ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’ANGELO DEL CRIMINE recensione di Franco Caroleo
La storia del più famoso serial killer argentino: i delitti surreali di un candido biondino in un film sospeso tra sensibilità e insensatezza.
Carlitos è un puttino di bellezza preraffaelita, riccioli d’oro e labbra tumide. Carlitos è il più famoso serial killer che ha sconvolto l’Argentina negli anni ‘70.
Dopo Ted Bundy, esce nelle sala italiane un altro film chiamato a scardinare le logiche lombrosiane: con “L’angelo del crimine” (titolo originale “El Angel”, prodotto da Pedro Almodóvar e presentato a Cannes 2018 nella Sezione Un certain regard), Luis Ortega ci regala il ritratto di un giovanissimo criminale dal volto angelico e dalla distaccata spietatezza.
È la vera storia del diciassettenne Carlos Robledo Puch, conosciuto come “l’angelo della morte” o “l’angelo nero”, che tra il 1971 e il 1972 a Buenos Aires ha compiuto 42 rapine e 11 omicidi.
Ma scordatevi gli heist movie. Non ci sono piani architettati accuratamente e non ci sono colpi grossi.
Il nostro angelo non sembra molto interessato ad uccidere e a rubare: balla, esplora, si mira e si rimira agli specchi delle case di lusso, teatro delle sue scorribande.
Carlitos ondeggia tra la psicopatia e la normalità, mentre ammicca suadente a Ramon, suo compagno di avventure, dal quale vorrebbe essere amato nel segno di un’omosessualità dolce e pudica.
E nel suo ondeggiare ci confonde, come ci confondono le sue decisioni criminali e le sue emozioni, sempre al limite tra sensibilità e insensatezza, tra indifferenza e rimorso.
L’Argentina post-peronista, i pantaloni a zampa, il rock ferroso (c’è pure spazio per una frizzante versione spagnola di House of the rising sun) e le luci calde fanno da sfondo a questi delitti sospesi in un’atmosfera surreale di lieve follia: fughe rallentate, sparatorie insicure, intervalli di lucida crudeltà.
Qualcuno rimprovera al regista di essersi innamorato della sua ricostruzione estetica e di aver rivolto troppa attenzione alla superficie esterna della vicenda, depurandola dal contesto storico e sociale.
Obiezione per certi versi condivisibile.
Ma forse questa superficialità è la stessa che predomina in quell’Argentina del terrorismo nero, in cui dilagava la disinformazione e mai si sarebbe potuto immaginare che potesse essere una minaccia un biondino dai modi gentili.
E poi, il magnetismo dell’angelo (nella magistrale interpretazione dell’esordiente Lorenzo Ferro), l’eleganza della fotografia e il finale delirante stanno lí a ricordarci che il cinema è, prima di tutto, visione.
Sommario: 1. La democrazia diretta. 2 La democrazia e la protezione dei diritti individuali. 3. La c.d. e-democracy. - 4. La partecipazione estesa dei deliberanti. - 5. La democrazia e il senso civico.
1. La democrazia diretta.
La democrazia diretta è tradizionalmente distinta da quella indiretta o rappresentativa. In quanto rappresentativa, la democrazia moderna sembrerebbe a livello semantico essere la negazione della sua radice etimologica: ‘potere del popolo’ è espressione bizzarramente fuorviante. In base al principio ‘democratico’ di rappresentanza, nessuna decisione politica è in sé ‘democratica’: democratiche (in senso rappresentativo) sono semmai le condizioni.
Si dice democrazia diretta quella che consente ai cittadini di esprimersi, tramite il voto, su questioni pubbliche. È ciò che in alcuni paesi accade con il referendum (parola di origine latina in uso nelle principali lingue europee, lingue slave comprese, tranne che per il greco moderno, Δημοψήφισμα, ‘risoluzione popolare’, per le lingue nordiche – norvegese folkeavstemning, svedese folkomröstning, danese folkeafstemning – l’olandese volksraadpleging, il finnico määritelmät) che però è procedura eccezionale e non ordinaria di partecipazione dei cittadini al voto.
In Italia è così e per almeno tre motivi: a) da un lato si intende il referendum come il momento in cui è auspicabile chiamare al voto i cittadini data la rilevante importanza del punto, ma è altresì escluso in alcune materie, quali le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali; b) la proposta soggetta a referendum è soggetta ad approvazione a condizione che venga richiesta da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli regionali; c) la proposta è infine approvata solo se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto (art. 75 della Costituzione italiana).
Certamente, una forma di democrazia diretta è quella che consente agli elettori di votare il Capo dello Stato, come accade in alcuni paesi ma non in Italia, dove il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri (art. 83 della Costituzione italiana).
V’è da dire che le c.d. ‘elezioni primarie’, quelle che consentono agli iscritti a un movimento politico di esprimere una preferenza su candidati interni a esso o di una coalizione, in Italia non rappresentano un tipo di democrazia diretta in senso stretto. In primo luogo, perché non sono disciplinate da una legge nazionale (vi sono due leggi regionali, una in Toscana e una in Calabria) ma dai singoli partiti. In secondo luogo, perché a causa di questa regolamentazione non generale e astratta tale procedura non ha natura sistematica né universale.
La Svizzera è molto probabilmente il paese nel quale è vigente al più esteso livello un sistema basato sulla democrazia diretta: nazionale, cantonale e comunale. Ed è anche il paese in cui si ha la prova del fatto che è ammissibile in via ordinaria e non straordinaria la richiesta dei cittadini a votare su questioni pubbliche, mentre altrove questo viene fatto da parlamenti e governi. Per referendum in Svizzera si intende soprattutto una qualunque procedura di abrogazione di una legge vigente su proposta di sole cinquantamila firme in cento giorni, anche in materia di trattati internazionali (caso escluso in Italia).
2 La democrazia e la protezione dei diritti individuali.
Legittimare la democrazia in base a un elemento motivazionale di tipo etico ispirato alla protezione dei diritti individuali non è un atto richiesto della procedura democratica, e nemmeno necessario: la sua contingenza attiene alle possibilità di qualunque forma di governo (anche non ‘democratico’).
Dal punto di vista formale, in primo luogo, un governo autocratico potrebbe garantire persino meglio espressioni di eguali libertà individuali quali diritti o capacità.
Dal punto di vista della prassi politica, in secondo luogo, i soggetti della democrazia rappresentativa, a differenza della democrazia diretta, non sono (più) gli individui, ma gruppi coalizzati attorno a interessi. In tal senso, la democrazia è irrimediabilmente senza diritti. Non ne è il presupposto logico, né lo strumento etico.
Questo fatto è, peraltro, perfettamente spiegabile attraverso alcuni modelli di teoria della giustizia liberali. Un utilitarista potrebbe dire che la massimizzazione della libertà passa attraverso la massimizzazione di ciò che è utile, e quindi di ciò che interessa a prescindere dalle reali ed effettive spettanze dei singoli individui (e quindi dei loro diritti di libertà). Un libertario alla Nozick potrebbe dire che la libertà di tutti non può essere messa ai voti e non può essere oggetto di delibere democratiche, dato che il singolo viene tutelato dalle proprie libertà negative e non democraticamente dagli interessi della maggioranza. Persino un liberale rawlsiano potrebbe giungere ad ammettere che, in nome del principio di differenza, ciò che democraticamente conta non è la libertà del singolo ma la distribuzione di risorse a partire dai soggetti meno avvantaggiati (quindi l’interesse di gruppi sociali).
3. La c.d. e-democracy
Controverso è se la c.d. e-democracy, o democrazia elettronica (o digitale) sia in senso stretto una forma di democrazia diretta o in senso lato una qualche forma di democrazia. Quello della democrazia elettronica è un concetto significativo di dimensioni ampie e differenti.
La e-democracy potrebbe essere considerata una sorta di democrazia in grado di coinvolgere direttamente (senza rappresentanza) i partecipanti, avvalendosi di tecnologie informatiche. È quel che normalmente si intende per ‘democrazia digitale’. Nell’Encyclopedia Britannica, il politologo Andrew Chadwick definisce ad vocem la e-democracy come “l’uso delle tecnologie di informazione e di comunicazione capaci di migliorare e in alcuni casi di sostituire la democrazia rappresentativa” (https://www.britannica.com/topic/e-democracy).
4. La partecipazione estesa dei deliberanti
Il fatto che la democrazia non implichi in senso stretto la tutela dei diritti, vale tanto per la democrazia diretta quanto per quella rappresentativa. Domandiamoci perché quindi essa è comunemente annoverata come la forma di governo che li tutela.
La risposta è probabilmente contenuta nel fatto che lo strumento democratico implica una partecipazione estesa dei deliberanti, e che i deliberanti hanno un interesse a tutelare una forma di vita accettabile. Questo è sicuramente vero: escludendo l’ipotesi improbabile di una maggioranza di convinti masochisti, chi delibera dichiara un interesse alla promozione di una qualche forma di vita buona. Il punto, però, è che non sempre chi delibera rappresenta gli interessi dei rappresentati, e non sempre le decisioni della maggioranza sono universali. E questo vale anche nel caso della democrazia diretta (è il problema dei potenziali interessati).
Nelle maggioranze parlamentari moderne, le aspettative democratiche sono basate sul consenso. Il consenso non è una manifestazione resipiscente di volontà, ma è tecnicamente un voto. Un voto non è altro che una delle possibilità contenute nella necessità di una logica binaria: sì o no.
Anche nell’ipotesi della democrazia non rappresentativa, tuttavia, è lecito pensare che si potrebbe deliberare un assetto che comporti il sacrificio di qualche diritto.
La questione dell’estensione o meno del consenso è legato a quella della c.d. ‘qualità della democrazia’. La misurazione della qualità della democrazia contiene a mio avviso un paradosso che non è risolvibile. Da un lato, l’aspirazione a essere di qualità implicitamente incorpora l’idea che la democrazia sia la migliore forma di governo – per motivi quantitativi, però: estensione del diritto di voto, potere di eleggere chi avrà il potere di governare. Da un altro, però, asserire che il dato della qualità della democrazia sia frutto di più o meno cospicua estensione, non dimostra che ‘estensione’ significhi ‘governo dei migliori’. Pertanto, ogni misurazione della qualità, in quanto misurazione di indicatori, finisce per essere sempre una operazione quantitativa.
In tal senso, la distinzione tra le due forme di democrazia ha più una rilevanza formale che sostanziale.
5. La democrazia e il senso civico.
Probabilmente, alla base di tutto sta il fatto che la qualità della democrazia dipenda dalla qualità dei cittadini e quindi dal livello di sviluppo del ‘senso civico’. Il problema pertanto non è misurare la qualità della democrazia o valutare se la democrazia sia o meno la migliore forma di governo o il governo dei migliori. La domanda filosofica è: come costruire il senso civico? È una domanda che implica un’altra domanda: se esistono virtù morali propedeutiche a quelle politiche, come vanno individuate? Si può rinunciare alla tradizione morale di un popolo a vantaggio di una integrazione culturale?
Questo è a mio avviso un problema importante per la filosofia politica. Per ‘costruzione del senso civico’ non intendo qualche vaga forma di pedagogia moralistica, ma correttezza, equità e buone pratiche. Gli individui possono avere fiducia nelle istituzioni se queste ultime sono in grado di assicurare speditezza nelle decisioni, trasparenza amministrativa, verificabilità del gradimento dei servizi negli utenti, coinvolgimento attivo degli individui (categorie professionali, cittadini, lavoratori) alla partecipazione civica e politica. Se la democrazia è il frutto del liberalismo, occorre prendersi la responsabilità di adottare atteggiamenti politici coerenti con le teorie liberali: rispetto dei diritti costituzionali; priorità e neutralità del diritto positivo di fronte a norme culturali; ostacolare la malafede, il sentito dire, il perbenismo sociale, l’opinionismo; promuovere il criticismo pubblico, il rispetto delle regole, l’avventura della ricerca scientifica e il benessere individuale, tanto nel lavoro quanto nel tempo libero. In fin dei conti, abbiamo bisogno di cose semplici e non di tecnicismi. Operazione semplice ma non facile.
* Professore ordinario di Filosofia politica, Dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università degli studi di Catania. Email: fsciacca@unict.it
Un interessante sguardo all’interesse, individualmente considerato, del procreato post mortem di uno dei genitori; una tutela che prescinde dalla collocazione di tale diritto all’interno della famiglia bigenitoriale e dalle limitazioni della disciplina nazionale in materia di procreazione medicalmente assistita. Ancora una volta, così come nei casi di filiazione da parte di coppie omosessuali e di adozione in casi particolari, la Cassazione appare giustamente anteporre i diritti costituzionalmente protetti del bambino alle scelte etico-politiche del legislatore ordinario.
1. La procreazione post mortem: il caso oggetto di causa
Il caso oggetto della pronuncia in commento, che altro non costituisce se non una delle numerose ipotesi innovative di concepimento e procreazione rese possibili dalle (ormai non più) recenti tecniche di inseminazione e fecondazione, è quello di una donna che, utilizzando il seme del marito deceduto e con il preventivo assenso di quest’ultimo, ha dato alla luce una figlia in Italia.
La madre ha dunque chiesto la formazione in Italia (sebbene la fecondazione fosse avvenuta in Spagna) dell’atto di nascita della medesima con indicazione della paternità del suo, ormai ex, marito di cui aveva crioconservato il seme. A fronte del rifiuto dell’Ufficiale dello Stato Civile di iscrivere la paternità della minore, la stessa ha adito il Tribunale chiedendo la rettifica dell’atto di nascita ai sensi dell’art. 95 d.p.r. n. 396/2000.
Il Tribunale, tuttavia, sulla base della considerazione per cui oggetto del giudizio era la mera legittimità del rifiuto opposto, ha rigettato la domanda, evidenziando che all’ufficiale dello stato civile fossero precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, spettanti, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria. Dunque, la madre avrebbe dovuto proporre un giudizio per l’accertamento della paternità, nell’ambito del quale non vi erano limiti probatori ai sensi dell’art. 241 c.c.. Dunque, il rifiuto dell’iscrizione della paternità da parte del pubblico ufficiale non avrebbe leso i diritti della minore, perché l’atto di nascita era comunque stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità. In conclusione il giudice di prima istanza ha ritenuto che tale rifiuto non fosse contrastante né con la giurisprudenza, anche comunitaria afferente l’attribuzione dello status come strumento di tutela della identità dell’individuo e del diritto al rispetto della vita familiare ex art. 8 della CEDU, né con la l. n. 40/2004, art. 8, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Anche la Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha seguito tale impostazione ermeneutica, ritenendo nel caso di specie applicabili comunque le disposizioni generali dettate dal codice civile, richiamate dal Tribunale, che prevedono la presunzione di paternità solo se la nascita non avviene oltre i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (e nel caso di specie dalla morte del padre), non derogate dall’art. 8, l. 40/2004. Ha altresì condiviso che il riconoscimento del rapporto di filiazione, in ogni caso, in quanto implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile. Parimenti, infine, ha considerato tutelati l’interesse ed i diritti della minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli altri strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno.
Contro tale decisione la madre della minore ha proposto ricorso in Cassazione deciso con il provvedimento in commento.
2. Inquadramento normativo della fattispecie
Sul punto, occorre preliminarmente evidenziare come la normativa nazionale non sia, così come in altri campi di recente evoluzione, sincronizzata con le crescenti esigenze che provengono dalla prassi. Infatti, in sostanza l’unica norma che si occupa, peraltro indirettamente, del cosiddetto fenomeno della P.A.R. (postmortem assisted reproduction) è l’art. 5 della l. n. 40 del 2004, il quale dispone che «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La normativa nazionale, dunque, appare chiara nel vietare nel nostro paese l’effettuazione di interventi di fecondazione medicalmente assistita nel caso in cui i due genitori non siano entrambi viventi in tale momento[1]. Merita tuttavia menzione il fatto che in una delle proposte di legge di una passata legislatura, era prevista l’inseminazione post mortem, condizionata al «manifestato espresso consenso alla utilizzazione (del seme) dopo la morte», e disponendo che venisse praticata, al più tardi, entro il quinto anno dal decesso ([2]).
Parimenti rilevanti, come si vedrà nel corso della trattazione, risultano i successivi articoli del medesimo testo legislativo; in particolare, l’art. 8, il quale dispone che «I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6» e l’art. 9, il quale prevede ai primi due commi che «Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396».
3. Il percorso argomentativo della Suprema Corte: l’ambito del giudizio ex art. 95, d.p.r. 396/2000
In primo luogo, prima ancora dell’analisi del merito della questione oggetto di contrasto, principalmente dottrinario, la Cassazione si è trovata a dover puntualizzare quale fosse l’ambito del giudizio demandato all’autorità giudiziaria nel caso del ricorso ex art. 95 d.p.r. cit., dato che entrambi i giudici territoriali erano giunti al rigetto dell’istanza anche in ragione del fatto che, pur volendo ritenere sussistente un rapporto di paternità biologica fra figlia e padre, comunque tale valutazione non sarebbe potuta essere oggetto del sindacato dell’Ufficiale dello Stato Civile.
A ben vedere, tuttavia, l’azione di rettificazione in esame non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, quale è nella realtà (o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello stato civile. Pertanto, tale difformità potrebbe dipendere non solo da un mero errore materiale dell’Ufficiale, ma anche da un qualsiasi altro vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto ([3]).
Ciò posto, tuttavia, la Corte ha condivisibilmente puntualizzato quale fosse l’erronea prospettazione da cui era stata affrontato il tema in questione: una volta sancito che il procedimento in esame è volto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e come, invece, risulta dall’atto dello stato civile, ciò che effettivamente era rilevante nella controversia in esame non era la tipologia di sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile, ma quale fosse l’ambito della cognizione del giudice che «in un panorama complesso quale quello attuale della genitorialità, sempre più percorso dalla scomposizione del processo generativo per effetto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dall’ufficiale predetto».
Ed in effetti appare giusta la prospettiva della Cassazione, in quanto l’autorità giudiziaria non è investita di un potere di mero controllo formale dell’operato dell’ufficiale di stato civile secondo la funzioni allo stesso affidate, bensì, come detto, di un controllo della corrispondenza fra atto dello stato civile e realtà sostanziale, a prescindere dall’originaria possibilità per il soggetto formatore dell’atto di rendersi conto o meno di tale difformità. Il giudice, pertanto, dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo; non si giustificherebbe, altrimenti, nemmeno la possibilità prevista dall’art. 96 d.p.r. 396/00, di «...assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile... ».
Quindi, se con riferimento alla dichiarazione di nascita in quanto tale l’ufficiale dello stato civile non ha discrezionalità, viceversa con riferimento alla dichiarazione della madre in merito alla paternità (seppur suffragata dalla documentazione che attestava la relazione biologica e il consenso del padre), ingenerando essa stessa effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale ha il potere/dovere di rifiutare di riceverla ove – come poi effettivamente avvenuto – la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 7), e tale sindacato può e deve essere censurabile dal giudice.
4. Segue: lo status del procreato “post mortem” e il rapporto con la disciplina normativa nazionale
Come si è detto in precedenza, non risulta rilevante per la soluzione del caso concreto in esame, il tema della liceità, o meno, secondo la legislazione italiana (cfr. l. n. 40 del 2004), della tecnica di P.M.A. predetta (fecondazione omologa post mortem); unico punto decisivo è la corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato dalla madre all’ufficiale dello stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto. Il vero quesito che si pone, dunque, nei casi in questione, in cui le parti aggirano i divieti nazionali ponendo in essere operazione di P.M.A. all’estero, è quello di qualificare non l’operazione in sé ma il rapporto di paternità relativo al procreato. E più nello specifico, se debbano trovare esclusiva applicazione i meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231 e 233 c.c. in relazione alla prova della paternità o se, invece, sia necessario anche tener conto della disciplina della L. n. 40 del 2004 circa il rilievo determinante del consenso al processo generativo mediante P.M.A.
Ciò posto, il caso della procreazione con seme crioconservato proveniente da soggetto defunto, pone questioni differenti rispetto alle altre tematiche di attualità di recente interesse giurisprudenziale quali la trascrizione di atti formati all’estero e relativi a figli di coppie omosessuali. Tuttavia, l’analisi del caso in esame non può comunque prescindere, come sottolineato anche dalla pronuncia in commento, dalla considerazione dei nuovi bisogni emergenti (un tempo ignoti, non prevedibili ed ancora non – o parzialmente – regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale) e dalla formazione dialogica e condivisa dei diritti fondamentali della persona attraverso l’opera di definizione delle Corti Europee. Assolutamente interessante, e punto focale del tema in esame, pare essere la considerazione per cui la genitorialità, proprio in virtù di tali spinte comunitarie ed europee, non sia più da considerarsi solamente nell’ambito familiare o, ancor meglio, dell’unità matrimoniale. In altri termini, la Corte di Cassazione prende atto della necessità, nell’interpretare la normativa nazionale e rispondere al quesito posto nel presente paragrafo, di tenere in considerazione come ormai la scienza medica e l’emersione di una dimensione della genitorialità, di per sé considerabile e meritevole di tutela in prospettiva del procreato, influiscano anche nella scelta interpretativa in esame.
Ciò posto, con riferimento alla normativa nazionale, l’art. 232 c.c. dispone che si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; dunque se si ritenesse applicabile tale disciplina, vi sarebbe nel caso di specie corrispondenza fra la realtà del fatto come complessivamente dichiarato all’ufficiale di anagrafe e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo concretamente redatto, non operando la presunzione di legge e non potendosi considerare automaticamente la minore come “figlia” del padre. Parimenti, il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ai sensi del vigente art. 250 c.c. richiede le formalità di cui all’art. 254 c.c.; di tal ché, il mancato rispetto delle stesse imporrebbe all’ufficiale dello stato civile di non iscrivere nel registro la paternità del soggetto premorto, in quanto tale adempimento sarebbe difforme dalla situazione quale è secondo la previsione del codice civile.
Viceversa, come visto in premessa, la disciplina in materia di filiazione di cui alla L. n. 40 del 2004, prevede all’art. 8 una clausola di parificazione dei figli nati da P.M.A. e all’art. 9 l’impossibilità per il padre di disconoscere la paternità del figlio in caso di consenso prestato a P.M.A. di tipo eterologo.
Ebbene il punto nodale della questione interpretativa, su cui anche la Procura Generale appare aver preso una posizione differente rispetto a quella della Cassazione, è se tale disposto normativo abbia codificato un’alternativa disciplina di attribuzione dello status.
La prima Sezione della Cassazione dà risposta positiva a tale quesito, secondo un percorso argomentativo che sembra meditato e ben argomentato alla luce dei riferimenti (legislativi e non) tenuti in considerazione.
In primo luogo, infatti, occorre evidenziare che non costituisce un’interpretazione “irrazionale” della l.. 40/2004 quella per cui seppur alcune tecniche di P.M.A. siano in Italia vietate ciò non significa che non si debba considerare la paternità del procreato secondo il disposto di cui all’art. 8 l. cit.. Ed infatti, le norme di cui agli artt. 4, 5 e 6 investono più specificamente le fasi dell’accesso alle tecniche di P.M.A. e la loro applicazione, e sono contenute in altro capo del testo normativo in esame. Né il legislatore ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita”; anzi, l’aver espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo ([4]), e l’aver previsto in relazione alla stessa l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, presuppongono che, anche in simili casi, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Addirittura, per quanto concerne il nato da P.M.A. di tipo eterologo, la L. n. 40 del 2004, art. 9, comma 1, stabilisce che tale consenso sia liberamente manifestabile anche mediante “atti concludenti”, da cui dovrebbe desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa; a maggior ragione tali “atti concludenti” sarebbero da ritenersi idonei a dimostrare il consenso alle pratiche di procreazione assistita omologa.
In secondo luogo, valorizzando appunto la tutela del procreato e il suo interesse alla bigenitorialità (o, con riferimento al caso di specie, alla certezza del suo rapporto genitoriale) l’eventuale illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. L’art. 8 in questione dunque necessita di essere interpretato, come ogni norma dell’ordinamento in effetti, alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali. Di fatti una tale interpretazione risulta conforme sia ai primi, in particolare quelli di cui agli artt. 2 e 30 Cost., da cui deriva che il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[5], sia a quelli di provenienza sovranazionale[6].
Infine, si rimarca il carattere centrale della discendenza biologica, non in dubbio nel caso di specie e che prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita; dato che le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano inapplicabili in materia, in quanto dettati a diverso fine, quei principi codicistici basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza (di cui agli artt. 232 e 234 c.c.). Peraltro, il c.d. “diritto alla bigenitorialità” non risulta violato nel caso di specie, in quanto comunque il procreato, a prescindere dal riconoscimento della sua relazione genitoriale con il premorto, sarebbe nato con una sola figura genitoriale. Dunque, unico interesse del nato da tutelare nel caso in esame è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bigenitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità. Peraltro, in proposito, la Cassazione effettua un interessante richiamo ad un altro tema attuale e sempre di natura bio-etica, ossia alla sussistenza del “diritto a non nascere”; confermando implicitamente l’orientamento già assunto dalla S.C. in altre pronunce in materia risarcitoria[7], anche nel caso di specie il diritto del procreato a venire al mondo in una famiglia monogenitoriale andrebbe confrontato non con la nascita in una famiglia bigenitoriale, bensì con l’alternativa di non nascere affatto, dato che tale tecnica di procreazione era l’unica che garantiva la nascita della bambina[8]. Peraltro, non esiste neppure una garanzia di inserimento in un contesto familiare bigenitoriale di rilevanza costituzionale, come confermato dalla Consulta in tema di adozione[9].
Pertanto, appare condivisibile che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita di cui all’art. 8 l. cit. configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico; lo status di figlio del nato da P.M.A. deriverebbe direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A. Dunque, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà. Nel caso di specie, peraltro, non sarebbe stato sufficiente il mero consenso alla fecondazione artificiale o alla crioconservazione del seme, ma occorreva, come in effetti è stato fatto, un espresso consenso riferito proprio all’utilizzo del seme anche successivamente alla morte del padre donante.
5. Brevi conclusioni
Il passo che la Cassazione compie, rispetto alla posizione interpretativa “tradizionale” suffragata anche dalla Procura Generale nelle sue conclusioni, è appunto quello di scindere completamente la valutazione della tecnica di procreazione in sé dalla tutela degli interessi del procreato. E tale scelta non può che essere condivisibile, nella misura in cui non appare opportuno condizionare la tutela di diritti fondamentali della persona al rispetto di una disciplina che, pur contenuta nel medesimo testo legislativo, riguarda un momento antecedente alla nascita e contiene scelte di natura etico-politica che, però, non possono in alcun caso limitare diritti fondamentali della persona.
Né una differente interpretazione potrebbe essere suffragabile sulla base di una logica preventiva; l’eventuale prassi di recarsi all’estero per la realizzazione di tali operazioni non consentite in Italia, come sta avvenendo per la fecondazione eterologa in coppie omosessuali che poi chiedono la trascrizione in Italia del certificato straniero in cui sono indicati entrambi i genitori, in ogni caso non giustificherebbe la compressione di una libertà del minore. Lo stessa normativa di settore, infatti, pone delle sanzioni a carico dei genitori che nel nostro paese pongono in essere tali pratiche illecite; è per primo il legislatore, dunque, che ha individuato su chi dovranno cadere le eventuali responsabilità per la violazione dei limiti delle P.M.A.. In alcun modo, comunque le stesse potranno addossarsi ai figli.
[1] Sul punto anche una pronuncia del T. Bologna, Sez. I Sent. 31 maggio 2012, FI, 2012, 12, 1, p. 3349.
[2] Il progetto di legge, d'iniziativa del deputato Teodori, fu presentato alla Camera il 13.3.1985, come ricorda Dogliotti, Inseminazione artificiale e rapporto di filiazione, in Giur. it., 1992, 1 ss, spec. nt. 14.
[3] Cfr Cass. Sez. I 16 dicembre 1986, n. 7530, FI, 1987, I, p. 1097.
[4] Nella formulazione conseguente all’intervento di C. Cost., 10 giugno 2014, n. 162, Pres. Silvestri, Rel. Tesauro
[5] cfr. Cass. Sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963, Nuova Giur. Civ., 2018, 9, p. 1223; Cass., S.U. 25 gennaio 2017 n. 1946, Famiglia e Diritto, 2017, 8-9, p. 740; Cass. Sez. I 21 luglio 2016, n. 15024, Famiglia e Diritto, 2017, 1, p. 15; Cass. Sez. I, 30 settembre 2016, Giur. It., 2017, 11, p. 2365. Nel medesimo senso anche C. Cost. fin dalla sentenza 22 settembre 1998, n. 347, che già sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità
Cass. n. 14878 del 2017.
[6] Cfr. le sentenze “gemelle” della C. edu, Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11.
[7] Sul punto Cass., S.U. 22 dicembre 2015, n. 25767, CG, 2016, 1, p. 41.
[8] Si veda, in dottrina Procreazione assistita. I diritti del soggetto procreato post mortem, Andrea Natale, Fam. Pers. Succ., 2009, 6; sul punto anche T. Palermo, 29 dicembre 1998, Famiglia e dir. 1999, p. 52, nel quale già era stato affrontato, seppur in maniera non compiuta, il tema dello status del nato.
[9] C. Cost., 16 maggio 1994, n. 183, GI, 1995, I, c. 540.
1. Lo schema di disegno di legge recentemente elaborato dal Governo contiene alcune modifiche al decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 denominato “Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57” lascia irrisolte le questioni relative al regime della magistratura onoraria nel sistema giudiziario italiano.
L’assunto di base è che senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non può funzionare (molti uffici non potrebbero reggere) e se le risorse umane (le persone) che la compongono sono utilizzate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.
Lo schema del disegno di legge va studiato in rapporto al decreto legislativo che si propone di migliorare e, per sua natura, resta aperto alle modifiche. Allora, è bene che Giustiziainsieme ritorni a occuparsi di questa materia la cui regolazione è ancora suscettibile di evoluzioni e che incide in modo rilevante sulla azione giudiziaria ordinaria.
I nodi problematici principali non sciolti dal decreto legislativo del luglio 2017 e dallo schema di disegno di legge riguardano:
a) la condizione di prolungata precarietà dei magistrati onorari per decenni rinnovati nelle loro funzioni (quelli in servizio alla data del 15/08/2017);
b) il senso funzionale complessivo della magistratura onoraria nel sistema giudiziario.
Valgono, in prima battuta e fatta salva l’opportunità di ulteriori approfondimenti, le seguenti considerazioni.
2. Ai magistrati onorari per decenni rinnovati nelle loro funzioni è ora consentita la permanenza illimitata in servizio fino a 68 anni, ma la disciplina delle possibilità del loro impiego depotenzia la valenza della modifica perché risulta insoddisfacente per le giuste aspettative economiche e non valorizza compiutamente risorse umane che hanno consolidato esperienze e capacità idonee a fronteggiare gravi difficoltà (soprattutto negli uffici più piccoli e esposti alle scoperture di organico dei magistrati togati). Il mancato ricorso allo schema legislativo usato nel 1974 per i vicepretori spreca l’occasione per un intelligente e pragmatico intervento legislativo (più economico, peraltro, dell’aumento dell’organico dei togati).
La funzione di supporto di questa categoria - prevedendosi ancora un regime a tempo parziale - risulta compressa, anche tenendo conto della riespansione delle competenze dei giudici onorari di pace e dei viceprocuratori onorari a quelle anteriori alle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 116/2017. Un rapporto a tempo pieno eliminerebbe in radice le possibilità di incompatibilità ambientale e professionale, incentivando la qualità e la quantità degli apporti.
In ogni caso, la lievitazione della indennità lorda complessiva annuale (art. 31) e la rimodulazione delle indennità giornaliere ancora non rispettano i parametri ritenuti adeguati dal Comitato europeo dei diritti sociali (retribuzione equiparata, pro rata temporis, al magistrato di ruolo all'inizio della carriera), producono risultati solo ipotetici e protraggono una negativa anomalia nel panorama europeo. Nonostante l’incremento di fondi per la Giustizia, si prevedono saldi invariati solo per la magistratura onoraria: è un approccio miope rispetto alle possibilità di sviluppare una efficace azione per ridurre l’arretrato e alle giuste aspettative (anche di previdenza, di ferie, congedo di maternità, indennità di fine-rapporto) dei lavoratori impegnati nel settore, ancora collocati in un limbo nonostante le precise censure espresse dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia (caso Eu Pilot 7779/15/EMPL).
Qualche miglioramento deriva dalla restrizione delle incompatibilità ai casi di rapporti di parentela, affinità e coniugio tra il magistrato e il “familiare” esercente la professione forense e dalla parziale estensione ai magistrati onorari della possibilità di assegnazione a altra sede per assistere un familiare disabile (art. 33 legge n. 104/1992, n. 104), permane l’assenza di previsioni per i trasferimenti connessi a esigenze familiari.
3. Relativamente alla attribuzione delle competenze, è evidente che le idee ispiratrici non sono ancora chiare e coerenti. Soprattutto, sono carenti rispetto alla soluzione dei problemi concreti.
Lo schema governativo amplia a tutti i casi di citazione diretta in giudizio la competenza del vice procuratore onorario delegato a assumere le determinazioni relative all'applicazione della pena su richiesta. Sarebbe utile razionalizzazione (anche per esigenze organizzative, oltre che di coerenza) estendere all’insieme dei processi trattati dal vice procuratore in udienza la possibilità di esprimere il consenso, scelta, del resto, sulla quale il giudice esercita comunque la sua valutazione finale. In generale, risultano tendenzialmente disfunzionali le scelte che comportino l’alternarsi in udienza del vice procuratore e del sostituto procuratore togato.
La riforma segue l’idea di evitare la costituzione di ruoli autonomi dei giudici onorari, se non nei casi previsti dall’art. 11 d.lgs. 116/2017 (quando il Tribunale si trova in situazione di grave sofferenza, sulla base di indici rigorosamente stabiliti).
Tuttavia, l’impatto dell’applicazione di questa idea alla realtà giudiziaria attuale può produrre esiti preoccupanti. Già art. 10, commi 11 e 12 d.lgs. 116/2017 prevede l’istituto della subdelega per i procedimenti civili, renderlo applicabile anche ai procedimenti penali, consentirebbe di delegare al giudice onorario (secondo criteri da prefissare tabellarmente) alcuni dei processi penali meno impegnativi. In sede di approvazione del decreto correttivo (previsto dalla legge delega) una variazione in questa direzione sarebbe possibile.
Lo sviluppo del cosiddetto ‘ufficio del processo richiede anni di evoluzioni culturali.
Nel frattempo, ingrottare troppe risorse al suo interno può forse gratificare astratte (e confuse) prefigurazioni di situazioni future ma potrebbe rivelarsi un ennesimo girare a vuoto, una dissipazione di risorse disfunzionale alla efficace e rapida amministrazione della Giustizia.
Nella Palermo degli anni ottanta, tra la pace apparente tra le famiglie mafiose di città e campagna e i progetti di nuovi e più lauti profitti derivanti dalla droga, riesplodono i contrasti interni a Cosa Nostra a tutto vantaggio del gruppo egemone e spietato dei corleonesi di Totò Riina.
Tommaso Buscetta, forte di un carisma personale ad onta del suo ruolo di semplice soldato nella gerarchia criminale, fugge in Brasile, scampando a morte certa. Tornerà presto in Sicilia estradato dalle prigioni sudamericane dove era finito da grosso narcotrafficante.
Nella fessura tra cronaca e storia Bellocchio colloca dunque il suo lavoro.
Arduo ed esigente, apparentemente condizionato dalla vincolante verità dei fatti, eppure in grado di astrarsene, forgiandosi in sequenze emotive non scontate e rifrazioni binarie continue e seducenti, responsabili di un’attenzione al dubbio piuttosto che al giudizio.
E così, la dissociazione di Buscetta dallo Stato e a sua volta da Cosa Nostra autorizza nel regista l’edificazione di un dualismo espressivo che non indulge a comprensione né cede a riprovazione o forse, nel rimbalzo tre le due, ne annulla la convergenza riportandola al ground zero dell’eterno contrasto eros/thanathos, argini di un conflitto interno del pentito, moltiplicato nel sociale, che in ogni parola, accento, silenzio o ruga Favino recita con magistrale padronanza di tutto.
L’alternanza sonno/veglia in don Masino, disseminata su tutto l’itinerario filmico con i suoi incubi virtuali e reali, sfuggendo al senso della chiaroveggenza e del timore onirico, riafferma la compresenza del conflitto, riproposto (mir)abilmente monco nell’ultima scena quando l’uomo ormai anziano ed infermo, delicatamente denudato dei simboli della guerra (l’arma tenuta al suo fianco), silenziosamente celebra la sua sopravvivenza (anche al giudice Falcone) concedendosi ad un sonno senza sogno.
L’intermezzo dello sciame di topi che giungono o fuggono, più semplicemente corrono, incastonato tra le scene di mafia e di giustizia, non cede alla banalità del facile paragone con gli uomini di Cosa Nostra ma a ben vedere eleva il suo senso nel dualismo steinbeckiano (“Uomini e Topi”) della convivenza tra l’orripilanza del minaccioso animaletto e la forza vincente dell’umanità; un doppio che proprio a Buscetta il film ancora una volta riporta, indirizzando lo spettatore sull’irrisolto dilemma del giusto e dell’ingiusto.
L’interrogativo duplica poi nuovamente il suo percorso filmico nella perfetta proiezione del duplice e parallelo tradimento, sapientemente rappresentato nel voluto accostamento tra l’infedeltà primaria del collaboratore rispetto ai dettami dell’organizzazione criminale e quella, altrettanto primaria, sleale e disgustosa, di Pippo Calò, mafioso di rango transitato con i corleonesi di Riina, reo agli occhi di don Masino di avere accarezzato, coccolato e protetto fin da bambini i suoi figli siciliani per poi ucciderli con spietata e simbolica precedenza e preferenza in quello tra i due più somigliante al padre.
Il confronto processuale Buscetta-Calò, sinonimo scenico anch’esso di un doppio che vince e convince, risolve la difficoltà della riproduzione conducendo il reale e leggendario capolavoro giudiziario ad una rara rappresentazione, non artefatta da toni retorici e/o artifizi filmici captativi di facile ed entusiastico tifo sportivo.
L’altezza della narrazione, intramezzata anche da spazi di sequenze vere e con qualche perdonabile concessione al tipo fiction, ma col concorso di un formidabile cast di interpreti di parole, occhi e gestualità - oltre Favino, Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno) e Fabrizio Ferracane (Pippo Calò) svettano in modo netto, Nicola Calì in assoluto silenzio incarna poi perfettamente lo sguardo nero, minaccioso e beffardo di Totò Riina - centra anche l’obiettivo di consegnare (finalmente) al pubblico una mafia senza onore né valore, gonfia di denaro, gravida di nefaste connivenze istituzionali, avvizzita nei suoi rituali beceri e volgari.
La firma di Nicola Piovani alle musiche del film, l’occasione di una splendida ed eterna Historia de un amor (replicata anche ne “La finestra di fronte” di Ozpetek) e alcuni noti passaggi del Va Pensiero di Giuseppe Verdi, mescolano scene e interpreti in un indistinguibile mix di armoniosa perfezione.
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