ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Filippo D’Angelo
1. Con sempre maggior frequenza accade di imbattersi in sentenze o pareri di organi giudiziari che maneggiano – talvolta con indubbia destrezza – istituti tradizionali del diritto amministrativo.
Un esempio in tal senso è offerto dal parere del Consiglio di Stato, 2 ottobre 2023, n. 1254 che si è soffermato sul meccanismo del «concerto» di amministrazioni pubbliche[1], ricavandone alcune conclusioni in tema di «cogestione» delle funzioni amministrative.
Il parere consultivo ricorda in via preliminare che il concerto realizza un «significativo momento codecisionale» in cui è «implicita (come fatto palese anche dall’etimologia, che evoca un confronto contestuale) la discussione, il confronto tra plurime volontà, che trovano una composizione proprio a seguito ed in virtù del concerto stesso, in un momento in cui la volontà definitiva non sia stata ancora formata»[2].
In tale prospettiva il concerto «esprime - in ordine alla proposta elaborata, in via preliminare, dall’autorità concertante - una adesione sostanziale, conseguente al concreto apprezzamento di compatibilità degli interessi pubblici a confronto(anche di ordine organizzativo ed infrastrutturale), che abilita del resto alla formulazione di eventuali suggerimenti e alla elaborazione di proposte di modifica o di integrazione»[3].
Per questo la natura del concerto è procedimentale: esso «realizza una effettiva compartecipazione alla elaborazione del provvedimento o dell’atto, per la quale l’autorità concertata esprime sulla proposta elaborata dall’autorità concertante una effettiva valutazione di compatibilità con gli interessi di cui è portatrice, con ciò realizzandosi una forma di concorso nel volere che è, ad un tempo, sostanziale codeterminazione del voluto»[4].
2. La giurisprudenza amministrativa - e ci si riferisce alla coeva sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610 - ha detto qualcosa di simile anche a proposito del metodo formativo delle volontà espresse dalle amministrazioni coinvolte nell’esercizio della funzione consultiva vincolante[5].
Al riguardo la sentenza ha affermato che un parere che «non lasci nessuno spazio di scelta in capo all’organo di amministrazione attiva non esprime nessuna consulenza, ma pone in essere una decisione preliminare, sicché solo atecnicamente può essere definito alla stregua di «parere». Invero, anche dal punto di vista della collocazione in seno alla fattispecie procedimentale, dovrebbe concludersi che i pareri vincolanti determinano il contenuto della decisione finale, per cui bisognerebbe espungerli dal novero degli atti preparatori e ricondurli nell’ambito di quelli decisori o co-decisori»[6].
Pertanto la fattispecie configura un procedimento e una «decisione “a doppia chiave” e dunque - un’ipotesi di cogestione della funzione (cd. decisione pluristrutturata)»[7]; e ciò si ha quando le «due Amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di una funzione decisoria sostanziale»[8]. Tale meccanismo sfocia nella decisione finale che «tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso»[9].
3. Le due pronunce annotate mettono in luce due aspetti sicuramente degni di nota.
Anzitutto che, tanto in caso di concerto quanto in caso di parere vincolante, vi è un fascio di competenze amministrative che s’intrecciano in un procedimento complesso e refluiscono nella determinazione finale imputabile all’autorità principale: è il meccanismo tipico dei procedimenti composti - non solo europei ma anche interni - in cui il momento della sintesi tra figure soggettive, a un esame non esteriore, disvela il profilo organizzatorio della fattispecie legale che si esprime in forma di relazioni organizzative a struttura procedimentale (riscontrabile in entrambi i casi descritti nella relazione organizzativa dell’equiordinazione decisoria)[10].
In secondo luogo le medesime pronunce valorizzano l’intero ragionamento rimarcando il ruolo degli interessi pubblici in gioco; specie quando alludono alla necessità di svolgere un «apprezzamento di compatibilità degli interessi pubblici» in concerto o di tenere in «debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso» vincolante: ovverosia di trovare, volta per volta, un punto di incontro tra interessi distinti secondo la logica tipica del coordinamento amministrativo[11].
Se sul primo aspetto si può senz’altro convenire, sembra però che ci sia spazio - probabilmente - per tentare di rimeditare in parte la seconda osservazione.
Valgano allora due esempi concreti.
Il primo è il caso del concerto previsto nel procedimento di VIA ai sensi dell’art. 25 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152; il secondo è il parere obbligatorio richiesto per l’autorizzazione paesaggistica dall’art. 146 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22.
Procedendo con ordine.
È noto che l’art. 5, co. 1, lett. c) del d.lgs. n. 152/2006 precisa che il provvedimento di VIA serve a verificare gli «impatti ambientali» di un progetto; e cioè gli «effetti significativi, diretti e indiretti, di un piano, di un programma o di un progetto» su popolazione e salute umana; biodiversità; territorio, suolo, acqua, aria e clima; beni materiali, patrimonio culturale, paesaggio.
L’art. 23 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 stabilisce che per i progetti di competenza statale l’istanza di VIA è presentata dal privato all’autorità competente corredata dei documenti richiesti dalla leg-ge. Entro quindici giorni l’amministrazione raccoglie tutti i documenti e li pubblica. Dalla pubblicazione iniziano a decorrere i termini per avviare una consultazione pubblica anche nelle forme dell’inchiesta amministrativa (artt. 24 e 24-bis). Scaduti i termini la autorità competente, entro sessanta giorni, «adotta il provvedimento di VIA previa acquisizione del concerto del competente direttore generale del Ministero della cultura entro il termine di trenta giorni» (art. 25, co. 2).
Per contro l’art. 146 del d.lgs. n. 22/2004 stabilisce che i proprietari di immobili e aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge non possono modificarli senza l’autorizzazione degli enti regionali competenti (co. 2) che sono chiamati a verificare la «compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato» (co. 3). È previsto che la regione si pronunci sull’istanza del privato dopo aver acquisito il «parere vincolante del soprintendente» ai beni culturali e paesaggistici (co. 5) che si pronuncia «limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico» (co. 8).
4. Quanto precede sembra a offrire lo spunto per revisionare criticamente l’assunto della citata sentenza n. 8610/2023 per cui - in caso di parere vincolante e altrettanto per il concerto - la «amministrazione procedente valuta comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione interpellata», assumendo una «decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso» acquisito[12].
Ciò per una ragione specifica: il fatto che i procedimenti composti appena descritti chiamino in causa due autorità amministrative distinte non dimostra di per sé che duplici siano anche gli interessi pubblici implicati nella decisione finale.
In effetti l’esame dei due testi legislativi non sembra d’ostacolo a una lettura parzialmente differente; e cioè a quella per cui in entrambi i casi l’interesse tutelato sia soltanto uno: nel primo che il progetto del privato non impatti negativamente sull’ambiente (interesse ambientale); nel secondo che il progetto sia compatibile con l’interesse paesaggistico[13].
In simili circostanze, piuttosto che di pluralismo d’interessi, si potrebbe parlare di interessi pubblici a struttura ‘mista’; tutelabili, cioè, attraverso un concorso di competenze intestate a figure soggettive distinte[14].
5. Si giunge così al punto finale.
Concerto e parere obbligatorio sono istituti nominalmente distinti, ma nella sostanza assai prossimi: così come il parere vincolante obbliga l’autorità consultante ad agire in conformità alle indicazioni ricevute; altrettanto avviene nel concerto dove l’autorità agente deve adottare una decisione che tenga in effettivo conto l’avviso espresso dal soggetto interpellato[15].
Se ne consideri più da vicino la struttura fondamentale: entrambi sono doverosi nell’architettura legale della funzione complessa; entrambi poggiano su competenze amministrative collegate; entrambi cospirano a fini comuni; entrambi richiedono una sintesi di volontà in una stessa direzione e quindi unità d’intenti.
A dispetto di quant’osserva la giurisprudenza avanti richiamata se ne potrebbe dedurre che i due istituti non servono solo a raggiungere una sintesi tra interessi distinti e imputabili ad autorità diverse; ma sono utilizzabili anche quando vi sia un solo interesse tutelato in concorso da più autorità amministrative.
In ciò sembra effettivamente risiedere l’essenza del concetto di «cogestione» di funzioni amministrative: nel concorso doveroso di più soggetti all’esercizio del potere - determinativo - di tratteggiare gli effetti della fattispecie legale[16]; ciò che proietta all’esterno il rilievo giuridico del concetto di «collaborazione» - e non di «coordinamento» - tra amministrazioni in vista di fini comuni[17].
È esattamente sul piano dell’unicità dell’interesse curato da competenze amministrative intrecciate che si potrebbe cogliere l’elemento in grado di differenziare la collaborazione dalle nozione finitima di coordinamento che nella sua intima sostanza consiste pur sempre in un’armonizzazione di attività e interessi intestati ad amministrazioni separate[18].
[1] In tema rimane ancora fondamentale lo studio monografico di G. Correale, Contributo allo studio del concerto, Padova, 1974, cui si rinvia.
[2] Pagina 11 del parere.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Tra i molteplici contributi, e senza pretesa di esaustività, si rinvia a G. Ghetti, La consulenza amministrativa, I, Padova, 1974; F. Trimarchi, Funzione consultiva e amministrazione democratica, Milano, 1974; C. Barbati, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002.
[6] Punto 8.3 della parte motiva in diritto.
[7] Punto 8.4 della parte motiva in diritto.
[8] Punto 8.6 della parte motiva in diritto.
[9] Punto 10.2 della parte motiva in diritto.
[10] Per questi aspetti sia consentito rinviare a F. D’Angelo, Pluralismo degli enti pubblici e collaborazione procedimentale. Per una rilettura delle relazioni organizzative nell’amministrazione complessa, Torino, 2022.
[11] Cfr. V. Bachelet, Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 630 ss.; si veda anche la sentenza della Corte costituzionale, 30 dicembre 2003, n. 380, punto 3 della parte motiva in diritto: il concerto è un «modulo procedimentale volto al coordinamento di una pluralità di interessi».
[12] Così ancora Cons. Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610, punto 11.3 della parte motiva in diritto.
[13] Cfr. P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato, in Federalismi.it, 19, 2016, 32 ss.; citata da M. Occhiena - N. Posteraro, Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva, in Dir. econ., 3, 2019, 57.
[14] Per quest’ordine d’idee si veda A. Ruggeri, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma della giurisprudenza costituzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e discontinuo, in Nuove aut., 6, 2005, 910.
[15] Si confronti sul punto M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 283.
[16] Il riferimento è a F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento amministrativo, in Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottanta anni di Massimo Severo Giannini, Milano, 1995, 286.
[17] Tema risalente e mai apertamente affrontato se non in una celebre occasione congressuale efficacemente intitolata Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Milano, 1961, da cui però un preciso discrimine tra i due concetti non emerse del tutto (lo ricorda L. Arcidiacono, Organizzazione pluralistica e strumenti di collegamento. Profili dogmatici, Milano, 1974, 107, nota 27); e tuttavia che il coordinamento amministrativo richieda una sintesi di interessi pubblici contrapposti si può dedurre dall’art. 14, co. 1 della legge n. 241/1990 quando parla di “esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, ovvero in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati” (e in simile prospettiva si veda il volume a cura di G. Amato – G. Marongiu, L’amministrazione della società complessa. In ricordo di Vittorio Bachelet, Bologna, 1982).
[18] È favorevole a riconoscere una pur sfumata discriminazione tra le due figure anche A. Police, Enti pubblici di Ricerca ed Università: le persistenti ragioni di una differenziazione e le indifferibili esigenze di uno sforzo comune, in Nuove aut., 1, 2021, 72.
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. La decisione - 2.Un passaggio stretto: le imputazioni. - 3. I limiti della tutela posticipata. - 4 Un auspicio.
1. La decisione
Accogliendo l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dal gip di Roma nella vicenda Regeni, la Corte costituzionale il 26 ottobre del 2023 (c.c. 20 settembre 2023, delib. 27 settembre 2023) ha depositato la motivazione della sentenza – C. Cost. n. 192 del 2023 – con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420 bis, comma 3, c.p.p., per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Con questa decisione, i giudici costituzionali hanno ristretto le situazioni dell’assenza improcedibile, suscettibile di condurre all’operatività dell’art. 420 quater c.p.p., cioè alla pronuncia inappellabile di improcedibilità ed ha allargato le situazioni di cui ai commi 1, 2 e 3 (nel caso di specie) dell’art. 420 bis c.p.p. che consente, seppur in modo diversificato, di procedere in assenza dell’imputato.
È difficile negare che, per effetto delle diffuse conoscenze mediatiche della vicenda, l’interprete, ad ogni passaggio argomentativo, più o meno stretto e problematico (anche verosimilmente la stessa Corte), non abbia riflettuto sulle implicazioni, sui riflessi, sulle ricadute, nelle premesse della decisione in esame.
Va anche sottolineato che davanti alla Corte costituzionale non si è costituita l’Avvocatura dello Stato.
2. Un passaggio stretto: le imputazioni.
Concentrando l’attenzione solo sui riferiti “passaggi stretti” della decisione, un primo profilo sul quale va rivolta l’attenzione riguarda l’imputazione che dovrebbe riguardare la fattispecie di tortura. Ora, va sottolineato (e lo sottolinea anche la Corte, seppur ritenendo di poter superare la questione) che le norme richiamate e la descrizione dei fatti, sembrano richiedere qualche approfondimento (in sede di udienza preliminare), soprattutto in relazione alla puntuale declaratoria di incostituzionalità, che per tre imputati (altro profilo sottolineato dalla motivazione) le ipotesi incriminatrici sembrano avere contenuto non sovrapponibile con la conseguenza di poter non essere operativa.
I necessari riferimenti fattuali della tortura potrebbero richiedere qualche precisazione medico-legale.
Il rapporto tra il reato di tortura e la necessità del processo per evitare l’impunità anche alla luce delle Convenzioni internazionali in materia, sicuramente inderogabile stante la sua natura di crimine contro la persona e l’umanità, pur con tutte le cautele della motivazione della Corte, sembra tuttavia lasciare spazio ad altre situazioni delinquenziali, a forte impatto, e connotate dalla stesso tasso di lesione della persona (il pensiero agevolmente va alla Convenzione di Istanbul; ed anche a quella in tema di traffico di esseri umani e di criminalità organizzata legata agli stupefacenti) suscettibili di determinare ulteriori giustificazioni la derogatorie. È nota la forza delle eccezioni – variamente giustificabili – rispetto alla fermezza iniziale delle regole.
Resterebbe da approfondire se in presenza di misura cautelare, stante la gravità del fatto, non sarebbe stato possibile o preferibile operare sotto il profilo della latitanza.
3. I limiti della tutela posticipata.
Una volta riavviato il processo, naturalmente ai difensori degli imputati, ancorché d’ufficio, devono essere offerte le possibilità di esercitare il diritto di difesa nella pienezza delle previsioni processuali di garanzia.
Ora, la situazione di cui alla declaratoria di incostituzionalità, pur nella rimarcata distinzione tra “procedimento” e “processo”, appare diversa dalle altre posizioni soggettive che vengono interpolate al comma 3 dell’art. 420 bis c.p.p.
La motivazione della sentenza – la Corte ne è consapevole – sposta le garanzie attraverso “le linee interne” del processo, “senza alcun sacrificio, né condizionamenti, delle facoltà partecipative dell’imputato, prevedendo unicamente “una diversa successione temporale del loro esercizio”.
Invero, appare difficile per la difesa un pieno esercizio dei diritti difensivi, maggiormente possibili, invece, nelle altre situazioni di cui al comma 3 cit.
I difensori non devono essere solo garanti delle regolarità procedurali, ma devono essere messi nelle condizioni di esercitare compiutamente i diritti difensivi, non solo contraddicendo l’accusa e la parte civile, ovvero sollevando questioni di legittimità costituzionale (che però dovrebbero essere accolte).
Certo potrebbero avvalersi degli atti processuali posti alla base dell’archiviazione in Egitto, ma ci saranno difficoltà, ad esempio, per la lista testi, per i consulenti, per l’attività all’estero e quant’altro potrebbe risultare utile alla tutela degli imputati (che restano presunti innocenti, rectius, considerati non colpevoli: art. 27 Cost.).
Appare difficile (rectius, impossibile) che i legali possano proporre appello, stante la presenza dell’art. 581, comma 1 quater c.p.p..
La Corte è consapevole che si celebrerà un processo che, se non sarà “un simulacro” servirà (solo) per rispettare un non secondario obbligo costituzionale e sovranazionale, assistito dalla pubblicità del dibattimento.
La stessa Corte, del resto, non può non riconoscere che gli imputati, se condannati, potranno accedere “senza limiti, né condizioni” ad un nuovo processo in quanto determinato “da una prova di incolpevolezza in re ipsa”, con libero accesso alle reintegrazioni delle facoltà processuali che riterranno di esercitare (anche separatamente, ognuno di essi, verosimilmente).
La questione si porrà al momento dell’eventuale esecuzione della condanna: durante la pendenza del processo non dovrebbe trovare operatività l’art. 420 quater c.p.p. con la previsione, se rintracciati, dalla comunicazione dell’udienza ivi indicata.
Anche questa ripetizione dei processi (se mai saranno celebrati), che non dovrebbero subire l’interruzione della prescrizione, per i reati (alcuni sono già vicini alla deadline) porrà problemi per il possibile recupero di materiale probatorio irripetibile.
4. Un auspicio.
Una alterazione processuale che anche per i giudici costituzionali (ad Regeni, come è stato detto), per le considerazioni iniziali, era forse inevitabile ma che, al di là della sicura gravità del reato e del suo forte impatto mediatico, sarebbe stato preferibile non introdurre, non pienamente convincente, che forse resterà isolata (salvo quanto detto), come è accaduto storicamente per altre situazioni processuali connotate da forte eccezionalità.
* v. Processo Regeni: un passaggio stretto tra regole ed eccezione di Giorgio Spangher
di Federica Resta, dirigente del Garante per la protezione dei dati personali*
Con l’ord. 21789/23, la Corte di cassazione ha chiarito alcuni aspetti essenziali della disciplina di protezione dei dati personali. Sono state fornite, in particolare, indicazioni importanti sui criteri di commisurazione delle sanzioni amministrative previste dal Regolamento generale sulla protezione dati, sui poteri del giudice adito in sede di opposizione avverso il provvedimento del Garante, sulla competenza delle Autorità di protezione dati nazionali, rispetto a trattamenti di carattere transfrontaliero.
1. Il provvedimento del Garante e la sentenza di primo grado
L’ordinanza 21789 del 22 settembre 2023 della Corte di cassazione sancisce alcuni importanti principi in materia di protezione dei dati personali. I profili di maggiore interesse della pronuncia riguardano i criteri di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal Regolamento (UE) 2016/679 (infra: Regolamento), i poteri del giudice in sede di opposizione al provvedimento del Garante, la competenza dell’Autorità di protezione dati diversa dall’Autorità capofila rispetto a trattamenti di dati personali di carattere transfrontaliero.
La vicenda riguarda il trattamento dei dati dei lavoratori (riders) di una nota società di food delivery, oggetto di un provvedimento del Garante di natura correttiva e sanzionatoria del 10 giugno 2021 (n. 234).
In quella sede, in particolare, è stata accertata la responsabilità della società per una serie di violazioni del Regolamento, quali: inidoneità dell’informativa resa ai lavoratori rispetto al funzionamento dell’algoritmo; violazione del principio di limitazione della conservazione (art. 5, p.1, lett.e) per aver conservato dati personali per un periodo eccedente le reali necessità; violazione dei principio di minimizzazione (art. 5, p.1, lett.c) e di privacy by design e by default (art. 25) per l’inadeguatezza delle modalità di configurazione dei sistemi informatici mediante i quali avveniva il trattamento dei dati; omessa effettuazione della valutazione d’impatto sulla protezione dati, ritenuta in quel caso doverosa per le peculiari caratteristiche del trattamento; omessa adozione delle misure a tutela delle libertà e dei diritti degli interessati rispetto ai processi decisionali automatizzati fondati sul trattamento di dati personali (art. 22, p.3); omessa comunicazione della designazione del responsabile della protezione dati (art. 37, p.7); inidonea tenuta del registro delle attività di trattamento; violazione della disciplina lavoristica (art. 4 l. 300 del 1970, richiamato anche in funzione sanzionatoria dall’art. 114 d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.) in relazione al controllo a distanza dell’attività lavorativa realizzato mediante il trattamento dei dati dei lavoratori effettuato tramite la piattaforma digitale, l’ app e i canali utilizzati dal customer care.
Applicando il criterio del cumulo giuridico previsto dall’art. 83, p.3, del Regolamento per i casi di concorso di illeciti, a fronte delle violazioni riscontrate è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria comminata per l’illecito più grave, ovvero - come si legge nel provvedimento - quello derivante dalla violazione dei principi del trattamento (art.5 del Regolamento).
Per tali illeciti la sanzione edittale prevista giunge fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato mondiale annuo dell’esercizio precedente, se superiore.
In applicazione di tali criteri, il Garante ha irrogato - oltre alla sanzione accessoria della pubblicazione, sul sito web dell’Autorità, dell’ordinanza ingiunzione - una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 2.600.000,00, così individuata tenendo conto dei vari parametri di commisurazione infraedittale, di ordine oggettivo e soggettivo, previsti dall’art. 83, p. 2, del Regolamento.
Avverso tale provvedimento ricorreva la società ingiunta, con opposizione accolta in primo grado. Tale sentenza (Tribunale di Milano, sent.n. 3276/2022) disponeva, in particolare, l’annullamento della sanzione irrogata. In particolare, il Tribunale aveva ritenuto da un lato legittimo, sul piano della competenza, l’intervento nei confronti di una società italiana interamente controllata da altro ente collettivo straniero.
La contestazione della legittimità del provvedimento muoveva, tuttavia, dalla commisurazione infraedittale della sanzione, ritenendo che il Garante non avrebbe rispettato il criterio di cui all’art. 83, par. 5, lett. a), del GDPR, perché avrebbe - in violazione del disposto dell’alinea - irrogato una sanzione superiore al massimo edittale del 4% del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente. La sanzione irrogata, di 2.600.000 euro, corrisponderebbe, infatti, se rapportata in termini percentuali al fatturato, al suo 7, 29%.
Per tale ragione, il Tribunale ha annullato il provvedimento "senza possibilità per il giudice adito di modificare l'entità della pena pecuniaria". Il giudice ha, infatti, ritenuto che tale potere non gli sia attribuito dall'art. 10 del d.lgs. 150 del 2011, diversamente da quanto previsto per i procedimenti di cui agli artt. 6 e 7. Del resto, la deroga al divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario (richiamata al comma 6 dell’art. 10 d.lgs. 150 del 2011) si riferisce al potere di ingiunzione, da parte del giudice, delle “misure necessarie”, per tali intendendo le misure correttive.
2. L’ordinanza della Corte di Cassazione
Avverso la sentenza del Tribunale di Milano, il Garante ha presentato ricorso (per saltum, ex art. 10, c.10, d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.) in cassazione accolto con rinvio, con l’ordinanza in analisi, limitatamente a due motivi.
La Corte ha, in particolare, enunciato i seguenti principi:
“l'art. 83 del GDPR prevede e disciplina le condizioni generali per infliggere sanzioni amministrative pecuniarie stabilendo una regola preliminare imputata alla rilevanza del caso singolo, sicché ogni autorità di controllo deve provvedere affinché le sanzioni amministrative pecuniarie inflitte in relazione alle violazioni del regolamento siano "in ogni singolo caso" effettive, proporzionate e dissuasive;”
“il riferimento alla sanzione proporzionale non è posto dal GDPR in funzione mitigatoria del limite edittale stabilito con la sanzione variabile ordinaria, ma rappresenta un limite edittale ulteriore e distinto, al quale occorre riferirsi solo se superiore (esso in quanto tale) al massimo della sanzione suddetta;”
“con la sentenza che accoglie l'opposizione il giudice, anche nelle controversie in materia di dati personali, può annullare in tutto o in parte il provvedimento o modificarlo anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta, che è determinata in una misura in ogni caso non inferiore al minimo edittale;”
“ove dalla sentenza di merito risulti che il trattamento sia stato effettuato da una società italiana in piena e diretta autonomia di decisione rispetto ai dati personali dei propri rider, tanto basta a stabilire la legittimazione a fini sanzionatori dell'Autorità nazionale garante della protezione dei dati”.
Con riguardo ai criteri di irrogazione della sanzione, la Corte chiarisce anzitutto la gerarchia di priorità da osservare rispetto ai parametri previsti dall’articolo 83 del Regolamento, al fine di circoscrivere la discrezionalità delle Autorità di controllo nell’esercizio di una potestà sanzionatoria che la giurisprudenza interna, in applicazione dei criteri sanciti dalla giurisprudenza delle Corti Europea dei diritti umani e di giustizia dell’Unione europea, ha definito punitiva in senso convenzionale (Trib. Palermo, sent. 3563 del 18 luglio 2019).
L’ordinanza afferma dunque, in primo luogo, che i criteri di efficacia, proporzionalità, dissuasività delle sanzioni amministrative, previsti dall’art. 83, p.1, del Regolamento, delineano una “regola preliminare”, incentrata sulla “rilevanza del caso singolo”. La norma vincola, dunque, l’esercizio del potere sanzionatorio al rispetto di parametri che impongono di tenere in conto, in via preliminare, delle caratteristiche della fattispecie concreta, in modo che il public enforcement sia realizzato in modo, appunto, efficace e proporzionato rispetto alle peculiarità dell’illecito e dissuasivo (almeno, in ottica special-preventiva) nei confronti dell’autore della violazione. Tale ricostruzione è, del resto, coerente con il dettato normativo. Nell’art. 83, p.1, i criteri tradizionalmente riferiti alla disciplina interna degli aspetti sanzionatori e, dunque, alla discrezionalità del legislatore nazionale (cfr., ad es., art.34, p.1, Reg (UE) 2022/868) sono infatti riferiti, per converso, all’irrogazione, in concreto, delle sanzioni da parte delle autorità di controllo (cfr., anche, C 148 del Regolamento).
Per altro verso, la Corte di cassazione chiarisce il rapporto tra i due diversi criteri di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previsti dall’art. 83, p. 4 e 5: quello “fisso” o statico e quello proporzionale o dinamico.
Tali disposizioni prevedono, infatti, per ciascuna delle due “fasce” di illeciti contemplate e distinte per gravità, due diverse cornici edittali: la prima con un massimo edittale fisso (10 milioni di euro per la fascia di illeciti del paragrafo 4, 20 milioni di euro per quella del paragrafo 5) e la seconda con un massimo edittale proporzionale (nella misura del 2% per gli illeciti del paragrafo 4 del 4% per gli illeciti del paragrafo 5) al fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente dell’impresa. Entrambe le disposizioni circoscrivono, tuttavia, la residualità del criterio proporzionale, rendendolo applicabile solo nel caso in cui il massimo edittale, così calcolato (appunto nella misura del 2% o, rispettivamente, del 4% del fatturato) sia superiore al massimo edittale individuato dal criterio fisso (nella misura di 10 milioni o, rispettivamente, 20 milioni di euro).
La Corte di cassazione chiarisce, dunque, che la scelta del criterio sanzionatorio da applicare deve conseguire a una previa comparazione del fatturato dell’impresa con il limite (500 milioni di euro) il cui 4% e il cui 2% corrispondono al massimo edittale fisso (rispettivamente 20 e 10 milioni di euro) sancito per le due fasce di illecito previste dai paragrafi 4 e 5 dell’art. 83. Il criterio proporzionale è, dunque, applicabile solo a imprese il cui fatturato superi la soglia dei 500 milioni di euro; laddove esso sia, invece, inferiore (come nel caso oggetto del ricorso), la valutazione percentuale non viene in rilievo, dovendo la sanzione muoversi all’interno della cornice edittale fissa. In tal senso dispongo, peraltro chiaramente, le Linee guida n. 4 del 2002 dell’European Data Protection Board. Nel caso di specie, inoltre (come, del resto, in altri simili), è stato considerato il fatturato non dell’intero gruppo ma della società partecipata stabilita nel territorio nazionale e ritenuta essere l’effettiva titolare del trattamento, argomentando dalla nozione di "impresa" di cui agli articoli 101 e 102 TFUE.
Circa i poteri del giudice in sede di opposizione al provvedimento del Garante, la Cassazione chiarisce come la norma di cui all’art. 10 d.lgs. 150 del 2011 (in cui manca un espresso riferimento ai poteri di modifica della sanzione da parte del giudice), non vada letta isolatamente, ma in combinato disposto con l’art. 166 d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i., che disciplina il procedimento sanzionatorio dinanzi al Garante.
Tale norma, infatti, richiama “in quanto applicabili” alcune disposizioni della legge 689 del 1981 tra le quali anche l’art.22, relativamente all’opposizione all’ordinanza ingiunzione. La disciplina procedurale di tale giudizio di opposizione è, invece, prevista dall’art. 6 d.lgs. 150 del 2011, il cui comma 12 legittima espressamente il giudice, tra l’altro, alla modifica dell’entità della sanzione dovuta. Da questo complesso rinvio normativo la Cassazione deduce, dunque, il potere del giudice di rimodulare, in sede di giudizio di opposizione, anche l’entità della sanzione irrogata dal Garante, sia pur in misura non inferiore al minimo (a rigore, non contemplato dalla norma).
Tale conclusione è, del resto, coerente con la complessiva disciplina delle tutele, amministrativa e giurisdizionale, prevista dal Regolamento in modo da temperare (o, meglio, coniugare) la regola dell’alternatività con quella della indefettibilità ed effettività della tutela giurisdizionale. Essa, infatti, non può essere preclusa neppure in caso di previo esperimento della tutela amministrativa, salvo tuttavia in questa ipotesi assumere il carattere del giudizio impugnatorio (recte: oppositivo) avverso il provvedimento reso dal Garante (o la sua inerzia). In altri termini, ai fini della valutazione tanto dell’alternatività quanto dell’effettività, l’esito risultante dalla successione tra tutela amministrativa e giurisdizionale deve poter equivalere a quello risultante dalla sola seconda. Se, dunque, il requisito dell’effettività della tutela è riferito formalmente solo a quella giurisdizionale, l’indefettibilità di quest’ultima (essendo sempre ammessa o in via diretta e alternativa a quella amministrativa, ovvero in via complementare a questa, in sede di opposizione alla decisione conclusiva del contenzioso dinanzi al Garante) determina di fatto un’estensione del canone di effettività all’intero sistema delle tutele, complessivamente considerato. Tale ragione induce, del resto, a ritenere anche che l’impugnazione del provvedimento del Garante (almeno se assunto in sede contenziosa) non configuri un giudizio di seconda istanza tout court, a cognizione dunque limitata alle sole questioni dedotte dalle parti ma abbia, invece, natura interamente devolutiva del rapporto sottostante, configurando in altri termini un novum judicium e non una mera revisio prioris instantiae. Il ricorso configurerebbe, dunque, non un gravame ma un’opposizione (CC, VI, 25 maggio 2017, n. 13151).
Infine, l’ordinanza in analisi ha chiarito un aspetto importante della competenza delle Autorità di protezione dati diverse dalla autorità capofila (artt. 55-56 del Regolamento), rispetto ai trattamenti di dati personali transfrontalieri. La Cassazione ha ritenuto dirimente, ai fini del radicamento della competenza di un’Autorità non capofila, relativamente al trattamento svolto non dallo stabilimento principale della società, il grado di autonomia decisionale della sede interessata rispetto a tale trattamento.
Tale profilo - precisa l’ordinanza - naturalmente investe una valutazione di merito che verta, appunto, sul grado di eterodirezione della sede locale dallo stabilimento principale, ma è indispensabile per verificare la competenza dell’Autorità interessata.
*Il presente contributo riflette opinioni personali dell’autrice, che non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza.
(Immagine: Aaron Koblin, Flight Patterns, 2011, Chicago Art Institute, © Aaron Koblin)
di Mirzia Bianca
La decisione della Corte costituzionale n. 183 del 2023 in materia di adozione e il diritto alle proprie radici familiari. Si continua il cammino verso la costruzione di un diritto di famiglia in concreto [1].
Sommario: 1. Le ragioni della inammissibilità e della infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale - 2. La rilevanza dei rapporti socio-affettivi di fatto e la necessaria distinzione con i rapporti giuridico-formali - 3. Il cammino verso un diritto di famiglia in concreto - 4. Il diritto alla identità familiare quale diritto alle proprie radici.
1. Le ragioni della inammissibilità e della infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
Con la decisione n. 183 del 28 settembre 2023 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co, della l. adozioni (sollevata con ordinanza n. 230 del 5 gennaio 2023 della Corte di Cassazione), nella parte in cui esclude la valutazione in concreto del preminente interesse del minore a mantenere rapporti, secondo le modalità stabilite in via giudiziale, con i componenti della famiglia di origine entro il quarto grado di parentela, per violazione degli artt. 2, 3, 30, 117, primo comma della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Cedu, agli artt. 3, 20, comma 3 e 21 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo nonché all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. La regola contenuta nel 3° co dell'art. 27 l. adoz. secondo la quale “con l'adozione cessano i rapporti dell'adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali”, che ha rappresentato per anni l'asse portante del modello dell'adozione piena e legittimante, è stata posta nel dubbio costituzionale dalla I sezione della Corte di Cassazione [2] per un caso fin troppo eccezionale per essere significativo. La decisione trae origine da un fatto di femminicidio, in cui l'uccisione della madre ad opera del padre ha portato alla dichiarazione dello stato di adottabilità degli orfani del femminicidio che hanno patito il duplice pregiudizio del trauma per la perdita della madre e del trauma di essersi trovati improvvisamente senza una famiglia, in una situazione di disagio psicologico e di solitudine. In questa situazione si è posto il problema concreto di assicurare ai bambini, successivamente adottati da altra famiglia, la possibilità di mantenere i rapporti con la nonna materna che, benché impossibilitata ad adottarli, era a loro da sempre affezionata e rappresentava un'àncora cui appigliarsi nel turbinìo emotivo causato dalla triste vicenda familiare. Soffermandosi al riferimento ai parametri costituzionali presuntivamente violati, la citata ordinanza n. 230 del 2023, ha ritenuto sussistente il contrasto: a) con l'art. 2 Cost. “perché non consente di mettere in campo tutte le energie affettive e relazionali che possono contribuire alla costruzione dell'identità e allo sviluppo equilibrato della personalità di minori che hanno subito deprivazioni affettive di particolare gravità ed impatto traumatico” [3]; b) con l'art. 3 Cost “perché determina un'ingiustificata disparità di trattamento con gli altri modelli di genitorialità adottiva previsti dall'art. 44 l. n. 184 del 1983 per i quali non è normativamente prevista la recisione con i nuclei familiari di origine” [4] (adozione in casi particolari); c) con l'art. 117 Cost in relazione alla violazione dell'art. 8 Cedu “per la costante ed univoca inclusione nell'ambito del diritto alla vita familiare del diritto del minore a non vedersi recisi i legami con il nucleo familiare di origine quando ciò sia coerente con il perseguimento del suo preminente interesse” [5].
La Corte costituzionale, con la decisione che qui si commenta
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co, l. adoz sollevata in riferimento all'art. 117, 1° co Cost, in relazione all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co, sollevata in riferimento all'art. 3 della Cost.
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 27, 3° co, in riferimento agli artt. 2, 30, 117 Cost.
In questa sede vorrei soffermarmi sulle ragioni della non fondatezza del contrasto con l'art. 3 Cost perché esse, oltre ad essere preliminari alle altre, testimoniano la ragionevolezza e l'equilibrio di questa decisione della Corte costituzionale e l'utilità che essa riveste per l'interprete nella complessità dell'attuale assetto delle relazioni familiari. L'analisi di questo profilo rappresenta il presupposto per l'analisi della interpretazione adeguatrice della Corte e per cogliere i profili di grande innovatività di questa decisione (v. oltre nel testo). Come accennato, la questione del contrasto con l'art. 3 Cost era stata sollevata in quanto si era rilevata la discriminazione che si verrebbe a creare tra il modello dell'adozione piena e il modello dell'adozione in casi particolari. Sul punto la Corte costituzionale afferma che “l'ordinanza di remissione da un lato lamenta una disparità di trattamento dell'adozione piena rispetto all'adozione in casi particolari, relativamente alla possibilità di mantenere relazioni di tipo socio-affettivo. Da un altro lato conferma il differente impatto dei due modelli di adozione sulle relazioni giuridico-formali... In sostanza la censura del rimettente riconosce e non mette in discussione tramite le questioni di legittimità costituzionale la diversa incidenza sui legami giuridico-formali con la famiglia d'origine dell'adozione piena rispetto all'adozione in casi particolari. Ma allora è proprio tale profilo distintivo tra le due fattispecie a rendere evidente che l'adozione in casi particolari non possa rappresentare un tertium comparationis idoneo a giustificare l'asserita irragionevole disparità di trattamento tra il citato modello e quello dell'adozione piena, circa l'eventuale conservazione di relazioni socio-affettive con i componenti della famiglia d'origine” [6]. In sostanza merito della Corte costituzionale, nel ritenere non fondata la questione di legittimità dell'art. 27, 3° co, l. adoz., per contrasto con l'art. 3 Cost., è di aver posto la condivisibile distinzione tra rapporti giuridico-formali e rapporti di fatto socio-affettivi. La Corte costituzionale chiarisce quindi che la recisione contenuta nell'art. 27, 3° co, riguarda i soli rapporti giuridico-formali [7], recisione che trova la sua ratio nel presupposto del radicale ed endemico stato di abbandono morale e materiale che rende possibile quella che con termini suggestivi viene considerata una e vera e propria rinascita del minore [8], che inizia una nuova vita con la famiglia adottiva. Tale presupposto, che è l'elemento caratterizzante l'adozione piena o legittimante, non è presente nel modello dell'adozione in casi particolari, proprio perché questo modello prescinde dallo stato di abbandono, e proprio per questa ragione non vengono recisi i rapporti giuridico-formali con la famiglia di origine. La recisione dei rapporti con la famiglia di origine manca anche nell'ipotesi del semiabbandono, elemento che connota la figura dell'adozione mite che, infatti, è stata collocata dalla giurisprudenza nell'ambito dell'adozione in casi particolari. Come affermato chiaramente dalla dottrina l'adozione piena “crea un vincolo che si sostituisce integralmente a quello della filiazione di sangue e che inserisce l'adottato definitivamente ed esclusivamente nella nuova famiglia” [9]. Nell'adozione in casi particolari, viceversa, non si ha la recisione dei rapporti giuridico-formali in quanto questo diverso modello di adozione “conferisce al minore lo stato di figlio adottivo che non estingue ma si sovrappone al vincolo della filiazione di sangue” [10]. I rapporti socio-affettivi non sono indifferenti al diritto, ma determinano effetti diversi rispetto a quelli che si realizzano nei rapporti giuridico-formali. Come anticipato, laddove l'art. 27, 3° co, l. adoz., menziona la generica formula “recisione dei rapporti familiari”, nell'interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale, tale formula va riferita esclusivamente ai rapporti giuridico-formali ed è tale riferimento che scandisce la distinzione tra adozione piena e adozione in casi particolari. I rapporti socio-affettivi di fatto acquistano una diversa rilevanza e un diverso effetto, ma non coinvolgono la distinzione tra i diversi modelli adottivi.
2. La rilevanza dei rapporti socio-affettivi di fatto e la necessaria distinzione con i rapporti giuridico-formali
Aver posto la distinzione tra vincoli giuridico-formali e vincoli socio-affettivi di fatto, non solo ha rivestito una importante funzione al fine di ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 3 Cost., ma ha consentito alla Corte costituzionale di sviluppare il profilo centrale e più innovativo, che è quello della conservazione dei rapporti affettivi, che era il solo interesse che il caso in questione evocava. L'interesse dei bambini orfani del femminicidio era quello di continuare il rapporto affettivo con i nonni, interesse che non si poneva assolutamente in contrasto con il correlato e contestuale interesse ad essere cresciuti come figli da una nuova famiglia, ora che la famiglia di origine era stata annientata dalla tragica vicenda e i nonni e i parenti non avevano la possibilità di adottarli. L'utilità di questa distinzione, a mio parere, assume allora un valore sistematico più ampio per l'interprete sia in relazione a riflessioni sui vari modelli di adozione, ma soprattuto sulla rilevanza che i rapporti affettivi rivestono nell'attuale stagione del diritto di famiglia e che troppo spesso vengono sovrapposti ai rapporti giuridico-formali. Non c'è dubbio, infatti, che rispetto al passato, le relazioni affettive rivestono un ruolo importante e determinante nelle relazioni familiari [11], e che il nuovo diritto di famiglia e delle relazioni familiari si caratterizza oggi per una accentuata rilevanza dell'affetto quale co-elemento di fattispecie che attengono anche alla costituzione e alla perdita di status, ma occorre non correre il rischio di confondere situazioni diverse fondate su diverse rationes. Tale distinzione è molto importante in quanto solo i rapporti giuridico-formali importano come corollari giuridici i diritti successori, i diritti al mantenimento, i diritti alle prestazioni alimentari, oltre che la titolarità della responsabilità genitoriale. La commistione tra le due classi di rapporti porterebbe inevitabilmente ad una confusione ordinamentale, con una moltiplicazione degli status e dei diritti. Inoltre tale distinzione è particolarmente utile per delineare i confini di relazioni affettive di fatto, come nell'incerta formula della genitorialità sociale e della genitorialità di intenzione, che ancora oggi chiamano l'interprete ad una riflessione attenta e accurata. La legge sulla continuità affettiva ci ha segnalato quali siano i presupposti affinchè una relazione socio-affettiva possa convertirsi in una situazione giuridico-formale. Tuttavia, non tutte le relazioni socio-affettive si convertono in situazioni giuridico-formali e non per questo sono irrilevanti per il diritto, ma conducono ad effetti giuridici diversi. D'altra parte ci sono istanze che non necessariamente si collocano nel rigido schematismo dei rapporti giuridico-formali, anzi di regola ne prescindono. Il diritto del soggetto adottato a conoscere le proprie origini non è il diritto alla ricerca di un altro genitore, oltre a quello adottivo, ma è l'espressione del diritto alla identità familiare, quale diritto dell'individuo a conoscere le proprie radici, anche se queste non corrispondono alla titolarità formale della filiazione. Riflessioni diverse valgono per il nato da procreazione medicalmente assistita rispetto al soggetto donatore. Ma anche qui l'interesse che muove il soggetto non è certamente quello ad avere un altro genitore, ma a conoscere il sangue, interesse che può essere dettato spesso anche da ragioni mediche. Sarebbe tuttavia ingiusto, oltre che errato, assegnare a questi interessi una latitudine più ampia volta ad ampliare le situazioni di genitorialità formale. Anche nella fattispecie oggetto di attenzione in queste pagine l'interesse degli orfani del femminicidio era, come esattamente chiarito dalla Corte costituzionale, l'interesse a continuare a mantenere la relazione socio-affettiva con la nonna materna, relazione che, a seguito del brutale evento traumatico, era degradata dal piano del diritto a quello del fatto, ma non per questo era meno rilevante.
3. Il cammino verso un diritto di famiglia in concreto
Fatte queste necessarie riflessioni, posso passare ad analizzare l'interpretazione adeguatrice alla Costituzione operata dalla Corte costituzionale, che distingue tra una presunzione assoluta e una presunzione iuris tantum dell'art. 27, 3° co, l. adoz., laddove prevede “la cessazione dei rapporti con la famiglia biologica”. La presunzione assoluta “attiene di necessità e inderogabilmente al piano delle relazioni giuridico-formali” [12]. Quanto, invece, ai rapporti socio-affettivi, “la norma racchiude una presunzione solo iuris tantum che il distacco di fatto dalla famiglia di origine realizzi l'interesse del minore. Simile presunzione non esclude, pertanto che, sulla scorta degli indici normativi desumibili dalla stessa legge n. 184 del 1983, letti nella prospettiva costituzionale della tutela del minore e della sua identità, il giudice possa accertare che la prosecuzione di significative, positive e consolidate relazioni socio-affettive con componenti della famiglia d'origine realizzi il migliore interesse del minore e, per converso, la loro interruzione sia tale da poter cagionare allo stesso un pregiudizio” [13]. Tale interpretazione adeguatrice alla Costituzione rappresenta a mio parere il vero elemento di innovatività di questa decisione. Attraverso questa lettura la Corte costituzionale salva l'impianto e la ratio fondante della adozione piena quale adozione sostitutiva ma, al contempo, non dimentica l'interesse concreto del minore che viene ascoltato e reso operativo attraverso una lettura flessibile della norma. Un'alternativa rispetto alla soluzione tecnica della presunzione poteva essere l'applicazione della regola generale secondo cui chi vuole far valere un diritto deve provarne il fondamento. Così, dato che la “recisione” prevista dall'art. 27 l. adoz. riguarda i soli rapporti giuridico-formali, l'eccezionale conservazione di rapporti socio-affettivi richiede la prova della loro esistenza e dell'importanza che essi rivestono per realizzare il migliore interesse del minore. In ogni caso la decisione appare all'interprete molto equilibrata perché non smentisce l'elemento caratterizzante l'adozione piena che è la sostituzione della famiglia di origine con quella adottiva e non smentisce la presunzione che la recisione dei rapporti con la famiglia di origine (sia giuridico-formali che affettivi) sia conforme all'interesse del minore. Tuttavia, ammette che non possono escludersi situazioni come questa che, benchè eccezionali, prospettano un interesse del minore che si pone nella direzione opposta rispetto a quella ordinaria. Se infatti normalmente, è nel migliore interesse del minore avere come riferimento unico ed esclusivo la famiglia adottiva, non possono escludersi situazioni come questa, in cui, al contrario, la recisione dei rapporti (affettivi) con la famiglia di origine, sarebbe assolutamente contraria al benessere di bambini traumatizzati e soli. Il dato di grande innovatività di questa decisione è aver contruibuito alla costruzione di un diritto di famiglia che sempre di più si muove sul piano della concretezza delle singole vicende familiari e che per questo dà voce ed applicazione al principio di effettività [14] che in questa materia appare a chi scrive una scelta obbligata. Questa decisione appare, così, una tappa significativa verso la realizzazione e l'applicazione di una nuova cultura del diritto di famiglia in concreto, che guarda alle reali esigenze dei componenti della comunità familiare, senza cristallizzarsi in schemi precostituiti. Ho sempre pensato che se in materia contrattuale abbiamo superato il rigido schematismo che portava un tempo alla immedesimazione della causa nel tipo, riconoscendo l'esistenza della causa in concreto, quale ragione pratica del contratto, è inimmaginabile che questa metodologia non possa essere applicata in un settore del diritto in cui la realtà dei fatti si impone con forza e supera la staticità della norma giuridica. L'ultima giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile [15] ci ha mostrato l'applicazione di una solidarietà post-coniugale che dottrina illuminata [16] ha definito “in concreto”, proprio perché è una solidarietà che richiede un'accurata indagine sulla concretezza della storia della singola famiglia, e per questo non è applicabile indistintamente e allo stesso modo a tutte le famiglie che hanno divorziato. Con riflessioni analoghe ho sempre pensato inimmaginabile che il principio di buona fede debba essere limitato al settore delle obbligazioni e non comprenda il settore delle relazioni familiari [17]. Nelle decisioni della giurisprudenza che hanno fatto applicazione di tale principio anche nel settore delle relazioni familiari si è avuta la conferma di un approccio metodologico che guarda alla concretezza dei rapporti, più che al riconoscimento formale degli status. Il cammino è ancora lungo da percorrere. Penso alla ingiustizia di destinare sempre e comunque una quota di riserva ad un legittimario per la sola forza del suo titolo formale, indipendentemente da una indagine che porti a distinguere familiari amorevoli e non amorevoli. Forse una soluzione potrebbe essere quella di estendere le ipotesi di indegnità al di là delle ipotesi eccezionali che oggi caratterizzano questo istituto. Quello che è certo è che questa decisione rappresenta l'applicazione di una nuova cultura del diritto di famiglia in concreto, che realizza e dà voce al principio di effettività in questo importante settore del diritto civile.
4. Il diritto alla identità familiare quale diritto alle proprie radici
Un'ulteriore ragione della importanza di questa decisione della Corte costituzionale è l'aver completato un percorso di definizione e costruzione del diritto alla identità familiare. Tale diritto, che può essere definito quale diritto della persona alle proprie radici familiari, non è necessariamente connesso ai rapporti giuridico-formali, in quanto talvolta, come è il caso dell'adozione, tali rapporti sono stati recisi. Ma è proprio la distinzione ma al contempo l'integrazione tra rapporti giuridico-formali e rapporti socio-affettivi di fatto che costruisce l'identità familiare della persona, a prescindere dal riconosciuto status formale. Anzi, come evidenziato dal diritto alle proprie origini, che ha portato alla modifica dell'art. 28 l. adoz., il diritto alla identità familiare si manifesta con più forza quando le radici familiari non corrispondono ai rapporti giuridico-formali. Il diritto alla identità familiare è il diritto della persona a conoscere la propria storia familiare, le proprie radici, anche quando eventi traumatici hanno impedito la continuazione dei rapporti giuridico-formali. Il diritto alla identità familiare può anche coincidere con la titolarità di rapporti giuridico-formali. È il caso del cognome, che identifica la persona con riferimento ai propri rami familiari. La Corte costituzionale con questa importante decisione ha completato così un percorso di definizione e costruzione di questo diritto attraverso un percorso di legalità, i cui passaggi fondamentali sono stati le decisioni in materia di diritto a conoscere le proprie origini [18], la recente decisione sul cognome materno [19], la decisione in materia di adozione in casi particolari [20] e ora quest'ultima decisione in materia di adozione piena. Il diritto alla identità familiare si definisce allora quale diritto alle proprie radici, che è il diritto alla conservazione e al mantenimento di rapporti che sono l'espressione della propria origine familiare e che per questo contribuiscono a rappresentare e a costruire la personalità del soggetto. Tale diritto, dopo la morte dei familiari, si converte in diritto alla memoria familiare che, a differenza della memoria collettiva, risponde ad un interesse individuale della persona al mantenimento del sentimento di appartenenza alla propria comunità familiare e al complesso dei valori che essa rappresenta. La peculiarità del diritto all'identità familiare è di non essere necessariamente agganciato alla titolarità formale dello status familiare per radicarsi in rapporti familiari significativi che costruiscono la storia familiare della persona. Un esempio di tale sganciamento è proprio il diritto alle proprie origini del soggetto adottato. Un altro profilo di grande suggestione di questo diritto è che esso contribuisce alla costruzione di un diritto familiare che diventa necessariamente in concreto. Come affermato dalla Corte in questa decisione “la tutela della identità del minore (e con essa il suo interesse a preservare positive relazioni di natura affettiva) non è compatibile con modelli rigidamente astratti e con presunzioni assolute” [21]. La definizione e la costruzione di tale diritto contribuisce pertanto all'adozione di una metodologia sostanzialistica del diritto di famiglia e delle persone che muove dal fatto per riconoscere la presenza del diritto, secondo la nota formula ex facto oritur ius, che esaurisce e ricomprende l'applicazione del principio di effettività.
[1] Dedico anche questo mio scritto a mio Padre, perché Lui rappresenta la mia memoria familiare, che costruisce e vivifica ogni giorno la mia identità e completa la mia personalità.
[2] V. la già citata ordinanza n. 230 del 5 gennaio 2023.
[3] Così testualmente in motivazione la citata ordinanza n. 230 del 2023.
[4] Così testualmente in motivazione la citata ordinanza n. 230 del 2023.
[5] Così testualmente in motivazione la citata ordinanza n. 230 del 2023.
[6] Così testualmente in motivazione la decisione che qui si commenta.
[7] Così testualmente nella motivazione: “La cessazione dei rapporti con la famiglia biologica attiene di necessità e inderogabilmente al piano delle relazioni giuridico-formali”.
[8] Così testualmente nella motivazione: “L'adozione (piena) introdotta nel 1983 ha inteso, dunque, riprodurre, con la massima fedeltà possibile, gli effetti propri della filiazione che scaturisce dalla nascita nel matrimonio, così concependo l'istituto nei termini di una sorta di rinascita per il minore”.
[9] Così testualmente C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, 7° ed. a cura di M. Bianca e P. Sirena, Milano, 2023, 473.
[10] Così testualmente C.M. BIANCA, op. ult cit., 523.
[11] Sia consentito un rinvio a M. BIANCA, Una rilettura dei fatti di sentimento di Angelo Falzea alla luce dell'attuale stagione del diritto di famiglia, in via di pubblicazione in I Maestri del diritto civile italiano – Angelo Falzea, a cura di G. D'amico e A. Gorassini.
[12] Così testualmente in motivazione la decisione che qui si commenta.
[13] Così testualmente in motivazione la decisione che qui si commenta.
[14] Sul principio di effettività, il riferimento è a tutti gli scritti di Cesare Massimo Bianca.
[15] V. C. S.U. 11 luglio 2018, n. 18287.
[16] V. la nota di commento di C.M. BIANCA, in Fam e dir. 2018, 955.
[17] Sia consentito un richiamo a M. BIANCA, La buona fede nei rapporti familiari, in P. SIRENA-A. ZOPPINI (a cura di), I poteri privati e il diritto delle regolazione. A quarant'anni da 'Le autorità private' di C.M. Bianca, Roma, 2018, 159 e ss.
[18] V. C. Cost. n. 278 del 2013 e 286 del 2016.
[19] V. C. Cost. n. 131 del 2022. Sul cognome quale espressione del diritto alla identità familiare e sociale, v. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, cit., 387.
[20] V. C. cost. n. 79 del 2022, con riferimento al rapporto di parentela.
[21] Così testualmente in motivazione la decisione che qui si commenta.
(Immagine: Ferdinand Georg Waldmüller, The Adoption, olio su tela, 1847. National Museum in Wroclaw)
di Rosita D’Angiolella
Sommario: 1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo. 2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto. 3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo.
L’incalzare delle trasformazioni digitali e la capacità delle macchine di riprodurre alcuni meccanismi intellettuali del pensiero umano ha posto e pone interrogativi circa la possibilità di affidare alle macchine alcuni processi decisionali anche nell’ambito dell’attività giurisdizionale.
Il tema è molto delicato, anzitutto perché intimamente connesso con l’essenza dell’argomentazione giuridica, la quale è sempre frutto di processi intellettuali ed emotivi del decidente che non sono facilmente riproducibili attraverso un linguaggio simbolico numerico; ma soprattutto perché ogni processo decisionale, che ha la finalità di rinvenire nel sistema il rimedio più appropriato per la soluzione di un contrasto di interessi tra soggetti, implica a monte l’assunzione da parte del giudicante di un metodo che consenta, in primo luogo, di districarsi nell’articolato sistema delle fonti e, quindi, di dettare in concreto la soluzione più appropriata per il caso concreto.
Come è noto la scienza giuridica contemporanea coltiva, rispetto al metodo, almeno due approcci: uno legato, tutt’ora, alla teoria della fattispecie, alla quale ricondurre attraverso procedimenti logico-sillogistici gli elementi qualificanti del fatto; l’altro che, viceversa, muovendo dal fatto, si rende conto che l’applicazione rigida di certe categorie dogmatiche, all’esito di un processo che privilegia rigorosamente la logica sillogistica e la tecnica della sussunzione, può mettere capo a risultati non rispondenti alla migliore tutela degli interessi.
Il problema di fondo, quindi, nasce prima della riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale nell’ambito dei processi decisionali, in quanto involge questioni e scelte tra metodi in dialettica tra loro.
In relazione a tale dialettica tra metodi, l’immediata suggestione è che il metodo che privilegia l’uso della razionalità sillogistica è quello su cui si potrebbe fondare, portandolo alle estreme conseguenze, il riconoscimento di un ruolo alla capacità decisionale dei sistemi di intelligenza artificiale.
Si tratta infatti, come ognuno può avvertire, di una esasperazione della razionalità simbolica attraverso il linguaggio binario. Di quella stessa razionalità, del resto, che ha ispirato recenti orientamenti, anche normativi, tesi a valorizzare automatismi decisionali, a svilire il ruolo della motivazione nell’ambito del provvedimento giurisdizionale, a privilegiare in modo non sempre appropriato il tema della prevedibilità della soluzione mirando, per ragioni troppo spesso legate anche alle patologie del nostro sistema legislativo[1], ad un’identificazione non sempre appropriata tra il prioritario principio della certezza del diritto e la ripetitività della soluzione legata ai sistemi di intelligenza artificiale. Emblematico al riguardo è il tema della responsabilità civile per le lesioni a beni giuridicamente protetti causate dalla tecnologia robotica (es. driveless cars, sistemi di telemedicina per la cura delle malattie), ove le categorie civilistiche tradizionali che per natura esigono un approccio metodologico attento alle sollecitazioni che provengono dalla società e dalla storia, risultano poco adattabili alla razionalità simbolica.
Già da questi cenni si trae, dunque, l’assoluta centralità, del problema del metodo, sempre, ma più che mai oggi, nell’epoca della tecnocrazia, della tecno-economia e del disimpegno di un legislatore che produce leggi incomplete, formulate in modo ambiguo, delle quali spesso sfugge la razionalità e dalle quali altrettanto spesso si percepisce un disinvolto uso delle categorie della tradizione; nell’epoca del pluralismo e della molteplicità di livelli delle fonti (che spaziano da quelle sovranazionali a quelle contenute in atti di rango amministrativo), si richiede lo sforzo dell’interprete di concentrarsi sulla ricostruzione della unitarietà del sistema mettendo al centro del ragionamento la “Persona”.
Di qui la banale constatazione della essenzialità della qualità e della formazione degli interpreti. Il giurista di questi anni non può non interrogarsi circa la coerenza e la adeguatezza del metodo che adotta, nella piena consapevolezza del rischio che ognuno di noi corre, che lo strumentario concettuale abitualmente utilizzato sia sì rispettoso della tradizione, ma al contempo si presti, senza costituirne ostacolo, alla comprensione del caso concreto, alla valorizzazione delle peculiarità soggettive, ambientali e quantitative di esso.
Del resto, la valutazione giuridica di un fatto esige la considerazione tanto dell’esperienza passata, quanto di quella presente, in una stretta interconnessione tra il profilo storico e quello sociologico.
Ed infatti, se la storia della metodologia dei giuristi è parte essenziale del pensiero giuridico moderno, non può negarsi che l’esperienza che concorre all’integrazione della realtà normativa può esprimere istanze e valori anche più avanzati rispetto all’interpretazione corrente, soprattutto a quella giurisprudenziale. In questa consapevolezza risiede la presa d’atto della storicità delle nostre categorie e la perdurante utilità di molte di esse, in ragione della loro attitudine ad adattarsi all’odierna esperienza.
2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto.
Che la scienza giuridica si giovi di una pluralità di metodi, spesso concorrenti e complementari, è affermazione ovvia e quasi banale, ma l’attuazione di essi è strettamente dipendente dalle evoluzioni e dagli approdi della dottrina, dallo stato della produzione legislativa nella specificità delle materie, dalle sollecitazioni che su quelle stesse materie provengono dalla politica, dall’organizzazione istituzionale della comunità, dalle diverse sensibilità ed esperienze di chi si dedica alla ricerca. Di qui, l’altrettanto ovvia constatazione per la quale non vi sono a priori metodi giusti e sbagliati, ma soltanto metodi che più o meno si prestano all’attuazione degli obiettivi e dei valori che, in un dato tempo, una data comunità si propone di realizzare.
In tutto questo sta l’indispensabile centralità della dialettica sul metodo, sempre che, tuttavia, si convenga su una presa d’atto, altrettanto essenziale: è tempo di archiviare definitivamente il “mito” della neutralità dei concetti. Le categorie, nella loro irrefutabile storicità, vanno maneggiate criticamente e, sempre con la stessa cautela, vanno raccolte le suggestioni che la dogmatica ci ha trasmesso.
I modelli della tradizione, infatti, ancorché poliedrici, sono ancora caratterizzati dall’uso prevalente di categorie, nella loro implicazione ideologica, storicamente risalenti, non sempre adeguatamente attente agli stimoli provenienti dalla giurisprudenza e non sempre adattabili, se recepite in chiave dogmatica, ad una ricostruzione teorica in linea con le trasformazioni della società.
E i dati salienti delle attuali trasformazioni non possono che essere rinvenuti, prima di tutto, nell’incalzare dell’innovazione tecnologica che incide ormai su tutti gli aspetti della nostra quotidianità, dalla genetica alla comunicazione, dalla produzione all’internazionalizzazione dei mercati, provocando l’esigenza di un più serrato confronto tra culture, nonché nelle dimensioni mondiali dei fenomeni migratori in relazione ai quali si impongono, nel nostro mondo più che altrove, nuovi interessi e diversi valori.
La cosiddetta transizione digitale è il fenomeno più incidente, ma la rivoluzione tecnologica non può esaurirsi, nella sua dimensione giuridica, in pura tecnica di applicazione del software ai dati, dovendo implicare un’attività di comparazione ermeneutica che il giurista è chiamato a svolgere in funzione di controllo dei processi e dei risultati prodotti dai sistemi algoritmici.
Se già appariva illusorio e riduttivo esaurire il ruolo dell’interprete a quello di rinvenire la norma nella singola disposizione di legge, facendo dell’interpretazione una sorta di equazione algebrica, ancor meno conducente appare oggi la pretesa di costruire la scienza giuridica esclusivamente mediante simboli numerici, avvalendosi magari di una intelligenza artificiale capace di riprodurre meccanismi intellettuali tipici della mente umana. Sono queste pretese evoluzioni a rappresentare il maggior pericolo di uniformazione del pensiero giuridico, a farci correre il rischio della rassegnazione all’esistenza di una formula obbligata di pensare, anche per il giurista.
E qui si ritorna al metodo: chi si rifà al proprio ingegno e al proprio bagaglio di cultura e di esperienze per dare corpo alle proprie scelte applica sempre un metodo. La pluralità dei metodi, la loro diversità e contrapposizione in corretta dialettica rappresentano lo strumento più idoneo a contrastare i processi di uniformazione e di omologazione del pensiero giuridico.
Non è questione, come accennato innanzi, di preferire un metodo rispetto a un altro. Se, infatti, grande valore va riconosciuto al metodo deduttivo, il quale muove dai principi, particolare funzione rivestono anche quello induttivo o quello casistico, i quali concentrandosi sulle fattispecie concretamente devolute alla valutazione degli interpreti favoriscono il superamento di pregiudizi concettuali e di costruzioni formalistiche.
E se il compito del giurista, e in particolare del civilista, è quello da più parti a gran voce e autorevolmente rivendicato, di andare al di là delle forme per comprendere appieno l’atteggiarsi delle relazioni nell’ambito della evoluzione dei sistemi sociali, individuando la ‘giusta’ soluzione del conflitto in rapporto ai principi e ai valori fondanti, alla ricerca perenne di un punto di equilibrio tra libertà e autorità, in questa prospettiva assume particolare valenza anche l’argomentare per problemi, metodologia tipica della comparazione. Personalità quali Emanuele Gianturco, Gino Gorla, Uberto Scarpelli ci hanno insegnato, infatti, che il problema va risolto nel sistema, nel pieno rispetto dei principi. E questo vale ancor più nel presente in cui si impone che buona parte della legislazione vigente, proprio perché risalente, sia interpretata, verificandone la conformità a norme sopravvenute o gerarchicamente sovraordinate, al fine di renderla applicabile a nuove fattispecie o a fattispecie che hanno acquisto, nel tempo, diversa valenza.
Ed allora l’equilibrio tra principi, e ancor più in generale tra disposizioni normative, è un equilibrio da rinvenirsi attraverso una dialettica costante tra l’ordine dei principi e la realtà dei fatti, senza che tuttavia ciò legittimi il superamento dello ius positum, che anzi ne è il presupposto. L’opzione ermeneutica, nel rispetto di regole e principi prefissati, presuppone la rilevanza di entrambi gli aspetti, senza che sia possibile rilevare in ciò alcuna contraddittorietà. Cosicché, anche la definizione “metodo induttivo” appare riduttiva e parziale, giacché quando il Giudice, nella motivazione, fa riferimento ai principi, espressi o inespressi, ne riconosce la normatività e non fa altro che applicare il diritto positivo. E questo non vuol dire che la sua sia un’attività puramente dichiarativa, come non può significare che sia attività creativa, dal nulla o dal basso, perché è pur sempre vincolata al ragionevole uso di principi e regole di cui si nutre quella legalità richiamata dall’art. 101 della Costituzione.
3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
In un sistema ordinamentale le cui coordinate rimangono quelle del personalismo solidale, l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto giammai può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica, sia pure con la dignità del sillogismo e della tecnica della sussunzione. Al contrario, siamo tutti chiamati a rifuggire gli eccessi della razionalità e della logica, spesso paludamento di visioni tendenzialmente nichiliste, per realizzare la più alta finalità dell’ermeneutica: quella di individuare, in una leale collaborazione tra teoria e prassi, dunque nel confronto anche con i fatti, la più alta modalità di concretizzazione di principi e regole. Quella che mette capo alla soluzione più rispondente ai valori giuridificati di cui l’ordinamento si nutre.
La scelta del metodo è dunque scelta della soluzione più giusta, per tale dovendosi intendere quella più aderente agli interessi in gioco e ai valori identificativi del sistema, che, in quanto tali, neppure necessitano di essere, di volta in volta, espressamente richiamati.
In questa prospettiva, si comprende perché il ragionamento giuridico non è riducibile ad un sillogismo lineare e si compone sempre di passaggi teleologici ed assiologici, deduttivi ed induttivi. Così, escogitare algoritmi idonei a predire le soluzioni giurisprudenziali, utilizzando metodi probabilistici o statistici, lungi dal limitarsi a ravvisare nell’argomentazione giuridica una materia logico-matematica, appare nefasta per l’oggetto stesso dell’argomentazione in parola.
Alla soluzione corretta e giusta, come detto, non può considerarsi estraneo il ricorso a quella sensibilità necessaria a cogliere le sfumature irripetibili delle dinamiche di interessi in gioco. La giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate, valide per tutti i contesti.
La certezza del diritto non è garantita dalla ripetitività delle soluzioni, giacché altro è affermare che la prevedibilità è utile per gli operatori, altro è pensare di costruire la scienza giuridica mediante la logica simbolica, avvalendosi esclusivamente di una intelligenza artificiale capace di riprodurre solo alcuni meccanismi intellettuali. Sennonché il processo mentale dell’uomo-interprete, il percorso argomentativo che mette capo alla decisione, risente di fattori che sfuggono alla logica sillogistica che appartengono in parte alla peculiarità del fatto, in parte ai concreti interessi delle parti e ai valori della Giustizia, in un contesto mutevole per definizione, perché soggetto alla Storia prima ancora che alle trasformazioni della Società.
A questo proposito, a proposito della cosiddetta ‘giustizia predittiva’, è stato significativamente affermato che: “L’impiego dell’intelligenza artificiale amplifica le questioni che percorrono a ritmo intermittente la concezione del diritto e della giustizia, l’arte di giudicare, il senso stesso dell’incidenza delle facoltà intellettive e volitive umane nel risolvere i casi portati dall’esperienza.”[2]
Credo, in conclusione, che la totale inadeguatezza dell’intelligenza artificiale a sostituire l’argomentare giuridico derivi dalla basilare constatazione che il diritto è scienza sociale e umana, è dell’uomo e per l’uomo e che il compito dell’interprete risiede anzitutto di rendere la fredda astrattezza e generalità della legge più vicina e aderente alla concretezza, alla specificità, alla unicità ed alla umanità del fatto.
[1] Si pensi all’impressionante abuso, nell’ultimo decennio, dei decreti legislativi (che hanno superato per numero ed importanza le leggi del Parlamento), alle numerosissime delegificazioni autorizzate inserite nelle più diverse leggi, alla larghissima delega al Governo per l’adozione di testi unici in numerose ed enormi materie, al mutamento delle modalità di recepimento della normativa comunitaria, alle ricorrenti modificazioni o deroghe delle diverse norme sulle fonti.
[2] ALPA G., L’intelligenza artificiale. Il contesto giuridico, pag. 164, in “Il Poggiolo dei Medardi, collezione diretta da Aljs Vignudelli", I ed. Modena, Mucchi, 2021. L’autore a dopo aver accuratamente ricostruito l’itinerario culturale della giustizia predittiva, passando da Holmes a Max Weber, da Tarello a Llewellyn, in un paragrafo dall’eloquente titolo che riprende un noto saggio di Jerome Frank, ‘Prevedibilità ma non solo: i giudici sono umani?’ e in un altro dal titolo ‘La prevedibilità non è autosufficiente’, completando i suoi riferimenti con la citazione del pensiero di Cardoso, di Frank appunto, di Roscoe Pound ed altri, conclude col pensiero sopra riportato nel testo.
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