neutra posto che apprende e manipola un insieme di dati, che sono espressione di una società, riflettendone gli equilibri e gli squilibri.
Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio (magistrato proclamato beato il 9 maggio 2021).
Il rischio finale è quello che intravide una filosofa politica (che amava definirsi pensatrice) nell’ascoltare la deposizione processuale di un “burocrate” genocida: trovarsi di fronte a un uomo né diabolico, né stupido né malvagio, ma di fronte a un uomo ordinario, contrassegnato dalla “mancanza di pensiero” che si manifestava attraverso una cieca adesione a “codici d’espressione e di condotta convenzionali e standardizzati”.
Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente collegata a un’incapacità di pensare (…) Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva (ipotesi che fino alla fine tenne in dubbio i giudici), ma perché le parole e la presenza degli altri, quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.
È possibile fare il male (le colpe di omissione alla stessa stregua di quelle commesse) in mancanza non solo di “moventi abietti” (come li chiama la legge), ma di moventi tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, questa “determinazione a mostrarsi scellerati”, non sia una condizione necessaria per compiere il male? Il problema del bene e del male, la nostra facoltà di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato sarebbe forse connesso con la nostra facoltà di pensiero? (…) Potrebbe l’attività del pensare come tale, l’abitudine di esaminare tutto ciò a cui accade di verificarsi o di attirare l’attenzione, indipendentemente dai risultati e dal contenuto specifico, potrebbe quest’attività rientrare tra le condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal fare il male, o perfino li “dispongono” contro di esso?
Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto a unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte perciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni la componente catartica del pensiero (la maieutica di Socrate, che porta allo scoperto le implicazioni delle opinioni irriflesse e non esaminate, e con ciò le distrugge - si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni) si rivela implicitamente politica. Tale distruzione, infatti, ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio, che non senza ragione si potrebbe definire la più politica fra le attitudini spirituali dell’uomo. (…) La facoltà di giudicare ciò che è particolare (così come scoperta da Kant), l’attitudine a dire “questo è sbagliato”, “questo è bello” e così via, non è la stessa cosa dell’attività di pensare. Il pensiero ha a che fare con l’invisibile, con le rappresentazioni di cose che sono assenti; il giudicare concerne sempre particolari nelle vicinanze e cose a portata di mano. Nondimeno l’uno è in relazione con l’altro, allo stesso modo dell’essere coscienti e della coscienza morale.
Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?
di Renato Rolli e Martina Maggiolini***
Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. Sulle questioni di legittimità Costituzionale (già note); 3. Sull’occasionalità della permeabilità mafiosa; 4. Osservazioni conclusive: ancora lacune da colmare.
1. Ricostruzione della vicenda contenziosa
Il tema relativo al contrasto dell’infiltrazione mafiosa richiede un bilanciamento costante di diritti pubblici e privati. Per tale ragione è necessario indagare la pervasività del fenomeno mafioso al fine di attivare gli strumenti più idonei al contrasto e meno invasivi per le società destinatarie del provvedimento prefettizio.
L’attuale vocazione imprenditoriale delle mafie ha imposto la previsione di più duttili strumenti di bonifica aziendale in alternativa a quelli ablatori. Ci si allontana dallo scopo sanzionatorio-ablatorio per giungere al recupero di economie che, seppure incise da tentativi di infiltrazione mafiosa, mostrano una possibilità di risanamento.
Si è progressivamente affermata la tendenza ad individuare svariati strumenti alternativi di tipo preventivo e di controllo, calibrati sul diverso grado di condizionamento mafioso, volte a tutelare la continuità dell’attività dell’impresa (bonifica prima e successiva riabilitazione)[1].
Dalla ricostruzione della pronuncia in commento è possibile cogliere non pochi spunti riflessivi sull’evoluzione del tema.
Il ricorrente, titolare della società a conduzione familiare operante nel settore navale impugnava due distinti provvedimenti il primo proposto per l’annullamento dell’interdittiva adottata dalla Prefettura di Reggio Calabria sull’istanza di aggiornamento ex art. 91 co. 6 D.lgs. n. 159/2011 di precedente inibitoria, il secondo proposto per l’annullamento di un nuovo provvedimento interdittivo ovvero per la dichiarazione di applicabilità delle misure alternative di prevenzione collaborativa applicabili in caso di agevolazione occasionale.
Preliminarmente la società, con istanza di riesame, chiedeva l’aggiornamento dell’interdittiva sulla base della risalenza nel tempo dei precedenti penali e di polizia, dell’immutata composizione a base familiare della società e l’assenza di qualsiasi interessamento alle vicende societarie da parte dei parenti controindicati, allegando la sopravvenuta sentenza penale di assoluzione ottenuta dai parenti del ricorrente, imputati per il reato di associazione mafiosa.
Medio tempore la Prefettura adottava una nuova informazione interdittiva ritenendo attuale il pericolo di condizionamento mafioso della società.
Con altro ricorso la società impugnava la nuova informazione interdittiva e sollevava diverse eccezioni di incostituzionalità. Il ricorrente sosteneva che l’atto impugnato sarebbe viziato per illegittimità costituzionale degli art. 92 e 94 bis D.lgs. 159/2011 in relazione agli artt. 3 co.2, 4, 24 e 41 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l’autorità prefettizia possa limitare gli effetti dell’interdittiva, circoscrivendo le decadenze e i divieti scaturenti dalla sua adozione, ove “per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia” [2].
Si prospetta l’incostituzionalità dell’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011, nella parte in cui prevede che le misure di prevenzione collaborativa siano sempre applicabili nei casi di agevolazione occasionale anche a soggetti avulsi da controindicati rapporti di parentela e non lo siano, invece, quando i tentativi di infiltrazione mafiosa derivano esclusivamente dalla mera esistenza di relazioni con familiari presuntivamente portatori di pericolosità ma senza presupporre un’agevolazione né cronica né estemporanea.
Il ricorrente, poi, contestava l’omessa e/o la contraddittoria valutazione di nuovi elementi evidenziati in sede di richiesta di aggiornamento dell’informativa antimafia, allegando provvedimenti giurisdizionali, antecedenti all’impugnata interdittiva, a sé favorevoli, e recenti provvedimenti favorevoli ottenuti dai fratelli. A sostegno di una comprovata estraneità all’ambiente criminoso, il ricorrente introduceva le risultanze delle indagini difensive che, ripercorrendo la vita della società, avrebbero negato contatti dei soci con l’ambiente mafioso scongiurando il rischio di ingerenze illecite [3].
La Prefettura, infine, avrebbe omesso di valutare i margini per l’applicazione delle misure di prevenzione collaborativa, verificando in concreto se i tentativi di infiltrazione mafiosa fossero “riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale”.
Il ricorrente, dunque, concludeva per l’annullamento dei provvedimenti impugnati ovvero per la dichiarazione di applicabilità delle misure alternative di cui all’art.94 bis e, in ogni caso, per la condanna al risarcimento dei danni o in forma specifica, derivanti dall’illegittimità del provvedimento impugnato.
Le misure cautelari urgenti venivano respinte dal Presidente del TAR e l’Amministrazione costituendosi chiedeva la reiezione del gravame.
Il Collegio disponeva la riunione dei due ricorsi per evidenti ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva, riservando a separato provvedimento la decisione del ricorso inerente ad atti consequenziali all’interdittiva e, per le motivazioni che seguono riteneva fondata la violazione dell’art. 94 bis D.lgs. n. 159/2011 e pertanto annulla il provvedimento interdittivo nella parte de qua.
2. Sulle questioni di legittimità Costituzionale (già proposte)
È sempre utile in tema di interdittiva richiamare l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità al fine di analizzare eventuali, ulteriori e nuovi profili.
Il Collegio, sul ricorso per l’annullamento dell’interdittiva adottata dalla Prefettura sull’istanza di aggiornamento ex art. 91 co. 6 D.lgs. n. 159/2011 di precedente inibitoria, rilevava la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità avanzate alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale n.180/2022 e n. 57/2020.
La Corte Costituzionale ribadiva che “L'informazione antimafia interdittiva adottata dal Prefetto nei confronti dell'attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, è giustificata dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”; “l'ampio potere amministrativo non si può ritenere sproporzionato rispetto all'interesse della collettività al mantenimento di una situazione di concorrenza sul mercato, la cui tutela impone di colpire in anticipo il grave e pericoloso fenomeno mafioso [4].
Con più recente pronuncia, la Corte Costituzionale dichiarava inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, D.lgs. 159/2011, sollevate, in riferimento agli artt. 3, comma 1, 4 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non viene riconosciuto al prefetto la facoltà di escludere decadenze e divieti stabiliti dal comma 5 dell’art. 67 del medesimo decreto legislativo, ove valuti che, in conseguenza degli stessi, verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia [5].
Il ricorrente deduceva, poi, l’incostituzionalità dell’art. 94 bis D.lgs. n. 159/2011 nella parte in cui non prevede l’applicazione delle misure di prevenzione collaborativa anche a beneficio dell’imprenditore non occasionalmente agevolato dalla mafia ma legato da parentele a soggetti che possono essere ricondotti all’apparato mafioso.
Il TAR adito riteneva irrilevante e manifestamente infondata l’eccezione poiché il ricorrente non indicava specificamente i profili costituzionali effettivamente violati poiché la norma indicata richiede quale unico presupposto al fine dell’applicazione delle misure alternative a quella di tipo interdittivo la riconducibilità dei tentativi di infiltrazione criminosa “a situazioni di agevolazione occasionale” a prescindere dalla sussistenza di controindicati rapporti di parentela.
Ed ancora il provvedimento interdittivo è ritenuto in contrasto con diversi dettati costituzionali (art. 3, 27, 111 Cost.) e convenzionali (art. 6 paragrafi 2 e 3 del Trattato CEDU).
Il ricorrente, sul punto, riteneva inadeguato il criterio probabilistico come effettivamente probatorio al fine di individuare la presenza di situazioni di permeabilità mafiosa condizionanti l’attività economica della singola impresa.
In realtà, la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che la regola probatoria del “più probabile che non” non è connotata da un diverso procedimento logico, bensì dalla minore forza dimostrativa dell’inferenza logica richiesta.
Il Consiglio di Stato [6] ha chiarito a più riprese che “il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento (…) penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa” [7].
La formula "elastica" scelta nella materia che ci occupa fondata su base indiziaria trova giustificazione nella ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socioeconomico dagli inquinamenti mafiosi.
Sovente il primo pare recessivo rispetto al secondo, poiché collegato alle preminenti esigenze di “difesa dell'ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata” [8]. Dunque, il criterio del "più probabile che non" è conforme al sistema della Convenzione EDU e della Costituzione [9] per cui non può essere condivisa l’eccezione di legittimità.
3. Sull’occasionalità della permeabilità mafiosa
Il provvedimento in commento impone di analizzare il concetto di occasionalità della permeabilità mafiosa che non appare di immediata comprensione.
Il provvedimento impugnato è la risposta all’istanza di riesame della prima interdittiva, la cui legittimità è già stata definitivamente dichiarata con sentenza passata in giudicato [10].
L’amministrazione nel valutare l’istanza di riesame è tenuta a determinazioni diverse rispetto alla fase genetica del provvedimento interdittivo.
Già consolidata giurisprudenza ha chiarito che l’autorità prefettizia in sede di riesame deve limitarsi a “verificare se la domanda sia accompagnata da un fatto realmente nuovo, perché sopravvenuto ovvero non conosciuto, che possa essere ritenuto effettivamente incidente sulla fattispecie e a valutare se possano ritenersi venute meno quelle ragioni di sicurezza e di ordine pubblico in precedenza ritenute prevalenti sull'iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso” [11].
Ciò che rileva in sede di riesame non è il mero trascorso del tempo bensì il sopraggiungere di elementi oggettivi diversi o contrari che ne facciano venire meno la portata sintomatica, in quanto ne controbilanciano, smentiscono o superano la forza indiziante [12].
Dalla documentazione allegata non si evince alcun elemento che faccia presumere la totale estraneità della società al contesto criminoso anzi il giudice adito ritiene che sui soci gravi il fermo sospetto che essi non siano né possano davvero considerarsi estranei o comunque indifferenti a logiche, interessi e profitti di derivazione illecita. Per tale ragione, il Collegio reputa che l’impugnata interdittiva resista alle censure formulate dal ricorrente.
Ciò che si evince è uno stretto legame di parentela dei soci con soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità organizzata e per questo esposti ampiamente a una loro influenza che allontana la società dal reingresso nel sistema dell’economia sana.
Seppur alcuni fatti riportati appaiono come risalenti nel tempo, sia dottrina che giurisprudenza sono unanime nel ritenere che “il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della “risalenza” dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento”[13].
Ciò che rileva è l’ampiezza del reticolo parentale che innesta famiglie e interessi economici convergenti nello stesso settore commerciale aventi lo stesso bacino territoriale d’utenza, da cui è del tutto logico e ragionevole prefigurare come attendibile l’eventuale rischio di “contagio” tra le due imprese e pertanto non è concepibile un’analisi atomistica dei fattori ma è necessaria una lettura complessiva dell’apparato probatorio (probabilistico) [14].
Seppur il ricorrente abbia fornito una ricca documentazione tesa a dequotare gli elementi che vedono la società legata ad ambienti criminosi, da tentativi di infiltrazione mafiosa a situazioni di agevolazione non cronica ma occasionale, l’amministrazione, in sede di riesame, non ha considerato la possibilità di ricorrere all’applicazione di misure alternative a quella inibitoria, violando l’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011.
Il Collegio riteneva tale profilo di censura fondato.
L’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011 prevede che l’autorità prefettizia, ove accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono da ritenersi riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, dispone con provvedimento motivato, all'impresa, l’adozione, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a dodici mesi, di una o più delle misure di prevenzione collaborativa.
Lo stesso Collegio[15] ha già precisato che “Con la misura di prevenzione collaborativa, prevista dall’art. 94 bis del codice antimafia introdotta dal D.L. 6 novembre 2021, n. 152 “Disposizioni urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, si struttura un nuovo modello collaborativo con il mondo produttivo che modula l’afflittività della misura preventiva antimafia in relazione all’effettivo grado di compromissione dell’impresa rispetto al contesto criminale. Tale provvedimento si pone come alternativa all’informazione antimafia interdittiva, ed è attivabile nei casi in cui l’influenza mafiosa abbia un’intensità tale da farla reputare esclusivamente occasionale. L’impresa raggiunta dal provvedimento, pur continuando ad operare nel proprio settore economico, preservando i propri contratti d’appalto, è tenuta ad adottare modelli aziendali orientati all’auto accreditamento della propria affidabilità imprenditoriale (self cleaning) e a fornire comunicazioni inerenti la propria vita economica e imprenditoriale che consentiranno ai componenti del Gruppo Interforze Antimafia per la provincia di Reggio Calabria di monitorare il suo comportamento operativo, escludendo in tal modo che possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa”.
L’obiettivo delle misure di prevenzione collaborativa, come, del resto, nel controllo giudiziario è quello di “decontaminare” l’economia delle imprese non del tutto attagliate dall’infiltrazione mafiosa e reinserirle nel mercato sano mediante un apparato fondato sul principio di progressività proprio delle misure di prevenzione, che si adatta allo stato di necessità di prevenzione del singolo imprenditore.
Appare necessario ora chiarire se le misure di prevenzione collaborative siano precluse dal rinnovato accertamento dello status di impresa mafiosa anche ove ciò sia dipeso da “influenze” che, pur essendo state consolidate in passato, siano ora divenute solo “occasionali” e potenzialmente tramutabili in attività sane.
Il Prefetto è tenuto a verificare ragionevolmente se i fatti oggetto di riesame siano idonei a far degradare la condizione permeabilità mafiosa dell’impresa da cronica ad occasionale, senza determinare un’immediata liberazione dell’impresa destinataria di interdittiva.
Dunque, accanto al criterio probabilistico indeterminato si affianca oggi un nuovo concetto se possibile ancora più indeterminato: l’occasionalità.
Esso, dunque, diventa una nuova misura del livello del rischio di infiltrazione.
Se dottrina e giurisprudenza hanno contribuito nel delineare la portata del principio probabilistico, ora dovranno impegnarsi nel definire un ulteriore criterio, prima facie privo di contenuto.
Un primo contributo chiarificatore sul presupposto dell’agevolazione occasionale proviene dalla giurisprudenza che ha dichiarato come “la verifica dell’occasionalità dell’infiltrazione mafiosa, pertanto, non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l’emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dalla suddetta disposizione, ivi compresi gli obblighi informativi e gestionali previsti dal comma 3 dell’art. 34-bis [16].
Dunque, l’ammissione alle misure di prevenzione collaborativa deve essere accolta ove l’infiltrazione non risulta cronica ma solo "occasionale" e dunque sia possibile raggiungere la bonifica dell’impresa tramite sistemi virtuosi e la successiva immissione della stessa nel mercato sano.
Pertanto, il grado di infiltrazione deve essere talmente esiguo da scongiurare l’ipotesi che l’azienda, anche dopo l’esperimento della misura, risulti ancora sensibile ai condizionamenti esterni. In altre parole, laddove l’infiltrazione, lungi dall’essere solo “occasionale”, si configuri, al contrario, come stabilmente radicata, cronica, insanabile, non è ragionevole, secondo il criterio del più probabile che non, formulare un giudizio prognostico positivo circa l’eliminazione del pericolo concreto di nuovi tentativi.
Il dato ultimo è quello di accompagnare l’impresa all’interno di un circuito economico privo di ingerenze criminose con l’obiettivo di salvaguardare l’economia e lo stato occupazionale di alcune ‘zone private’, per le più disparate ragioni, dalla possibilità di esercitare attività lavorative. Valorizzare la cooperazione pubblico-privata salvaguardando la continuità aziendale risponde alle diverse necessità. Per cui l’autorità prefettizia dovrà decidere motivatamente sulla scorta della documentazione allegata dall’impresa se essa possa allontanarsi definitivamente dai tentativi di infiltrazione e/o condizionamento.
4. Osservazioni conclusive: ancora lacune da colmare
Le misure ex art. 94 bis non rappresentano una completa novità, ma appaiono assimilabili a quelle che l’autorità giudiziaria può disporre con il controllo giudiziario delle aziende di cui all’art. 34-bis cod. ant di cui abbiamo detto altrove [17].
In dottrina si è osservato come la «ratio sottesa alla prevenzione collaborativa è la stessa del controllo giudiziario» e si rinviene nell’esigenza di «non travolgere le imprese solo macchiate da marginali presenze mafiose, spesso inevitabili in alcuni territori»; si può trattare «di un “controllo amministrativo” che, in caso di esito positivo, anticipa e sostituisce il controllo giudiziario, e in caso di insuccesso ne ritarda o ne rende solo eventuale l’applicazione» [18].
Così agendo, il legislatore ha aperto «la strada ad una forma di cooperazione partecipata, questa volta però non tra impresa e tribunale, bensì tra impresa e autorità amministrativa, consentendo a quest’ultima di entrare in azienda e verificare la presenza o meno dei pericoli di infiltrazione mafiosa senza però esporla al rischio di una paralisi e salvaguardando il going concern aziendale e i livelli occupazionali» [19].
Il controllo amministrativo, in caso di esito positivo, anticipa e sostituisce il controllo giudiziario, e in caso di insuccesso ne ritarda o ne rende solo eventuale l’applicazione [20].
Dunque, l’interdittiva si configura quale extrema ratio, da utilizzarsi solo al fine di contrastare croniche infiltrazione mafiose.
Il grado di esposizione dell’impresa al pericolo di condizionamento mafioso risulta imprescindibile ai fini del dosaggio delle misure da adottare sin dalla fase prefettizia.
Il regime interdittivo diviene dunque la misura più rigida e risulta contornata dalle “misure amministrative di prevenzione collaborativa” di cui all’art. 94-bis d.lvo n. 159/2011, dirette – sulla falsariga di quelle che sostanziano lo strumento del controllo giudiziario ex art. 34-bis – al risanamento di economie insane.
La ratio del più recente intervento legislativo è riconducibile all’esigenza di non espellere integralmente dal circuito economico le imprese non irrimediabilmente compromesse dal contatto mafioso, in quanto fatte solo “occasionalmente” oggetto degli interessi della criminalità organizzata, e quindi, piuttosto che alla finalità di ampliare l’ambito applicativo degli strumenti preventivi, a quella di modificarlo qualitativamente ove ricorra tale forma “debole” di condizionamento.
La verifica dell’occasionalità solleva non poche perplessità.
Di recente, la giurisprudenza ha mostrato abbracciare una soluzione ben precisa che, somministrando un’interpretazione delle modalità con le quali il suddetto accertamento deve avvenire, guarda al futuro e non al passato, cogliendo l’esigenza di salvaguardare quanto più possibile la continuità delle aziende colpite dal controllo.
Ed invero, Cass. pen., sez. II, 16 marzo 2023, n. 11326, specifica che «la verifica dell'occasionalità dell'infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l'emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall'art. 34-bis, commi 2 e 3, d.lgs. n. 159 del 2011».
In altri termini, a nostro parere gli stessi soggetti che applicano il controllo giudiziario dovrebbero essere in grado di comprendere, già nel momento in cui si trovano a dover scegliere se ricorrere a quest’ultimo o alla più rigida misura dell’amministrazione giudiziaria, e anche attraverso la possibilità di adottare tutti gli strumenti che ne garantiscano una adeguata sorveglianza, quante possibilità concrete esistano per l’azienda colpita dalla misura di intraprendere un fruttuoso cammino per il suo riallineamento a contesti economici sani, completamente depurati da fenomeni criminosi.
La Suprema Corte distingue fra l’agevolazione occasionale di cui al primo comma dell’art. 34-bis ed il contesto giuridico e fattuale in cui può operare il controllo giudiziario su richiesta dell’impresa interessata, ex comma 6 del medesimo articolo, che pure deve essere connotato dal carattere della occasionalità.
Secondo tale orientamento, tanto nel caso di controllo giudiziario cd. “prescrittivo” (quello ex comma 1) quanto nel caso di controllo giudiziario cd. “volontario” (quello ex comma 6) la relativa misura è disposta qualora si possa verificare che in futuro, anche in esito all’esperimento della misura stessa, l’attività dell’impresa risulti scevra da qualsivoglia tentativo di contagio mafioso.
Tuttavia, essendo diversi sia i soggetti cui i due commi si riferiscono (il primo comma dell’art. 34-bis rimanda alla condotta di cui all’art. 34, co.1 ma in forma occasionale, mentre il comma 6 riferisce specificamente alle imprese attinte da informazione antimafia che impugnano il provvedimento interdittivo stesso) e diverse pure le modalità di esecuzione di controllo giudiziario eventualmente esperibili (il comma 6 rimanda solo alla lett. b) del comma 2 della stesso articolo), diversi sono, di conseguenza, i termini in cui bisogna intendere verificato il presupposto dell’occasionalità. Nella prima ipotesi, l’occasionalità rileva come dato qualitativo e quantitativo del grado di infiltrazione in base al quale il giudice della prevenzione decide per l’applicazione della misura del controllo. Nell’ipotesi ex comma 6, invece, l’occasionalità non va intesa secondo la nozione tecnica di cui al comma 1, bensì in previsione di una futura depurazione dell’azienda da nuovi tentativi di penetrazione mafiosa. Nel testo della sentenza sopracitata si legge: “la verifica dell’occasionalità dell’infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l’emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall’art. 34- bis, commi 2 e 3, D.Lgs. N. 159 del 2011(Sez. 6, n. 1590-2021, cit.)”.
In sintesi, il requisito dell’occasionalità che, laddove accertato, permette l’applicazione su richiesta del controllo giudiziario, sospendendo di conseguenza gli effetti della misura interdittiva che insiste sull’impresa interessata, si deve riscontrare sulla base di un duplice giudizio: in negativo, verificando la non stabilità e non attualità dell’agevolazione; in positivo, formulando una prognosi favorevole di bonifica e radicale risanamento dell’impresa[21].
Dunque, il controllo giudiziario si conferma essere un nuovo paradigma di prevenzione patrimoniale, fondato su di un livello di azione certamente più ridotto anche rispetto alla simile amministrazione giudiziaria, ma indubbiamente proporzionato alle esigenze del caso concreto.
È solo con lo sguardo al futuro che il controllo giudiziario dovrebbe garantire un reale sostegno alle imprese vittima del giogo criminale.
Da ultimo il Consiglio di Stato ha chiarito come “nel segno della anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e del tessuto economico legale dall’ingerenza mafiosa, tipica del provvedimento interdittivo, anche la meramente occasionale disponibilità dell’impresa ad accettare di “venire a patti” con la criminalità organizzata, pur senza entrare stabilmente a fare parte dei relativi ranghi, con lo scopo di trarre vantaggio dalla sua protezione o anche solo di sottrarsi alle conseguenze negative derivanti dal rifiuto della sua prossimità, integri una situazione oggettivamente allarmante, in quanto idonea a manifestare un elemento di fragilità nella rete di contenimento apprestata dallo Stato nei confronti della invadenza mafiosa” [22].
Appare evidente che al fine di attivare le misure di prevenzione collaborativa è necessario riempire di contenuto il concetto di “occasionalità” per scongiurare il rischio che l’indeterminatezza possa causare una non attivazione della misura in commento. Probabilmente il processo evolutivo che ha visto consolidarsi il principio del “più probabile che non” sarà lo stesso sentiero che percorrerà il concetto di “occasionalità”.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i primi due paragrafi al Prof. Renato Rolli i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini
[1] Cfr. Marcella Vulcano, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, Giurisprudenza penale, 2021
[2] V. Corte Costituzionale n. 532 del 2002
[3] Si consenta il rinvio su diverse questioni relative ai provvedimenti prefettizi a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020
[4] V. Corte Costituzionale, 26.03.2020, n. 57
[5] v. TAR Reggio Calabria 20 marzo 2023 n. 252
[6] A partire dalla fondamentale sentenza n. 1743/2016
[7] V. Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483; Cons. Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743; Corte Cost. 26 marzo 2020, n. 57 e la giurisprudenza successiva ad essa conforme, da aversi qui per richiamata. Dunque, l’interprete è sì vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale”.
[8] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 1017
[9] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, Sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343
[10] Cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4979/2020
[11] Cfr. TAR Reggio Calabria 5 luglio 2019 n. 444
[12] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 13 dicembre 2021, n. 8309; Cons. Stato, sez. III, 21 maggio 2021, n. 3915; TAR Napoli, sez. I, 11 maggio 2021 n. 3113
[13] Cfr. Cons. Stato sez. III, 9 dicembre 2021 n. 8187
[14] È indubbio, infatti, che “uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale” (v. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2021 n. 7890)
[15] V. TAR Reggio Calabria 3 maggio 2023 n. 392
[16] Cfr. Sez. 2, n. 9122 del 28/01/2021; Sez. 6, n. 30168 del 07/07/2021
[17] Cfr. Ampiamente M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in questa rivista, 2022
[18] V. M. VULCANO, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giur. pen. web, 11, 2021, p. 11.
[19] Ibidem
[20] V. Corte di Cassazione, sez. II penale - 16 marzo 2023 N. 11326 “La verifica dell'occasionalità dell'infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l'emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall'art. 34-bis, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 159 del 2011”.
[21] La stessa pronuncia richiama un precedente delle Sezioni Unite, SS.UU. n. 46898 del 26/09/2019, ponendo l’attenzione “sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato può rivolgere nel guidare l’impresa infiltrata”.
[22] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, n. 6144 del 22/06/2023
1. L’atto politico e l’atto di alta amministrazione, Costituzione e ruolo del GA.
L’atto politico è un’idea limite.
Un concetto con il quale è utile confrontarsi per saggiare la tenuta del sistema giuridico complessivamente inteso.
Un rovescio della medaglia rispetto al tema della sindacabilità dell’atto del pubblico potere postulata dal moderno diritto pubblico al fine di garantirne la generale ragionevolezza nelle forme di esplicazione.
Esso ha qualcosa di mitologico, di pregiuridico, di a-giuridico, si tratterebbe di un atto introvabile, o comunque di carattere metagiuridico (riporta la nozione alla mitologia giuridica di romaniana memoria G. Tropea Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico in Dir. amm. 2012, 329 e ss.).
È in fondo una soglia dalla quale inizia il terreno (una volta sconfinato) degli interessi non giustiziabili eppure sacrificabili o sacrificati in nome di interessi collettivi.
Il tema interessa il processo amministrativo perché è al giudice amministrativo che è lasciato il compito – nella congerie degli interessi che reclamano – a fronte di atti amministrativi – un controllo di legittimità, di stabilire cosa sia un atto politico.
Il giudice amministrativo è quindi il giudice della politicità dell’atto.
Con ciò è anche il giudice che stabilisce il limite della sua giurisdizione.
Soggetto – sul punto – al controllo della Corte di Cassazione sui limiti esterni del potere giurisdizionale (art. 111 ult. comma Cost.).
La nozione di atto politico è anche un residuo di altre epoche storiche non così connotate dal tema della centralità della giurisdizione e dell’effettività della tutela.
La Costituzione – con gli art. 24 e 113 – ha infatti introdotto delle disposizioni che hanno costantemente sottoposto ad erosione la nozione di atto politico, facendola diventare chimerica.
La decisione sulla politicità dell’atto è rilevante sia sulla definizione del concreto assetto della divisione dei poteri sia sul tema (conseguente) della giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive (non essendovi a fronte dell’atto politico altra possibilità che agire politicamente).
Discusso è se la nozione di politicità dell’atto rilevi anche per il giudice ordinario, posto che essa era nell’art. 31 del tu CdS ed è menzionata nell’art. 7 del c.p.a. mentre non risulta fra i limiti della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (tuttavia essendo tale ultima legge volta a stabilire i limiti di cognizione del giudice ordinario di fronte agli atti amministrativi per la contraddizione che non lo consente si deve ritenere che il limite dell’atto politico a fortiori riguardi anche i giudici ordinari che potranno disapplicare atti amministrativi illegittimi ma non potranno esercitare analogo potere sugli atti politici).
Va altresì ricordato che è esistita fino a tempi recenti (ed ancora dura anche se è contrastata dalle risorgenti visioni ideologiche tendenti a tornare alla sovranità ) una tendenza “forte” alla depoliticizzazione ( specie nella costruzione dell’ordinamento europeo ) sicché esistono ambiti sempre più ampi dell’azione pubblica nella quale la politica non ha cittadinanza ( a sua volta la tecnica non sempre accetta tuttavia una pienezza del sindacato giurisdizionale ; trovandosi sempre più spesso nella legislazione europea e nazionale in tema di regolazione norme limitative della cognizione giurisdizionale costruite nel dare prevalenza alla tutela risarcitoria in un’ottica di risultato o per l’esistenza di un preminente interesse nazionale; la tendenza si risolve a volte nello stabilire pregnanti limiti alla tutela cautelare ma talvolta nel limitare anche i poteri di merito; si tratta del fenomeno noto come arretramento della tutela reale a vantaggio di quella risarcitoria utilizzato non solo post stipula del contratto ma, nel caso di delicate procedure di aggiudicazione, anche prima della conclusione del contratto – e vedasi art. 1 comma 1037 della legge di bilancio 2018 legge n. 205 del 2017 - o nel settore bancario – vedasi art. 95 comma 2 del d.lgs. n. 180 del 2015 - o nell’ordinamento sportivo in tema di sanzioni disciplinari).
Politica anche questa, ma in forma tecnocratica: la più incisiva del nostro tempo.
Occorre poi distinguere ormai una politica del governo, una politica dell’amministrazione (specie se indipendente o adespota), una politica del giudice (e si pensi alla controversia e sempre aperta questione della sindacabilità degli atti del CSM, al frequente – direi fisiologico o strutturale - contrasto in questa materia fra Consiglio di Stato e Cassazione).
Tutti campi nei quali si viene a mettere in tensione il principio di giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive di cui all’art. 24 Cost.
L’atto politico – come abbiamo detto - è un Limes.
Per individuarne la natura sarebbe necessaria una metodologia, ed in proposito si possono adottare numerose chiavi interpretative.
Si può registrare lo stato della giurisprudenza.
La giurisprudenza, di fatto, non appare del tutto omogenea e risolve situazioni in parte analoghe in modi diversi (è stato notato da Chiara Cudia Considerazioni sull’atto politico in Dir. amm. 2021, 621 e ss).
L’autrice menzionata con acume nota che “non sono considerati atti politici le nomine di alti vertici dell'amministrazione ma è riconosciuto carattere politico alla nomina dei componenti di una commissione tecnica che opera in materia di giochi e monopoli di Stato. Non sono politici gli atti di pianificazione territoriale né il piano sanitario regionale ma (sia pure saltuariamente) sono considerati tali il piano delle farmacie e il piano delle infrastrutture e degli insediamenti strategici. È escluso dalla categoria di atto politico l'atto di indizione di elezioni regionali, ma non la decisione di concentrare in un'unica data le elezioni amministrative ed europee.”
Si possono cercare quindi – al di là dell’approccio casistico problematico - più profonde prospettive ricostruttive.
E qui si incontra come prima opzione metodologica la possibilità di una ricostruzione politologica dell’atto politico.
In questa ottica politica è l’attività libera nei fini (a differenza di quella amministrativa che è soggetta ai fini stabiliti dalla legge) che cura la polis.
Ma politica è anche – schmittianamente - l’attività connotata dal gioco mortale amico/nemico: nel tempo presente ogni decisione sulla pace e sulla guerra (interna ed esterna).
Esiste anche – ed è la seconda opzione metodologica - una ricostruzione giuridica della nozione di atto politico.
Qui si incontrano varie concettuologie : la teorica delle funzioni di Governo, il rapporto quindi dell’atto impugnato con dette funzioni ( tra l’altro costituzionalmente definite ); ed ancora la separatezza fra politica ed amministrazione; la discrezionalità come ambito sindacabile in modo più o meno intenso, il merito amministrativo ( come ulteriore limite dove si tocca all’opposto della politica ciò che appartiene in via esclusiva all’amministrazione ; il terreno anche esso “mitologico” della riserva di amministrazione ).
Tutto il tema si innesta nella teorica della separazione dei poteri, che tuttavia oggi lega i poteri, una volta distinti, nel continuum temporale della loro azione, connotata dal collante della leale collaborazione e dalla presenza di tratti spesso fortemente commisti ( evidenti nella concezione che li distingue per aspetti formali e sostanziali : e così abbiamo l’autodichia attività formale di organi costituzionali ma di natura sostanzialmente giurisdizionale, la volontaria giurisdizione attività di natura formalmente giurisdizionale ma di natura sostanzialmente amministrativa, l’attività di regolazione delle amministrazioni indipendenti di natura formalmente amministrativa ma con tratti di normatività; l’attività degli organi di autogoverno delle magistrature che ha carattere amministrativo ma rilevanza costituzionale; l’attività del PM che ha molti tratti in comune con l’attività amministrativa pur essendo promanante da un organo giudiziario; le gare ad evidenza pubblica espletate dai capi degli uffici giudiziari o dalle Camere; l’attività trasversale del Presidente della Repubblica che partecipa della vita di tutti i poteri; la sentenza additiva della Corte Costituzionale che integra l’ordinamento giuridico a guisa di Legislatore impolitico sulla base del tratto a rime obbligate del precetto costituzionale ).
Cruciale e di ausilio nella individuazione dell’atto politico è la nozione di indirizzo politico.
Tale essendo ogni attività di fissazione dei fini della comunità.
Dovendosi poi distinguere un indirizzo politico costituzionale ed un indirizzo politico di Governo, il primo espresso nell’attività del Presidente della Repubblica (quale viva vox constitutionis) e della Corte Costituzionale (quale giudice – come tale voluto “impolitico” a parte alcuni tratti dovuti ai procedimenti di nomina - della politica) il secondo espresso nella relazione pregnante fra organi di Governo (nazionale e locale) ed amministrazioni.
Torniamo un momento sull’atto politico individuato con metodo politologico.
In tale prospettiva l’atto politico:
Nella logica amico/nemico siamo sul piano degli “atti identitari di diritto costituzionale”, essenziali per l’interesse nazionale, per la cura della comunità tutta intera, gli atti di formazione/ composizione di un Governo, la relazione alle Camere del Presidente del Consiglio dei Ministri, la nomina dei sottosegretari, come organi non menzionati in Costituzione ma ricorrenti nella prassi della composizione dei Governi.
In sostanza ogni atto che consenta di strutturare una guida politica stabile di un ordinamento interno (stasis – lato amicale della politica).
All’opposto vi sono gli atti dell’ordinamento interno che hanno riflessi esterni (le attività diplomatiche ed internazionali volte ai negoziati dei Trattati, le attività dei servizi segreti, alcune rilevanti attività del mondo della difesa, e si tratta del lato del polemos rivolto al nemico in politica ).
Torniamo ora, utilizzando le stesse coordinate interpretative, alla nozione giuridica di atto politico (quella ricavata con metodo giuridico).
Qui si incontra l’indirizzo politico come attività rivolta all’amministrazione.
Si tratta delle attività di indirizzo politico amministrativo definite dall’art. 4 del t.u. del pubblico impiego ( d.gs. n. 165 del 2001 ).
Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Sono tutti insindacabili gli atti dell’art. 4 del t.u.p.i ?
Forse l’intento del legislatore era di sancirne l’insindacabilità e comunque di distinguerli dagli atti amministrativi tout court lasciati alla responsabilità dei dirigenti.
Ciò si potrebbe ipotizzare sulla base dell’art.4 commi 2 e 3 che così recitano: "2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché' la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attivita' amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. 3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative".
Ma la distinzione fra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e atti amministrativi dell’art. 4 a bene vedere non comporta affatto l’insindacabilità degli atti espressivi di funzioni di indirizzo politico amministrativo da parte del giudice ai sensi degli articoli 24 e 113 Cost.
La giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato la nozione di atto di alta amministrazione per sindacare tali funzioni che da una parte si raccordano alla politica costituzionale dall’altra si proiettano nel concreto dell’attività amministrativa.
Ben si può affermare che la nozione di atto di alta amministrazione – quale clavis universalis per lo svuotamento della politica - erode la nozione di atto politico.
Erosione che arriva al punto di far ritenere inesistente l’atto politico ( Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra atti « politici » e atti « di alta amministrazione », in Dir. pubbl., 2009, 121, auspicava l'abolizione espressa dell'art. 31 t.u. Cons. Stato; Garcia de Enterria e altri in Spagna Così A. EMBID IRUJO , La justiciabilidad de los actos de gobierno (de los actos políticos a la responsabilidad de los poderes públicos , in AA. VV., Estudios Sobre la Constitución Española ,.E.García de Enterría (a cura di), Civitas, Madrid, 1991, vol. III, p. 2702 ss. ) alla luce dell’art. 24 Cost. e dell’art. 113 Cost.
Gli atti dell’art. 4 del tupi – per eterogenesi dei fini – essendo normativamente regolati non si sottraggono al sindacato giurisdizionale, si pongono come atti di indirizzo politico – amministrativo.
Amplissima discrezionalità li caratterizza ma non certo insindacabilità.
Il punto di partenza della nozione di atto politico, sul piano storico, è stato in Francia – lo ricorda Tropea – una nascita del concetto éminemment prétorienne , e risale al 1822 (arrêt Lafitte), allorché un concessionario della principessa Borghese reclamò il pagamento suppletivo di una rendita in dotazione conferita da Napoleone alla principessa. Il Consiglio di Stato si dichiarò incompetente «considérant que la réclamation tient à une question politique, dont la décision appartient exclusivement au gouvernement». In seguito, il campo si estese agli “actes de guerre”, ai “traités diplomatiques”, alle rivendicazioni di antiche dinastie.
Strumento di politica giurisprudenziale (l’espressione è ancora di Tropea e si concorda), a sua volta, l’atto politico è stato sin dall’inizio utilizzato dal giudice per definire i limiti della propria azione .
Rilevano in questa chiave, storicamente, i motivi politici dell’atto ( eminentemente soggettivi ) o la natura politica dell’atto (eminentemente oggettiva).
Di volta in volta, ragion di Stato, forza maggiore, interesse pubblico preminente, interesse nazionale, conseguenze politiche delle decisioni giurisprudenziali (e si pensi alla giurisprudenza costituzionale sull’ art. 81 Cost.) divengono oggetto di discussione preliminare sulla ammissibilità dell’azione, sulla giustiziabilità della posizione giuridica ma anche sulla sua fondatezza.
La separazione dei poteri ed il pluralismo delle giurisdizioni sono – nello Stato di diritto liberale – una garanzia per la legalità ma anche per l’autonomia dell’Esecutivo dal giudiziario.
L’atto politico è uno strumento di politica giurisprudenziale che stabilisce il mobile confine fra giudice dell’amministrazione deputato alla funzione di garanzia che concretizza lo Stato di diritto e le ragioni della politica che l’amministrazione la guida con le sue ragioni politiche legittimate dal gioco democratico.
Il riflesso processuale di questa concezione può porsi anche sul piano dei presupposti processuali (legittimazione) e delle condizioni dell’azione (interesse ad agire) , l’atto politico così individuato non è sindacabile perché al quisque de populo non è dato sostituirsi ai decisori politici legittimati dalla Costituzione e non c’è interesse diretto ed attuale all’impugnazione, non è un atto lesivo (l’atto politico è un non atto, c.d. teoria negativa dell’atto politico come atto non amministrativo solo perché non lesivo essendo tutti gli atti pubblici sindacabili in astratto ma solo in presenza di presupposti e condizioni processuali).
La Corte di Giustizia dell’UE pare usare la legittimazione per frenare alcuni entusiasmi ed alcune illusioni sulla c.d. giustizia climatica, ossia la proposizione di azioni giudiziarie miranti a fare valere i limiti pattizi degli accordi internazionali alle emissioni nocive derivanti dal nostro stile di vita clima alterante.
Nel caso People’s Climate del 25 marzo 2021 la Corte Ue infatti un’interpretazione restrittiva dell’art. 263.4 del Trattato per il funzionamento dell’Ue (TFEU), che definisce le condizioni secondo cui un cittadino può fare appello alla Corte: questo dovrebbe dimostrare di aver subito in modo esclusivo e peculiare danni a causa delle disposizioni regionali (come il Pacchetto Clima). Dichiarando irricevibile il ricorso di Carvalho, la Corte ha quindi constatato l’inesistenza di tali requisiti.
La decisione cristallizza anche la pronuncia del caso Plaumann v. Commissione della Comunità Economica Europea del 1963. Qui, la CGUE affermò che un individuo per avere accesso ai tribunali Ue deve dimostrare che un suo interesse individuale sia stato leso. Nel caso Carvalho, secondo la Corte, ciò non si è verificato; al contrario, gli effetti negativi del cambiamento climatico hanno colpito tutti in modo generalizzato.
La questione non è facilmente risolvibile per i fautori dei diritti umani che tendono a ritenere azionabili le pretese al rispetto dei limiti di emissione sanciti dai Trattati internazionali.
Qui si pone una questione delicata ossia l’esistenza di un grado di dettaglio sufficiente per l’esperibilità di un’azione in giudizio.
Un’azione che non abbia solo tratti risarcitori dipendenti da inerzie ma che voglia spingersi fino alla sostituzione dell’amministrazione per via giudiziaria.
Il punto è questo: possono considerarsi, ove non siano state fatte le indispensabili scelte politiche sulle modalità del perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, esistenti i presupposti di un’azione amministrativa legalmente autorizzata ?
Se per aversi tale azione legalmente autorizzata e definita occorre una norma che stabilisca un potere e se tale norma non si ravvisa nei Trattati che pongono meri obiettivi da implementare attraverso un mix di politiche nazionali che devono essere decise e finanziate dai Parlamenti nazionali è ammissibile una tutela in forma specifica dei diritti fondamentali connessi all’ambiente ?
Questo sembra il ragionamento di merito finora mancato sulla giustizia climatica che può superare l’arroccamento della Corte Ue sulla questione di legittimazione (in sé e per sé la legittimazione ci sembra non decisiva quasi una linea Maginot destinata prima o poi ad essere scavalcata).
Va rilevato che anche nel merito l’atto politico è insindacabile (ove se ne ammetta pure l’impugnabilità) per mancanza di un parametro normativo di controllo della discrezionalità politica, discrezionalità che si pone come discrezionalità assoluta, per il fatto che la politica è attività libera nei fini, non normata.
Ecco perché l’art.4 T.U.P.I. – norma che stabilisce parametri quali ad esempio la necessità di un budget sufficiente per svolgere le funzioni dirigenziali - diviene l’innesco della sindacabilità dell’atto politico piuttosto che della sua distinzione dall’attività dirigenziale (certo essendo differenti i regimi di responsabilità).
Ma vanno registrati anche nuovi campi di rilevanza della politicità dell’atto per effetto di guerre e pandemie: stato di urgenza, staro di crisi, poteri di emergenza, sono nuovi terreni di politicità inedita, di ritorno del politico a fronte dei processi di depoliticizzazione e desoggettivazione pure tenacemente ancora in corso (si pensi ai poteri nuovi dei mercati e delle autorità legittimate dalla scienza e dalla tecnica).
L’atto di governo tuttavia può essere regolato dalla legge, ledere concreti interessi ed in tal caso richiede l’intervento della giurisdizione come forma generalizzata ed universale di tutela nello Stato di diritto.
Si tratta del controllo di legittimità e proporzionalità dei c.d. poteri emergenziali (poteri che sono dettagliatamente disciplinati nella costituzione spagnola mentre nella nostra Costituzione sono in fondo interamente consegnati al decreto legge) che avviene spesso su atti amministrativi generali o regolamenti (i famosi D.P.C.M.).
Negli Stati Uniti la political question doctrine viene affermata per la prima volta nellanotissima pronuncia Marbury v. Madison, ma la dottrina assume più precisi contorni solo nel 1962, nel caso Baker v. Carr (sempre si trovano illustrate le basi di tale dottrina nel saggio di Tropea).
Ci sono sei indici - nella dottrina Backer - di politicità della questione posta al giudice.
«Prominent on the surface of any case held to involve a political question is found
[I.] a textually demonstrable constitutional commitment of the issue to a coordinate political department; or
[2.] a lack of judicially discoverable and manageable standards for resolving it; or
[3.] the impossibility of deciding without an initial policy determination of a kind clearly
for non-judicial discretion; or
[4.] the impossibility of a court's undertaking independent resolution without expressing lack of the respect due coordinate branches of government; or
[5.] an unusual need for unquestioning adherence to a political decision already made; or [6.] the potentiality of embarrassment from multifarious pronouncements by various departments on one question ».
Quindi va valutata la politicità della questione se: 1) l’aspetto del caso involve questioni politiche che la Costituzione demanda ad entità politicamente ordinate e coordinate; 2) sono mancanti standards per risolvere la questione sul piano giudiziario ossia mancano norme; 3) è impossibile decidere il caso senza un indirizzo politico; 4) è impossibile agire da parte di una Corte senza ledere il principio di separazione dei poteri; 5) vi è un inusuale necessità di aderire concordemente ad una decisione politica già presa; 6) vi è un imbarazzo per la molteplicità dei pronunciamenti a fronte della necessità di mantenere unità di indirizzo politico.
Tutto significa forte self restraint del giudice di fronte alla politica: una caratteristica ben nota del mondo giudiziario americano connotato da una sicura preminenza della politica sul giudiziario (che non conosce la separazione delle carriere fra Pm e giudici, fatto che sta determinando una crisi profonda con l’incriminazione parallela dei due candidati alla Presidenza frutto della politicità dei meccanismi del giure penale americano).
Ma è indubitabile l’esistenza di una vasta area di situazioni non giustiziabili, sicuramente più ampia della nostra.
È saggio averla?
In qualche misura un’area di insindacabilità è necessaria, non tutto è sempre giustiziabile.
Ma su questo argomento non contano i modelli astratti, contano le culture. E conta il ritorno della sovranità in tempi instabili.
Andando oltre l’art. 7 ed andando oltre la casistica giurisprudenziale occorre dire che la decisione su cosa sia un atto politico è una decisione politica a sua volta, decisione politica presa dal giudice (giudice che può usare un più ampio o più ristretto self restraint).
Ma decisione politica non significa decisione arbitraria.
Richiamando una certa politicità della nozione di atto politico certo potrebbe notarsi che il Re è nudo (e che lo Stato di diritto poggia su basi fragili), ma il sistema non cortocircuita necessariamente, vedere oltre il velo non comporta mettere in crisi il sistema ma solo divenire più rigorosi nella impostazione delle possibili soluzioni al problema.
Intanto occorre notare che il legislatore ponendo norme alla politica, come l’art. 4 TUPI, per eterogenesi dei fini, amplia l’ara degli atti politici riconducibili all’alta amministrazione e quindi sindacabili e rafforza lo Stato di diritto.
All’opposto il mondo giudiziario, per leale collaborazione, dovrebbe divenire più consapevole dei pericoli nei quali l’ordinamento può incorrere senza limiti (proporzionati) alla generale giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive.
Si torna qui su quanto sta avvenendo sulla giustizia climatica, con le azioni proposte da singoli cittadini per vedere rispettati dagli Stati i limiti poste dai Trattati internazionali sul cambiamento climatico questione che incrocia in modo paradigmatico la problematica in esame: non è necessario soffermarsi oltre sulla sua decisività per il futuro di tutti ma anche per la “buona salute” (metaforica) della separazione dei poteri.
Spetta alla politica o al giudice attuare le politiche climatiche internazionalmente stabilite?
Vanno anche ricordate la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul tema e le riflessioni della più recente dottrina.
Per essa il tenore dell’art. 113 della Costituzione e la circostanza che esso espressamente vieti che la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sempre ammessa, possa essere “esclusa o limitata…per determinate categorie di atti” hanno da subito indotto la dottrina ad interrogarsi sulla sopravvivenza stessa della nozione di “atto politico” come atto amministrativo insindacabile.
Così come la collocazione nel sistema degli “organi costituzionali” politici ha aperto la riflessione alla necessità di distinguere tra loro l’atto di governo in senso proprio come “atto costituzionale”, da una parte; e l’atto politico quale categoria appartenente al più ampio genere degli atti formalmente amministrativi, forse distinto (ma forse no) dai c.d. atti di “alta amministrazione”, dall’altra.
Il superamento di questa sintesi, di questa confusione di atti un tempo riconducibili ad un unico tipo non è più plausibile nel regime costituzionale contemporaneo, e rende pertanto oggi non più utilizzabile a fini pratici la vecchia categoria di sintesi degli “atti di governo emanati nell’esercizio del potere politico” di cui al citato T.U. del 1924. Mentre appare ormai molto più funzionale alla comprensione dell’attuale regime costituzionale la diversa classificazione di tali atti in tipi distinti, a seconda che si tratti di atti amministrativi veri e propri – i c.d. “atti politici”, salvo quanto sopra richiamato con riferimento al problema della loro sindacabilità in sede giurisdizionale – e atti di governo in quanto “atti costituzionali”, non assimilabili ai primi in virtù della posizione del Governo, organo costituzionale, nel sistema dei poteri sovrani.
Giova ricordare – a ricordo di un mondo più semplice - la tradizionale e limpida posizione del Guicciardi secondo cui l’atto (amministrativo) politico sarebbe vincolato dalla sola norma sulla competenza e per il resto sarebbe necessariamente legittimo.
La tesi può forse avere ancora uno spazio di validità a proposito della questione dell’art. 4 tupi.
In tale chiave l’art. 4 tupi sarebbe solo una norma sulla competenza e tutti gli atti ivi menzionati non sarebbero da ritenersi mai illegittimi per ragioni di merito.
Ma ciò andrebbe bene – la legittimità presunta in modo assoluto - per atti di esercizio del potere politico come esercizio di attività libera nei fini, come libertà politica dei supremi organi dello Stato.
L’atto politico in questa chiave è l’atto di competenza di un organo costituzionale (supremo dello Stato) mentre l’atto di alta amministrazione è l’atto di prima attuazione successivo all’indirizzo politico ( atto dirigenziale o atto di indirizzo politico ).
E gli atti di indirizzo politico amministrativo ? In quale categoria collocarli?
Possono ritenersi atti amministrativi perché primi atti di attuazione della norme demandati al livello politico nella sua qualità di vertice dell’amministrazione ?
Ecco che la tesi di Guicciardi non regge più nel diritto amministrativo contemporaneo.
Il regime di atto politico come atto che si deve presumere legittimo in modo assoluto non è il regime costituzionale conseguente all’introduzione degli artt. 24 e 113 Cost.
La Costituzione ha eroso lo spazio dell’atto politico, ha determinato la qualificazione di molti atti prima riportabili alla sfera politica come atti di alta amministrazione.
Si pensi all’individuazione delle risorse per gli uffici dirigenziali generali, può dirsi assolutamente insindacabile quando le risorse conferite ad un’attività necessaria (ad es. bonifiche) siano insufficienti ed altre per attività facoltative (ad es. finanziamenti per associazionismo) siano più abbondanti?
Ne deriva un’ipertrofia del giudiziario, si estende l’alta amministrazione con la sua ampia ma sindacabile discrezionalità e si riduce l’atto politico.
Corte Cost. n. 81 del 2012 in un caso riguardante le nomine di assessori regionali ritiene che l’atto – pur soggettivamente o oggettivamente politico - sia sindacabile «nella misura in cui l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio…».
Si è così esclusa la politicità della nomina ad avvocato generale dello Stato di persona estranea all'amministrazione; delle deliberazioni della Cassa per il Mezzogiorno di diniego di concessione di contributi sugli interessi per finanziamenti industriali; dello scioglimento di associazioni politiche e la confisca dei loro beni; degli atti della Commissione statale di controllo sulle Regioni; della nomina dei membri del CNEL; del provvedimento col quale un ufficiale dei carabinieri in servizio presso il Sismi è stato restituito all'amministrazione di appartenenza; lo scioglimento dei consigli comunali e la rimozione del sindaco (per la casistica sempre cfr. Tropea ma anche V. Giomi L’atto politico nella prospettiva del giudice amministrativo : riflessioni sui vecchi limiti ed auspici di nuove aperture al sindacato sul pubblico potere in Dir. amm. 2022 , 21 e ss e C. Cudia Considerazioni sull’atto politico Dir. amm. 2021, 621).
Più di recente, ritenendo che si tratti di atti di “alta amministrazione”, si è escluso il carattere politico del decreto col quale il Ministro della giustizia concede l'estradizione; del decreto del Ministro dell'interno col quale si dispone “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” l'espulsione dello straniero ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 286/1998; del decreto di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali per “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata” ex art. 143 t.u.e.l.; della determinazione con la quale il Ministero delle comunicazioni ha negato l'autorizzazione alla cessione, da parte della Rai, di azioni di una società controllata (Raiway); della revoca di assessori comunali, degli atti delle amministrazioni indipendenti; della nomina degli assessori in difetto dell’equilibrio di genere.
Ovunque vi sia una fattispecie legalmente predeterminata l’atto è sindacabile dal giudice, ove non vi sia tale predeterminazione ritorna – in qualche modo – ma residuamene la questione della natura dell’atto.
Come ha notato C. Cudia in sintonia con gli orientamenti dottrinali tesi a valorizzare lo Stato di diritto, il punto di partenza non può essere la natura dell'atto astrattamente intesa, ma la sua effettiva sostanza verificata in relazione alla presenza di una base legale o costituzionale, in relazione alla esistenza di una disciplina giuridica e in relazione agli effetti che è capace di produrre sulle situazioni individuali.
Atti politici sono la nomina dei senatori a vita, l’elenco delle grandi opere, la richiesta di autorizzazione di un aiuto di Stato alla Commissione europea, la decisione di non negoziare con una gruppo sociale o una confessione religiosa una intesa.
Pochi atti sono quindi ormai politici per volontà della stessa politica che ha abdicato al suo ruolo, in un mondo che chiede al giudiziario di sopportare il peso di ogni conflitto di dare una risposta ad ogni bisogno.
La giustizia climatica incombe con le sue domande, inevase dalla politica, punta a mettere la politica sotto accusa scaricando sul giudiziario conflitti politici che determineranno inedite tensioni.
2. Considerazioni conclusive sulla necessità dell’atto politico in tempi di crisi della politica
La tematica dell’atto politico e del suo ridimensionamento è sintomatica non solo della crescita della cultura costituzionale ma può anche essere letta come un effetto non voluto della crisi della politica, della crisi del costituzionalismo, della crisi di istituzioni liberali come la giustizia amministrativa a fronte dell’emersione delle tematiche ambientali e dell’azione dei grandi soggetti imprenditoriali.
La separatezza liberale fra politica ed economia è venuta meno ed il liberalismo come arte di separare le sfere non è più effettivo.
L’economico domina sul politico.
Gli effetti sono molteplici a molti livelli.
Scomparsa del lavoro per effetto dei grandi mutamenti del capitalismo, dall’algoritmo al capitalismo della massima sorveglianza; la crisi del sistema dei partiti del Novecento e delle visioni del mondo e della loro funzione osmotica con la società civile ( la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. è al centro di tale declino della politica ); la crisi dei sindacati che si radicano fra pochi tutelati a fronte di molti senza tutele ; l’esistenza di divari intergenerazionali divenuti rilevanti ex art, 9 Cost. nuovo testo; la crisi dei gruppi sociali (meno tragica di quella della politica per effetto della rinascita della solidarietà).
Le categorie giuridiche tradizionali del Novecento sono imperniate su una certa idea della soggettività che ha il “politico” al centro.
Cenni di Law and Literature illuminano il tema.
La letteratura dell’800 narra della pienezza del soggetto moderno nei grandi romanzi europei, la letteratura del ‘900 ( Proust Joyce) narra dell’indebolimento del soggetto, ridotto a flusso di coscienza.
La letteratura contemporanea è figlia delle visioni distopiche di Kafka, Orwell e Dick.
Il soggetto è perso in un mondo oggettivato ed impolitico o dominato da una politica assoluta ed inesplicabile.
Nel cinema Blade Runner dipinge un mondo figlio di 1984 di Orwell.
Che può fare il giurista in particolare il giuspubblicista?
Rileggere Santi Romano.
Difendere la soggettività.
La voce Autonomia dei Frammenti di un dizionario giuridico risolve l’autonomia nel soggetto che si dà un ordinamento. E se si danno più ordinamenti li coordina in un mondo ordinato.
La politica è ancora oggi idealmente lo spazio di questa soggettività autonoma.
Pur nella crescita della complessità, nella presenza di una crisi del soggetto moderno, di una crisi del pensiero causalistico, della emersione nel paradigma della contemporanea filosofia della scienza di una epistemologia della complessità, occorre pensare che possa svolgere un ruolo direttivo, ma non basta più il riferimento a Weber o ad Habermas.
Non è sufficiente più l’appello – irrelato - ai valori.
Ci vuole una critica culturale più profonda che non ignori la distanza che si è andata stabilendo fra costituzione formale e materiale (per cambiare quest’ultima dove va cambiata ).
Una critica all’altezza dei tempi potrebbe ripartire trovando le sue radici in Adorno e nella analisi sulla razionalità strumentale e sul suo lato oscuramente totalitario.
Occorrerebbe rileggere Todorov e sua moglie N. Houston (Contro i maestri dello sconforto) e metabolizzare il loro umanesimo positivo ed equilibrato ma preoccupato della deriva tecnocratica e totalitaria del liberismo.
I giuspubblicisti devono promuovere un lavoro collettivo sulla nozione di limes, sulla necessità degli sconfinamenti, sull’empatia, sul principio solidaristico, persino sull’eros come forza politica (non tanto presente solo in Marcuse ma anche nella gioia creativa intravista nel futuro del lavoro da De Masi (De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Torino 2018); occorre pensare mondi nuovi).
C’è il pericolo di una servitù volontaria generalizzata (pericolo antico come risalente è il pensiero di E. De la Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria).
Ma il futuro è sempre aperto, lo disegnerà la politica – come vuole la costituzione – o la tecnocrazia delle nuove forze dominanti il mondo economico?
Anche quelle sono forze politiche, gli ingegneri informatici plasmando l’IA svolgono un ruolo politico; saprà l’aspirazione umana alla soggettività dominare tali tendenze?
Tuttavia della travolgente evoluzione dell’informatica devono cogliersi i tanti significati e segnali positivi.
Ma per chiamare la politica ad occuparsene: come in fondo sta facendo nel quadro della regolamentazione europea sullo Stato digitale (Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna 2023).
Occorre regolare un mercato deregolato ed occorre farlo bene ed in modo proporzionato.
I problemi poi sono ancora una volta tematizzabili con approccio Law and Literature.
La cittadinanza digitale sfida i limiti tradizionali dell’empatia, la universalizza, pretende che la si provi per sventure lontane (H. Ritter, Sventura lontana. Saggi sulla compassione, Milano 2007).
Se in Balzac l’arrampicatore sociale poteva barattare il suo successo con la morte di un mandarino cinese (Balzac era già consapevole dell’effetto farfalla) oggi siamo empatici per effetto dei media con gli oppressi di tanti paesi lontani.
Rousseau era empatico, ma era – inconsapevolmente - anche totalitario (come sostiene Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 2000)?
Troppa empatia possiamo reggerla?
Il comunismo ed il nazionalsocialismo sono stati casi di empatia assoluta?
Sono di certo casi di politica assoluta in assenza di contrappeso giudiziario.
Ma all’inverso traslando la domanda sul giudiziario: può il giudiziario reggere il peso di tutto in assenza della politica?
Può essere il luogo del governo della crisi climatica?
Lascio queste domande volutamente in sospeso.
La politica è il sogno moderno di emancipazione del soggetto, il giudiziario è solo il limite alla sua (eventuale) prepotenza.
La politica che ci dona libertà è sempre un gioco sul confine; è libera nei fini; gioca sul confine (sul rapporto amico/ nemico e tornano le guerre in caso di crisi della politica).
È una questione di equilibrio, ogni cosa al proprio posto (come dice Massimo Luciani in Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano 2023).
Occorre mantenere le categorie tradizionali (anche l’atto politico) fino a quando non ne avremo di nuove che funzionino meglio.
Non occorre accelerare il caos a fronte di tante ragioni di crisi e si deve auspicare una rinascita dell’autonomia del politico (per quanto problematica e non assoluta essa sia ma su questo chi scrive avrà occasione di tornare commentando il libro di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari 2022, discusso in un seminario fra giuristi e filosofi).
Sul piano giuridico ciò significa essere consapevoli della necessità di limiti alla giustiziabilità di ogni desiderio.
Le situazioni giuridiche soggettive sono normativamente predeterminate.
Nel frattempo soccorre anche Derrida.
Altro pensatore della complessità.
Derrida era un uomo buono, amante della singolarità, intento a scavare sempre in ogni concetto, percepiva ogni lingua come gabbia, lavorava sui confini, cercava con gli sconfinamenti gli scarti significativi del linguaggio, svolgeva un lavoro filosofico poetico, fatto di accostamenti inediti, di prospettive trascurate, per scoprire significati ulteriori.
Scopriamo – con Derrida , autore libertario come pochi - nell’atto politico non solo il segno della mentalità autoritaria ma il senso del limite del lavoro del giudice.
Il giudice ha bisogno del limite del politico, come il politico ha bisogno del limite come senso del sacro ( consapevolezza che l’uomo è un angelo caduto), come resto del teologico-politico in senso laico ed immanente.
Rifuggire da ogni assoluto è il messaggio inscritto in una lettura moderna dell’art. 7 cpa come nel pluralismo sociale ed istituzionale della nostra Costituzione.
Scoprire la ricchezza di nuove dimensioni della discrezionalità (come nella teorica degli atti di alta amministrazione).
Rispettare la cornice data dal decisore che pone la regola (anche limitando sé stesso).
Decidere solo sui diritti e gli interessi legittimi violati, all’interno della cornice (da restaurare e rendere più comprensibile riparando i danni determinati dalla crisi del politico).
Concludo con i versi di Juarroz che ci riportano alla necessità di un senso del limite (insito nella caducità / occasionalità dell’esistenza) e nello stesso tempo alla speranza nel futuro (ciò che non esiste):
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.[1]
[1] La poesia per intero è questa :
Così come non possiamo
sostenere a lungo uno sguardo,
neppure possiamo sostenere a lungo l’allegria,
la spirale dell’amore,
la gratuità del pensiero,
la terra sospesa nel canto.
Non possiamo nemmeno sostenere a lungo
le proporzioni del silenzio
quando qualcosa lo visita.
E ancora meno
quando niente lo visita.
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.
*Intervento al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione"
1.Il felice titolo di questo Congresso consente riflessioni molteplici, ottimamente svolte nell’importante tavola rotonda di apertura, “Diritti sotto attacco”, e negli interventi che mi hanno preceduto, in particolare quelli di Giuseppe Cascini e del Presidente Santalucia.
In che termini si pone la “relazione” tra giurisdizione e maggioritarismo? Se il significato di quest’ultimo si individua (anche) nella tendenza a imprimere all’ordinamento, agli ordinamenti, direzioni, per così dire, non di rado critiche per la tenuta dei diritti, in perfetta coerenza con manifesti (talvolta anche esplicitamente) populisti, allora è evidente che il baluardo della giurisdizione, per come ora disegnato dalla nostra Costituzione, è fatalmente esso stesso sotto attacco. Le riflessioni finora condotte possono essere, in buona sostanza, sintetizzate nel senso che, perché il maggioritarismo non diventi autoritarismo, il ruolo della giurisdizione non soltanto non può essere indebolito, ma deve essere rafforzato, perché ad essa è affidata la tutela di beni fondamentali, di princìpi e di valori che non sono, né possono essere, nella disponibilità di maggioranze contingenti, per quanto solide e per quanto, ovviamente, legittimate dal “consenso”. Di fronte a un “diritto forte” - che sarebbe persino auspicabile fosse tale, almeno nel senso di norme primarie chiare, e di scelte di fondo responsabili - è irrinunciabile una giurisdizione a sua volta forte, autorevole, indipendente, come peraltro è quella che la Costituzione disegna in modo mirabile.
Ma se questo è, ed è stato, fino ad oggi, nuovi disegni “riformatori” vorrebbero alterarlo in modo radicale, devastante e direi sorprendente, se tale disegno proviene da chi dice di battersi in nome di “garanzie”, e in proclamata coerenza con manifesti liberali...
2.Tra i (tanti) progetti di riforma che suscitano allarme ed inquietudini profonde, vi è certamente il disegno di legge costituzionale di iniziativa dell’Unione della Camere Penali denominato “Norme per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”, in discussione alla Camera dei Deputati. Vi è da sottolineare, innanzitutto, l’equivoco - qualcuno prima di me ha parlato di “truffa delle etichette”, e non sembra affatto improprio - che esso riguardi solo la separazione delle carriere, come indicherebbe il suo titolo. In realtà è una riscrittura di attuali norme costituzionali fondamentali e, con esse, di principi che costituiscono i cardini dell’attuale assetto della giurisdizione. Vediamole, una per una, le possibili nuove norme…
Per realizzare il dichiarato obiettivo di “separare le carriere” (quella dei Pubblici Ministeri e dei Giudici):
- vengono previsti due concorsi distinti per l’accesso alla magistratura requirente e alla magistratura giudicante, e vengono previsti un Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e un Consiglio Superiore della Magistratura requirente;
- viene modificato l’equilibrio nella proporzione tra membri laici e togati, per cui ciascuno dei due nuovi C.S.M sarà composto per metà da magistrati e per metà da eletti dal Parlamento;
- è espressamente previsto che i due Consigli non abbiano altre prerogative se non quelle espressamente indicate (incomprensibilmente il nuovo CSM privato persino del potere di rendere pareri su progetti di legge in materia di ordinamento…);
Ma soprattutto, si badi bene, vengono riscritti:
- l’articolo 101 della Costituzione “La giustizia e' amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, con l’eliminazione della parola “soltanto” dopo “soggetti”, evidentemente, in tal modo, aprendo la via maestra per la soggezione “ad altro”, ancorché non esplicitamente indicato;
- il primo comma dell’art. 104 della Costituzione “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, eliminando la parola altro, riferita a potere dello Stato, si fa realizzare per tale via l’esplicita espulsione della magistratura (l’intera magistratura, non solo quella requirente…) dai poteri dello Stato, con ciò che esso significa, non solo in termini puramente simbolici;
- l’art. 107 della Costituzione, cancellandone l’attuale, fondamentale terzo comma, con il suo essenziale principio per cui “I magistrati si distinguono tra di loro solo per diversità di funzioni”: in assenza di una spiegazione delle ragioni che animano tale proposta (mai fornite, e del resto assenti anche nei testi parlamentari), a noi resta il convincimento che si tratti dell’intenzione di cancellare la più importante conquista di una giurisdizione pienamente coerente con la Costituzione, che mirava a cancellare gerarchie tra i Magistrati, e che, indiscutibilmente, ha consentito di realizzare quel modello di “potere diffuso” evidentemente molto temuto, perché difficile da controllare. E d’altra parte, se i magistrati non si distinguono più solo per diversità di funzioni, si distingueranno - immaginiamo - per le cariche che ricoprono, dunque reintroducendo quella gerarchia che è la più vistosa delle contraddizioni con l’idea stessa della giurisdizione (come dovrebbero ben sapere, ancor di più, i fautori più o meno genuini di un manifesto liberale), minando in modo irrimediabile le basi anche dell’indipendenza “interna”, che è uno dei due pilastri su cui si fondano l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura;
- l’art. 109 della Costituzione, sottraendo all’Autorità Giudiziaria la disponibilità della Polizia Giudiziaria, che invece, con grande lungimiranza, il Costituente aveva voluto attribuire - con norma solo apparentemente di dettaglio - alla Magistratura proprio a “completamento”, per così dire, della sua autonomia, essendo evidente che una Polizia Giudiziaria che risponde solo alla Magistratura - almeno nel senso funzionale del termine - è sottratta a quell’indirizzo politico-amministrativo cui sarebbe soggetta, per via gerarchica, ove rispondesse solo ai vertici dei relativi corpi: insomma, un sovvertimento delle regole attuali, tali da determinare intuibili conseguenze sulle indagini, la loro direzione, lo stesso loro svolgimento;
- infine, ma non certo da ultimo, viene riscritto l’art. 112 della Costituzione, prevedendosi che l’azione penale, non più prevista come obbligatoria, andrà esercitata “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Credo sia evidente il significato, e l’effetto, della “decostituzionalizzazione” di un principio centrale nell’assetto della giurisdizione, indiscutibilmente collegato ad altri fondamentali principi costituzionali, ove la “tecnica” normativa svuota di contenuto la previsione costituzionale, mantenendo solo la formale riserva di legge.
A noi pare che questo disegno costituisca un’esplicita delineazione di un modello di giurisdizione pre-costituzionale, un modello che consideriamo pericolosissimo, non tanto per la Magistratura, quanto per la stessa tutela dei diritti.
Si crea un’esplicita asimmetria tra i poteri dello Stato, con l’espulsione di quello giudiziario, le cui garanzie di indipendenza - affidate a due distinti Consigli, a loro volta indeboliti nelle rispettive prerogative - sfumano - ed è pure un eufemismo - attraverso un riequilibrio della composizione, a favore di un aumento del peso della parte politica: scelta che non rivela altro che il chiaro intento di realizzare, con il formale disconoscimento del rango di potere, la potenziale sottomissione della magistratura, tutta, al controllo della politica. E d’altra parte è stato detto anche esplicitamente, rivendicato come obiettivo “politico” proprio dalle Camere Penali, in quella “due giorni” organizzata a Roma, nel settembre 2019 - “Stati Generali per la riforma dell’Ordinamento Giudiziario”, ai quali partecipai da allora Presidente dell’ANM – ove fu proprio un componente della Giunta ad indicare, nella ridefinizione degli equilibri nella composizione del CSM, l’obiettivo di un “controllo” della Magistratura….
Si prenderebbe per questa via congedo - temiamo, definitivo… - da un modello di giurisdizione coerente con l’attuale visione costituzionale di essa: è cancellata con un tratto di penna la concezione della magistratura come potere diffuso, l’idea più straordinariamente democratica propria del modello costituzionale di giurisdizione, che ripudia la gerarchia interna e l’idea della carriera tra i magistrati, per affermare il quale modello sono state necessarie storiche battaglie associative, il cui esito è stata una vittoria non per la magistratura, ma della stessa Costituzione, anche in questo a lungo inattuata.
Altro che leoni sotto il trono, espressione che pur consideriamo irricevibile: a me pare che ci vogliano cani da compagnia, docili ed accondiscendenti, e soprattutto controllabili.
3. Non possiamo che ribadire qui, sollecitati dall’intervento del Presidente Caiazza, la nostra netta e ferma contrarietà alla separazione delle carriere. Abbiamo appena sentito - proprio dal Presidente Caiazza - l’invito a rivedere posizioni che sarebbero solo “ideologiche”, e che dunque nulla avrebbero a vedere con ragioni ordinamentali o processuali, anche sulla scorta delle esperienze di altri ordinamenti, i più a suo dire, ove PM “separati” mantengono intatta la loro autonomia.
A me pare che ideologica sia proprio la posizione delle Camere Penali, una vera e propria campagna, densa di slogans, da oltre un ventennio.
È agevole infatti obiettare, come ha benissimo argomentato nel lucido intervento di ieri il Prof. Grosso, che dalla Riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 ad oggi, il passaggio dalla funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, è talmente complicato ed oneroso da costituire casi ormai remoti, con percentuali insignificanti, così da rendere evidente come le regole sul “cambiamento di funzioni” abbiano di fatto realizzato una separazione netta. L’argomento dell’“ideologia” come pretesamente sottesa alle nostre posizioni allora si ribalta clamorosamente, ed essa diventa manifesta se gli argomenti (mal) utilizzati per sostenere la richiesta di separare le carriere si saldano con tutti gli elementi che emergono a completamento del disegno complessivo, convincendoci che in realtà è in corso una formidabile battaglia di potere, sub specie “resa dei conti”, come, ancora, è stato detto benissimo ieri. Se, infatti, interessassero davvero le “garanzie”, e preoccupasse davvero la loro “tenuta”, e si ritenesse che essa traballa a causa di interpretazione “poliziesca” del ruolo da parte dei Pubblici Ministeri (o di alcuni di loro), non si capirebbe la ragione della preclusione anche al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, che dovrebbe giovare all’obiettivo “garantista”, se vi fosse una coerenza ed una buona fede.
L’attuale assetto costituzionale, con il pieno inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione, garantisce un’effettiva forma di controllo giurisdizionale sin dalla fase essenziale delle indagini preliminari, e rappresenta una irrinunciabile garanzia per tutti i cittadini e, in primo luogo, per gli indagati. È del resto la stessa Costituzione a prevedere, nella parte dedicata alle libertà fondamentali, una riserva di giurisdizione “dell’Autorità Giudiziaria”, in essa dunque comprendendo tanto il Giudice che il Pubblico Ministero, anche quest’ultimo concepito in una funzione di tutela delle garanzie di libertà, dentro quella giurisdizione che ne dovrebbe garantire la funzione di “parte imparziale”, il che non è affatto un ossimoro, come del resto indicano le norme ordinamentali e processuali che tratteggiano un dovere di imparzialità del pubblico ministero. Contrariamente a quanto affermano i proponenti, esso nulla ha a che fare con l’attuazione dei principi costituzionali in materia di giusto processo, poiché già oggi l’ordinamento garantisce pienamente la condizione di parità delle parti nel processo, e la terzietà del giudice, che certo non può ritenersi compromessa dalla comune appartenenza all’ordine giudiziario. Non credo di dover ricordare io al Presidente Caiazza, le parole - recenti - con cui un principe del foro come l’Avvocato Coppi - credo non sospetto di difendere posizioni corporative dei Magistrati - ha sottolineato la profonda, ed irriducibile, diversità tra il ruolo del Pubblico Ministero e dell’Avvocato, al primo spettando obblighi anche di ricerca delle “verità” naturalmente assenti, ed addirittura incompatibili, io aggiungo, con la funzione difensiva.
Sorprende, allora, che chi si propone l’obiettivo di assicurare maggiori garanzie agli indagati - denunciando talvolta a ragione prassi “poliziesche” nella nostra azione - anziché percorrere la via della pretesa di un Pubblico Ministero davvero imparziale (e magari reclamare una correzione delle più vistose anomalie determinate dalla riforma del 2006, che ne ha ridisegnato la fisionomia con un’impronta marcatamente gerarchica), ne auspichi una separatezza che lo consegnerebbe certamente ad un ruolo marcatamente accusatorio, con garanzie di indipendenza che - a dispetto degli enunciati - risentirebbero negativamente dell’intero assetto della riforma.
Del resto non mi sembrano molto felici gli esempi oggi portati, tratti dalle esperienze di altri ordinamenti: oltre ad esigere comparazioni più analitiche - che tengano conto delle profonde differenze tali da rendere davvero molto più complesso il confronto - è agevole obiettare che alcuni dei Pubblici Ministeri citati obbediscono - nel caso statunitense, per “statuto” stesso, verrebbe da dire - ad evidenti logiche politiche. In Oklahoma il Procuratore Generale sta per ordinare l’esecuzione di un detenuto con un veleno rifiutato persino dai veterinari per gli animali; in Giappone i procuratori firmano ordini di esecuzione per impiccagione. Spero non siano questi i modelli di Pubblico Ministero “indipendente” cui ispirarsi per delineare il nostro, di modello.
4.Non possiamo sottrarci, tuttavia, ad una riflessione che ritengo irrinunciabile soprattutto per noi, noi Magistrati di Area, noi Magistrati progressisti, che riguarda proprio il modo di intendere l’esercizio delle funzione del Pubblico Ministero, in coerenza con quel ruolo che noi reclamiamo come proprio della “giurisdizione”. E la riflessione è suggerita ancora di più dallo spunto che ci ha offerto il Presidente Santalucia nel suo lucidissimo intervento, parlando di un Pubblico Ministero indifferente al risultato della propria azione, nell’interesse obiettivo della Legge, mi permetto di aggiungere io. E proprio in virtù di questo essenziale principio che dovrebbe caratterizzare ed orientare sempre il lavoro del Pubblico Ministero, e dunque la sua “cultura”, che si radicano le ragioni della sua irriducibile diversità rispetto all’Avvocato difensore.
Ecco, questo è il cuore del problema: la “cultura” della giurisdizione non è uno slogan; o almeno, perché non lo sia, o non si riduca ad esserlo, esige non soltanto teoriche declinazioni, ma prassi coerenti con i principi, interpretazioni del ruolo del P.M. perfettamente conforme al modello costituzionale e, soprattutto, a quello processuale, che ne disegna un ruolo di parte imparziale: peraltro, esattamente il contrario dell’Avvocato della polizia, ruolo reclamato non di rado, e sorprendentemente, dagli stessi sostenitori, sedicenti liberali, di una riforma del suo statuto con finalità di “maggiore garantismo processuale”.
Indifferenza al risultato non significa né insensibilità ai valori in gioco, né rinuncia alla giusta determinazione dell’agire del Pubblico Ministero: è invece il doveroso richiamo a quell’obbligo di verità processuale, che i principi e le norme dell’ordinamento impongo al Pubblico Ministero.
Difficile però negare che nei 15 anni dall’entrata in vigore della “grande riforma” Castelli-Mastella sull’ordinamento delle Procure (questa sì, di portata epocale, senza che forse se ne siano compresi per tempo i guasti che avrebbe causato) si siano già verificati dei mutamenti degli assetti che sembrano aver inciso, non poco, sulla stessa cultura giurisdizionale del PM.
È un compito arduo, ed una sfida che noi Magistrati di Area dobbiamo raccogliere con lucidità e necessario spirito autocritico, che deve caratterizzare, secondo me, uno dei punti centrali della nostra elaborazione e del nostro lavoro.
Solo così, io credo, saremo coerenti con quella Costituzione sulla fedeltà alla quale abbiamo giurato.
* Intervento al IV Congresso di Area DG "L'assetto della giurisdizione all'epoca del maggioritarismo", Palermo, 30 settembre 2023.
di Glauco Giostra*
Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr (ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate). Ovviamente, la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del Ministro Piantedosi.
Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione del magistrato di cui non si condivide il pronunciamento. Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere “nemico della sicurezza nazionale”, “legislatore abusivo”, “scafista in toga”, “toga rossa che rema contro” significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale.
Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia. Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia.
Il vice presidente del Consiglio Salvini ha spiegato che, quanto al presente, «la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in Parlamento» (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano «essere trasformati in sedi della sinistra», precisando che «è con questo spirito» che sarà apprestata «la riforma della Giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano». Ad una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito. A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il Ministro Nordio al congresso dei magistrati di Area ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia.
Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici. Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’on. Gasparri: «la magistratura è da tempo il primo problema del Paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani.»
*Pubblicato su “Il Domani” del 7 ottobre 2023.
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