ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA DECISIONE ROBOTICA NEGOZIALE (*) di Franco De Stefano
Gli sviluppi della tecnologia hanno consentito l’affidamento ad operazioni automatizzate sempre più sofisticate di intere fasi non solo della conclusione del contratto, ma pure della sua esecuzione ed ormai della risoluzione delle relative controversie; ed ha generato perfino mezzi alternativi al denaro, di grande diffusione e con enormi potenzialità, anche elusive di regole a tutela di interessi pubblicistici.
È, con ogni probabilità, l’esito di una convergenza tra le esigenze di certezza o affidabilità o prevedibilità e di celerità imposte da un mercato globalizzato e le potenzialità sempre più raffinate della Rete e comunque degli algoritmi su cui essa si struttura in modo sempre più complesso ed intricato.
Al diritto compete l’arduo compito di assecondare le potenzialità della tecnologia nel rispetto almeno di regole minime a tutela della maggiore possibile libertà di determinazione del singolo che viene a contatto con questo mondo in evoluzione tumultuosa, spesso privo di ogni scrupolo e nel quale il più abile spesso sfrutta impietosamente molti degli altri coutenti.
Sommario: 1. Premessa.- 2. Negoziare e sorvegliare con gli algoritmi.- 3. Reti informatiche, nuovi territori, scala dei tempi, smart contract.- 4. Decisione delle dispute negoziali.- 5. Spunti conclusivi.- 6. Cenni bibliografici minimi.
1. Premessa
L’ampiezza del tema di indagine - con la complessità tecnica dei meccanismi via via coinvolti e la loro interazione costante con i principi generali del diritto civile, oggetto a loro volta di trattazione ed approfondimenti tradizionali - e della sua elaborazione anche da parte della dottrina giuridica impone l’abbandono consapevole, in questa sede, di ogni pretesa di compiuta ricostruzione sistematica degli istituti giuridici fondamentali coinvolti, per di più alla luce delle ricadute della rivoluzione tecnologica in atto; e ci si limiterà allora ad alcuni spunti, necessariamente frammentari, quali basi di partenza per ulteriori riflessioni e con rinvio all’ampio materiale bibliografico presupposto, di cui pure può darsi conto sommario e necessariamente incompleto, quanto alle tematiche sia tecniche che giuridiche tradizionali coinvolte, a mano a mano che saranno evocate.
Se molte delle definizioni, soprattutto tecniche, dovranno darsi per acquisite aliunde, ad ogni ulteriore riflessione è opportuno premettere qualche precisazione, a cominciare dall’oggetto del presente intervento, che si intenderà riferito alle ipotesi in cui sono a vario titolo e con varie modalità tecniche e giuridiche devolute almeno in parte a meccanismi automatizzati, vale a dire normalmente svincolati da qualunque intervento diretto di operatori umani:
a) la formazione di un negozio e soprattutto di un contratto (e così l’espressione della volontà delle parti o l’individuazione dell’oggetto e dell’articolazione di quello),
nonché od ovvero
b) la sua esecuzione (anche e soprattutto quando fisiologicamente articolata in fasi successive che si protraggono nel tempo),
nonché od ovvero
c) la risoluzione di quelle controversie che eventualmente insorgessero al riguardo.
La riflessione terrà presente che questi inserimenti di risultati imputabili in via immediata a meccanismi automatizzati possono riguardare o l’intera sequenza negoziale (trattative, conclusione, esecuzione, risoluzione delle contestazioni), oppure singole fasi, oppure ancora, quando una o più di queste siano strutturate in segmenti o sottofasi tra loro di necessità concatenate, anche uno o più di tali segmenti o sottofasi; e, per di più, in varia combinazione.
E, a fini meramente descrittivi e chiedendo fin d’ora venia per l’approssimazione o forse anche la non correttezza terminologica che ne consegue, potrà indifferentemente farsi riferimento, con la locuzione di meccanismi automatizzati, sia alle parti fisiche di apparecchi in grado di elaborare istruzioni (apparecchi che consistono quindi in cose materiali[1]), sia a beni immateriali ovvero ai programmi od altre tipologie di istruzioni organizzate che consentono ai primi di operare o comunque di conseguire il risultato[2].
Per analoga mera finalità di esposizione, nonostante l’evidente assenza di rigoroso tecnicismo e l’alta - ma, si spera, non intollerabile - approssimazione, col rischio di una metalepsi impropria, sarà riferita ellitticamente ai meccanismi automatizzati la locuzione di algoritmo[3].
Beninteso, l’intervento umano è, almeno allo stato attuale della tecnologia, in pratica sempre necessario, ma è intuitivamente di necessità circoscritto sempre più alla fase di progettazione di questi meccanismi (o, a tutto concedere, a quella della loro manutenzione anche evolutiva): i quali sono poi talvolta capaci, in forza ed alla stregua di complesse operazioni cibernetiche, di applicare la complessa serie di istruzioni originariamente ricevute fino ad elaborare un autentico autoapprendimento e di formulare autentiche decisioni - in senso tecnico-giuridico, non soltanto matematico - in relazione a determinati contesti, perfino ove non originariamente previsti in modo espresso.
Restano necessariamente a margine del presente contributo, per la loro ampiezza, i temi delle responsabilità degli automi o robot (se non pure dell’acquisto, da parte di questi, di una certa quale personalità, intesa in senso non strettamente giuridico[4]) in relazione ad attività meramente materiali, quali la conduzione di veicoli, ovvero quelli della protezione del singolo dalla pervasività dell’intrusione nella sfera della personalità delle interazioni con la Rete, ormai divenute - per ragioni sociali e culturali - sostanzialmente immancabili quasi come espressione della propria identità in un nuovo spazio, stavolta virtuale, di socialità come disegnata dalla moderna tecnologia.
E non può qui approfondirsi la tematica dell’opportunità di una decisione robotica giudiziale, sub specie di procedimento automatizzato, eventualmente a struttura monitoria pura (con possibilità cioè di opposizione anche immotivata e trasformazione in procedimento ordinario) per categorie di contenzioso caratterizzate da marcata serialità: argomento al quale è dedicata un’intera altra sezione del Convegno. Può solo notarsi che pure per gli uffici afflitti dal peggiore arretrato, come la Corte suprema di cassazione, dove finora vi si è fatto fronte al meglio anche con le scarse risorse a disposizione, deve auspicarsi non più dell’introduzione di un segmento di automazione per il lavoro di preparazione, ma non anche per la fase della decisione vera e propria.
In anticipazione delle conclusioni, infatti, può fin d’ora dirsi che decidere, sia che abbia ad oggetto l’autoregolamentazione dei propri affari ed interessi, sia che si riferisca alle controversie al riguardo insorte, deve restare tendenzialmente un’attività umana ed alla volontà e coscienza umana comunque - seppure anche indirettamente - riconducibile, governata dalla ragione e dalla libertà di autodeterminazione, ma soprattutto dalla necessaria flessibilità e dalla capacità di mediazione tra istruzioni date e reali fattispecie.
O, almeno, non pare ancora - se non si vuol dire che si auspicherebbe non giungesse mai - il momento di devolvere ad automi anche questa condotta, che fin dalla notte dei tempi ha connotato e caratterizzato appunto l’essere umano.
2. Negoziare e sorvegliare con gli algoritmi.
L’automazione entra nella fase di progettazione dell’assetto di autoregolamentazione in cui il negozio e poi il contratto si esaurisce, ma anche nella sua esecuzione, come pure in quella delle contestazioni cui esso può dar luogo.
La fase di selezione della potenziale controparte sta assumendo un ruolo sempre più importante nelle opportunità offerte dalla robotica applicata alle potenzialità della Rete, come dimostra il fenomeno sempre crescente non solo degli intermediari automatizzati di servizi (in grado di soppiantare, talvolta con efficienza e successo, le tradizionali forme di organizzazione burocratica o corporativa di categoria od a maggior ragione pubblica: si veda il caso di Uber in relazione al settore delle regolamentazioni dell’offerta di servizi pubblici di taxi), ma anche quello dei cc.dd. robot recruiter, che selezionano - almeno in teoria e per ora, solo in una fase iniziale e lasciando la determinazione finale all’intervento umano - coloro con cui instaurare un rapporto di lavoro o di collaborazione, sulla base, generalmente, di procedure - appunto automatizzate - articolate su interazioni in grado di dimostrare la sussistenza di particolari requisiti logici o psicologici dei candidati[5].
Ci si chiede, prima di ogni altra cosa, se gli algoritmi di valutazione possano o debbano entrare nella struttura del contratto e se tanto possa comportare la necessità di innovazioni sensibili nella cultura giuridica.
Si consideri il caso del vasto e multiforme settore delle negoziazioni finanziarie, nel quale fin dagli anni Settanta dello scorso secolo è cambiato il modo di valutare i loro oggetti e quindi i relativi criteri di negoziazione, cosicché si è fatto in modo crescente ricorso, per definire il valore dei primi, a modelli di valutazione idonei, sulla base di assunti opportuni e predefiniti in base alle esperienze degli operatori, ad individuare un “valore equo” e riferito in modo per quanto più possibile obiettivo al mercato (il “marked-to-market value”). Non si negozia in via diretta il prezzo, ma il modello e le tecniche della sua determinazione (si parla in genere di “parametri caratteristici”); ed analoghi sistemi sono stati adottati per le valutazioni di impresa, come è reso evidente anche nel nostro panorama nazionale dai Principi italiani di valutazione[6].
E la negoziazione dei modelli, relativamente cioè alla struttura stessa degli algoritmi od alla valutazione delle probabilità ed alla calibrazione dei parametri, rileva ormai anche nei modelli per definire il cosiddetto “giusto prezzo delle chance” e per valutare e definire gli oggetti di sistemazioni stragiudiziali - o lato sensu transattive o conciliative - di controversie anche solo potenziali; ma da subito si segnalano disagi ed ambiguità interpretative, dai quali deriva l’esigenza degli operatori giuridici - giudici ed avvocati - di attingere le logiche ed i principi della valutazione, per sanare un possibile scollamento delle moderne teorie della contrattazione telematica, soprattutto in tema di finanza, con le definizioni legali ed i principi generali del sistema, primi fra tutti in materia di tutela dei diritti fondamentali della persona, come riconosciuti dalla maggior parte delle Costituzioni moderne e comunque delle Convenzioni sui diritti dell’Uomo.
Da un punto di vista di teoria generale del diritto civile, non dovrebbe esserci, se non altro in linea di massima, alcun ostacolo alla determinazione dell’oggetto del negozio mediante procedure estranee alle parti, ma da queste espressamente ed univocamente richiamate, in modo tale che anche il prodotto del funzionamento di tali procedure, anche se automatizzate, sia riconducibile in via mediata appunto alla scelta ed alle volontà delle parti: in altri termini, il prodotto degli algoritmi non cessa di essere voluto dalle parti, se e nella misura in cui gli algoritmi sono stati da loro voluti o quanto meno accettati con modalità tali da fare ritenere ad essi esteso il consapevole consenso dei contraenti.
Gli algoritmi, svolgano essi funzioni equiparate a quelle di autentici arbitratori per la determinazione del prezzo della prestazione di una delle parti oppure perfino - ed a certe ben precise condizioni - funzioni corrispondenti a quelle di arbitri nella soluzione di controversie (per lo più semplici e basate su interazioni elementari di cause ed effetti), sono voluti dalle parti e quindi, purché appunto queste ne siano consapevoli in modo tale da fare intendere a quelli esteso il loro consenso, sono voluti dalle parti anche i prodotti del funzionamento dei primi. Se voluto è il mezzo capace di produrre risultati, sono voluti pure questi ultimi.
Se così è, allora gli algoritmi devono costituire parte integrante dell’oggetto del consenso e quindi del contratto, se del caso anche con meccanismi analoghi all’approvazione specifica di clausole o alle condizioni generali, ma con verifiche più stringenti, volte ad assicurare la maggiore consapevolezza possibile in capo al contraente: tanto potendo bene ricondursi alla tutela della sua dignità appunto quale essere umano, non solo in quanto senziente, ma soprattutto in quanto senziente - e, per così dire, in grado di decidere di conseguenza - su di un piede di pari dignità con ogni altro.
In applicazione degli strumenti già a disposizione e fino ad un loro eventuale compiuto adeguamento normativo, il grado di consapevolezza e quindi di validità della formazione del consenso in capo ad ognuno dei contraenti dovrà essere ricostruito con maggiore attenzione che nelle forme di contrattazione precibernetiche o tradizionali: e, quanto maggiore è la complessità del meccanismo da verificarsi come voluto e cioè valido oggetto del consenso, tanto più approfondita dovrà essere l’indagine dell’operatore pratico (in primo luogo l’accademico, poi l’avvocato ed infine, certo da un punto di vista cronologico, il giudice) nella ricostruzione, benché anche solo sulla base di elementi presuntivi, della compiutezza della rappresentazione, da parte del contraente, del meccanismo di funzionamento e dei suoi possibili esiti, in relazione ai parametri adottati.
Non si vuole certamente dire che sia necessaria la previa spiegazione particolareggiata, al singolo cliente, del funzionamento dell’algoritmo, ma sarà comunque serio segnale di una piena comprensione un’attività di informazione completata semmai da dichiarazioni, diverse da quelle standardizzate di cieca affermazione dell’avvenuta comprensione del contenuto di quella, come ad esempio veri e propri test di comprensione, editati di volta in volta su di una base molto ampia e proposti al sottoscrittore, non tanto per verificare che non sia un robot a sua volta, quanto piuttosto che abbia ben compreso il meccanismo.
Diversamente, il consenso potrebbe dirsi invalidamente formato e potrebbe, sia pure con i limiti del caso, soccorrere la teoria generale dell’errore, a seconda delle condizioni personali del contraente, ma pure quella - altrettanto generale - della tutela del consumatore e della formazione del suo consenso, con l’apparato delle nullità di protezione poste a sua tutela.
Tale conclusione implica la necessità di esplicitazione degli algoritmi anche nei giudizi negoziali, con analoghe caratteristiche, perché in grado di determinare idoneamente il contenuto delle prestazioni attese e delle reazioni previste e quindi di denotare una presa di coscienza consapevole da parte del contraente.
In tutti i casi può dirsi sufficiente, peraltro, il rinvio a fonti di conoscenza accettate dalle parti e correntemente reperibili, ben potendo farsi ricorso all’integrazione del testo contrattuale anche per i meccanismi, più o meno automatizzati, di completamento di elementi essenziali del contratto: ma il tutto - o, almeno, la valutazione di adeguata reperibilità - secondo criteri di normalità elaborati dalla coscienza comune in rapporto ad un determinato stadio dell’evoluzione della tecnologia e della società.
E però particolare cautela, per garantire l’effettività della tutela, dovrà porsi non soltanto alla materiale conoscibilità della fonte dell’algoritmo o dell’altra analoga serie di istruzioni informatiche, ma anche alla concreta sua comprensibilità da parte dell’utente (o considerato in concreto, o almeno per grandi categorie di utenti e quindi ammettendosi il ricorso ad una serie di presunzioni più o meno ampia), secondo parametri il più possibile condivisi, ovvero corrispondenti ad una valutazione collettiva di accettabilità, a sua volta da elaborarsi all’esito di confronti nelle sedi specialistiche in base a dati assunti dalla corrente esperienza.
A questo fine e per rimanere in ambito di autoesecutività delle istruzioni convenute tra le parti, si dovrebbe - ad esempio - esplorare la possibilità che lo stesso algoritmo preveda - fin dalla fase della sua progettazione e quindi normalmente durante la sua esecuzione o implementazione - meccanismi di blocco o di salvaguardia per il caso che non risultasse automaticamente l’adeguata presa di conoscenza della fonte e delle modalità anche solo estrinseche del suo funzionamento da parte di uno o di entrambi i contraenti (si pensi a passaggi automatizzati di controllo con domande o riscontri particolari).
Ma è evidente l’ampiezza dello sforzo richiesto al tradizionale operatore del diritto.
3. Reti informatiche, nuovi territori, scala dei tempi, smart contract.
L’automazione ha innovato, rivoluzionandoli, gli strumenti della tradizione degli scambi interpersonali, intervenendo sulle singole componenti come intese ed elaborate da una tradizione di secoli: le quali ultime restano quindi la cornice ineliminabile entro cui gli schemi mentali continuano ad operare e l’infrastruttura sulla quale intervengono tutte le innovazioni tecnologiche.
Questo può forse contribuire a spiegare come, nonostante il radicale cambio di contesto, gli elementi dei miliardi di singole giornaliere negoziazioni siano rimasti, nella struttura basilare, sostanzialmente gli stessi del passato oppure comunque modellati in partenza su quelli, pur avendone l’evoluzione tecnologica mutato spesso radicalmente le dimensioni ed i ritmi: sono mutati il concetto di luogo, la velocità di azione e gli strumenti di formulazione e di incontro delle volontà dei soggetti protagonisti degli scambi, come pure la natura stessa di questi.
I meccanismi automatizzati, dopo gli algoritmi su cui essi sono fondati, sono entrati nel mercato, compreso (se non soprattutto, sull’onda della massa di ricchezza che è in grado di muovere e talvolta di produrre quasi ex nihilo) quello finanziario, avvalendosi di luoghi nuovi e privi degli elementi di certezza ed immediatezza dell’esperienza umana finora maturata (con le Reti, immateriali ed atopiche), di tempi incommensurabilmente più ristretti (col mercato ad alta frequenza, misurabile in microsecondi), di strumenti di incontro (i canali telematici) e perfino di mezzi di pagamento alternativi a quello che, dall’evoluzione dall’economia di mero baratto, aveva rappresentato il bene di scambio per eccellenza e cioè il denaro (con l’invenzione delle cc.dd. cripto valute, sottratte all’Autorità di qualsiasi Stato), ma pure di strumenti di risoluzione di controversie che prescindono da quelli del mondo reale (con autentici arbitrati tra le reti o tra diversi soggetti o gruppi di soggetti della rete, oppure con gli on-line dispute resolution[7]) e, per quanto già accennato, di strumenti di selezione della controparte anche nel campo del lavoro subordinato o parasubordinato.
Si prende coscienza dei vantaggi e, al contempo, dei pericoli delle strategie di negoziazione ad alta frequenza: gli algoritmi, obbedienti soltanto alla logica del mercato e quindi della massimizzazione incontrollata od assoluta del profitto, generano sempre nuovi strumenti di sfruttamento - o, se non piacesse la connotazione negativa della locuzione, di avvalimento - delle inevitabili vulnerabilità degli utenti.
E tanto avviene non solamente con l’esaltazione di quei comportamenti di massa già noti alla letteratura tradizionale (ad esempio il ruolo della folla, la volatilità del mercato per le reazioni di questa, i cosiddetti vortici dei prezzi), ma con ogni strumento derivante dalla progressiva esasperazione della velocità degli interventi e dall’ampiezza e sostanziale ingovernabilità della rete, che rende in pratica impossibile un adeguato intervento preventivo da parte di chicchessia, ammesso che ne abbia il potere una qualsiasi Autorità in uno spazio virtuale globale privo di referenti sicuri.
È così che la rete ha offerto, oltre ad una serie potenzialmente indefinita di vantaggi, una corrispondente opportunità di abusi o almeno di usi spregiudicati (in senso tecnico, privi di qualunque pregiudizio, anche a difesa di tutti i potenziali controinteressati), affannosamente e spesso inefficacemente rincorsi da una serie di normative che sono sempre parziali: sia oggettivamente, per la velocità anche di elaborazione di strumenti nuovi ed il carattere necessariamente repressivo degli interventi, quindi rivolti a fenomeni già realizzatisi; sia soggettivamente, per l’inesistenza di autorità centrali dotate di qualche reale od effettivo potere di intervento e di regolamentazione su mercati diffusi e non agevolmente localizzabili in un solo luogo assoggettabile alla potestà dei tradizionali poteri pubblici o comunque collettivi.
La cibernetica, nella sua corsa all’emulazione evolutiva del mondo reale, nel suo contatto con il mondo giuridico ha generato i contratti intelligenti[8], i blocchi di catene[9], la Internet of Things[10], l’automazione sempre più pervasiva di interi settori della vita sociale (come si prepara a fare, ad esempio, per il trasporto di persone e di cose e, ancora una volta, come si sta accingendo a fare per il settore del reclutamento dei lavoratori) e delle sue vicende principali, come la negoziazione di scambi e la gestione delle controversie che ne derivano. E tutto questo mentre si resta in attesa, non priva di inquietudine, degli sviluppi della personalità robotica e, sullo sfondo e successivamente, dell’Intelligenza Artificiale.
Ci si chiede allora come fronteggiare le nuove anomalie di mercato - o le nuove forme di predazione algoritmica che questo consente ed incoraggia - e quali siano i più evidenti problemi che pongono gli smart contract[11], mentre si riflette pure sulle modalità di pubblicazione e controllo degli algoritmi e degli eventuali errori nei programmi.
Il discorso è vastissimo ed in questa sede non può che tratteggiarsi in linea di massima un’ipotesi di traccia per successivi approfondimenti.
Può cominciarsi con la possibilità di ricondurre, per quanto forse in modo semplicistico, le problematiche di imputabilità e responsabilità a quelle della responsabilità da prodotto, fintantoché anche l’automa o il meccanismo automatizzato rimarrà appunto un “prodotto” (cioè un manufatto prodotto dall’uomo o da macchinari dall’uomo progettati ed impiegati a tal fine, secondo un disegno consapevole e volto al loro impiego per fini determinati, non raggiungibili in assoluto o non raggiungibili con eguale prontezza o sicurezza o precisione dall’opera materiale dell’essere umano con le sole risorse del suo corpo), per quanto “intelligente” o interattivo.
Si può, quindi, ipotizzare l’imputabilità al produttore ed al progettista - ed una corrispondente responsabilità - in tutti i casi in cui l’attività dell’automa o del meccanismo automatizzato si riconduce in modo diretto o indiretto (in quest’ultimo caso, quale sviluppo potenziale normale, cioè corrispondenza ad una sequenza causale ordinaria e statisticamente definibile nel novero delle probabilità prevedibili, delle istruzioni o dei programmi originari, ad esempio quando prevedessero una sorta di autoapprendimento) al progetto ed alla produzione del prodotto; e, al contrario, può pensarsi all’imputabilità - ed alla relativa responsabilità - all’utente in caso di attività causalmente ricondotte alla condotta - pure omissiva - determinante di quest’ultimo di utilizzo normale (corrispondente all’uso medio prevedibile all’atto della messa in commercio o in circolazione o comunque dell’abbandono della sfera di controllo del progettista e del produttore) dell’automa o meccanismo automatizzato.
Per fronteggiare le nuove anomalie sembra indispensabile un controllo, pubblico in quanto affidato ad un’autorità o almeno alla comunità scientifica o ad altro soggetto valutatore indipendente, del funzionamento e degli effetti degli algoritmi regolatori di blockchain e smart contract, almeno per pubblicizzare i potenziali rischi; utile potrebbe essere l’elaborazione di una definizione condivisa e interdisciplinare di stipulazione informata o consapevole; ed opportuna potrebbe rivelarsi la verifica della praticabilità di una piattaforma gestita da autorità o altri enti che offrano particolari garanzie di terzietà ed indipendenza.
Lo smart contract, che sta avendo sempre maggiore diffusione e che presenta innegabili vantaggi quanto a rigorosa certezza delle conseguenze di fatti futuri ed immediatezza dei tempi di reazione, deve potere essere sempre previamente apprezzato per gli sviluppi che consente e quindi occorre una cultura ed almeno un’informazione il più possibile completa, se del caso con prospettazione di scenari pratici (sotto forma di esempi applicativi, riconducibili a FAQ).
Ma non ci si nascondono le perplessità per l’incertezza sulla qualità dei dati e sulla loro fruibilità effettiva, sull’impossibilità di previsione di eventi improbabili, con conseguente rigidità e (in-)comprensibilità di larghe frazioni della serie causale successiva.
Ed anche gli abusi potrebbero essere almeno in buona parte evitati o prevenuti, se del caso anche in via interpretativa: qui potendo applicarsi una nozione estesa di buona fede contrattuale, a sua volta da ricollegarsi alla tutela dei diritti fondamentali della persona ed affidata all’elaborazione dell’interprete ed in ultima analisi del giudice, da rapportarsi all’evoluzione degli strumenti tecnologici, con un ruolo importante di interazione tra Accademia, Foro e Magistratura.
A questo riguardo, interessanti potenzialità può offrire lo strumento del ricorso del P.G. nell’interesse della legge ex art. 363 cod. proc. civ. (e, beninteso, in attesa di una norma anche solo di carattere generale), con la previsione di strumenti elaborati dai matematici finanziari applicati al diritto (ad es., divieto di ritiro, in tempi prefissati, di ordini idonei a perturbare il mercato, ovvero individuazione di condotte da reprimere in via interpretativa - con la previsione di inefficacia o di responsabilità contrattuale piena - perché contrarie al fair play nella gestione delle potenzialità delle nuove tecnologie e quindi alla tradizionale nozione di buona fede, adeguata alla mutata realtà.
Infine, la pubblicità degli algoritmi deve essere tale da consentire l’accesso a chiunque, su piattaforme certificate almeno da un’autorità od altro terzo qualificato e - per quanto possibile - indipendente: anche in questo caso tale definito in base a concetti quanto più possibile condivisi, essendo appunto la condivisione - o la presunzione di essa attraverso la carenza di significative reazioni - la chiave di volta del funzionamento della moderna società tecnologica basata sulle Reti acefale e diffuse.
4. Decisione delle dispute negoziali.
Le nuove tecnologie - automi ed algoritmi - offrono strumenti di ausilio anche agli operatori del diritto (accademici e poi avvocati e giudici), sia per la decisione anche stragiudiziale delle dispute in essere e di quelle future, sia per affrontare risolutivamente l’arretrato degli uffici giudiziari.
L’approccio può essere unico per entrambi i casi: occorre definire i criteri per la determinazione dei dati rilevanti della singola fattispecie da decidere, come pure quelli per la selezione dei precedenti pertinenti, in uno a quelli di approssimazione per evitare il carattere strettamente automatico o logico-deduttivo della decisione suggerita o perfino presa, benché le esigenze di smaltimento massivo spingano verso l’uniformazione della risposta di giustizia, ad evidenti fini di parità di trattamento; si può quindi adottare un’adeguata tecnica di sostegno all’elaborazione della decisione finale, in linea di massima - ma non in via esaustiva - limitata a particolari segmenti della decisione (anche se negoziale e quindi affidata alle parti stesse o ad un arbitro).
In particolare, il modello di lettura è da concordare già solo quanto ai prerequisiti della progettazione, a cominciare dagli obiettivi e poi - ma su basi necessariamente analoghe, semmai allargando le maglie della flessibilità per la seconda – quanto ad arretrato e negoziabilità futura, su concetti fondamentali quali i parametri dell’equità o legittimità delle scelte e degli scopi e le clausole generali (buona fede, abuso del diritto, dignità della persona, ambito del sindacato rimesso o consentito al giudice).
C’è bisogno di accordi altamente standardizzati e relativamente semplici, predisposti da professionisti, imprese e prestatori di servizi (oppure da organismi interistituzionali, che potrebbero fare utile riferimento all’Accademia), che possono sopperire ai costi della codificazione con un’applicazione su larga scala delle clausole “smart” codificate.
Occorre intendersi sul contenuto delle approssimazioni ragionevoli per il disbrigo dell’arretrato: a cominciare dalle questioni meramente o prevalentemente patrimoniali e comunque standardizzabili o definibili come seriali (quindi anche risarcitorie, purché non siano coinvolti diritti capitali personalissimi come la vita o, comunque, in questo caso, con limiti ben prefissati).
Per la negoziabilità futura gli esempi delle piattaforme automatizzate di risoluzione delle controversie adottate in alcuni Paesi europei ed il progetto europeo CREA (risoluzione di controversie attraverso algoritmi equitativi, in cui l’aggettivo finisce con il caratterizzare significativamente un algoritmo di proprietà tipiche del discernimento umano, lontane dall’automatismo dei sillogismi deduttivi) offrono spunti interessanti quali modalità cibernetiche di espletamento di attività riconducibile al tradizionale arbitrato.
In nessun caso, però, dovrebbe mancare la previsione di un intervento umano o la stessa obbligatorietà di un’integrazione umana al ricorrere di presupposti prefissati.
Ancora, l’innovazione va conseguita mediante un tavolo o studio comune della materia (da parte delle Università, del CNF, del CNN, della CoNSoB, della Formazione anche decentrata di Avvocati e Magistrati, altre istituzioni pubbliche), con convegni, pubblicazioni congiunte, giornate dimostrative, strumenti di divulgazione secondo le moderne tecnologie, altri attività di studio e semmai di sperimentazione.
5. Spunti conclusivi.
Si vive in tempi di generalizzata disintermediazione: è un fenomeno che formalmente esalta le potenzialità dell’individuo (l’uomo - se non l’utente - digitale), messo in teoria alla pari con chiunque altro, al contempo proiettandolo in un ambiente virtuale a cui egli è esposto con tutte le sue debolezze: ed allora il rischio è quello che il mezzo, paritario ed egualitario sulla carta, sia un’occasione di prevaricazioni ed abusi; insomma, il rischio è che si tratti della versione tecnologicamente aggiornata - anch’essa fondata sulla pretesa parità delle armi o delle risorse a disposizione - dello stesso egualitarismo, forse un po’ mistificatorio, tipico di ogni rivoluzione, in cui l’uguaglianza viene invocata a proprio favore in danno di chi la comprime, ma spesso dimenticando le prevaricazioni commesse sotto altri profili in danno di altre categorie[12].
Del resto, la rete, così com’è strutturata oggi, acefala e diffusa, è manipolabile in modo ampio ed anzi potenzialmente indefinito e quindi infinito; ciò che si accompagna alla tendenziale inaffidabilità di fondo del sistema prescelto in molti settori, siccome decentralizzato ed affidato al controllo ed alla gestione della maggioranza degli utenti attivi (con la presunzione, benché solo relativa, del consenso dei coutenti silenti), in cui tutto si affida ad una valutazione di improbabilità di un uso improprio, valutazione che però è per definizione di dubbio valore scientifico, quale esaltazione di un empirismo esasperato e, paradossalmente, a sua volta sempre meno probabile, sempre meno significativo risultando il silenzio a mano a mano che aumenta il numero dei fruitori e si sviluppa il carattere passivo o prevalentemente acritico della fruizione.
È, prima di ogni altra cosa, irrinunciabile la presa di coscienza della necessità di un approccio interdisciplinare al fenomeno della devoluzione ad automi di fasi decisionali dell’attività negoziale, visto sotto diverse e spesso non necessariamente collimanti luci dalle differenti professionalità, tutte coinvolte, dei progettisti di programmi e macchine e degli operatori giuridici (Accademia, Avvocatura, Magistratura, Notariato): a cominciare dall’elaborazione dei principi e degli obiettivi fondamentali, tra cui una definizione quanto più possibile condivisa e tecnicamente operativa delle clausole generali e degli scopi e dei limiti dell’intervento automatizzato nel delicato settore, potenzialmente relativo alla vita quotidiana dei singoli e comunque idoneo ad incidere pesantemente nella gestione delle economie loro e perfino dell’economia globale nel suo complesso.
Quale punto di partenza per un’indispensabile ben più ampia riflessione potrebbe quindi formularsi una valutazione complessiva di sostanziale adeguatezza della tecnologia robotica in decisioni negoziali semplici o “non segmentate”, oppure, all’inverso, in soli segmenti di queste ed ove poi intervenga, se non altro in via decisiva, un intervento non automatizzato, oppure ancora in decisioni negoziali seriali e a fondarsi su presupposti fattuali obiettivi od univoci o soggetti ad un margine assai ridotto di valutazione.
A questa valutazione cautamente positiva si deve congiungere altra, di segno opposto, di disfavore verso l’affidamento a sistemi interamente automatizzati o robotizzati della decisione di tutte le altre situazioni negoziali, per la sostanziale carenza di flessibilità nell’interpretazione delle volontà delle parti e delle sopravvenienze non espressamente previste, con conseguente indispensabilità di clausole o meccanismi di salvaguardia, che impongano l’intervento umano in via sostitutiva e definitiva.
In definitiva, la decisione negoziale robotizzata o automatizzata è un’utile portato dell’evoluzione tecnologica, purché appunto rimanga in ruolo sostanzialmente servente e sostitutivo di operazioni umane meccaniche o ripetitive o caratterizzate, per la loro intrinseca natura, dalla non necessità di valutazioni o di scelte in senso lato discrezionali: ciò che riconduce il robot che decide nel negozio al ruolo di un esecutore di istruzioni le più semplici possibili, tutte le volte appunto che determinate situazioni possono ridursi ad elementari schemi decisionali privi di discrezionalità (con lo schema if-then), in armonia con la sua funzione almeno originaria di sollievo dell’uomo da compiti noiosi perché sostanzialmente meccanici, oppure intrinsecamente pericolosi per le implicazioni - anche solo immateriali - delle azioni umane richieste.
Mano a mano che cresce o si complica la complessità delle decisioni da prendere diventa sempre più problematica, se non a prezzo di rimeditazioni complessive e profonde del diritto e dei presupposti anche etici di ogni ordinamento giuridico, la devoluzione a meccanismi totalmente automatizzati di condotte che dovrebbero rimanere riservate alla valutazione, per quanto imperfetta essa corra il rischio di essere, dell’essere umano.
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(*) Sviluppo ed aggiornamento degli appunti a sostegno della relazione tenuta al III Seminario “Leibniz” per la teoria e la logica del diritto, sotto il patrocinio dell’Accademia dei Lincei, tenutosi in Roma il 5 luglio 2018, sul tema “La decisione robotica”.
[1] Può definirsi hardware la parte fisica di un elaboratore od altro apparecchio simile, articolato su interazioni elettriche o fisiche o chimiche.
[2] Si sogliono definire software tutti i componenti modificabili di un sistema o di un apparecchio e, più specificamente in informatica, l’insieme dei programmi che possono essere impiegati su un sistema di elaborazione. La presente definizione, come la precedente di hardware, è tratta dalla Enciclopedia Treccani on-line, al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/software/ (ultimo accesso 08/09/2018).
[3] La quale è così definita dall’Enciclopedia Treccani on-line:
Matematica: termine, derivato dall’appellativo al-Khuwārizmī («originario della Corasmia», questa essendo una regione dell’Asia centrale, a ovest di Samarcanda e di Bukhara, sulla via della seta tra la Cina e l’Occidente, sede dell’importante Khanato di Khīwa e identificata con un vero e proprio Impero, abbattuto solo nel XIII secolo da Gengis Khan) del matematico Muḥammad ibn Mūsa del 9° sec., che designa qualunque schema o procedimento sistematico di calcolo (per es. l’a. euclideo, delle divisioni successive, l’a. algebrico, insieme delle regole del calcolo algebrico ecc.). Con un a. si tende a esprimere in termini matematicamente precisi il concetto di procedura generale, di metodo sistematico valido per la soluzione di una certa classe di problemi.
Informatica: si definisce a. una sequenza finita di operazioni elementari, eseguibili facilmente da un elaboratore che, a partire da un insieme di dati I (input), produce un altro insieme di dati O (output) che soddisfano un preassegnato insieme di requisiti. Spesso i requisiti vengono distinti in due categorie: i vincoli, ossia requisiti che devono essere soddisfatti in ogni caso, e gli obiettivi, ossia requisiti che devono essere soddisfatti il meglio possibile secondo un qualche criterio specificato.
[4] V. la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)), consultabili (ultimo accesso 08/09/2018) in
http://www.europarl.europa.eu/RegData/seance_pleniere/textes_adoptes/definitif/2017/02-16/0051/P8_TA(2017)0051_1_IT.pdf.
Significativo è il richiamo ivi contenuto alle “leggi della robotica” elaborate da Isaac Asimov:
(I) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. (II) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. (III) Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge. (cfr. Isaac Asimov, Circolo vizioso, 1942) e (0) Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno.
[5] Tra le ultime realizzazioni si veda il caso del robot “VERA”, su cui, tra gli altri ed a parte quanto si ricava dal sito dell’impresa che l’ha implementato, l’articolo del The Guardian, Will a robot recruiter be hiring you for your next job?, in https://www.theguardian.com/careers/2018/feb/02/will-a-robot-recruiter-be-hiring-you-for-your-next-job, ultimo accesso 24/09/2018.
[6] Dell’Organismo Italiano di Valutazione - OIV, che si prefigge appunto l’elaborazione di tali criteri generali.
[7] Su cui si veda, prima di ogni altra cosa, il Regolamento (UE) n. 524/2013 del Parlamento e del Consiglio del 21 maggio 2013 per risolvere extragiudizialmente le controversie nascenti dai contratti di acquisto online di beni e servizi (Online Dispute Regulation).
Il decreto legislativo 6 agosto 2015, n. 130, che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva 2013/11/UE sull'ADR europea per i consumatori (Alternative Dispute Resolution), ha modifica il Codice del Consumo, introducendo, in particolare, un titolo dedicato alla risoluzione extragiudiziale delle controversie per i consumatori - ADR. ARERA, designata autorità competente per l’ADR nei settori regolati con delibera 620/2015/E/com e relativa Disciplina di cui all’allegato A, ha istituito l’elenco e definito le modalità di iscrizione degli organismi che offrono ai consumatori procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie (ADR) per i settori di competenza dell’Autorità. L’elenco è pubblicato sul sito dell’Autorità e trasmesso al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) quale punto di contatto unico con la Commissione Europea per le ADR di consumo, ai fini dell’iscrizione nella piattaforma ODR (Online Dispute Resolution).
[8] Smart contract. A prescindere dalle diverse definizioni, per le quali è indispensabile un rinvio alla bibliografia specialistica, può probabilmente - e sempre a fini meramente descrittivi ed a prezzo di approssimazioni anche fallaci - raffigurarsi lo smart contract come la “giuridicizzazione” di un diagramma di flusso relativo ad un accordo tra due o più parti ed alla sua esecuzione; con la precisazione che per diagramma di flusso o flowchart si intende poi un grafico mediante il quale in un processo elaborativo viene evidenziata la successione e concatenazione delle operazioni in rapporto di causa ed effetto o di evenienza possibile e conseguenza. Se in genere la flowchart consiste in una serie di caselle unite da frecce (con ritorni nel caso di processi iterativi, con biforcazioni nel caso di scelte, e così via), mediante la quale è possibile evidenziare il processo logico che è alla base della successione delle operazioni, può azzardarsi allora che lo schema dello smart contract ricorda appunto la pattuizione di tutti gli sviluppi potenziali tali ritenuti dalle parti. La più banale delle conseguenze è che con lo smart contract affidato ad un sistema automatizzato, in base al programma dello sviluppo delle interazioni future voluto dalle parti, ad ogni determinato evento da costoro previsto corrisponderà infallibilmente ed inesorabilmente una determinata conseguenza.
[9] Blockchain. Pure in questo caso rinviandosi alla bibliografia specialistica citata in calce alla presente, in via di estrema approssimazione può definirsi tale una tecnologia informatica che consente di registrare, su un database condiviso da una rete di computer, qualsiasi tipo di dato in modo sicuro e tracciabile ed il cui fulcro è quello del consenso tra i partecipanti, che collaborano al mantenimento e alla “messa in sicurezza” della piattaforma (ovvero, secondo altra definizione, una piattaforma senza intermediari - e, perciò, decentralizzata - per la conclusione, formalizzazione e gestione dei rapporti di scambio in un ecosistema digitale).
[10] Anche in quest’occasione in base a www.treccani.it (ultimo accesso 08/09/2018), per Internet of Things si intende una “rete di oggetti dotati di tecnologie di identificazione, collegati fra di loro, in grado di comunicare sia reciprocamente sia verso punti nodali del sistema, ma soprattutto in grado di costituire un enorme network di cose dove ognuna di esse è rintracciabile per nome e in riferimento alla posizione”. L’espressione «Internet delle cose» è stata coniata nel 1999 da Kevin Ashton. L’identificazione di ciascun oggetto avviene tramite minuscoli transponder a radiofrequenza in essi inseriti, oppure mediante codici a barre o codici grafici bidimensionali impressi sull’oggetto. Le applicazioni vanno dalla gestione di beni di consumo (durante la produzione, l’immagazzinamento, la distribuzione, la vendita o l’assistenza postvendita), al tracciamento di oggetti persi o rubati. Estensioni dell’Internet of things, anche se non parte del concetto originale, sono l’ambient intelligence e l’autonomous control: la prima indica un ambiente costituito da oggetti che rispondono alla presenza di esseri umani agendo in conformità a determinate aspettative di questi; la seconda amplia il campo d’azione applicando strumenti intelligenti a ciascun oggetto reale o virtuale e mettendoli in grado di comunicare tra loro.
È evidente la serie di problematiche indotta dalla possibilità della stipula di contratti sulla base di meccanismi automatizzati: ad esempio, gli ordini di merce formulati da gestori automatizzati di magazzini o di case od altri immobili in dipendenza del rilevamento delle necessità o dello stato del magazzino o delle scorte esistenti e così via.
[11] La letteratura sul punto è già molto ampia. Fra tutti, per una prima definizione, si può vedere P. Cuccuru, Blockchain ed automazione contrattuale. Riflessioni sugli smart contract, in Nuova giur. Civ., 2017, 1, 107, soprattutto paragrafi 6 ss.; in particolare, vi si sottolinea come questi possano definirsi protocolli per computer attraverso i quali si formalizzano gli elementi di un rapporto (solitamente di scambio), in grado di eseguire autonomamente i termini programmati una volta soddisfatte le condizioni predefinite; con l’ulteriore precisazione che, nonostante il nome, gli smart contract non sono necessariamente contratti giuridicamente intesi (sebbene possano esserlo ove ne integrino i requisiti), ma, più semplicemente, degli strumenti per la negoziazione, conclusione e/o automatica applicazione di rapporti contrattuali o relazioni para-contrattuali: un canale per la conclusione e gestione degli accordi, piuttosto che accordi in sé.
In concreto, gli smart contract sono agenti indipendenti ai quali viene affidato un certo patrimonio digitale che viene gestito in conformità alle istruzioni fornite dal programmatore. Una volta inclusi nella blockchain, gli smart contract operano seguendo le regole pre-impostate fino al raggiungimento dell’obiettivo stabilito o all’esaurimento delle risorse delle quali sono dotati. Il loro protocollo ricalca, semplificando, lo schema causale “se x, allora y”, che nella forma base ricorda una sorta di distributore automatico digitalizzato. Si consideri, ad esempio, l’acquisto di una licenza d’uso per un opera di proprietà intellettuale, o il trasferimento di un qualsiasi altro dato - come le preferenze di una certa categoria di persone, così come desunte dalle loro attività online, a fini pubblicitari. La parte A crea uno smart contract, al quale allega permanentemente l’informazione x (la licenza, le preferenze), programmando che essa venga trasferita al soddisfacimento di certe condizioni (ad esempio per una certa controprestazione in valuta virtuale y), e lancia il protocollo in una blockchain. Nel momento in cui la parte B intende ottenere x, essa interagisce col protocollo creato da A, trasferendo, in caso di accettazione dei termini dello scambio, la somma y. Essendo integrate le condizioni dello scambio, l’algoritmo dello smart contract rilascia x alla parte B e trasferisce y alla parte A, eliminando il divario temporale tra le prestazioni collegate, nonché ogni spazio per il volontario inadempimento delle parti: una volta che l’obbligazione è eseguita da un lato (y), il protocollo computerizzato esegue automaticamente e simultaneamente l’altra parte dell’accordo (x). Nella sostanza, il meccanismo imita un deposito presso terzi - e, perciò, le operazioni multi-sig previste nell’ecosistema Bitcoin - con lo smart contract quale autonomo deposito di informazioni e valori digitali (P. Cuccuru, op. loc. ult. cit.).
Gli smart contract possono, inoltre, essere programmati per tenere in considerazione degli input provenienti da fonti esterne ritenute affidabili. Un protocollo può essere, ad esempio, istruito al fine di vendere/acquistare un certo tipo di bene virtuale (ad esempio, dello spazio di archiviazione) o un certo numero di partecipazioni azionarie allorquando (e solo se) il prezzo raggiunga una certa soglia od ulteriori condizioni vengano soddisfatte. Ancora, l’algoritmo potrebbe autonomamente pagare il venditore una volta che un bene acquistato online è consegnato al compratore. Le informazioni necessarie allo svolgimento di tali operazioni (prezzo dei beni o delle azioni, conferma di avvenuta consegna) sono fornite dai c.d. oracoli (oracles), programmi indipendenti dalla blockchain che monitorano dati esterni al sistema decentralizzato - come gli indici delle quotazioni azionarie o il database del vettore - e comunicano agli smart contract collegati il soddisfacimento delle condizioni rilevanti. Il meccanismo degli oracles ha, tuttavia, l’inevitabile svantaggio di reintrodurre un grado di incertezza nel sistema. Il rapporto formalizzato è, difatti, esposto al rischio di disfunzioni o manomissione delle fonti di informazione esterne sulle quali fa affidamento (P. Cuccuru, op. loc. ult. cit.).
[12] L. Ferrajoli, Iura Paria, Napoli, 2015, soprattutto pp. 183 ss.
Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?
di Roberto Giovanni Conti
La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale ritorna, dopo l’obiter espresso da Corte cost. n. 269/2017, sul tema dei rapporti fra giudice comune e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La pronunzia offre degli spunti in parte rassicuranti circa il ruolo del rinvio pregiudiziale alla Corte UE da parte del giudice comune, ma non dissipa il fondo dei problemi che si agitano attorno all’effettività dei diritti protetti dalla Carta UE ed al persistente depotenziamento del sistema dell’applicazione diretta ed immediata della Carta. Il commento a prima lettura intende segnalare i punti nevralgici della decisione, non mancando di proporre l’ipotesi del doppio rinvio congiunto del giudice comune alla Corte di giustizia (ex art.267 TFUE) ed alla Corte costituzionale (con l’incidente di costituzionalità) come possibile correttivo capace di favorire un ragionevole contemperamento fra le antitetiche posizioni in campo.
Sommario: 1. La liason fra giudice comune nazionale e Corte di giustizia. 2. L’attacco alla coppia “giudice comune-Corte di giustizia” ed il ruolo della Corte costituzionale dopo la sentenza n.269/2017. 3.Quattro riflessioni a caldo. A) L’importanza del dialogo post 269/2017. 4. Il “concorso di rimedi” come antidoto per slatentizzare la crisi fra giudice comune e la Corte costituzionale. Una proposta. 5.La tecnica di bilanciamento come strumento centrale per l’applicazione dei diritti fondamentali. 6. I lati ancora oscuri di Corte cost.n.20/2019.
1. La liason fra giudice comune nazionale e Corte di giustizia.
Commentare a caldo Corte cost.n.20/2019 impone di tornare sul tema dei rapporti fra le Corti e le Carte dei diritti fondamentali, qui peraltro indirizzandosi la riflessione unicamente ai rapporti fra giudice comune e diritto UE-.
Prima di ciò va detto che anche in questo ambito un’analisi a ritroso di ciò che è accaduto dimostra inconfutabilmente che le soluzioni adottate, nel tempo, dalla Corte costituzionale per delineare i modi con i quali operano i diversi sistemi sovranazionali nell’ordinamento interno sono accomunate dall’essere tutte una ‘reazione’ a pronunzie, espresse o anche solo abbozzate, da parte del giudice comune che, dopo avere sperimentato diverse opzioni interpretative, aveva direttamente investito il giudice costituzionale della relativa questione. E senza che ciò possa liquidarsi con la considerazione che il ruolo della Corte delle leggi è sempre collegato ad un giudizio di costituzionalità sollevato dal giudice comune- per quel che qui interessa -.
Ciò detto, si registra da tempo un approccio amichevole fra giudice nazionale comune e Corte di giustizia.
Un corteggiamento iniziato in tempi remoti (casi Simmental, Costa e Van Gend end Loos), dapprima poco considerato dal giudice comune nazionale e poi nel tempo compreso, conosciuto e apprezzato[1].
A fare scattare un’affezione profonda nel giudice comune è stato probabilmente il forte fascino giocato dal potere di disapplicazione che a quel giudice non era e non è affatto consentito in un sistema di sindacato accentrato di costituzionalità.
Questo sentimento è diventato così progressivamente innamoramento, caratterizzato per dirla con Francesco Alberoni, da un’intensissima attività intellettuale in cui i due innamorati si sono nel tempo studiati, con la benedizione della stessa Corte costituzionale, impartita con la sentenza Granital - Corte cost.n. 170/1984 - universalmente individuata come l’approdo più importante nel cammino comunitario della Consulta[2].
La componente nazionale della coppia ha così rimesso in discussione la propria vita, scoprendo nel tempo una tendenza che, affiancandosi alla valorizzazione della Costituzione e del suo ruolo come giudice interno tenuto all’interpretazione costituzionalmente orientata, ha fatto maturare un’identità di giudice europeo[3] che si è affiancata a quella forgiata sulla base del sistema interno, per certi versi ad essa sovrapponendosi, per altri versi completandola armonicamente.
In entrambe le vesti – o indossando i due cappelli, come piace dire a chi scrive – il giudice comune ha compreso il proprio ruolo di “interprete primo” delle Carte dei diritti e, in generale, dei diritti fondamentali, al quale si è affiancato quello di “interprete del diritto comunitario” più vicino ai fatti e, per questo, capace meglio di chiunque altro, dello stesso legislatore nazionale, di dare espansione ai diritti di matrice sovranazionale.
L’innamoramento è diventato fidanzamento quando ci si è accorti che i nessi di collegamento fra i due partner non erano improntati in modo da considerare uno dei due amanti in posizione autoritaria e patriarcale ma, piuttosto, orientati ad una equiordinazione condotta abilmente dalla Corte di giustizia, capace di affidare sempre più ambiti alla “fase discendente” – successiva alla risposta della Corte Ue al rinvio pregiudiziale – ed investendo essa stessa il giudice comune di compiti che spettano, meglio che a ogni altro, al predetto quale giudice del diritto eurounitario di diritto comune.
In questa prospettiva, il dato maggiormente caratterizzante di questa continua osmosi fra Corte di Lussemburgo e giudice nazionale nasce dal fatto che il primo demanda sempre più di frequente al secondo un’attività di bilanciamento fra diritti successiva alla individuazione della portata del diritto di matrice UE (fondamentale o meno che sia), cedendo – recte, condividendo –una parte non marginale delle proprie competenze. Ciò fa, è bene chiarirlo fin da subito, non perché tale attività sia riservata al giudice nazionale e sia dunque sganciata dalla portata vincolante della sentenza interpretativa resa dalla Corte UE ma, al contrario, perché proprio tale attività è “coperta” dal diritto di matrice sovranazionale e segue le regole del diritto eurounitario, ma si ritiene poter essere meglio svolta dal giudice UE di prossimità.
La pronunzia della Corte UE, dunque, non rappresenta il tassello finale ed ultimo della vicenda. Per dirla con linguaggio da pratico la causa non è spesso chiusa dopo la sentenza del giudice UE, ma anzi è per effetto della pronunzia della Corte di giustizia che si apre una nuova fase innanzi al giudice nazionale[4].
In questo senso, il sempre più frequente ricorso, nelle pronunzie della Corte di Lussemburgo, alla formula “spetta al giudice nazionale verificare” dimostra quanto sia la stessa Corte ad avere ben presente il ruolo, fondamentale ed ineliminabile, riservato al giudice nazionale nella fase di attuazione concreta delle decisioni di Lussemburgo.
Ciò a conferma della residualità dei tratti di gerarchia e della centralità della regola dell’integrazione, direttamente collegata agli effetti della pronunzia resa in sede pregiudiziale dalla Corte che non esauriscono il potere decisionale del giudice (nazionale) a quo, invece tenuto a coniugare e sagomare la decisione eurounitaria con il diritto interno, operando appunto secondo i meccanismi dell’interpretazione conforme o della disapplicazione (rectius, non applicazione) ovvero, ove tale ultimo meccanismo non possa operare (rapporto orizzontale, direttiva non self-executing), del rinvio alla Corte costituzionale ex art.117 primo comma Cost.[5] – almeno stando agli insegnamenti consolidati anteriori a Corte cost.n.269/2017 –.
Fatto si è che questo connubio fra giudice comune e Corte di Lussemburgo si è ulteriormente rafforzato, con reciproca soddisfazione dei partner grazie alla naturale vocazione al dialogo espressa da una presunzione di ricevibilità del rinvio pregiudiziale sollevato dal giudice nazionale, più volte predicata dalla Corte di Giustizia[6].
Già altrove ho provato ad evidenziare le rime di questa liason che è apparsa minacciata dall’esterno. Quando un rapporto di coppia subisce delle aggressioni ciò può dipendere da fattori endogeni o esogeni. Un’insoddisfazione di uno dei due partner, un’infatuazione di uno dei due per un terzo, una crisi di coppia determinata da un tradimento.
Orbene, la coppia “giudice nazionale comune-Corte di giustizia” è stata fin qui caratterizzata da fedeltà e rispetto reciproco.
Una coppia ideale, oserei dire, capace di valorizzare i due partner e fondata sul dialogo aperto, franco, mai sordo.
2. L’attacco alla coppia “giudice comune-Corte di giustizia” ed il ruolo della Corte costituzionale dopo la sentenza n.269/2017.
Questo rapporto è sembrato attaccato ab externo dalla Corte costituzionale che è parsa volere imbastire una trama di regole capaci di inaridire la linfa che alimenta quel rapporto e costruire un nuovo ed inedito ordine, sia pure in nome del testo più sacro che esista nel nostro ordinamento, per l’appunto la Costituzione e con gli strumenti che ad essa Corte costituzionale appartengono[7].
I primi commenti a caldo della sentenza n.20/2019 sono sembrati in parte rassicurati dalla posizione assunta dalla Corte costituzionale.
Qui è il caso soltanto di offrire al lettore qualche ulteriore riflessione che si unisce, idealmente a quanto già in passato espresso esaminando i riflessi di Corte cost.n.269/2017[8].
Corte cost. n.20/2019 è stata investita dal Tar Lazio di una questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina interna che imponeva la pubblicazione di dati sensibili dei dirigenti pubblici da parte di amministrazioni di appartenenza, ipotizzandosi il contrasto della stessa con il diritto alla riservatezza dei dati personali, dotato di copertura UE. Il remittente prospettava, conseguentemente, il possibile contrasto non solo con i parametri costituzionali (artt. 2, 3,13 e 117 Cost.), ma anche con gli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti Ue e con ulteriori disposizioni della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali, nemmeno tralasciando il richiamo all’art.8 CEDU.
La Corte ha preliminarmente ritenuto ammissibile la questione di legittimità costituzionale con riguardo ai parametri riferibili al diritto UE, poi tuttavia ritenendoli assorbiti in relazione all’esame degli altri dubbi di legittimità prospettati. Sicché la Corte è giunta a ritenere la parziale incostituzionalità, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Il giudice costituzionale ha così riscontrato una violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza non mancando di richiamare, a sostegno della decisione, alcune pronunzie della Corte Edu che avevano affrontato i rapporti fra tutela della vita privata, protezione dei dati personali e interesse pubblico alla conoscenza dei dati stessi.
3.Quattro riflessioni a caldo. A) L’importanza del dialogo post 269/2017
La prima considerazione è senz’altro quella che intende rivolgere un ringraziamento a quanti hanno immediatamente fatto da “sentinelle” alla sentenza n.269/2017.
L’avere immediatamente acceso i riflettori sulle possibili ricadute che quell’obiter avrebbe potuto produrre sul sistema ha rappresentato per la Corte costituzionale un campanello di allarme da non sottovalutare e, al contempo, un’occasione di ulteriore maturazione e ponderazione delle proprie scelte[9], i cui frutti si colgono, per certi versi, già nella sentenza n.20/2017, giustamente interpretata dai primi commentatori come risposta meno traumatica rispetto alle indicazioni abbozzate nella sentenza n.269/2017[10].
Si tratta di una riflessione solo in apparenza banale ma che, al contrario, dimostra quanto il principium cooperationis applicato e praticato fra operatori e Corti sia in grado di offrire sempre frutti fecondi, smussando e temperando gli aspetti spigolosi che magari possono emergere da un approccio individualista della vicenda.
Il faro acceso nei convegni e nelle riflessioni scritte, provenienti dalla dottrina costituzionalistica[11] ed internazionalistica e dalla Corte di Cassazione[12], ma anche da chi siede alla Corte di Lussemburgo[13], consente di affrontare il “futuro” in modo molto più sereno, nella consapevolezza che ogni mossa ed ogni passo successivi non potranno che essere esaminati e scrutinati con la lente attenta dei diversi “attori” coinvolti. È facile preconizzare che da questo dialogo, pur sviluppatosi forzosamente all’indomani di Corte cost.n.269/2017, non potranno che giungere effetti benefici se si deciderà magari di implementare le forme di comunicazione e di confronto.
Del resto, in questa direzione, la recentissima firma da parte della Corte costituzionale di un protocollo d’intesa con la Corte Edu[14], affiancandosi ad analoghe forme di intesa stipulate in precedenza dalla Corte di Cassazione e, in prosieguo, dalle altre alte giurisdizioni potrebbe essere un “luogo” ideale per favorire il confronto.
4. Il “concorso di rimedi” come antidoto per slatentizzare la crisi fra giudice comune e la Corte costituzionale. Una proposta.
La seconda riflessione guarda al volto dialogante ed aperto – al netto dell’irrisolto epersistente problema rappresentato dall’applicazione diretta della Carta ad opera del giudice comune – che Corte cost.n.20/2019 ha inteso mostrare all’esterno quando, nel sottolineare che l’intervento in materia dipendeva esclusivamente dalla scelta del rimettente, ha inteso chiarire che “Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria.” Questa affermazione precede l’altra di non minore spessore, secondo cui “In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Sul primo punto l’obiter della sentenza n. 269 aveva suscitato numerose riflessioni e, in prima battuta, la decisione della Corte di cassazione di rivolgersi al giudice costituzionale proponendo, fra gli altri, vizi di costituzionalità fondati sulla violazione dell’art.117, 1^ comma, Cost., integrato dal parametro Carta UE. Non a caso, in dottrina, si era parlato di inversione della doppia pregiudiziale in favore della Corte costituzionale[15].
E in effetti, l’ordinanza n.3831/2018, dato atto che nella specie ricorreva una ipotesi di c.d. “doppia pregiudizialità”, giacché gli articoli 187 quinquiesdecies e 187 sexies T.U.F. risultavano potenzialmente contrastanti sia con la Costituzione che con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ritenne di “adeguarsi” alle indicazioni offerte dalla sentenza n.269/2017, privilegiando in prima battuta l’incidente di costituzionalità[16]. Non è il caso di tornare a quella decisione interlocutoria che, per certo, darà in ogni caso alla Corte costituzionale la possibilità, in un prossimo futuro, di affrontare in profondità le questioni che ruotano attorno all’obiter.
Serve semmai sottolineare che proprio il dibattito immediato suscitato dall’obiter ha imposto alla Corte un chiarimento di base in punto di persistente possibilità da parte del giudice comune di avvalersi del rinvio pregiudiziale alla Corte UE.
Quel che colpisce non poco è, dunque, la sottolineatura circa il fatto che, secondo Corte cost.n.20/2019, le due strade astrattamente percorribili da parte del giudice comune integrano, secondo la Corte costituzionale, un “concorso di rimedi giurisdizionali” capace di arricchire “gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali”.
L’avere così escluso ogni preclusione all’accesso alla Corte di giustizia conferma viepiù l’ammissibilità ed utilità, che avevamo prospettato commentando la sentenza n.269 e che qui intendiamo ribadire, di sollevare contemporaneamente rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - in funzione esplorativa sul contenuto della Carta UE - e questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto anche o esclusivamente il medesimo parametro[17].
Si tratta di rimedi che, proprio nella prospettiva ora fatta propria dalla Corte costituzionale, si potrebbero perfettamente tra loro integrare, creando effetti benefici[18] e per l’appunto favorendo una congrua soluzione di compromesso fra le esigenze esposte dalla Corte costituzionale e quelle di sistema poste dalla Cassazione.
E ciò sembra potere valere a prescindere dal contenuto del rinvio pregiudiziale che il giudice comune intenda sollevare, sia esso volto a verificare la compatibilità della disposizione interna con la Carta UE – se cioè la seconda osti o meno alla prima – ovvero a sondare sulla portata contenutistica di un diritto protetto dalla Carta stessa. La particolare autonomia della quale gode la Corte costituzionale nel selezionare le questioni di legittimità costituzionale alla stessa rivolte e la tecnica dell’assorbimento dei motivi di censura rispetto ai diversi parametri utilizzati conferma in pieno l’utilità di una proposizione, in unico atto, della pregiudizialità e della questione di costituzionalità.
Tale costruzione[19] – ove in concreto ritenuta utile dal giudice comune – appare pienamente legittima dal punto di vista della Corte di giustizia, ove si afferma espressamente che la richiesta di rinvio pregiudiziale può avanzarsi “in qualsiasi fase del procedimento che reputi appropriata”– cfr. p.22 sent. Global Starnet –[20].
Per un verso, infatti, la Corte di giustizia – Corte giust., 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starnet Ltd[21] – ha di recente ritenuto che “l’articolo 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione”.
Nella prospettiva della Corte UE, “un giudice nazionale investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale ritenga che una norma nazionale sia non soltanto contraria a tale diritto, ma anche inficiata da vizi di costituzionalità, non è privato della facoltà o dispensato dall’obbligo, previsti dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto nazionale è subordinata ad un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esistenza di un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, investito di una controversia disciplinata dal suddetto diritto, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di permettergli di stabilire se una norma nazionale sia compatibile o no con quest’ultimo” – cfr. par.21 sent. Global Starnet, cit.–.
Ciò che giustifica pienamente la richiesta di rinvio pregiudiziale nel momento in cui il giudice comune si rivolge contestualmente alla Corte costituzionale per sollecitare un intervento caducatorio della disciplina interna per contrasto con il parametro della Carta UE – sovrapponibile a quello costituzionale o prospettato insieme ad altra censura che involge direttamente il parametro costituzionale corrispondente a quello protetto dalla Carta UE –.
Opinare diversamente determinerebbe, infatti, un contrasto insanabile con quanto affermato dalla Corte di giustizia, secondo la quale “l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa e l’effetto utile dell’articolo 267 TFUE risulterebbe sminuito se, a motivo dell’esistenza di un procedimento di controllo di costituzionalità, al giudice nazionale fosse impedito di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte…” – cfr. p.23 sent. Global Starned, cit.–
Tale soluzione, d’altra parte, risulta pienamente compatibile con l’impianto costituzionale come riletto dalla Corte costituzionale, non solo per le ragioni già esposte a commento della sentenza n.269, alle quali qui è sufficiente rinviare[22], ma anche alla luce delle precisazioni contenute da Corte cost.n.20/2019 nei passi sopra riportati, sicuramente orientati ad aprire le porte del giudice comune al rinvio pregiudiziale in qualsiasi momento, cogliendo l’opportunità che da questo concorso di rimedi potrebbe comunque derivare[23]. La circostanza che la Corte costituzionale possa a sua volta decidere senza che la Corte di giustizia si sia pronunziata, ovvero all’esito della decisione, magari valutando l’opportunità di chiedere un ulteriore chiarimento alla Corte di Lussemburgo non potrebbe che rendere virtuosi i meccanismi di dialogo fra le Corti, finalizzandoli al raggiungimento del massimo di tutela realizzabile, ancora una volta nel recinto di un principio di leale cooperazione che dovrebbe informare tutti i soggetti coinvolti.
Ecco dunque, quel ragionevole temperamento delle posizioni espresse con l’obiter che Antonio Ruggeri ha opportunamente suggerito per contemperare le esigenze di effettività e diffusività sottese alla piena espansione dei diritti fondamentali[24]. Esigenze che, nel concentrico utilizzo degli strumenti riconosciuti al giudice comune ed al giudice costituzionale, potrebbero al contempo legittimare e addirittura pretendere una tutela relativa al singolo caso, affiancata a quella “di sistema”, che sempre dal caso prende le mosse per determinare l’eliminazione dal mondo giuridico della disposizione violativa di un canone fondamentale lesivo della persona.
Del resto, sarebbero poi gli attori dei due rimedi a dovere reciprocamente modulare il loro intervento, riducendosi in questo modo le possibilità di frizioni e scontri solchè si decida di svolgere con vicendevole con onestà intellettuale il proprio ruolo[25].
5.La tecnica di bilanciamento come strumento centrale per l’applicazione dei diritti fondamentali.
Il terzo profilo di riflessione attiene al rilievo progressivo che vanno assumendo le tecniche del bilanciamento dei diritti fondamentali. Tema sul quale già in passato abbiamo provato a riflettere[26]. Il sempre crescente ruolo giocato dai diritti fondamentali nel sistema ed i possibili conflitti che possono emergere fra tali diritti ha prepotentemente riportato l’attenzione sulla regola per risolvere tali conflitti, appunto rappresentata dal bilanciamento[27] fra diritti fondamentali sanciti da strumenti normativi – talvolta inseriti in sistemi giuridici distinti (ma pur sempre collegati)[28] –che richiama sempre, come metro fondamentale, i canoni dell’interpretazione adeguatrice del diritto[29] e della ragionevolezza[30].
Il punto è sempre stato quello di individuare il o i soggetti istituzionali ai quali spetta l’opera di bilanciamento interordinamentale fra i valori tutti reperibili nelle Carte dei diritti – che la stessa Costituzione riconosce come portatori di valori essi stessi costituzionali – per dirla con Antonio Ruggeri[31], dovendosi ritenere che se tale bilanciamento spetta in prima battuta al legislatore, ad esso si affianca, ineludibilmente, il ruolo del giudice, costituzionale[32] e non[33], al quale spetta il compito – duplice – di verificare che l’opera legislativa di bilanciamento sia conforme ai valori fondamentali anzidetti[34], ma anche di “interpretare” il diritto scritto e valutarne la conformità con i parametri della Costituzione della CEDU e della Carta dei diritti UE[35].
La sentenza n.20/2019, nell’esaminare le censure proposte con riguardo al parametro costituzionale si inscrive pienamente in questo contesto, ma la novità è che le tecniche di bilanciamento sono diventate ormai patrimonio della giurisdizione comune, come hanno di recente confermato le Sezioni unite della Corte di Cassazione.
In particolare, Cass., S.U. 21 dicembre 2018 n.33208, nel fare ricorso alla tecnica del bilanciamento fra i diritti fondamentali per fornire una soluzione giuridica ad una apparente lacuna del sistema – sulla scia di Cass., S.U. n. 24822/2015 – ha ricordato che “…con la tecnica del bilanciamento la Corte costituzionale (ma lo stesso procedimento logico è adottato dalla Corte EDU) costruisce una norma traendola dalla disposizione di legge”, aggiungendo che “Il giudice ordinario per compiere una interpretazione costituzionalmente orientata deve procedere allo stesso modo: esaminare una singola disposizione; individuare i beni in conflitto; compiere un giudizio di bilanciamento secondo i passaggi logici sopra indicati; infine, estrarre la norma dalla disposizione”.
In questo modo le Sezioni Unite hanno confermato la bontà di quanto già in passato sottolineato dalla stessa Corte nel ritenere che “...nelle controversie in cui configura una contrapposizione tra due diritti, aventi ciascuno di essi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti” il giudice è tenuto ad applicare “...il c.d. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta ed in considerazione dello specifico “thema decidendum” alla individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di una equilibrata comparazione tra diritti in gioco, volta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico”[36].
Ora, la sentenza n.20/2019 si incunea in questo ambito[37], ancorché il giudice remittente avesse dimostrato di non volere in alcun modo svolgere il ruolo che allo stesso competeva quale giudice comune del diritto UE sulla questione della proporzionalità delle misure interne rispetto ai diritti in gioco.
Il Tar Lazio, infatti, pur ben consapevole dell’incidenza sulla materia del diritto UE e della stessa disciplina in tema di protezione dei dati personali, come anche dell’esistenza di pronunzie della Corte di giustizia astrattamente idonee a fornire un ausilio importante rispetto alla pronunzia che era stata allo stesso sollecitata, ha deciso di rimettere la palla al giudice costituzionale nel convincimento di non potere arrivare ad una pronunzia di disapplicazione della normativa interna contrastante con il diritto UE, non rinvenendosi nella disciplina eurounitaria elementi tali da suggerirne l’immediata efficacia a ciò ostando la presenza di principi – di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in tema di trattamenti di dati personali – che non potrebbero essere maneggiati dal giudice comune nazionale[38].
Ed è su questa consapevolezza che il giudice costituzionale insiste molto, da un lato sottolineando di intervenire solo perché il giudice remittente aveva ritenuto di investirlo preferendo la Corte costituzionale rispetto alla Corte di Giustizia e dall’altro condividendo le ragioni di fondo di tale scelta.
Ora, rispetto all’opzione operata dal Tar laziale, peraltro antecedente all’emissione della sentenza n.269/2017, chi scrive condivide le perplessità già elegantemente espresse da chi ha commentato Corte cost.n.20/2019[39].
Certo, la soluzione espressa dal remittente è apparentemente in linea con quanto in passato riconosciuto dalla Corte costituzionale in tema di norme UE non dotate di efficacia diretta – v.Corte cost. n.207/2013, 75/2012, 28 e 227 del 2010, n.284/2007[40], n.170/1984, n.317/1996 e n.267/1999[41]–.
Ma il ragionamento espresso dal remittente risulta opaco laddove motiva le ragioni che, a suo dire dovrebbero deporre per l’inesistenza di una normativa non dotata di efficacia self executing, riconducendola alla circostanza che la Corte di giustizia avrebbe nel precedente ricordato, demandato ad un giudice nazionale il compito di verificare l’esistenza di proporzionalità fra i diritti contrapposti – esigenza priva di protezione dei dati personali ed esigenza pubblica di trasparenza –.
Non è dato, infatti comprendere le ragioni impeditive a che tale attività fosse svolta proprio dal giudice remittente in quanto giudice comune del diritto UE. L’avere delegato il compito alla Corte costituzionale sembra quindi essersi risolto in un’ammissione di non liquet su questione che involgeva pleno iure i poteri del giudice adito[42].
La questione è di certo delicata, invitando ancora a riflettere sulla formula “giudice comunitario di diritto comune”, spesso utilizzata dagli Avvocati generali della Corte di giustizia[43] per descrivere il ruolo del giudice nazionale. Formula che, secondo un certo indirizzo, non va intesa letteralmente, ma piuttosto in maniera simbolica, posto che quando il giudice nazionale si occupa del diritto comunitario, lo fa come organo di uno Stato membro[44] e non come organo comunitario in seguito a un'operazione di sdoppiamento funzionale[45].
Sembra però di potere osservare che, indipendentemente dalla questione teorica, il test di proporzionalità che la legislazione UE impone in materia di trattamento di dati personali non avrebbe consentito al giudice comune di sottrarsi al potere-dovere di applicare la normativa UE, eventualmente sperimentando il rinvio pregiudiziale innanzi al giudice di Lussemburgo che si era peraltro già espresso sulla natura self executing della disciplina UE nella quale, per stessa ammissione del remittente, era pienamente coinvolta la Carta dei diritti fondamentali. La giustificazione della scelta in favore della Corte costituzionale che il Tar laziale propone non risulta dunque appagante ed anzi risulta paradossale allorché, per giustificare l’intervento della Corte costituzionale, il remittente richiama la circostanza che la Corte di giustizia avesse demandato al giudice nazionale l’attività di bilanciamento in tema di dati personali, senza avvedersi che tale argomento avrebbe ben potuto giustificare l’intervento diretto dello stesso giudice comune o, quanto meno, rendere opportuno il rinvio pregiudiziale[46].
Certo, afferma Corte cost.n.20/2019, la sovrapponibilità delle fonti quanto alla tutela dei diritti contrapposti e la sicura loro riconducibilità “anche” a diritti di matrice costituzionale legittima la scelta del remittente di rivolgersi alla Consulta e la decisione che essa ha adottato sul piano interno. Ma non finisce di persuadere con riguardo all’aspetto sovranazionale della vicenda che, certo, resta assorbito dall’accoglimento parziale della questione di legittimità costituzionale e sostanzialmente depotenziato nel giudizio di merito.
6. I lati ancora oscuri di Corte cost.n.20/2019.
Eccoci all’ultima riflessione.
Si ha l’impressione che, al di là delle finalità più o meno espresse attraverso l’obiter contenuto nella sentenza n.269, l’atteggiamento intraprendente della Corte costituzionale sul tema del ruolo dei diritti fondamentali di matrice UE abbia in definitiva innescato un meccanismo che tenderebbe a rendere il sindacato di costituzionalità più amabile e più accessibile al giudice comune[47].
Si ha in altri termini l’impressione che la Corte costituzionale, ben consapevole della posta in gioco e forse memore del successo fin qui avuto dalla Corte di giustizia, voglia apparire proattiva ed aperta nei confronti del giudice comune, mostrando il volto di un “giudice” capace di ascoltare e valorizzare il suo interlocutore.
Gli effetti benefici di un simile atteggiamento sul possibile arricchimento delle tutele dei diritti fondamentali potrebbero, in effetti, non essere secondari.
Non si può tuttavia, chiudere l’analisi qui abbozzata senza evidenziare i due punti meno appaganti della sentenza che qui si è commentata, entrambi sottolineati dai primi acuti commentatori. Spicca, infatti, nell’argomentare della Corte costituzionale, l’idea che le pinze utilizzate per maneggiare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea possano essere utilizzate anche “oltre” la Carta, in modo da determinare quell’effetto di irraggiamento che dalla Carta dei diritti tenda ad estendersi sottotraccia al diritto UE attuativo dei diritti fondamentali. Un trend che, se portato alle estreme conseguenze, rischia di fare crollare l’intero edificio al cui interno sono cresciuti il diritto interno e quello di matrice UE. Tutto questo in un processo che finirebbe col trasformare l’eccezione espressa nell’obiter della sentenza n.269 in regola aurea. Con l’effetto di un accentramento della tutela delle posizioni giuridiche soggettive eurounitarie presso la sola Corte costituzionale. È infatti ben evidente che il riconoscimento della possibilità del rinvio pregiudiziale concessa graziosamente al giudice comune non elide di un millimetro il problema rappresentato da ciò che accadrà dopo che la Corte di giustizia abbia eventualmente riconosciuto che il parametro della Carta UE osta all’applicazione del diritto nazionale. Rimane infatti il nodo rappresentato dagli effetti che questa pronunzia resa in via pregiudiziale, eventualmente sollecitata dal giudice comune, potrà concretamente avere sul giudizio interno, domandandosi ancor oggi se il giudice comune potrà disapplicare la norma interna ovvero sarà tenuto a rivolgersi alla Corte costituzionale, depotenziando il ruolo della Corte di giustizia, con ipotizzabili vulnera al sistema dei rapporti fra diritto interno e diritto UE.
Le preoccupazioni, del resto, aumentano se si considera che la Corte costituzionale, almeno in un passaggio – p.2.3 della parte in diritto – sembra volere rivendicare a sé, attraverso il riconosciuto carattere sovrapponibile dei diritti protetti dalla Carta UE con quelli di rango costituzionale, un sindacato diretto ed accentrato sulla portata della Carta stessa, piegandola ad una lettura che essa stessa dovrebbe forgiare “in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”. Se a ciò si aggiunge l’irrisolto tema del divieto di applicazione diretta della Carta UE che sarebbe fatto al giudice comune non ci si può non accorgere che la strada per una stabilizzazione dei rapporti fra le Corti richiede ancora del tempo.
La preoccupazione che tale sistema tenda verso una pericolosa decentralizzazione della portata della Carta dei diritti fondamentali UE, facendo perderne la vocazione europeista ed invece riducendola ad un rango interno capace di piegarsi – almeno in astratto - a ragioni sovraniste che priverebbero, appunto, l’Europa ed i suoi cittadini di uno strumento invece decisivo per riaffermare l’importanza dell’Unione, rimane assolutamente forte [48].
Insomma, la sentenza n.20/2019 non ha fugato affatto l’idea che dietro l’obiter della 269, pur ammorbidito dalla sentenza n.20/2019, vi sia comunque ciò che ha detto Bronzini e cioè “il tentativo di ingessatura dei giudici comuni appare ancor più inopportuno e certamente non necessario in un momento storico in cui la Carta viene rilanciata dalla Corte di giustizia come “principio speranza” per ritrovare l’“anima perduta” del progetto europeo”.
Sarà il dialogo dentro e fuori le Corti a farci capire in che misura questo pericolo potrà essere fugato.
[1] R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto UE, intervento svolto al convegno tenuto a Catania il 31 marzo e 1 aprile 2017 sul tema Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, ora in Le trasformazioni istituzionali a sessant'anni dai Trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino, 2017, 75 ss.
[2] P. Barile, Il cammino comunitario della Corte, in Giur. cost.,1973, 2406.
[3] Sul ruolo del rinvio pregiudiziale v. R. Romboli, Corte di giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, Rivista AIC, n°: 3/2014, 12 settembre 2014, 5. In generale, sul rinvio pregiudiziale è indispensabile il rinvio al saggio monografico di E. D’Alessandro, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2013.
[4] In termini generali sul ruolo del giudice nazionale in sede di proposizione del rinvio pregiudiziale e nella fase successiva v. P. Biavati, Diritto processuale dell’Unione europea, Milano, 2015, 428; v., volendo, anche R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/23_ottobre_relazione_Conti.pdf.
[5]Si rinvia a R. Conti, Test di costituzionalità e direttive non self executing: un dialogo ancora aperto con la Granital, in Corr.giur., 2007, 12, 1665.
[6] cfr. Corte giust., 8 novembre 1990, causa C-231/89, Gmurzynska, punto 20; Corte giust.16 luglio 1992, C-343/90, Dias,16. Più di recente, Corte giust., 16 giugno 2015, causa C-62/14, p. 25.
[7] V. A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Rivista AIC, www.rivistaaic.it, 4/2017; M. Cartabia, La Carta di Nizza, i suoi giudici e l’isolamento della Corte costituzionale italiana, in A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri (a cura di), Riflessi della Carta europea dei diritti sulla giustizia e la giurisprudenza costituzionale: Italia e Spagna a confronto, Milano, 2003, p. 201 ss.; id., Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Rivista AIC, in www.rivistaaic.it, 3/2017.
[8] R. Conti, La Cassazione dopo Corte cost. n. 269/2017. Qualche riflessione, a seconda lettura, in www.forumcostituzionale.,it; id., Qualche riflessione, a terza lettura, sulla sentenza n. 269/2017, in www.diritticomparati.it, 1/2018, 16 febbraio 2018; An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è ‘in gioco’ la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Efficacia ed effettività, (a cura di) O. Pollicino e V. Piccone, Napoli, 2018, 83.
[9] In questa direzione particolare plauso va rivolto al convegno organizzato dalla formazione decentrata della Scuola della magistratura svolta nei giorni 8/9 marzo 2018 presso la Corte di Cassazione sul tema “Giudici nazionali quali giudici naturali del diritto dell’Unione europea”, al quale è seguita la pubblicazione, curata dagli organizzatori del convegno - O. Pollicino e V. Piccone - , La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Efficacia ed effettività, Napoli, cit., al cui interno sono reperibili importanti contributi sul tema.
[10] A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), in Consultaonline, 23 febbraio 2019, 113.
[11] A. Ruggeri; Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in www.diritticomparati.it; id., Ancora in tema di congiunte violazioni della Costituzione e del diritto dell’Unione, dal punto di vista della Corte di giustizia (Prima Sez., 20 dicembre 2017, Global Starnet), in www.diritticomparati.it; id., Corte di giustizia e Corte costituzionale alla ricerca di un nuovo, seppur precario, equilibrio: i punti (relativamente) fermi, le questioni aperte e due proposte per un ragionevole compromesso, Relazione interno e ordinamento dell’Unione europea?, a cura di R. Mastroianni, Napoli, 29 gennaio 2018, in corso di stampa in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies (www.fsjeurostudies.eu); id, Una prima, cauta ed interlocutoria risposta della Cassazione a Corte cost. n. 269 del 2017 (a prima lettura di Cass., II sez. civ., 16 febbraio 2018, 3831-18, Bolognesi c. Consob), in Consulta OnLine; L. Salvato, Quattro interrogativi preliminari al dibattito aperto dalla sentenza n. 269 del 2017, in www.forumcostituzionale.it; F. Ferrari, Quando confliggono diritto interno e diritto Ue: una sentenza della Corte, in www.laCostituzione.info; G. Pistorio, Conferme e precisazioni nel «cammino comunitario» della Corte costituzionale. Commento a prima lettura della sentenza n. 269 del 2017, in www.diritticomparati.it; C. Caruso, La Corte costituzionale riprende il “cammino comunitario”: invito alla discussione sulla sentenza n. 269/2017, in www.forumcostituzionale.it, A. Guazzarotti, Un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale? In margine alla sent. n. 269/2017, in www.forumcostituzionale.it; G. Scaccia L'inversione della "doppia pregiudiziale" nella sentenza della Corte costituzionale n. 269/2017: presupposti teorici e problemi applicativi, in www.forumcostituzionale.it; D. Tega, La sentenza n. 269 del 2017 e il concorso dei rimedi giurisdizionali costituzionali ed europei, in www.forumcostituzionale.it; F. S. Marini, I diritti europei e il rapporto tra le Corti: le novità della sentenza n. 269 del 2017, in www.federalismi.it, 4/2018, 14 febbraio 2018.; L.S. Rossi, Il “triangolo giurisdizionale” e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della corte costituzionale italiana, in www.federalismi.it; C. Schepisi, La Corte costituzionale e il dopo Taricco. Un altro colpo al primato e all’efficacia diretta?, in www.dirittounioneeuropea.eu; Cozzi A.O., Diretta applicabilità e sindacato accentrato di costituzionalità relativo alla violazione della Carta europea dei diritti fondamentali, in www.forumcostituzionale.it; A. Anzon Demmig, La Corte riprende il proprio ruolo nella garanzia dei diritti costituzionali e fa un altro passo avanti a tutela dei “controlimiti”; E. Scoditti, Giudice costituzionale e giudice comune di fronte alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo la sentenza costituzionale n. 269 del 2017, in Foro it., Febbraio 2018; Tega D., Il seguito in Cassazione della pronuncia della Corte costituzionale n. 269 del 2017: prove pratiche di applicazione, in www.questionegiustizia.it.; R. Di Marco, The “Path Towards European Integration” of the Italian Constitutional Court: The Primacy of EU Law in the Light of the Judgment No. 269/17, in https://europeanpapers.us13.list-manage.com/track/click?u=5d1c2b7dbb35c6a2c905bc1b6&id=c16af2d7a9&e=05081762d2; AA.VV., La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Efficacia ed effettività, a cura di V. Piccone e O. Pollicino, cit..
[12] V, anche per l’indicazione delle diverse pronunzie della Cassazione successive all’obiter, G. Bronzini, La Corte costituzionale mette sotto tutela i Giudici ordinari nell’applicazione diretta dei diritti della Carta di Nizza. Le linee di tensione con l’orientamento della Corte di giustizia, in Riv. Giur. Lav., n. 2/2018; A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in www.osservatoriosullefonti.it, 3/2018. Da ultimo, v., anche Cass.n.2964/2019, commentata da chi scrive in R. Conti, Il contenzioso sul risarcimento dello Stato alle vittime di reato:Cass.n.2964/2019 alla ricerca dell’eguaglianza europea, in Diritticomparati, 1/2019, 19.2.2019.
[13] L. S. Rossi, La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in www.federalismi.it, 3/2018, 31 gennaio 2018; id., Il “triangolo giurisdizionale” e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della corte costituzionale italiana, in www.federalismi.it, 5. Sono proprio l’attenzione immediatamente riservata dalla Rossi, che è giudice alla Corte di giustizia, al tema qui riesaminato ed i contributi di pensiero dalla stessa offerti a rappresentare la migliore dimostrazione circa la proficuità di un dialogo, anche a distanza, fra i diversi plessi decisionali su temi che toccano il cuore dei sistemi di protezione dei diritti delle persone.
[14] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Questionegiustiziaonline, 30 gennaio 2019.
[15] Cfr. G. Scaccia, L’inversione della “doppia pregiudiziale” nella sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017: presupposti teorici e problemi applicativi, in Quaderni costituzionali, 25 gennaio 2018, 1.
[16] V. sul punto, testualmente, Cass. n.3831/2018: “Nella prospettiva delineata dalla sentenza Corte Cost. n. 269/2017 il Collegio ritiene quindi di risolvere la segnalata doppia pregiudizialità privilegiando, in prima battuta, l'incidente di costituzionalità e di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 187 quinquiesdecis T.U.F. - nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l'esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate - con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all'art. 47 CDFUE”.
[17] R. Conti, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è ‘in gioco’ la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, cit., 117, sub nota 55, ove pure si richiama Corte cost.n.85/2002, confutandone la rilevanza attuale rispetto al tema qui in discussione.
[18] Il giudice remittente, in altri termini, adotterebbe un provvedimento anfibio, rivolto a sospendere la decisione del giudizio per una doppia ragione che rende contemporaneamente esperibili i due rimedi. Per un verso, il giudice comune, muovendosi sulla rime previste dall’art. 23 c.2 l.n.87/1953- a cui tenore “L’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso”- rivolgerebbe i suoi dubbi alla Corte costituzionale rispetto al parametro Carta Ue - nell’accezione peraltro lata che sembra emergere dalla lettura di Corte cost.n.20/2018 - cfr., sul punto A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), cit., e G. Bronzini, La sentenza n. 20 del 2019 della corte costituzionale italiana. verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, in Questionegiustiziaonline, 4 marzo 2019 – . Per altro verso e contemporaneamente, il giudice comune potrebbe rivolgere un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ove ravvisasse dubbi interpretativi in ordine alla portata del parametro, sospendendo a suo volta il giudizio in relazione all’art.3 comma 1, l.n.204/1958, secondo il quale il giudice pronuncia “ordinanza con la quale, riferiti i termini e i motivi dell’istanza, con cui fu sollevata la questione” dispone la immediata trasmissione degli atti alla Corte di giustizia e sospende il giudizio in corso”. Il giudice remittente, ove la Corte costituzionale dovesse pronunziarsi riconoscendo l’illegittimità costituzionale, potrebbe ritirare la questione pregiudiziale ritenendola irrilevante in relazione all’esito del giudizio costituzionale, permanendo, per converso, l’interesse alla decisione in caso di esito sfavorevole- in punto di incostituzionalità, si intende-. Ciò consentirebbe un effetto benefico in piena linea con le esigenze di ragionevole durata del processo. Se, per converso, dovesse intervenire una risposta della Corte di giustizia in epoca antecedente al giudizio di costituzionalità, il giudice comune dovrebbe comunque attendere l’esito del giudizio costituzionale, rimanendo sospeso il giudizio fino a quella data. Salvo poi a dovere affrontare il nodo degli effetti della pronunzia pregiudiziale e degli effetti vincolanti dalla stessa derivanti sul giudice comune.
[19] Sullo stesso tema, esaminato in un contesto diverso e anteriore alla sentenza n.269/2017, v., diffusamente, R.Romboli, Corte di giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, Rivista AIC, n° 3/2014, 12 settembre 2014, 6. V. altresì, F. sorrentino, È veramente inammissibile il “doppio rinvio”?, Giur. Cost., 2002,782. Cfr., ancora, sul tema della doppia pregiudizialità, A. Ruggeri, (A proposito dell’ordine giusto col quale vanno esaminate le questioni di costituzionalità e le questioni di “comunitarietà” con-giuntamente proposte in via d’azione (a prima lettura di Corte cost. n. 245 del 2013), in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, Torino, 2014, XVII, 363 ss.
[20] V., in termini, D. Dittert, Art.267 TFUE, Commento, in Codice dell’Unione europea, diretto da C. Curti Gialdino, Napoli, 2012, 1944.
[21] A. Ruggeri, Ancora in tema di congiunte violazioni della Costituzione e del diritto dell’Unione, dal punto di vista della Corte di giustizia (Prima Sez., 20 dicembre 2017, Global Starnet), in www.diritticomparati.it, 1/2018, 9 gennaio 2018.
[22] V. nota 8.
[23] È fin troppo agevole rilevare l’utilità della decisione della Corte di giustizia in pendenza del giudizio di costituzionalità per le sorti stesse del detto procedimento, fermo restando che l’intervento caducatorio della Corte costituzionale farebbe venire meno l’interesse alla decisione del rinvio pregiudiziale- Corte giust.16 luglio 1992, C-343/90, Dias, p.18-. Rimane da comprendere gli effetti che si potrebbero verificare nel caso in cui la Corte costituzionale si pronunci per prima nel senso del rigetto e la Corte UE precedentemente investita lasci intendere la violazione della Carta UE, ponendosi la questione, sottolineata da A. Ruggeri – da ultimo in La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), cit., 119 –dell’immediata efficacia di quella decisione ovvero di un nuovo incidente di costituzionalità rivolto alla Corte costituzionale che si è però già pronunziata negativamente. Generalmente ci si troverà di fronte a diritti comprimibili, talaltra a diritti assoluti, rispetto ai quali si sfruttano tecniche interpretative dietro alle quali si celano, ancora una volta, operazioni di bilanciamento: cfr. A. Tancredi, La tutela dei diritti fondamentali «assoluti» in Europa: «It’s all balacing», in Ragion pratica, 2007, 383 ss.; id., L’emersione dei diritti fondamentali «assoluti» nella giurisprudenza comunitaria, cit., 692. Sul tema del bilanciamento v. R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino, 1996, 142 ss.; A. Cerri, Il «principio» come fattore di orientamento interpretativo e come valore «privilegiato»:spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur.cost., 1987,1860 ss.; D. U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano,1998, 11 ss.; A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Ann., II, t. 2 (2008), p. 198 ss.
[24] A. Ruggeri, Dopo Taricco: identità costituzionale e primato della costituzione o della Corte costituzionale? In http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2019/02/Ruggeri-Dopo-Taricco-pdf.pdf, pag.4.
[25] V. i rilievi, a giudizio di chi scrive superabili, rispetto a quanto prospettato nel testo da A. Rovagnati, Nuove scelte giurisprudenziali in tema di doppia pregiudizialità( comunitaria e costituzionale)?, in Quaderni costituzionali, 2009, 717.
[26] R. Conti, La convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice., Roma, 2011, 248 ss.
[27] R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, 1993, 381 ss.
[28] Generalmente ci si troverà di fronte a diritti comprimibili, talaltra a diritti assoluti, rispetto ai quali si sfruttano tecniche interpretative dietro alle quali si celano, ancora una volta, operazioni di bilanciamento: cfr. A. Tancredi, La tutela dei diritti fondamentali «assoluti» in Europa: «It’s all balacing», in Ragion pratica, 2007, 383 ss.; id., L’emersione dei diritti fondamentali «assoluti» nella giurisprudenza comunitaria, cit., 692. Sul tema del bilanciamento v. R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino, 1996, 142 ss.; A. Cerri, Il «principio» come fattore di orientamento interpretativo e come valore «privilegiato»:spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur.cost., 1987,1860 ss.; D. U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano,1998, 11 ss.; A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Ann., II, t. 2 (2008), p. 198 ss.
[29] In termini critici, sul punto, v. R. Guastini, Principi di diritto e discrezionalità giudiziale, in Interpretazione e diritto giudiziale. Regole, modelli, metodi, a cura di M. Bessone, Torino, 1999, 321 ss.
[30] Cfr., Cass. n. 19069/2006 che, nell’esaminare la vicenda collegata all’azione proposta da un genitore per l’indebita pubblicazione della fotografia del figlio minore, edita senza il consenso, ha riconosciuto alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dalla L. 27 maggio 1991, n. 176 ed ai diritti in essa sanciti dagli artt.3 e 16 un valore preminente, aggiungendo che il diritto alla riservatezza del minore deve essere “…nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy) considerato assolutamente preminente, secondo le indicazioni derivanti dalle norme ora richiamate[la Convenzione surricordata n.d.r.], laddove si riscontri che non vi sia l'utilità sociale della notizia (quindi con l'unico limite del pubblico interesse).”
[31] A. Ruggeri, Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti XVI. Studi dell’anno 2012, Torino, 2013, 352.
[32] A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), cit.
[33] A. Ruggeri, Il diritto “vecchio” e i modi del suo possibile svecchiamento, al servizio dei diritti fondamentali, in Itinerari, cit., 57, individua nei giudici comuni giudici “i soggetti più adatti alla messa in atto di quelle operazioni di bilanciamento in concreto che, in modi continuamente cangianti, sono sollecitate dai casi.”; id., Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, ibidem, 127: “Dal canto loro, i giudici comuni in modo sempre più marcato e vistoso partecipano ad operazioni di bilanciamento (anche interordinamentale!) secondo valore, operazioni in nuce di “giustizia costituzionale”, pur se con la consueta limitazione legata al carattere circoscritto degli effetti della loro azione.”
[34] Un ottimo esempio di quanto si è detto nel testo è dato dalla recente Cass. 3 ottobre 2008 n. 19, ove si è affermato, a proposito della norma che aggancia l’indennizzo espropriativi alla denunzia I.C.I., che “…La norma di aggancio limitativo dell'indennizzo espropriativo di area fabbricabile al valore alla stessa attribuito nell'ultima dichiarazione ai fini di applicazione dell'I.C.I. …va letta, infatti, alla luce del necessario equo bilanciamento tra gli opposti valori costituzionali, che in essa vengono in gioco, rappresentati, per un verso, dal dovere dì concorrere alla spesa pubblica (sub art. 53 Cost.) e, per altro verso, del diritto del proprietario al giusto indennizzo dell'immobile espropriatogli (di cui all'art. 42 Cost.).” Ed in quest’attività cui il giudice è tenuto la Cassazione ha espressamente escluso che l’obiettivo perseguito dalla normativa anzidetta-- incentivare fedeli dichiarazioni per l'imposta in questione e realizzare una tendenziale armonizzazione dei valori delle aree fabbricabili ai fini tributari ed a quelli espropriativi - non poteva attuarsi “in forma sbilanciata, con penalizzazione del diritto indennitario in caso di omessa o non fedele dichiarazione I.C.I..”
[35] Cfr.V. Zagrebelsky, La prevista adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in www.europeanrights.eu: “…E in ogni caso mi pare si debba considerare che in un sistema di diritti dell’uomo come quello europeo, sofisticato e ricco di diritti riconosciuti, il conflitto giurisprudenziale può facilmente sorgere quando più diritti si pongano in contrasto o concorrenza, senza che l’uno possa essere completamente sacrificato all’altro e con la necessità quindi di procedere a valutazioni di bilanciamento e proporzione.”
[36] Cfr.Cass. 5 agosto 2010 n.18279. La Cassazione ha in tale contesto ricordato che il giudice di merito deve “... effettuare in caso di contrapposizione di diritti una comparazione tra gli stessi al fine di trovare un giusto equilibrio tra le posizioni delle parti in lite”.
[37]O. Pollicino, Metaphors and identity based narrative i constitutional adjiudication: when judicial dominance matters, in https://verfassungsblog.de/not-to-be-pushed-aside-the-italian-constitutional-court-and-the-european-court-of-justice/?fbclid=IwAR0-32UymOIxF7PvUEcc6arxMJPO3kR0kNLxa5fpcoNojiM0pzyoert-Fdk
[38] Vale la pena di riportare testualmente il passo del giudice remittente: “Né pare che la norma contestata dai ricorrenti sia suscettibile di essere disapplicata per contrasto con normative comunitarie, posto che, alla luce di tutti gli elementi emergenti dal fascicolo di causa, non è individuabile una disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio. Sul punto, infatti, occorre concordare con la difesa erariale quando segnala che i principi di proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza di fonte comunitaria invocati dalla parte ricorrente non sono che criteri in base ai quali effettuare una ponderazione della conformità dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, operazione che sconta i differenti caratteri e la diversa portata dell'interesse pubblico generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato. La sorte del ricorso non può, pertanto, che essere affidata alla disamina delle questioni pregiudiziali sollevate dai ricorrenti da parte della Corte di Giustizia dell'Unione europea o della Corte Costituzionale. 18. Nell’ambito dei predetti rimedi, il Collegio propende per la remissione alla Corte Costituzionale dello scrutinio inerente la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità relativa all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali. Ciò in quanto, come visto, nell’ambito di siffatto scrutinio, inerente il rispetto da parte della misura dei principi di proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza di matrice comunitaria, indispensabile ai fini della tutela di diritti fondamentali della persona, un ruolo centrale è assunto dalla questione inerente se uno specifico ordinamento nazionale preservi il necessario equilibrio nel rapporto tra protezione dei dati personali e esigenze di trasparenza, calibrando anche in ragione dei primi l’intensità dell’interesse pubblico da assicurare mediante la divulgazione di dati personali. E un tale giudizio appare proprio di una Corte nazionale. Del resto, la conclusione è rafforzata dalla già citata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 20 maggio 2003, che, nella analoga fattispecie sottoposta al suo giudizio, ha rimesso tale valutazione al giudice a quo. 19. In punto di rilevanza della proponenda questione di legittimità costituzionale, il Collegio ribadisce che gli atti impugnati con l’odierno ricorso costituiscono diretta applicazione della norma sospetta di contrasto con la Costituzione. Pertanto, discendendo la paventata violazione della sfera soggettiva dei ricorrenti direttamente dalla norma stessa, solo dalla dichiarazione della sua illegittimità costituzionale potrebbe derivare il richiesto accoglimento del ricorso per illegittimità derivata degli atti impugnati”.
[39] A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), cit., 114, e O. Pollicino, F. Resta, Trasparenza amministrativa e riservatezza, verso nuovi equilibri: la sentenza della Corre costituzionale, in Agenda Digitale, 24.2.2019;
[40] V., sulla sentenza indicata nel testo, i già ricordati commenti di A Ruggeri, O. Pollicino, F. Resta e G. Bronzini.
[41]V. R. Mastroianni, Le norme comunitarie non direttamente efficaci costituiscono parametro di costituzionalità delle leggi? in Giur. Cost., 2006, p. 3520. In precedenza, v. pure R. Mastroianni, Riforma del sistema radiotelevisivo italiano e diritto europeo, Torino, 2004, 4 ss. e, successivamente, A. Pace, La sentenza Granital, ventitré anni dopo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it
[42] V., infatti, Corte cost.n.111/2017, ove si chiarisce che “Il giudice rimettente, ritenendo che la normativa censurata contrasti con l’art. 157 del TFUE, anche alla luce della citata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto a tale norma efficacia diretta, avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione e, quindi, dirimere eventuali residui dubbi in ordine all’esistenza del conflitto (sentenze n. 226 del 2014, n. 267 del 2013, n. 86 e n. 75 del 2012, n. 227 e n. 28 del 2010, n. 284 del 2007; ordinanze n. 48 del 2017 e n. 207 del 2013). Questo percorso, una volta imboccato, avrebbe reso superflua l’evocazione del contrasto con i parametri costituzionali in sede di incidente di legittimità costituzionale. L’art. 157 del TFUE, direttamente applicabile dal giudice nazionale, lo vincola all’osservanza del diritto europeo, rendendo inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò, irrilevanti tutte le questioni sollevate. La non applicazione delle disposizioni di diritto interno, non equiparabile in alcun modo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità delle stesse (sentenza n. 389 del 1989), rientra, in effetti, tra gli obblighi del giudice nazionale, vincolato all’osservanza del diritto dell’Unione europea e alla garanzia dei diritti che lo stesso ha generato, con il solo limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona»
[43] Concl. Avv. gen. Saggio presentate il 16 dicembre 1999, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial SA e Salvat Editores SA.
[44] Corte giust. 1° dicembre 1965, n. C-16/65, Schwarze; Corte giust. 9 marzo 1978, n. C-106/77, Simmenthal, Racc., 629, p. 16.
[45] Concl. Avv. gen. Leger 8 aprile 2003 a Corte giust. n. C-224/01, Köbler.
[46] Si veda, a riprova del ruolo svolto dal giudice nazionale in tema di bilanciamento, a mero titolo esemplificativo, Corte giust. (Grande Sezione) 29 gennaio 2008, causa C-275/06, Productores de Música de España (Promusicae), ove si è ricordato che il diritto fondamentale di proprietà, di cui fanno parte i diritti di proprietà intellettuale, come il diritto d’autore e il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva costituiscono principi generali del diritto comunitario. Ma rispetto alla controversia esaminata, assumeva pari rilevanza un altro diritto, parimenti fondamentale, che garantisce la tutela dei dati personali e, quindi, della vita privata. In questa prospettiva, chiarisce la Corte, la domanda pregiudiziale solleva “la questione della necessaria conciliazione degli obblighi connessi alla tutela di diversi interessi fondamentali: da una parte, il diritto al rispetto della vita privata e, dall’altra, i diritti alla tutela della proprietà e ad un ricorso effettivo.” E se i meccanismi che consentono di trovare un giusto equilibrio tra questi diversi diritti e interessi sono già stati presi in qualche considerazione dalle direttive di settore, lasciando agli Stati membri il necessario margine di discrezionalità per definire misure di recepimento che possano essere adattate alle diverse situazioni possibili , la Corte ha chiarito che “gli Stati membri sono tenuti, in occasione della trasposizione delle suddette direttive, a fondarsi su un’interpretazione di queste ultime tale da garantire un giusto equilibrio tra i diversi diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario” pure aggiungendo che “in sede di attuazione delle misure di trasposizione delle dette direttive, le autorità e i giudici degli Stati membri (corsivo aggiunto, n.d.r.) devono non solo interpretare il loro diritto nazionale in modo conforme a tali direttive, ma anche evitare di fondarsi su un’interpretazione di esse che entri in conflitto con i detti diritti fondamentali o con gli altri principi generali del diritto comunitario, come il principio di proporzionalità.”
[47] V. A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2019, 258.
[48] Il punto è ben messo in evidenza da G. Bronzini, La sentenza n. 20 del 2019 della corte costituzionale italiana. verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, cit.
Dopo "Taricco" la Consulta non sta (più) a guardare: bonifica il sistema della prevenzione e ridefinisce i rapporti con le Corti. (commento alle sentenze Corte Cost. nn. 24 e 25 del 27 febbraio 2019) di Andrea Apollonio
Con le sentenze "gemelle" nn. 24 e 25, la Corte Costituzionale, dopo la netta - ed ulteriore - presa di posizione della Corte di Strasburgo in punto di determinatezza e "prevedibilità" delle misure di prevenzione, ed il "sorpasso" delle Sezioni Unite - che, facendo leva proprio su questa pronuncia, hanno affermato un principio sostanzialmente abrogativo dell'art. 75, co. 2, d.lgs. 159/2011 rispetto alle generiche ipotesi del "vivere onestamente" e "rispettare le leggi" - passa al contrattacco: ratifica senza più indugi le elaborazioni garantistiche di Strasburgo e si ritaglia il ruolo di principale cinghia di trasmissione dei principi sovranazionali nel diritto interno.
Sommario: 1. Correva l'anno 2016: il "caso Taricco" - 2. La sentenza De Tommaso e il revirement della Consulta - 3. La bonifica del sistema della prevenzione ad opera dei giudici costituzionali - 4. Un inedito interventismo che riconfigura i rapporti tra le Corti: linee programmatiche per il futuro
1. Correva l'anno 2016: il "caso Taricco"
Per capire tutte le sfumature delle dirompenti novità sistematiche contenute nelle sentenze Corte Cost. nn. 24 e 25 del 27 febbraio 2019, è necessario fare qualche passo indietro. Il 9 maggio 2016, su una nota rivista, Francesco Viganò scriveva: «tutt'altro che trascurabili sarebbero, in un momento di acuta crisi del progetto politico europeo, i costi di una decisione con la quale la Corte costituzionale italiana - prima fra tutte quelle degli Stati fondatori dell'Unione - dovesse sfidare così apertamente il principio del primato del diritto UE, sul quale si è finora retta la costruzione giuridica europea»[1]. Ci si riferiva alla febbrile attesa per la decisione della Consulta sul "caso Taricco", sollevato dalla Corte di Giustizia nel settembre 2015: in Lussemburgo si erano infatti individuate ipotesi di frodi tributarie che, stante il rischio di lesione degli interessi finanziari dell'UE, importavano l' obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina interna in materia di atti interruttivi della prescrizione[2]. Una presa di posizione talmente tranchante da apparire, ad alcuni commentatori[3], un inaccettabile travaso (senza filtro) della giurisprudenza comunitaria ("creativa") nell'ambito del diritto interno, donde all'epoca molti si aspettavano che la Corte Costituzionale, tirata per la giacca da giudici disorientati - come dalla stessa Cassazione[4] - avrebbe azionato un "controlimite": quello rappresentato dall'irrinunciabile principio di legalità in materia penale di cui all'art. 25, co. 2, Cost. Sarebbe stata la prima volta nella storia della Corte Costituzionale, e ciò avrebbe innescato un corto circuito orizzontale tra Corti, senza precedenti.
Sappiamo poi com'è andata a finire: i giudici italiani hanno preferito percorrere una via "diplomatica", chiedendo - con una ordinanza interlocutoria - alla Corte di Giustizia di avallare una lettura costituzionalmente conforme della sentenza Taricco, ottenendo in risposta una modesta retromarcia[5]; l' "incidente" è stato definitivamente chiuso con la sentenza n. 115 del 2018, in cui la Corte ribadisce la non fruibilità nel nostro ordinamento della "regola Taricco".
La struttura funzionale e assiologica della legalità inter-nazionale è così rimasta immutata; ma la vicenda ha certamente segnato un punto di non ritorno delle politiche interpretative della Corte Costituzionale (e le sentenze in commento, come si vedrà, ne sono il fulgido esempio); penetrando invero anche più in profondità, arrivando ad un ripensamento dei concetti da parte di giudici e studiosi, giacché ha messo in rilievo un intreccio talmente fitto di rapporti, di impunture, tra Corti sovranazionali e giudici interni da potere questi ultimi - al limite - scavalcare, o quantomeno eludere, lo scrutinio di legittimità della Corte Costituzionale: il «giudice nel labirinto»[6] potrebbe - al limite - direttamente disporre di una potestà "disapplicativa" che gli deriva da una fonte sovranazionale, anche in materia penale.
Rievocare la vicenda, solo apparentemente diversa, è stato necessario: non si riuscirebbe altrimenti a spiegare una presa di posizione così netta da parte della Corte, espressa con due sentenze una delle quali (quella principale, che traina l'altra) vergata proprio da quel Viganò (frattanto nominato giudice costituzionale) che da autorevole esponente della dottrina aveva auspicato - nell'articolo sopra richiamato, come in molti altri - una maggior audacia della Consulta nell'integrale accoglimento dei più avanzati livelli di tutela sovranazionale.
La Corte, con queste pronunce, ha peraltro bonificato una materia - quella delle misure di prevenzione - in cui il rischio di scavalcamento delle prerogative della Consulta sembra essersi concretizzato: basti ricordare, intanto, che le Sezioni Unite, con la sentenza Paternò del 2017[7], avevano dichiarato inapplicabile il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui all'art. 75, co. 2, d.lgs. 159/2011 rispetto all'ipotesi delle violazioni delle generiche prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi"; ipotesi già censurate dalla nota sentenza De Tommaso della Corte EDU, in quanto, appunto, indeterminate: ritenendo quindi vincolanti i principi affermati a Strasburgo. Correggendo l'antinomia tra diritto interno e diritto convenzionale mediante l'interpretazione conforme - spinta però al massimo grado - ebbe ad effettuare un vero e proprio "sorpasso": o perlomeno, a lanciare un chiaro messaggio di "supplenza" alla Corte Costituzionale: la quale, con queste sentenze, adeguatamente risponde.
2. La sentenza De Tommaso e il revirement della Consulta
Se è vero che le sentenze in commento giungono a rappresentare il pendant della pronuncia della Grande Camera della Corte Edu, De Tommaso c. Italia, pubblicata il 23 febbraio 2017[8], non può prescindersi dal richiamare i principi ivi elaborati.
Invero, quella sentenza si era occupata solo delle misure di prevenzione personali (e in particolare della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno), ma da un lato non può ignorarsi che queste abbiano gli stessi presupposti di quelle patrimoniali, e dall'altro non può negarsi che i giudici di Strasburgo abbiano seguito un percorso logico-argomentativo che scandaglia i principi generali sui quali si fonda l'intero sistema della prevenzione.
La questione angolare è che un provvedimento di prevenzione, a prescindere dalla natura penale o amministrativa di cui partecipa[9], se importa una qualsivoglia limitazione dei diritti fondamentali - e l'obbligo di soggiorno importa, se non altro, una limitazione della libertà di circolazione, consacrata nell'art. 2 del prot. addiz. n. 4 della Convenzione EDU - deve avere una base legale (come ce le hanno le misure di prevenzione, previste ex lege) che sia però accessibile e prevedibile; e con riferimento a quest'ultimo requisito, la Corte, in linea con i suoi precedenti, afferma: «una norma non può essere considerata una legge se non è formulata con sufficiente precisione in modo di consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado di prevedere, ad un livello ragionevole nelle specifiche circostanze, le conseguenze che un determinato atto può comportare» [10]. La Corte ritiene non garantito tale aspetto sotto il profilo della tecnica di determinazione dei destinatari e del contenuto delle prescrizioni imposte con la misura (il "vivere onestamente" e il "rispettare le leggi"), in questo senso censurando la norma italiana applicata nel caso concreto[11].
Inutile dilungarsi ancora - perché, in fondo, i giudici di Strasburgo non hanno fatto altro che seguire i propri costanti orientamenti: basti sapere che è questo il principio-guida tenuto in considerazione dai giudici della Consulta, che con l'odierno posterius hanno radicalmente riveduto il loro approccio al tema della prevenzione.
Perché - ed è bene ribadirlo - fin qui la Corte aveva sempre "salvato" l'impianto di quella che prima era la legge n. 1423/1956, poi nella sostanza trasfuso - mantenendo previsioni obsolete che scontano finanche un linguaggio ormai superato - nel c.d. "codice antimafia" (d.lgs. n. 159/2011), con tutta una serie di sentenze interpretative di rigetto, in cui si collegavano le prescrizioni genericissime come il "vivere onestamente" ad altri elementi normativi contigui, siccome «per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce» (questo è, ad es., il principio espresso da Corte Cost., sent. del 23 luglio 2010 n. 282); così attirandosi - fino a ieri l'altro - le doglianze della dottrina in ordine alla scarsa propensione all'adeguamento del diritto nazionale ai principi convenzionali[12].
Assistiamo oggi, dunque, ad un brusco cambio di rotta, che in termini eziologici deve molto allo scontro frontale tra Corti - durato, a conti fatti, un paio d'anni - del caso Taricco; evitato per un soffio, ma durante il quale sono scaturiti una congerie di micro-conflitti interni, sotterranei, a bassa intensità, tra i giudici interni e il "loro" Giudice delle Leggi, spesso tacciato - fino a ieri l'altro - di scarso coraggio nel prendere di petto le vertiginose problematiche sollevate in Europa.
3. La bonifica del sistema della prevenzione ad opera dei giudici costituzionali
Un cambio di rotta di cui sopratutto la sentenza n. 24 (quella appunto redatta dal giudice Viganò) si rende protagonista. Essa verte sulle previsioni - dichiarate anche a Roma, in linea con quanto affermato a Strasburgo, di carattere "non penale" - di cui alle lettere a) e b) dell'art. 1, d.lgs. 159/2011, che prevedono per "coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi" (lett. a), e per "coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi , sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose" (lett. b), l'applicazione - da un lato - della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, e - dall'altro - delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
La Corte passa anzitutto in rassegna gli sforzi della giurisprudenza di legittimità, verificando se essa sia riuscita nell'intento di conferire alle suddette fattispecie, per via esegetica, un sufficiente livello di precisione, determinatezza e prevedibilità così come richiesti da parametri costituzionali (si fa riferimento all'art. 13 Cost. in tema di libertà personale, ritenuto un più affidabile equivalente "interno" all'art. 2, prot. n. 4 CEDU) e, appunto, convenzionali, come compendiati nella De Tommaso. Questa operazione, a giudizio della Corte, è necessaria, in quanto è sì vero che «nessuna interpretazione potrebbe surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta», e «l'esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti non valga, di per sé, a colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto», ma al di fuori della materia penale - così come nel caso de quo - «non può del tutto escludersi che l'esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell'interpretazione» (§ 12).
Ebbene, un siffatto scrutinio conduce ad un differente risultato: da un lato, il vivere "abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose" (lett. b) incontra, «alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale successiva[13] alla sentenza De Tommaso», una via interpretativa che la contorni con sufficiente precisione, mentre l'espressione "traffici delittuosi" di cui alla lett. a) non sembra in grado di indicare in maniera determinata quali comportamenti criminosi possano dare luogo all'applicazione della sorveglianza speciale, apparendo «affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza De Tommaso» (§ 12.3), e tanto - chiarisce la Corte - è dovuto anche al fatto che ad oggi convivono due contrapposti indirizzi interpretativi, che definiscono in modo differente il concetto di traffici delittuosi[14]: la norma non può, pertanto, dirsi ragionevolmente prevedibile. Di talché, è dichiarato costituzionalmente illegittimo sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che «debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi».
Ancora più adesiva alla sentenza De Tommaso è la "gemella" pronuncia n. 25 che, basandosi su censure pressochè identiche (e dunque, chiudendo il cerchio di un ragionamento tutto rivolto ai principi convenzionali), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, co. 2, del d. lgs. 159/2011, nella parte in cui prevede come delitto la violazione delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale ove consistenti in quelle del "vivere onestamente" e del "rispettare le leggi": anche tale norma viola il canone della prevedibilità della condotta sanzionata, quale contenuto nell'art. 7 CEDU (che in tal caso si può richiamare, trattandosi questa di matière pénale) come nell'art. 2 del prot. addiz. n. 4, e rilevante, come noto, quale parametro interposto ai sensi dell'art. 117 Cost. Si estirpa quindi dal sistema penale uno dei delitti che più hanno messo alla prova la tenuta del principio di determinatezza del precetto, passando dal tipo concettuale di "nuovo" conio - perché esportato da Strasburgo in tempi piuttosto recenti - della prevedibilità della sanzione.
4. Un inedito interventismo che configura i rapporti tra le Corti: linee programmatiche per il futuro
Non è certo la prima volta che negli obiter dicta delle sentenze della Corte si affrontino - e si risolvino - questioni anche più rilevanti dello stesso petitum: accade anche nelle sentenze "gemelle" in commento, da cui si evince un notevole sforzo per rimodulare - dopo i disordini provocati dal "caso Taricco" - i rapporti con la Corte di Cassazione. Ma non solo.
La n. 25, in particolare, affronta di petto - trattandosi di questione di rilevanza, e quindi di preliminare ammissibilità, della doglianza sollevata - l'arresto, sopra richiamato, delle Sezioni Unite Paternò: e non può sottrarsi, perché l'inapplicabilità di una norma ad un fatto considerato indeterminato e quindi non più tipico, sancita dal massimo organo nomofilattico, aveva spinto un giudice di merito a chiedere alla Corte una pronuncia di illegittimità costituzionale, di modo da poter rilevare d'ufficio che il fatto contestato come delitto ai sensi dell'art. 75 co. 2 non costituisce reato. Spiega infatti la Corte - condividendo le preoccupazioni del giudice rimettente - che «l'abolitio criminis - per ius superveniens o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale - è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all'esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato» (§ 5). Insomma, con la declaratoria di incostituzionalità si regolarizza una situazione anomala[15] ed in precario equilibrio tra poteri giudiziari, che vedeva una norma di fatto abrogata per via giurisprudenziale.
Ora, questa sentenza, in uno con i numerosi richiami - effettuati nella n. 24 - ai principi della Cassazione elevati a termini di raffronto, a parametri valutativi della incostituzionalità di una previsione di legge (che implicitamente richiamano meriti definitori ma anche inappaganti divergenze ermeneutiche), così come l'oramai formale ossequio ai principi convenzionali, possibilmente da contestualizzare nei percorsi decisionali della stessa Consulta (seppur, invero, non sempre logicamente coerenti)[16], tutto questo si può ben conchiudere in un chiaro "avviso ai naviganti": in primo luogo ai giudici interni, con un occhio particolare alla Cassazione, ai quali - e alla quale - si dimostra che oggi la Corte è più attenta di prima a recepire le istanze dei principi sovranazionali di garanzia correttive di una legislazione che va nell'opposta direzione di incrementare - in funzione espansiva ed efficientista - l'area della vaghezza compilatoria; e che, per converso, fenomeni di "supplenza" da parte dell'organo nomofilattico, a cui la Corte EDU "parla" come "parla" a tutti i giudici dell'ordinamento[17], sono meno giustificabili di ieri.
Vi è poi l' "avviso" all'Europa, delle Corti e forse anche degli Stati: in un momento che sembra dominato dalle spinte centripete (politiche, non giudiziarie) ostili ad ogni progetto di europeizzazione dei sistemi giuridici nazionali, e di quelli penali in primo luogo, si accende a Roma un faro, che illuminando l'appena acquisita compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, col suo inevitabile gioco di luci e di ombre proietta ulteriori possibilità di collocazione dell'ordinamento domestico sui più elevati livelli di garanzia - e di modernità giuridica - assicurati dalle Carte sovranazionali. E' questo, di certo, il messaggio più importante da cogliere, dalle pronunce nn. 24 e 25 della Consulta.
[1] F. Viganò, Il caso Taricco davanti alla Corte costituzionale: qualche riflessione sul merito delle questioni, e sulla reale posta in gioco, in Dir. pen. cont. (web), 9 maggio 2016.
[2] Stiamo parlando della nota Grande Sezione, CGUE, sent. dell' 8 settembre 2015, in Dir. pen. cont. (web), 15 settembre 2015, con commento di F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in materia di IVA?; tra tutti, si veda anche il commento di M. Gambardella, Caso Taricco e garanzie costituzionali ex art. 25 Cost., in Cass. pen., 2016, p. 1462 ss.
[3] Al riguardo, parla di «senso di inquietudine» C. Cupelli, Il caso Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in Giur. cost., 2016, p. 421; inter alios, sulla stessa linea è R. Bin, Taricco, una sentenza sbagliata: come venirne fuori?, in Dir. pen. cont. (web), 4 luglio 2016.
[4] Oltre alla Corte d'Appello di Milano, a rimettere la questione della legittimità costituzionale della legge (l'art. 2, L. 2 agosto 2008, n. 130) da cui scaturiva l'applicazione del principio affermato dalla CGUE, e quindi a sollecitare la Corte ad azionare i "controlimiti", fu Cass. pen., sez. III., ord. del 30 marzo 2016, n. 28346; sul "rimpallo" tra Corti di quel particolare frangente storico, si veda l'esaustivo volume collettaneo Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L'ordinanza 24/2017 della Corte Costituzionale, a cura di Bernardi e Cupelli, Napoli, 2017.
[5] Ricalibrando l'obbligo di disapplicazione, "a meno che" non determini la lesione del fondamentale principio costituzionale di legalità: la c.d. "Taricco-bis", CGUE, sent. del 5 dicembre 2017, è pubblicata in Cass. pen., 2018, p. 106 ss., con nota di M. Gambardella, La sentenza Taricco 2: obbligo di disapplicazione in malam partem "a meno che" non comporti una violazione del principio di legalità.
[6] Il richiamo è all'affresco dell'odierna posizione mezzana, di smistamento, del giudice di V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012.
[7] Cass., Sez. Un. Pen., sent. 27 aprile 2017 (dep. 5 settembre 2017), n. 40076, in CED Cass. n. 270496.
[8] Corte Edu, Grande Camera, sent. 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1039, con commento di V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione.
[9] La sentenza De Tommaso afferma che la misura di prevenzione, essendo solo limitativa e non privativa della libertà personale, non ha natura penale bensì meramente amministrativa: da ciò consegue l'applicazione di un diverso statuto di garanzia, pur sempre imperniato sulla riserva di legge accessibile e prevedibile.
[10] § 108 della De Tommaso.
[11] «Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo [...] resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata» (Corte Cost., sent. del 22 luglio 2011 n. 231, in Dir. pen. cont. (web) del 22 luglio 2011 con commento di G. Leo, Presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere nei procedimenti concernenti il delitto di associazione finalizzata al narcotraffico): non sussiste, pertanto, nessun automatismo di applicazione dei principi espressi dalla Corte EDU al "diritto vivente".
[12] Da ultimo, F. Menditto, La sentenza De Tommaso c. Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, in Dir. pen. cont., 4/2017, pp. 129-130.
[13] Ma anche - pur di poco - precedente: sono richiamate le SS. UU., sent. del 26 giugno 2014 (dep. 2 febbraio 2015), n. 4880, in CED Cass. n. 262603.
[14] La Corte dà atto che sul punto convivono i contrapposti insegnamenti della Cassazione, sentenze n. 11846 del 2018 da un lato, e n. 53003 del 2017 dall'altro.
[15] Anomala anche perché le SS.UU. Paternò, assimilando integralmente l'elaborazione sovranazionale nella propria esegesi, avevano in un certo senso "sconfessato" la Corte Costituzionale, la quale - oltre ad altri arresti precedenti, sopra richiamati - nella nota sentenza n. 49 del 2015, aveva ribadito che «il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU [...] è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU»: così, in Cass. pen., 2015, p. 2195, con nota di Manes, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza.
[16] Principi, quelli di cui si discorre, «sul cui rispetto ha richiamato non solo la Corte Edu nella sentenza De Tommaso, ma anche - e assai prima - questa stessa Corte nella sentenza n. 177 del 1980»: questa, l'emblematica formula utilizzata nel § 12.3. della sentenza n. 24.
[17] L'immagine che la Corte EDU, emanando sentenze dall'efficacia "di sistema" nei confronti del Paese destinatario della decisione (così M. Ferrio, L'efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo nei confronti dei Paesi contraenti che non sono parte del giudizio, in www.cortecostituzionale.it, p. 4), "parli" ai giudici domestici, è contenuta in D. Tega, L'ordinamento costituzionale italiano e il "sistema" Cedu: accordi e disaccordi, in Manes - Zagrebelsky (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, p. 239.
Tre domande per un’intervista multipla
LA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA
di Angelo Costanzo
La crisi della rappresentanza politica ridimensiona il potere legislativo e questo può avere riverberi anche sulla legittimazione dei giudici a esercitare la loro funzione che (nel nostro sistema giuridico e culturale) ha il suo fondamento nell’essere interprete della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà popolare.
Per avviare una esplorazione di alcuni profili di questo tema (assai complesso) è parso utile rivolgere tre domande a tre noti studiosi che da decenni contribuiscono alla formazione di magistrati e avvocati nelle università italiane-– anche svolgendo molteplici ruoli in autorità indipendenti, nell’amministrazione giudiziaria, in commissioni pubbliche - e la cui influenza culturale, pertanto, supera i confini delle discipline di provenienza e dell’ambito accademico:
il prof. Mario Barcellona, civilista
il prof. Alessandro Corbino, romanista,
il prof. Antonio D’Atena, costituzionalista.
Alcuni loro contributi più recenti sul tema oggetto dell’intervista sono richiamati nella formulazione delle domande.
Come valutare la situazione attuale, in Italia e in Europa, alla luce di questa prospettiva?
Antonio D’Atena
La Costituzione italiana non ha optato per un sistema di democrazia “assoluta”, ma per un sistema di democrazia liberale, nel quale si contrappongono, bilanciandosi, due componenti: una componente schiettamente democratica ed una componente liberal-garantistica. La prima trova espressione nella rappresentanza politica e nel principio maggioritario, la seconda, nella separazione (orizzontale e verticale) dei poteri e nell’esistenza di apparati pubblici sganciati dal circuito della rappresentanza (e della responsabilità) politica.
L’equilibrio tra le due componenti è essenziale. Si pensi ad esempio che, se l’unico principio di struttura accolto in Costituzione fosse il principio democratico, la legge – come pone in evidenza Carl Schmitt – potrebbe fare tutto; essa non dovrebbe limitarsi a porre regole, ma potrebbe anche assumere contenuto individuale e concreto, usurpando, tra l’altro, il ruolo, che, nello Stato di diritto, è proprio della giurisdizione: potrebbe, ad esempio, assumere il contenuto della sentenza.
È proprio lo Stato di diritto, il quale costituisce l’elemento centrale della componente garantistica del sistema, a richiedere che la legge si faccia regola, assumendo un contenuto generale astratto, e che gli atti individuali e concreti siano adottati da organi dello Stato in posizione di imparzialità (o, addirittura, come avviene per la magistratura, in posizione d’indipendenza). Si tratta – come noto – di organi, la preposizione ai quali avviene mediante concorso, non attraverso l’investitura elettorale. Il che consente di affermare che, a questo riguardo, la nostra democrazia liberale sia più avanzata di quella nord-americana, caratterizzata dalla presenza di organi giudiziari eletti.
Questo il quadro costituzionale.
È, tuttavia, da rilevare che, oggi, nel dibattito politico italiano, il modello liberal-democratico non viene sentito da tutti come un elemento irrinunciabile dell’organizzazione statale. Si pensi alla forza di attrazione esercitata da Stati che conoscono derive illiberali (o che, come accade in Ungheria, si fanno addirittura un vanto della democrazia illiberale). Si pensi, ancora, alle suggestioni della democrazia diretta (nella versione contemporanea della web-democracy), la quale presenta un aspetto largamente mistificatorio. Si pensi, infine, all’idea – inconcepibile, fino a pochi anni fa – secondo cui, in prospettiva, potrebbe mettersi in discussione la funzione (e, addirittura, l’esistenza) di parlamenti rappresentativi.
Mario Barcellona
Il possibile sbocco tirannico di una maggioranza (quand’anche democraticamente costituita) è insito nello stesso sistema democratico e per questa ragione l’introduzione della democrazia è stata sempre accompagnata da dispositivi che la garantissero contro questo rischio.
In Europa, il costituzionalismo trae origine dal “patto costituzionale” (C. Mortati) che vale come “limite” entro il quale il sistema democratico può tuttavia liberamente dispiegarsi (M. Dogliani). Invece, negli ordinamenti anglosassoni il contenimento della democrazia è stato affidato a un sistema di “pesi e contrappesi” il cui senso, però, non è quello del “limite”, ma del “concorso” di poteri diversi che non solo si estende oltre i tre tradizionali poteri di Montesquieu (e la loro gerarchia), ma soprattutto è concepito come emendamento permanente e ordinario dello stesso processo democratico secondo un modello che vuole la democrazia corretta da una sorta di policentrismo oligarchico che si vorrebbe “imparziale” perché attingerebbe la sua legittimazione dalla nuda tecnica.
L’attuale prevalere di questa seconda strategia e la crescita della sua articolazione nel duplice livello nazionale e sovranazionale non solo impoveriscono la democrazia, ma soprattutto inducono la formazione di élite, che si sviluppano secondo logiche autoreferenziali, rischiano di far secessione dal “popolo” (C. Larsch) e diffondono una percezione diffusa della società come distinta in insider e outsider. Molti dei malanni solitamente attribuiti alla “tirannia della maggioranza”, oggi si presentano, piuttosto, come cascami di questa strategia e della reazione populista che essa innesca, in Italia, in molti altri paesi dell’Unione e nelle stesse due Americhe.
Considerazioni simili valgono per l’articolazione territoriale della democrazia, alla quale, nel contesto di una divisione del mondo in blocchi contrapposti, si affidava la funzione di aprire la politica nazionale ad equilibri più avanzati ma non troppo allarmanti rispetto alla dislocazione internazionale dell’Italia (P. Ingrao). Nell’odierno diverso contesto, l’autonomia, da forma di organizzazione e gestione ravvicinate dei servizi erogati dal Pubblico, si muta in strumento di cattura e conservazione al territorio del gettito fiscale in esso prodotto, luogo di un conflitto sulla ripartizione della ricchezza agito dal deperimento della solidarietà nazionale e dallo sviluppo di un nuovo egoismo regionale.
Se queste considerazioni sono in qualche misura fondate, allora si deve riconoscere che l’attuale crisi della democrazia non può superarsi potenziando i contrappesi “imparziali” (che in realtà, spesso servono non a fronteggiare il rischio di una “tirannia della maggioranza” ma ad immobilizzare qualsiasi maggioranza entro gli assetti di potere consolidati), ma solo ricostituendo le condizioni, oggi latenti, di una reale democrazia rappresentativa, ove gli interessi si confrontino apertamente e trovino, sempre dentro il quadro costituzionale, quella mediazione politica che è la sola coerente con l’idea democratica, sia in Italia che nell’Unione.
Parimenti, i principi di eguaglianza e solidarietà, intrinseci all’idea democratica, si salvano non tanto mediante il pur necessario pluralismo politico del sistema regionale ma garantendo la ripartizione delle risorse pubbliche secondo il paradigma del 2° comma dell’art. 3 e attivando, al contempo, efficaci e repentini sistemi di controllo e di intervento sostitutivo delle amministrazioni centrali nel caso di inefficienti gestioni regionali delle risorse trasferite dallo Stato o, comunque, di sbilanciamenti rispetto ai livelli medi nazionali.
Alessandro Corbino
L’esatto rilievo (la tendenza del metodo “democratico” a favorire la semplificazione e, con essa, la decisione “emozionale” invece di quella “ponderata”) non deve orientare verso una limitazione della “democrazia”. Non è introducendo elementi di “tecnocrazia” che si migliora l’efficacia della forma di governo in discussione, insuperabilmente legata alla percezione dei singoli di avere effettiva influenza sui processi decisionali. È ricostituendo piuttosto le materiali condizioni di una tale possibilità. L’obbiettivo da perseguire mi sembra quello di un sistema “politico” che (ben definito l’ambito della “sovranità”: nel nostro contesto contemporaneo, ne vedo, dal nostro punto di osservazione, solo uno “europeo”) si articoli (abbandonate logiche “nazionali”, insostenibili in un tempo che esige libera circolazione delle persone e riguardo per il multiculturalismo complesso e diffuso che ne consegue) attraverso “cerchi territoriali concentrici” coordinati (per esempio: macro-regioni transnazionali e sub-distretti via via più limitati, sino ad una dimensione di sostenibile “partecipazione”: “insiemi” di non oltre 15/20 mila persone), nei quali sia perciò praticabile nei fatti una interazione costante dei soggetti politici, individuali (singoli cittadini “radicati”) e collettivi (partiti, movimenti, associazioni), che alimenti i meccanismi partecipativi (che potrebbero prevedere – in ragione della limitatezza dimensionale dei contesti – anche un concorso di metodologie: “rappresentative” e “dirette”). Nell’ambito di “definite” risorse (legate ad una “fiscalità” complessa, misurata anche sui contesti) e di competenze territoriali di decisione (in alcune materie) e di proposta (in altre), si dovrebbe mirare a mantenere permanentemente attivo un circuito virtuoso “multilivello”. L’autonomia dei distretti darebbe modo di articolare un “pensiero politico” differenziato localmente (e non verticalmente coordinato secondo una logica “discendente”). Le decisioni generali maturerebbero (almeno tendenzialmente) attraverso un percorso “ascendente” (di progressive sintesi “inclusive” del condiviso, con conseguente attenuazione/contrasto delle barriere indotte dalla “distanza”). La strada a me sembra, insomma, quella di una ridisegnata convivenza ispirata ad “uguaglianza” politica (universale suffragio e accesso alle cariche) ed attenzione alle “diversità” culturali, economiche e sociali (legate a tradizioni, risorse e costumi).
2. Nel nostro sistema, il generale e astratto disporre è prerogativa della politica, l’individuale e concreto provvedere va affidato a organi imparziali non rappresentativi [lo ricorda: D’Atena, Tensioni e sfide della democrazia, in: Giurisprudenza costituzionale, 6, 2017, pp. 3120-3137].
A questa costruzione si va periodicamente contrapponendo l’idea che il potere non è divisibile e che, pertanto, anche quello esercitato dalla magistratura dovrebbe ricevere una legittimazione non solo tecnico-culturale ma anche politica [Corbino, Rigore è quando l’arbitro fischia. Il mito della legalità, Jovene 2018 ].
E’ quest’ultima un’idea condivisibile e, se accolta, mediante quali forme potrebbe essere concretizzata. Con quali esiti in termini di vantaggi e rischi?
Mario Barcellona
Che il potere non sia divisibile è vero nel senso che il potere di una struttura deve rendersi compatibile con quello delle altre e questo può perseguirsi solo secondo due paradigmi, quello della distinzione delle competenze e quello della gerarchia.
Di entrambi questi due paradigmi si avvale(va) lo Stato di diritto: da un lato la distinzione tra il fare la legge, il darvi esecuzione e l’applicarla, che presiede alla distinzione delle competenze tra Parlamento, Governo e Giurisdizione; dall’altro, la sovraordinazione della legge, e dunque del Parlamento.
Ovviamente, questa distinzione delle competenze e la divisione dei poteri cui sono assegnate vanno comprese in modo adeguato: i giudici non sono mai stati bouche de la loi, e quando si sono sforzati di esserlo non hanno mai reso un buon servizio alla legge. Ma questo non impedisce affatto che – contrariamente a quanto proclamano molte teorie dell’interpretazione ingenue e miopi – non si dia una “fedeltà” dell’interprete al testo (H.G. Gadamer), la quale attiene al suo “senso” ed alla sua “funzione”, concepiti, rispettivamente, come “orizzonte” di un’epoca o di una sua fase e come “prestazione” che il sistema giuridico è chiamato a svolgere per il sistema sociale verso la complessità che lo insidia (M. Barcellona).
Alcuni giuristi, fraintendendo l’operato della giurisprudenza, proclamano l’avvento del “governo dei giudici” (N. Lipari) e anche alcuni giudici che, fraintendendo il loro stesso operato, si dicono investiti di una generale supplenza della politica. In realtà, il rapporto tra la sentenza e la norma non è di rottura, ma di sviluppo del senso e della funzione che la seconda trova nella prima.
Molti sostengono che nel postmoderno della contingenza e della liquidità la legge non sarebbe più in grado di dare unità sistematica al mondo sociale o che il degrado della politica avrebbe privato i Parlamenti della capacità di confrontarsi con il cambiamento e di mediarne i conflitti che suscita, per cui non più alla legge ma al giudice spetterebbe ormai il compito di produrre il Diritto e di trarre dal mondo sociale i valori da implementare secondo ragionevolezza.
Solo che questa rappresentazione incappa in una serie di incongruenze:
Queste incongruenze non sono superabili apprestando una sorta di legittimazione politica della magistratura. Una tale legittimazione, infatti, presupporrebbe un qualche modo elettivo del reclutamento dei giudici che si si esporrebbe all’eventualità di linee di politica del diritto differenti e contraddittore. Rispetto alle quali non si darebbe possibilità di alcun controllo di legittimità. Mentre un controllo “politico” centralizzato rischierebbe di destituire una tale legittimazione di ogni parvenza democratica.
In realtà, la prospettiva di un governo dei giudici, si lega a una ideologia che si ripropone, di depotenziare la politica e mascherare il conflitto, di dissimulare che nell’ordine giuridico si racchiude un ordine sociale il quale annovera sempre vincitori e vinti, componendone tuttavia le ragioni al fine di assicurare la pace sociale.
Antonio D’Atena
Proprio sull’idea della divisibilità del potere si sono storicamente edificate le contemporanee democrazie liberali. Le quali rappresentano un’incontestabile conquista di civiltà. Questo non significa che esse non possano essere modificate. Si pensi ad esempio all’avvento dello Stato sociale agli inizi del secolo breve. Esso ha costituito la risposta del costituzionalismo alla sfida lanciatagli dalla rivoluzione d’ottobre e dal pensiero che le era alle spalle.
Ma questa risposta non ha cancellato l’acquis precedente. E quindi essa non si è sostituita all’antico Stato di diritto, ma si è aggiunta ad esso, per riecheggiare la formula che figura nell’articolo 28 della Legge fondamentale tedesca.
Nulla, pertanto, impedisce di arricchire le acquisizioni del passato. Oggi, ad esempio, è diffusa l’idea, risalente a Peter Häberle, secondo cui, nello Stato costituzionale contemporaneo figurerebbero una serie di elementi ulteriori, che lo arricchiscono. Dello Stato sociale, ho appena detto. Ad esso non può non aggiungersi il pluralismo, che è una delle maggiori conquiste della contemporaneità.
Alessandro Corbino
Resto al mio punto di vista. Il potere politico non è divisibile. Divisibile ne è solo l’esercizio. Il quale dunque va ripartito secondo competenze distinte, ma interconnesse in modi fattuali che impediscano (per le procedure di attribuzione delle funzioni, di esercizio di esse e di controllo di tale esercizio) ogni forma di “concentrazione” e di “autoreferenzialità”. Le modalità non potranno essere ovviamente uniformi (per ciascuna funzione), se non in negativo (nella indispensabile preclusione cioè di un esercizio di ciascuna di esse che non resti esposto, direttamente o indirettamente, al controllo dei singoli appartenenti alla comunità politica “sovrana”). Per la magistratura non si dovrebbe fare eccezione (salvo a determinare le forme appropriate compatibili: un interessante modello da studiare potrebbe essere, per il reclutamento e le responsabilità, quello inglese). Mi domando piuttosto: siamo sicuri che una giustizia esercitata da giudici “professionali”, individuati soltanto attraverso la loro astratta competenza “tecnica”, sia una modalità compatibile con un ordine politico “democratico”? Non si dovrebbe riflettere bene sulle origini del “modello” (indubbiamente collegato ad una visione alternativa – imperiale – della “sovranità”)?
3. “La rappresentanza non si dà se gli individui sociali non si concepiscono già come rappresentabili” [Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi, 2018, p.83]. Per altro verso, la cosiddetta democrazia diretta (che è cosa diversa dalle varie vie di democrazia partecipata) e le accresciute possibilità di manipolazione del consenso politico concorrono a mettere in crisi la democrazia rappresentativa perché la privano di progettualità [Montanari, La politica fra progettualità e mera contingenza, in Filosofia in movimento 2018, http://filosofiainmovimento.it]
Questo determina uno squilibrio nel rapporto fra i poteri dello Stato che si riverbera sul ruolo della magistratura.
La perdita di legittimazione del potere politico (quando il consenso che riceve risulta in parte fittizio e alterato) quali conseguenze comporta per la legittimazione del potere giudiziario ?
Alessandro Corbino
La rappresentanza politica di milioni di cittadini non può non essere affidata alla competenza, di organismi politici, sostenuti da un pensiero “tecnico” qualificato.
Per la questione “potere giudiziario”, il discorso è un po’ più complesso.
La funzione giudiziaria è assicurata conferendo autorità “politica” al “giudicato” (tanto indispensabile quanto insuperabilmente fallibile). In un sistema democratico il “giudicato” non deve avere solo “autorità”, ma, prima ancora, una “credibilità” che deriva dall’ordinamento giudiziario adottato.
Al vincitore è necessario ottenere il giudizio in un tempo utile alle “certezze” alle quali esso è preordinato (la “definizione” della controversia, l’accertamento della responsabilità criminale ipotizzata). Al soccombente il giudizio deve apparire “oggettivo”. Questa “oggettività” investe, in particolare, la configurazione del “giudice” e la determinazione dei criteri di giudizio (norme) che egli deve adottare (non solo le “leggi”, ma anche la loro “interpretazione”). La soluzione di questi problemi è complessa (e non priva di variabili). I criteri devono apparire (a chi li subisce) frutto di valutazioni “collettive” (perciò “spersonalizzate”). Questo si è ottenuto (per due millenni, nella civiltà giuridica di ispirazione romana) affidandone l’elaborazione ad una “riflessione” di tipo “scientifico”, costruita da una “dottrina” (in senso personale) se non “aperta”, almeno “estesa” (potrebbe anche coincidere dunque – vedi esperienza di common law – con quello di un “corpo giudiziale” istituzionale) che sia composizione di un pensiero diffuso. Quanto invece al “giudice”, occorre distinguere. I giudizi privati (nei quali il giudice è “terzo”) potrebbero essere utilmente affidati sia a giudici (meglio se “collegiali”) predefiniti, sia a giudici “scelti” dalle parti (in questo secondo caso, vi sarebbe il vantaggio della maggiore tempestività con cui si giungerebbe al “giudicato”: verrebbe meno ogni necessità di appello). Nei giudizi criminali (nei quali il giudice partecipa dell’interesse collettivo alla repressione), la soluzione è meno aperta. Sicuramente preferibile (ai fini della percezione di “oggettività” in discussione) sarebbe il ricorso ad una “collegialità” molto larga del giudice (e composta per l’occasione), in grado di fare convergere sulla sua “figura” (la concreta composizione del collegio) il più largo numero possibile delle sensibilità sociali meritevoli di “attuale” considerazione. Tenuto conto del crescente rilievo delle tecnicalità anche nella materia criminale, si potrebbero distinguere le situazioni, con il ricorso a collegi di diversa composizione “tipologica” (in relazione alla accusa in discussione). Quali che siano le soluzioni resta comunque certo che “giudicare” (con valenza “pubblica”) non è un “potere”, ma una “funzione del potere (politico)” e che, dunque, la “legittimazione” a definire le modalità di esercizio di tale funzione (attribuzione, orientamento dottrinario e controllo) non può essere distinta da quella che vale per ogni altra funzione dello stesso “potere”.
Antonio D’Atena
Seguito a ritenere – come ho detto – che la democrazia diretta non possa costituire una valida alternativa alla democrazia rappresentativa.
Al riguardo, bastano pochissime osservazioni.
In primo luogo, non vanno ignorati i limiti “linguistici” della democrazia diretta, il cui lessico comprende soltanto due parole: “sì” e “no” (due parole, che, come insegnava Max Weber, non consentono di adottare decisioni politiche complesse).
In secondo luogo, deve rilevarsi che alla democrazia diretta manca un elemento essenziale: la responsabilità. È, infatti, fuori discussione, che, per far valere la responsabilità “politica”, sia necessaria un’istanza rappresentativa che non si confonda con la collettività da essa rappresentata: se tutti decidono, nessuno risponde. Quindi, le potenzialità tecnologiche che consentono a tutti di comunicare in tempo reale le proprie valutazioni (e, pertanto, al limite, di decidere), non sono in grado di superare questo limite, dotando la democrazia diretta della priorità assiologica propria della democrazia rappresentativa
In terzo luogo, l’esportazione nel mercato politico delle tecniche di manipolazione del consenso, che hanno trovato i loro iniziali impieghi nel mercato tout-court, espone la democrazia ad un rischio mortale. Si pensi alla carica suggestiva di messaggi individualmente calibrati sulla figura del singolo destinatario, quale risulta dagli algoritmi costruiti in base alle tracce che ciascuno lascia in rete. Si pensi al conseguente isolamento informativo in cui possono venirsi a trovare i cittadini-elettori, quando dal loro orizzonte informatico vengono esclusi tutti i contenuti che potrebbero metterne in discussione i pregiudizi. Si parla, come noto, al riguardo di bubble-democracy. Tutto questo determina la caduta di un elemento essenziale alla democrazia: l’autentico dibattito pubblico.
Mi rendo conto che la soluzione di quest’ultimo problema è di straordinaria complessità. Tuttavia, è questo un terreno sul quale diventa sempre più urgente impegnarsi.
Mario Barcellona
La ragione della crisi della democrazia rappresentativa non sta tanto nel degrado della politica (che pure è incontrovertibile) quanto nell’avvento della c.d. società liquida (Z. Bauman) e nella singolarizzazione di massa che ne rappresenta l’altra faccia (M. Barcellona) e che, dissolvendo le aggregazioni sociali e le formazioni intermedie, occulta le differenze e distrugge i presupposti stessi della rappresentanza.
La stessa manipolazione del consenso come l’appello alla democrazia diretta dipendono da questo processo: il cittadino è manipolabile perché la sua singolarità lo espone direttamente al rapporto con il potere senza le mediazioni di prima che ne decifravano il volto e l’operato e la seduzione della democrazia diretta si impianta anch’essa sulla sua singolarizzazione che gli impedisce di sentirsi rappresentato e lo fa sentire privo di voce nella disputa politica.
Ma lo squilibrio che questo certamente produce, non ha modificato né accresciuto la legittimazione del potere giudiziario.
Vero è che le decisioni della corte costituzionale e della magistratura ordinaria hanno supplito a molte inerzie del legislatore, ma lo hanno fatto, essenzialmente, in materia di diritti civili (e non a caso, visto che in questa materia non vi sono “controinteressati” chiamati a sostenere i costi dei diritti che vengono riconosciuti e vi è solo un ceto politico che con questi interventi si vede tolte molte castagne dal fuoco). Nessuna di queste decisioni, invece, viene incontro ai problemi che povertà, disoccupazione e inoccupazione, precarietà e solitudine suscitano in strati sempre più larghi della società, nessuna entra nel cuore del grande malessere che oggi la attraversa.
Nella stragrande maggioranza dei casi la giurisdizione non è in grado di farlo. Ma questo fa sì che il potere giudiziario, nonostante la crisi della politica, non abbia acquisito alcun maggior credito presso la larga maggioranza dei cittadini. Anzi, risulta in discesa negli indici di fiducia nei corpi dello Stato e – occorre averne coscienza e dirlo – accade anche che l’opinione pubblica lo inscriva tra le élite verso le quali non si possono escludere diffidenze.
Non manca certo l’apprezzamento di fronte a sentenze che sanzionano la criminalità o la corruzione. Ma non manca neanche la delusione verso sentenze che, dopo processi interminabili, prosciolgono per l’intervenuta prescrizione. Né manca, talvolta, l’attribuzione di valenza prevalentemente politica a decisioni che investono, direttamente o indirettamente, gli esponenti più in vista dell’apparato politico, le spezzano il consenso verso il potere giudiziario secondo le loro appartenenze.
Ma tutto questo significa che nessuna maggiore o diversa legittimazione viene alla magistratura dalla crisi della politica e che, anzi, questa crisi rischia di travolgere anche le altre istituzioni dello Stato, potere giudiziario incluso.
NOTE CRITICHE SULL'IPOTIZZATO "TRIBUNALE SUPERIORE DEI CONFLITTI di Antonello Cosentino
Sommario: 1. La proposta di legge.- 2. La compatibilità della proposta di legge con la costituzione. - 3.La distonia della proposta di legge con il sistema italiano di tutela giurisdizionale. - 3.1 Giudici o arbitri ? - 3.2. Riparto di giurisdizione e nomofilachia.
1.La proposta di legge.
Il 22 maggio 2018 è stata presentata alla Camera dei deputati una proposta di legge (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”; la proposta di legge è attualmente all’ esame della Commissione Giustizia, in sede referente; la Commissione ha già svolto diverse audizioni conoscitive ed ha sentito, tra gli altri, il Primo Presidente ed il Procuratore generale della Corte di cassazione, i Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, i rappresentanti dell'Associazione italiana professori di diritto amministrativo.
Nella proposta di legge il Tribunale superiore dei conflitti viene qualificato come «organo giurisdizionale supremo per la risoluzione delle questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali» ed al medesimo sarebbe attribuita in via esclusiva «la cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione»; esso sarebbe composto da dodici membri, di cui sei magistrati della Corte di cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, scelti dagli organi di autogoverno delle rispettive magistrature; i membri del Tribunale eserciterebbero le relative funzioni in via esclusiva e la presidenza sarebbe attribuita a turno ai magistrati dei tre ordini, con rotazione annuale; nel giudizio di fronte al Tribunale sarebbe previsto l'intervento della Procura generale della Corte di cassazione; la segreteria del Tribunale sarebbe istituita presso la Corte di cassazione.
Nella relazione si assegna alla proposta di legge «l'obiettivo di trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito»; si sottolinea che «l'evoluzione della legislazione ha determinato una demarcazione sempre meno chiara dei confini tra le giurisdizioni anche con l'attribuzione di fattispecie di giurisdizione esclusiva spesso in modo non perfettamente lineare»; si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 (la quale, come è noto, è intervenuta sul tema del sindacato esercitato dalla Cassazione sul superamento dei limiti della giurisdizione, restringendo l’ambito di tale sindacato rispetto agli orientamenti più recenti delle Sezioni Unite Civili), sottolineando come tale sentenza lasci «impregiudicata l'esigenza di individuare un “arbitro imparziale” della giurisdizione composto da giudici provenienti dalle diverse giurisdizioni, nel solco della risalente esperienza francese del Tribunal des conflits».
La suddetta proposta di legge si pone in sostanziale continuità culturale con le proposte contenute nel Memorandum delle tre giurisdizioni elaborato dall’associazione Italiadecide e sottoscritto dai presidenti della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte di conti e dai procuratori generali della Cassazione e della Corte dei conti. Tale Memorandum, presentato al Presidente della Repubblica il 15 maggio 2017, prefigurava l’assegnazione delle questioni di rilievo nomofilattico comune ai vari plessi giurisdizionali, ivi comprese le questioni di giurisdizione, ad un collegio delle Sezioni Unite della Cassazione integrato con la partecipazioni di consiglieri di Stato e consiglieri della Corte dei conti; la proposta di legge Bartolozzi, invece, limita il proprio oggetto alle questioni di giurisdizione, sostanzialmente prefigurando l’importazione, nel nostro ordinamento, del Tribunal des conflits francese.
Il Memorandum delle tre giurisdizioni suscitò un forte contrasto da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura e un dibattito molto acceso in sede dottrinale. Il 27 giugno 2017, poche settimane dopo la presentazione del Memorandum al Quirinale, la Sezione Cassazione dell’ANM approvò un documento nel quale - proprio con specifico riguardo al tema dei conflitti di giurisdizione, ripreso nella proposta di legge Bartolozzi - si affermava che, a Costituzione invariata, la finalità di armonizzazione della funzione nomofilattica perseguita dal Memorandum non avrebbe potuto «in alcun modo riguardare, alla luce del disposto dell’ultimo comma dell’articolo 111 Cost., le questioni inerenti alla giurisdizione». Di analogo tenore furono le critiche mosse al Memorandum nel documento approvato del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM in data 13 gennaio 2018[1] e nella risoluzione adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura in data 24 gennaio 2018 [2].
Le posizioni assunte dalla dottrina sul Memorandum sono state, per contro, molto diversificate, andando dal duro dissenso all’entusiastico consenso, anche trasversalmente rispetto ai settori disciplinari - diritto costituzionale, diritto amministrativo o diritto processuale civile - dei diversi autori che si sono occupati del tema[3].
Le considerazioni da svolgere sulla proposta di legge Bartolozzi non possono che riproporre i rilevi che già vennero avanzati con riferimento al Memorandum delle tre giurisdizioni; sono rilievi che si muovono, per un verso, sul terreno della compatibilità del Tribunale dei conflitti con il testo vigente della Costituzione e, per altro verso, sul terreno dell’opportunità dell’introduzione di tale Tribunale nella complessiva architettura del sistema della tutela giurisdizionale dei diritti.
2. La compatibilità della proposta di legge con la costituzione.
Per svolgere una riflessione sulla compatibilità con la Costituzione dell’ipotizzato Tribunale dei conflitti conviene partire dal testo dei commi settimo ed ottavo dell’ articolo 111 della Costituzione, i quali recitano:
«Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra .
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione».
La disposizione che prevede il «ricorso in Cassazione», per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, presuppone necessariamente, a mio avviso, la reciproca alterità tra tali consessi. Se la Costituzione prevede che le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti si impugnino in Cassazione, infatti, il giudice dell’impugnazione è necessariamente la Cassazione; non può essere, “per la contradizion che nol consente”, un giudice composto da consiglieri della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.
Né mi sembra che tale ostacolo possa essere superato con l’argomento - ricorrente tra i sostenitori dell’introduzione del Tribunale dei conflitti - che l’inserimento, nella Cassazione, di magistrati provenienti da altre giurisdizioni non farebbe venir meno la suddetta alterità. Tale argomento pone l’enfasi sulla differenza tra l’individuazione normativa di un giudice e la individuazione normativa della relativa composizione. Secondo i fautori di questa tesi, infatti, l’introduzione del Tribunale dei conflitti non sarebbe incompatibile con il disposto dell’ultimo comma dell’articolo 111 Cost., perché, pur dopo tale introduzione, il giudice dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, resterebbe pur sempre la Cassazione, presso la quale tale Tribunale verrebbe istituito e della quale il medesimo costituirebbe una sorta di sezione specializzata. Per contro, la Costituzione non conterrebbe alcun impedimento alla potestà del legislatore ordinario di dettare una disciplina particolare in ordine alla composizione in cui la Cassazione debba pronunciarsi sulle questioni di giurisdizione.
L’assunto non convince. E’ ben vero che nessuna norma costituzionale detta regole relative alla composizione dei collegi della Cassazione, e, quindi, nessuna norma costituzionale disciplina la composizione dei collegi che devono pronunciarsi sulle questioni di giurisdizione (la cui devoluzione alle Sezioni Unite discende dalla legge ordinaria e, precisamente, dall’articolo 374 del codice di procedura civile); ma, quali che siano le regole che il legislatore voglia dettare per disciplinare la composizione di un collegio della Cassazione, tali regole non possono comunque prescindere dalla necessità che i collegi della Cassazione vengano composti da magistrati della Cassazione, vale a dire da magistrati organicamente incardinati in detto ufficio (sia pure onorari, come i magistrati ausiliari di cui all’articolo 1, comma 962, della legge 27.12.2005, o non muniti delle funzioni di consiglieri di cassazione, come i magistrati del Massimario temporaneamente applicati ai collegi giudicanti ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito in legge con la legge 25 ottobre 2016, n. 197). Mi sembra infatti indubitabile che il Costituente, quando ha menzionato la Cassazione, non poteva riferirsi ad altro che all’ufficio previsto dall’articolo 65 dell’ ordinamento giudiziario, ossia un ufficio costituito da magistrati ordinari; magistrati, cioè, che, per usare le parole del primo comma dell’articolo 102 Cost., sono «istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».
Neppure appare persuasiva la tesi, pure avanzata dai fautori dell’introduzione del Tribunale dei conflitti, che individua la base di legittimazione costituzionale di quest’ultimo nella seconda parte del secondo comma dell’articolo 102 Cost., laddove si consente di istituire «presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura».
Anche a prescindere dalla innegabile forzatura semantica insita nella pretesa di qualificare «la risoluzione delle questioni di giurisdizione» (art. 1, comma 1, lett. “a”, della proposta di legge in esame) come una “determinata materia” ai sensi dell’articolo 102 Cost. e dalla singolarità della omologia, che tale forzatura implica, tra i consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti e i «cittadini idonei estranei alla magistratura» di cui al ripetuto articolo 102 Cost., appare assorbente la considerazione che l’ipotesi di qualificare il Tribunale dei conflitti come una sezione specializzata della Corte di cassazione si infrange contro il rilievo che le sezioni specializzate si distinguono dai giudici speciali in quanto sono soggette - esse e i magistrati, anche onorari, che le compongono - al governo autonomo della magistratura affidato dalla Costituzione al Consiglio Superiore della Magistratura. Illuminanti, sul punto, sono le parole che si leggono in Corte cost. 14.1.86 n. 4, § 6, ove si chiarisce come il rapporto di soggezione al Consiglio Superiore della Magistratura degli organi giudiziari e dei magistrati che li compongono «assume il valore di sicuro indice di riconoscimento della giurisdizione ordinaria. Esso consente, insomma, di affermare che appartengono alla giurisdizione ordinaria gli organi giusdicenti riconducibili al Consiglio superiore della magistratura».
In definitiva, l’ipotesi di configurare il Tribunale dei conflitti come una sezione specializzata della Cassazione appare incompatibile con l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui le sezioni specializzate si caratterizzano - distinguendosi in ciò dai giudici speciali - perché i magistrati che le compongono devono essere soggetti al governo del Consiglio Superiore della Magistratura, tale essendo il tratto distintivo della loro appartenenza alla giurisdizione ordinaria. Per contro, un giudice formato da magistrati dei quali alcuni siano soggetti al governo del Consiglio Superiore della Magistratura ed altri - i consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti - non lo siano non può essere qualificato come una sezione specializzata e, pertanto, va inevitabilmente qualificato come un giudice speciale, l’ istituzione dei quali è vietata dalla prima parte del secondo comma dell’articolo 102 Cost.[4]
3. La distonia della proposta di legge con il sistema italiano di tutela giurisdizionale.
A prescindere dai dubbi di legittimità costituzionale, a mio parere macroscopici, destati dall’ipotesi di introdurre un Tribunale dei conflitti nel nostro ordinamento giurisdizionale, mi sembra utile svolgere alcune ulteriori considerazioni di sistema.
3.1 Giudici o arbitri ?
L’idea di affidare la risoluzione delle questioni di giurisdizione ad un giudice di vertice a composizione mista tradisce una concezione “arbitrale” del ruolo di tale giudice; concezione che, del resto, viene chiaramente esplicitata nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, nella quale si fa riferimento (quintultimo capoverso) alla «esigenza di individuare un “arbitro imparziale” della giurisdizione composto da giudici provenienti dalle diverse giurisdizioni».
Ma concepire il Tribunale dei conflitti come un collegio investito di funzioni arbitrali (non tra le parti in causa, ma) tra le giurisdizioni postula inevitabilmente che tra le diverse giurisdizioni possano immaginarsi conflitti di interessi (o di potere) e che i magistrati che concorrono alla composizione del Tribunale dei conflitti vengano chiamati a dirimere quei conflitti svolgendo una qualche funzione di rappresentanza, anche soltanto culturale, delle rispettive Corti di provenienza.
Questa idea, che anima sotto traccia lo spirito della proposta di legge Bartolozzi (e già animava lo spirito del Memorandum delle tre giurisdizioni) non mi sembra accettabile, per una duplice ragione.
In primo luogo, leggere il rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali come una sorta di “lotta tra le giurisdizioni”[5] può forse rispondere a suggestioni di carattere sociologico e storico, tutte peraltro da verificare, ma non ha alcun fondamento giuridico. Tutti i plessi giurisdizionali, infatti, debbono esercitare la giurisdizione non per tutelare prerogative e potere dei magistrati che li compongono, ma per realizzare, ciascuno nel perimetro assegnatogli dalla legge, un’amministrazione della giustizia che garantisca ai cittadini celerità di tutela e prevedibilità delle decisioni. Come è stato perspicuamente rilevato, il riparto della giurisdizione non può essere concepito in termini di salvaguardia delle sfere di attribuzione dei giudici, ma va concepito in termini di strumentalità alla realizzazione del programma di completezza e di adeguatezza della tutela inscritto nell'articolo 24 della Costituzione[6].
In secondo luogo, l’ipotesi che i consiglieri della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti che andrebbero a comporre il Tribunale dei conflitti possano ritenersi implicitamente investiti di una funzione di rappresentanza dei rispettivi plessi giurisdizionali di provenienza non mi pare in alcun modo predicabile con riferimento a componenti di un collegio giudicante, i quali, per il disposto dell’articolo 101, secondo comma, Cost., sono soggetti soltanto alla legge.
La decisione sulle questioni di giurisdizione, in definitiva, non deve essere presa da «un “arbitro imparziale” della giurisdizione», come si sostiene nella relazione alla proposta di legge, ma da un giudice. Ed il fatto che la Costituzione abbia indicato tale giudice in quello ordinario non è casuale; come scriveva Eugenio Cannada-Bartoli, « non tanto la giurisdizione ordinaria è tale perché è ad essa attribuito il giudizio sulla giurisdizione ma tale giudizio è stato riservato alla suddetta giurisdizione in quanto ordinaria, ossia competente su diritti soggettivi. Il giudizio sui limiti della giurisdizione ordinaria rispetto a quella amministrativa è giudizio sui limiti dei diritti soggettivi, e dunque la sua attribuzione alla stessa giurisdizione ordinaria corrisponde al sistema. Nel giudizio sulla giurisdizione il giudice ordinario decide nei limiti della propria competenza.»[7] Ho ben presente quanto il panorama ordinamentale sia mutato nel mezzo secolo che ci separa dall’epoca in cui Cannada-Bartoli scriveva tali parole; è intervenuta la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, si è grandemente estesa l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, è stato emanato il codice del processo amministrativo; tuttavia il nucleo della riflessione di Cannada-Bartoli resta, a mio parere, ancora attuale, giacché, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004, deve «escludersi che dalla Costituzione non si desumano i confini entro i quali il legislatore ordinario, esercitando il potere discrezionale suo proprio (più volte riconosciutogli da questa Corte), deve contenere i suoi interventi volti a ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici» (§ 3). [8]
3.2. Riparto di giurisdizione e nomofilachia.
La proposta di legge Bartolozzi pare muovere dall’implicito presupposto che la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti siano corti equiordinate; «da qui l'idea che il legislatore ordinario possa discrezionalmente incidere sulla loro composizione ed introdurre forme e meccanismi di cogestione delle loro funzioni»[9]. Il presupposto della equiordinazione delle tre corti, tuttavia, se può trovare riscontri empirici nell’analisi storica del peso concretamente assunto nella società italiana dai giudici speciali - e, segnatamente, dal Consiglio di Stato, soprattutto in virtù della sinergia tra le funzioni consultive e quelle giurisdizionali al medesimo attribuite - sul piano giuridico si scontra contro la duplice considerazione che, per un verso, ai sensi dell’articolo 111, ultimo comma, Cost., la Cassazione è il giudice dell’impugnazione, ancorché per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti; per altro verso, che solo alla Cassazione compete la funzione di nomofilachia disegnata nell’articolo 65 ord. giud..
Intendiamoci, non è qui in discussione la pari dignità delle tre corti, del tutto ovvia, ma la diversità delle rispettive funzioni. Né, d’altra parte, intendo negare che anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti orientino la giurisprudenza dei rispettivi plessi giurisdizionali e dunque - non essendo le loro sentenze impugnabili per violazione di legge - svolgano anch’essi una funzione lato sensu nomofilattica nell’ambito di tali plessi[10]. Il punto centrale è un altro: non è per un caso, bensì per una ineludibile esigenza di coerenza sistematica con il disposto dell’articolo 65 ord. giud., che soltanto il giudizio davanti Corte di cassazione si conforma al modello cassatorio (i giudizi davanti al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti, come è noto, si conformano al modello del giudizio di appello). L’organizzazione del giudizio secondo il modello cassatorio - che tende al controllo di legalità della sentenza impugnata, non alla cognizione dell’oggetto della controversia - è proprio ciò che connota il giudizio davanti alla Corte di cassazione come l’unico giudizio di legittimità del nostro ordinamento; giudizio nel quale, si noti, il Procuratore Generale conclude nell’interesse della legge. In altri termini, considerando la questione da un punto di vista non strutturale ma funzionale, soltanto il giudizio davanti alla Corte di cassazione tende a tutelare, accanto alla tutela dello jus litigatoris, la tutela dello jus constitutionis.
D’altra parte, come è stato puntualmente rilevato, se la Corte costituzionale ha riconosciuto che «il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l'espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione» (così Corte cost. 28 luglio 2000, n. 395) non può che concludersi che l’articolo 65 ord. giud. è stato “costituzionalizzato” dall’articolo 111 Cost.[11] Ma, allora, se si conviene sull’affermazione che la funzione nomofilattica compete alla Cassazione (e al riguardo, del resto, a prescindere dalla “costituzionalizzazione” dell’articolo 65 ord. giud., è sufficiente rilevare che la legge delega non contempla alcuna modifica del disposto di tale articolo) risulta del tutto irragionevole, a mio avviso, affidare ad un altro giudice la regolazione del riparto di giurisdizione. La scissione tra la titolarità della funzione nomofilattica, che permarrebbe in capo alla Cassazione, e la titolarità della funzione di regolazione del riparto di giurisdizione, che verrebbe assegnata all’ipotizzato Tribunale dei conflitti, risulterebbe infatti - anche a prescindere dai corposi dubbi sopra enunciati in ordine alla sua legittimità costituzionale - foriera di complicazioni, teoriche e pratiche, senza fine.
Detta scissione certamente non favorirebbe il conseguimento dell'obiettivo, enunciato nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, di «trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito», giacché non si vede come la modifica della composizione del collegio che giudica sulle questioni di giurisdizione potrebbe influire sulla celerità del processo in cui tali questioni insorgano; né favorirebbe il conseguimento dell'altro obiettivo, pure enunciato nella relazione di accompagnamento, della formazione di «orientamenti certi, nitidi e chiari che possano fugare, sin dal suo insorgere, questioni sulla pertinenza della giurisdizione del giudice competente ad amministrare la giustizia nel caso concreto». Tale scissione, infatti, aprirebbe la strada alla concreta possibilità che nel tempo si vengano a formare orientamenti divergenti tra le Sezioni Unite della Cassazione ed il Tribunale dei conflitti in materia di ricognizione e qualificazione di posizioni giuridiche soggettive; con il che l'obiettivo di «fugare, sin dal suo insorgere, questioni sulla pertinenza della giurisdizione», lungi dall'avvicinarsi, si allontanerebbe, e non di poco.
In conclusione, anche con riferimento alla proposta di legge Bartolozzi, mi pare si possano e si debbano usare le potenti parole scolpite da Andrea Proto Pisani e Giuliano Scarselli a chiusura del loro commento sul Memorandum delle tre giurisdizioni:
«Non si tocchi la Corte di cassazione. La si lasci nel ruolo che i nostri padri costituenti le hanno assegnato, integra nei suoi giudici, libera nello svolgimento delle sue funzioni, indipendente dal potere politico e da interessi economici. La si lasci lavorare così come fino ad oggi ha lavorato, nell'interesse della giustizia e di tutti i cittadini, che ad essa, con totale fiducia e rispetto, si sono rivolti in questi anni per la tutela dei diritti, in base a quanto previsto dall'art. 111 Cost.. La si lasci svolgere la sua funzione di nomofilachia, perché la legge e la storia della giustizia hanno affidato ad essa, e non ad altri giudici, detta superiore funzione, quale unico ufficio giudiziario di pura legittimità, che opera con l'apporto della procura generale che conclude nell'interesse della legge.»[12]
[1] Lo si può leggere in http://www.associazionemagistrati.it/doc/2867/lanm-sul-memorandum-relativo-ai-rapporti-tra-i-magistrati-delle-tre-corti-superiori.htm
[2] La si può leggere in https://www.csm.it/documents/21768/87321/Risoluzione+sui+temi+oggetto+del+Memorandum+delle+tre+giurisdizioni+superiori/d4b0be78-7d94-7e3a-69b7-d268d96b01a1
[3] Alcune delle posizioni espresse in dottrina sono raccolte in un “focus” specificamente dedicato al Memorandum delle tre giurisdizioni pubblicato sul Foro italiano nel numero di febbraio 2018 (parte V, col. 57 e segg.).
[4] Definitive, sul punto, sono le cristalline parole spese da Aldo Travi in Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it. 2018, V, 109: «La giurisdizione ordinaria, di cui è componente primaria la Corte di cassazione, è qualificata dall'assoggettamento dei magistrati che la compongono alla legge sull'ordinamento giudiziario (art. 102, 1° comma, Cost.); condizioni diverse di status valgono invece, secondo i rispettivi ordinamenti, per i giudici delle giurisdizioni speciali (cfr. art. 108, 2° comma, Cost.). Anche la partecipazione al collegio giudicante in Cassazione è esercizio della «funzione giurisdizionale» nell'ambito della giurisdizione ordinaria, rispetto alla quale, come è testimoniato appunto dall'art. 102, 1° comma, Cost., condizione essenziale è l'assoggettamento a uno specifico stato giuridico. La Costituzione ammette che alla funzione giurisdizionale, esercitata dagli organi di giurisdizione ordinaria, possano partecipare «cittadini idonei estranei alla magistratura» (art. 102, 2° comma, Cost.), ma in una logica (quella della partecipazione dei cittadini alla funzione giudiziaria) che è ben diversa da quella del Memorandum. Prevede infine che all'ufficio di consigliere di Cassazione, «per meriti insigni», possano essere chiamati professori universitari e avvocati con particolari requisiti (art. 106, 3° comma, Cost.): in questo modo essi diventano però a tutti gli effetti magistrati ordinari. L'inserimento di giudici speciali nei collegi della Cassazione esorbita, pertanto, dal quadro costituzionale che, da parte sua, risulta puntuale, anche per quanto attiene all’esercizio della funzione».
[5] L’espressione si legge in B. Sordi, Interesse legittimo in Enciclopedia del diritto, Annali, II, tm. II, Milano, 2008, 729.
[6] A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubb., 2013, 346.
[7] E. Cannada-Bartoli, Giurisdizione (conflitti di) voce dell’Enciclopedia del diritto, 1970, XIX, § 11.
[8] Si vedano, in tema, le penetranti osservazioni di A. Corpaci: «La disciplina dei conflitti, e la allocazione in capo alle Sezioni Unite della competenza a decidere in materia, hanno, come unanimemente riconosciuto, una valenza politico-istituzionale di grandissima rilevanza. … Dovendosi così apprezzare, aggiornata ai nuovi valori, la funzione di rilevanza costituzionale che l'ultimo comma dell'articolo 111 assegna alla Cassazione, per altro a conferma di una riconduzione ad unità al vertice, presente anche prima del 1948», op. cit., 353.
[9] Così, a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, A. Lamorgese, Note a margine al Memorandum sulle giurisdizioni, in Foro it. 2018, V, 82
[10] In questo senso, valorizzando il ruolo di vertice svolto dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti nell’ambito dei rispettivi plessi giurisdizionali, A. Pajno in Nomofilachia e giustizia amministrativa, in Rassegna forense, 3-4 2014, 641 e segg., reperibile anche on line al link:
[11] Così, infatti, concludono A. Carratta, G. Costantino e G. Ruffini in Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Cassazione in Foro it. 2018, V, 76: «È infatti evidente che, se al ricorso per cassazione “per violazione di legge” viene riconosciuto valore costituzionale, coerenza vuole che alla stessa Cassazione venga attribuita la funzione di assicurare l'esatta e uniforme interpretazione della legge. Ciò che in più occasioni ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale, parlando della Cassazione come del “massimo organo di nomofilachia” (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210, rel. G. Lattanzi, id., Rep. 2013, voce Giudizio abbreviato, n. 43) o come organo giudiziario cui, ai sensi dell'art. 111, 7° comma, Cost., «compete il magistero della nomofilachia» (così Corte cost. 30 novembre 1982, n. 204, rel. V. Andrioli, id., 1982, I, 2981; e 23 maggio 1986, n. 129, rel. V. Andrioli, id., 1986, I, 2102) o «la filachia delle norme sottordinate» (Corte cost. 5 novembre 1986, n. 231, rel. V. Andrioli, id., 1987, I, 2356)».
[12] A. Proto Pisani e G. Scarselli: La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite in Foro it. 2018, V, 62
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