ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le prove atipiche nel processo civile
di Giselda Stella
Avevo inizialmente pensato, nell’accostarmi al tema delle prove atipiche, di elaborare una sorta di tassonomia che muovesse da quelle più comuni e note alla giurisprudenza e al foro (si pensi ai verbali delle prove orali raccolte in altro giudizio civile, penale o amministrativo o di altro tipo ancora, alla sentenza che su quelle prove si fonda, alle scritture latu sensu testimoniali provenienti da terzi, alle CTU c.d. prestate, cioè raccolte in altro giudizio oppure alle CTU eccedenti il mandato conferito al perito), per finire con quelle più rare e curiose, come la prova testimoniale in lingua straniera raccolta senza l’ausilio dell’interprete, rimarrebbe deluso.
Certamente non pensavo di dovermi interrogare sull’ammissibilità delle prove c.d. innominate, che mi pareva assolutamente pacifica – senza distinzioni di sorta – sia presso le Corti di merito che nella giurisprudenza di legittimità. Al più, avrei indagato l’efficacia probatoria dei documenti in questione, sulla quale mi pareva che la riflessione fosse più vivace e variegata.
Tuttavia, man mano che andavo selezionando le pronunce utili ad una riflessione sul tema, registravo fastidiosamente il fatto che la piana valutazione di ammissibilità delle prove atipiche da parte della giurisprudenza – sia di merito che di legittimità - fosse argomentata in modo assai povero, sostanzialmente mediante un’acritica reiterazione della proposizione tralatizia secondo cui “nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche” (tra le tante, Cass. n.1593/2017).
Mi sono quindi accostata allo studio della dottrina che maggiormente si è interessata al tema della prova nel processo civile, nella speranza di reperire una base dogmatica convincente che riconducesse pur sempre nell’alveo del sistema le posizioni di tautologica apertura della giurisprudenza, che di fatto mi parevano devianti rispetto alla disciplina legale dell’istruzione probatoria.
Condividevo, difatti, la preoccupazione per cui ad ammettere che il giudice possa utilizzare per l’accertamento del factum probandum elementi diversi da quelli previsti e disciplinati dal nostro legislatore, atipici sia rispetto alle fonti di convincimento sia rispetto al modo in cui tali fonti vengono formate e acquisite al giudizio, si corre il rischio di ridurre i modelli normativi dei diversi procedimenti probatorii ad un “corpus di paterni suggerimenti forniti dal legislatore agli avvocati e ai giudici intorno ai metodi più efficaci e meglio collaudati dalla tradizione per provare e accertare in giudizio i fatti controversi”.
Lo studio delle riflessioni critiche o adesive degli interpreti – la dottrina sul punto è fortemente e motivatamente divisa, a differenza della giurisprudenza – mi ha procurato più incertezze di quante ne abbia risolto, ma quanto meno mi ha consentito un approccio meno superficiale alla questione.
La dottrina favorevole ad una generale ammissibilità delle prove atipiche riposa fondamentalmente sulla convinzione che, considerata la c.d. funzione epistemica del processo, teso cioè all’accertamento della verità materiale, ogni limitazione della prova si risolva in un vulnus alle possibilità per il giudice di accedere al fatto, e pertanto all’infuori delle rules of exclusion espressamente previste dal legislatore (ad es. la hearsay rule, le regole di privilegio della prova scritta dei contratti, le incapacità a testimoniare), il criterio di rilevanza dovrebbe costituire l’unico filtro per l’impiego delle prove nel processo, secondo il principio proprio degli ordinamenti di common law “all facts having rational probative value are admissible, unless some specific rule forbids”.
Detto altrimenti la regola fondamentale, da applicare con priorità logica, è “quella che fa discendere l’ammissibilità di una prova dalla sua rilevanza; le eccezioni a questa regola sono costituite dalle norme che prevedono la inammissibilità di prove rilevanti”.[1]
Si argomenta che la nozione di prova appartiene alla sfera della logica e, pertanto, la disciplina dell’istruzione probatoria non esaurisce la nozione di prova, ma serve unicamente ad escludere l’ammissibilità di taluni mezzi di prova quando ricorrono particolari ragioni di esclusione aventi anch’esse, per lo più, funzione epistemica per essere finalizzate a prevenire o evitare errori di valutazione da parte del soggetto o dell’organo che deve formulare la decisione finale sui fatti.
In definitiva, secondo l’orientamento dottrinale succintamente esposto e condiviso dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria, è prova qualunque dato empirico utile all’accertamento del fatto e non solo quello previsto e disciplinato come tale dal legislatore.
Sennonché, studiando le ragioni della dottrina positivista, e alla luce di una considerazione complessiva delle posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità su questioni strettamente collegate al tema dell’ammissibilità e valutazione della prova nel processo civile, mi sembra di poter pervenire alla conclusione che i rischi connessi all’indiscriminata ammissione delle prove atipiche nel processo superino di gran lunga i benefici conseguibili in termini di massimizzazione delle possibilità di accertamento del fatto e valorizzazione del principio del libero convincimento del giudice e, anzi, finiscano paradossalmente per vulnerare entrambe.
Procedendo con ordine, ritengo che l’impostazione del problema delle prove atipiche in termini di tassatività o esemplificatività del repertorio legale delle prove sia privo di utilità pratica.
Consideriamo che il nostro codice civile, come è stato ben detto, allinea “a guisa di entità omogenee elementi che evidentemente appartengono a piani logici e semantici diversi”[2]: quando parla (nella intitolazione dei diversi capi del titolo II del sesto libro) di prova documentale, prova testimoniale, presunzioni, (legali e semplici), confessione (giudiziale e stragiudiziale) e giuramento (decisorio e suppletorio), “il catalogo che ne risulta comprende cose materiali preesistenti al processo (documenti), dichiarazioni rese nel processo (testimonianza, confessione giudiziale, giuramento), dichiarazioni rese fuori del processo e pertanto bisognose a loro volta di prova (confessione stragiudiziale), meccanismi legali di ripartizione dell’onere della prova (praesumptiones iuris), e infine la descrizione del ragionamento inferenziale (praesumptio hominis)”[3].
Da quanto sopra detto discende che può parlarsi di “non tassatività” del vigente repertorio delle prove sia nel senso che deve ammettersi l’impiego di altre fonti “materiali” di prova, sia nel senso di apertura del catalogo dei “modi di acquisizione” del materiale istruttorio.
La riduzione dell’elenco a termini comparabili consente di dimostrare come la questione della apertura o chiusura del catalogo legale delle prove sia “futile”, per dirla con Cavallone che, efficacemente, così argomenta: “Chi pensi al repertorio soltanto come ad una classificazione per summa genera degli elementi della realtà sensibile, dai quali il giudice può attingere le informazioni necessarie alla cognizione dei fatti controversi, dovrà non tanto ritenerlo tassativo, quanto addirittura negare l’astratta possibilità di superarne i limiti, non essendo pensabile che il giudice ricavi quelle informazioni altrimenti che dall’audizione di altre persone (parti, testimoni, periti) ovvero dall’esame di cose o fenomeni materiali (documenti). Chi, per contro, intenda il repertorio come una elencazione per species delle fonti materiali utilizzabili dal giudice (non quindi “i documenti” e “le cose”, ma i tipi di documenti descritti negli artt. 2699-2720 c.c., e i tipi di cose “ispezionabili” ai sensi degli artt. 118 e 258 c.p.c.; non il sapere di “altre persone” ma, entro certi limiti e certe condizioni, quello delle parti, e dei terzi che non siano legittimati a partecipare al giudizio, e delle persone fornite di particolare competenza tecnica), potrà sì chiedersi se sia ammissibile l’impiego di fonti apparentemente escluse dall’elenco (per esempio le certificazioni amministrative, o la deposizione del terzo legittimato all’intervento adesivo). Ma il richiamo a presunti principii di tassatività ovvero di esemplificatività risulterà del tutto inutile al fine di valutare la legittimità di queste fonti “atipiche”; trattandosi invece, più semplicemente, di interpretare ed applicare in relazione a ciascuna ipotesi specifica la disciplina degli istituti tipici: e così, nei casi ora citati, di vedere se sia “documento”, e di che specie, anche la certificazione amministrativa…”.
Le stesse considerazioni valgono per il caso in cui si guardi alla disciplina dell’istruzione probatoria come ad un catalogo di “modi di acquisizione della prova”: anche per i procedimenti probatorii anomali (ad es. si pensi alla testimonianza non preceduta dal giuramento) ciò che rileva per la valutazione di legittimità o meno della prova non è se il repertorio sia chiuso o aperto, quanto se i requisiti e le condizioni previsti dalla legge per l’assunzione di una prova – nella specie mancanti - abbiano o meno carattere essenziale e inderogabile; per dirla più chiaramente, se l’anomalia sia compatibile con la disciplina degli istituti tipici o con i principii dell’ordinamento.
La correttezza del modus procedendi enunciato appare evidente, d’altra parte, se riflettiamo sul fatto che molte delle prove considerate “atipiche”, in realtà atipiche non sono né sotto il profilo della riconducibilità ad una delle fonti di convincimento catalogate, né sul piano delle modalità di acquisizione della prova. Pensiamo ad esempio alle prove c.d. costituende raccolte in altro giudizio (testimonianze o CTU) o alla sentenza che su quelle prove si fonda, introdotte in forma documentale nel giudizio ad quem: si tratta di “documenti” che spesso rivestono la forma dell’atto pubblico (come nel caso dei verbali istruttori raccolti dal giudice ordinario o delle sentenze) e sono introdotti nel giudizio mediante tempestivo inserimento nel fascicolo di parte, secondo le regole ordinarie. Il problema che si pone, quindi, non è quello della “atipicità”, ma dell’utilizzabilità, ai fini della prova, di dichiarazioni (latu sensu testimoniali, o peritali) che non sono state rese davanti al giudice chiamato a valutarle[4].
Anche sulla base di queste considerazioni aggiuntive, ritengo che il metodo più corretto per valutare la legittimità delle prove c.d. atipiche sia quello di ricercare nelle maglie del sistema, e nei principii dell’ordinamento processuale, indicazioni che depongano – sul piano del diritto positivo - per l’utilizzabilità di quelle prove ai fini dell’accertamento del fatto, secondo un approccio necessariamente casistico.
Parafrasando le parole di un grande matematico, Stefan Banach, il quale diceva che i bravi matematici sono capaci di cogliere le analogie, direi che lo stesso vale per i giuristi.
Avviandomi dunque all’esame del materiale giurisprudenziale selezionato in vista di questo studio mi sono accorta che – sotto la superficie di una generale valutazione di legittimità delle prove atipiche, le posizioni della Suprema Corte non sono poi così uniformi, e talvolta si differenziano sensibilmente sia sul piano delle decisioni sull’ammissibilità della prova, che su quello della sua efficacia probatoria.
Ho pensato di procedere ad un esame dei vari orientamenti secondo la tipologia di prova in questione, muovendo dai verbali ispettivi – che risultano di grande interesse nell’ambito del contenzioso previdenziale - per poi indagare l’ammissibilità ed efficacia delle dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite, dei verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali (e più in generale delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale), infine delle prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti - ivi compresi gli accertamenti peritali, nonché delle sentenze che su quelle prove si fondano.
Verbali ispettivi.
Per quanto riguarda l’utilizzabilità dei verbali ispettivi ai fini della prova, è pacifica la valutazione di generale ammissibilità da parte della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, nonché la necessità di distinguere in seno all’accertamento ispettivo i fatti attestati come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti, dai fatti risultanti dalle dichiarazioni di terzi acquisite dal verbalizzante, o dalle sue soggettive valutazioni. Mentre, tuttavia, sul valore probatorio dei primi la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che “i verbali redatti dagli ispettori del lavoro o dai funzionari degli enti previdenziali (al pari di quelli redatti dagli altri pubblici ufficiali) fanno piena prova, fino a querela di falso, dei fatti attestati nel verbale di accertamento come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti”, la Suprema Corte si divide invece sul valore probatorio da assegnare alle dichiarazioni rese da terzi al pubblico ufficiale. Un primo e maggioritario orientamento reputa prudentemente che “la fede privilegiata non si estende alla verità sostanziale delle dichiarazioni ovvero alla fondatezza di apprezzamenti o valutazioni del verbalizzante (cfr. Cass. n. 7993/2019; 13679/2018; 4462/2014; 14965/2012; n.17355/2009), sicché il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando l’onere di fornire la prova contraria al soggetto sul quale non ricade” (cfr. Cass. n.1786/2000; n.6847/87). Un secondo orientamento afferma invece che “I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell’Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di aver accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori” (ad es. Cass. n.3525/2005 ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva fondato il proprio convincimento sulle risultanze del verbale redatto dagli ispettori del lavoro, completo e dettagliato, al quale erano allegati due verbali ispettivi e numerose dichiarazioni rese dai lavoratori; cfr. Cass. n.9827/2000).
Dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite.
La questione sollevata si riallaccia a quella, più generale, dell’ammissibilità ed efficacia probatoria delle dichiarazioni scritte di terzi estranei alla causa sui fatti di lite, sulle quali la giurisprudenza di legittimità è divisa, affiancandosi ad un indirizzo consentaneo all’utilizzabilità degli scritti latu sensu testimoniali provenienti da terzi, sia pure con limitata efficacia probatoria, un più rigoroso orientamento che nega la legittimità – al di fuori delle previsioni del codice di rito – della testimonianza scritta.
Un primo indirizzo, infatti, sembrerebbe assegnare alle dichiarazioni scritte dei terzi la limitata efficacia probatoria che l’art. 116 secondo comma del nostro codice di rito assegna agli argomenti di prova, affermando testualmente che: “nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova; ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze de processo e, in particolare, gli scritti provenienti da terzi, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, non essendo stati raccolti nell’ambito del giudizio in contraddittorio delle parti, né di prova piena, sono rimessi alla libera valutazione del giudice di merito e possono, in concomitanza con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia, fornire utili elementi di convincimento…Né può ritenersi che il ricorso alle dichiarazioni scritte dei terzi configuri violazione del principio del contraddittorio atteso che, se è pur vero che le stesse sono raccolte al di fuori del processo, con la produzione in causa sulle stesse si forma il contraddittorio” (cfr. Cass. n.17392/2015, conforme a Cass. n.12763/2000 e n.4666/2003).
Un secondo indirizzo pur richiamando l’orientamento secondo cui gli scritti testimoniali dei terzi estranei alla lite “costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono quindi contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo” (così Cass. n.23554/2008, n.23788/2014; n. 252/2016), afferma per un verso che “possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle stesse né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 cod. civ., né quella processuale di cui all’art. 214 cod. proc. civ.”(cfr. Cass. sez. lav. n.1315/2017) e per altro verso precisa che l’utilizzazione delle dichiarazioni scritte provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti costituisce non già un obbligo del giudice di merito, bensì una facoltà il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in sede di legittimità, sia sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia (cfr. Cass. n. 24976/2017).
Sulla scorta di tali principii la Suprema Corte, ad es., ha condiviso la decisione dei giudici di merito che avevano annullato il licenziamento per giusta causa intimato dalla società appellante ad un suo dipendente, ritenendo inutilizzabili le dichiarazioni rese da altri dipendenti della società al di fuori del processo in considerazione del fatto che “essendo state redatte e finalizzate in funzione volutamente probatoria di una tesi di parte si traducevano in una testimonianza scritta, inammissibile, perché resa senza le garanzie del contraddittorio, ex art. 244 e ss. c.p.c.”.
In una diversa pronuncia (Cass. n.26113/2014), analogamente, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte territoriale che aveva “accertato il mancato rispetto dell’onere di deduzione e dell’onere della prova, essendosi l’Amministrazione (si trattava dell’impugnativa di un licenziamento intimato dal MIUR, n.d.r.) limitata a depositare dichiarazioni scritte di alcuni dipendenti non sottoponendole al vaglio giudiziale ai fini della loro conferma”.
L’orientamento più rigoroso cui avevo inizialmente fatto cenno, infine, afferma più esplicitamente l’inammissibilità della scrittura proveniente da terzo, allorché la stessa sia “redatta e finalizzata in funzione volutamente probatoria di una tesi di parte”, risolvendosi “in una sorta di testimonianza scritta, inammissibile…perché fornita senza le garanzie del contraddittorio, di cui all’art. 244 c.p.c. e segg., che nella specie resterebbero eluse” (cfr. Cass. n.5440/2010).
Nella pronuncia appena citata i giudici di legittimità chiariscono che “Pur non essendo vietato, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, nel vigente ordinamento processuale improntato al principio del libero convincimento del giudice, la possibilità di porre a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione, deve tuttavia escludersi che le prove c.d. atipiche possano valere ad aggirare divieti o preclusioni dettati da disposizioni, sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda adeguate garanzie formali”.
Il monito chiaramente espresso dalla Suprema Corte ci consente di approdare – in chiave critica, dal mio punto di vista – all’esame della giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema dell’utilizzabilità dei verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali e più in generale dell’utilizzabilità delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, e delle sentenze che su di esse si fondano.
Verbali di sommarie informazioni acquisite nel corso delle indagini peritali e più in generale risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, e sentenze che su di esse si fondano.
La prima pronuncia della Suprema Corte che vorrei sottoporre al “prudente apprezzamento” dei miei benevoli lettori, a mio giudizio vìola – eludendone l’applicazione - diverse norme di carattere processuale (651 e 654 c.p.p.; 244 e segg. c.p.c.), nonché principii di rilevanza costituzionale come quello di difesa e del contraddittorio (art. 24 e art. 111, co.5 Cost.).
Nella vicenda in questione la Suprema Corte (Cass. n.18025/2019) ha confermato la decisione del giudice di prime cure (l’appello era stato dichiarato inammissibile ex art. 348 ter c.p.c.), che aveva accolto la domanda di annullamento del testamento per incapacità del testatore: il de cuius aveva disposto di tutti i suoi beni in favore del convenuto, il quale a sua volta era stato condannato in sede penale per il delitto di circonvenzione di incapace, a seguito di rito abbreviato.
Il Tribunale, in particolare, aveva rigettato le richieste di prova orale articolate dal convenuto, ritenendo che l’accertamento dello stato di incapacità del testatore al momento della redazione delle ultime dichiarazioni di volontà, effettuato con la sentenza penale di condanna, facesse stato nel giudizio civile e che, dalle informazioni acquisite in sede di indagini preliminari e dalle perizie di parte prodotte in causa, fosse pienamente dimostrato che, al momento delle disposizioni di ultima volontà, il de cuius era privo della capacità di intendere e di volere.
La Suprema Corte ha motivato la sua decisione nei seguenti termini: “Quanto all’utilizzabilità delle sommarie informazioni assunte in sede penale, questa Corte ha ripetutamente affermato che, anche nei casi in cui non possono attribuirsi alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile ai sensi degli artt. 654, 652 e 651 c.p.p., nulla impedisce al giudice civile, tenuto a rivalutare integralmente i fatti di causa, di tener conto delle acquisizioni probatorie del processo penale e di ripercorrere lo stesso “iter” argomentativo della sentenza di condanna, condividendone gli esiti (Cass. n.17316/2018; n.20170/2018; n.14570/2017; n.8603/2017; n.1948/2016; n. 24475/2014; Cass. S.U. n.1768/2011). Più in particolare, al di fuori delle ipotesi in cui la sentenza penale ha effetto di giudicato nel processo civile, occorre distinguere tra gli elementi acquisiti dal giudice penale senza la successiva verifica dibattimentale, da quelli sottoposti al contraddittorio o per i quali il dibattimento è mancato per la scelta dell’imputato di optare (come nel caso in esame) per un rito alternativo (giudizio abbreviato ex artt. 438 c.p.p. e ss. o patteggiamento ex art. 444 c.p.p. e ss.: cfr. Cass. n.2168/2013; n.132/2008).
Questi ultimi sono liberamente valutabili in sede civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., posto che la loro acquisizione in sede penale, senza alcun vaglio dibattimentale, è riconducibile ad una scelta processuale dell’interessato”.
Ora a me pare che – al netto della istintiva antipatia per l’erede testamentario protagonista della vicenda processuale – affermare che “nei casi in cui non possono attribuirsi alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile ai sensi degli artt. 654, 652 e 651 c.p.p., nulla impedisce al giudice civile, tenuto a rivalutare integralmente i fatti di causa, di tener conto delle acquisizioni probatorie del processo penale e di ripercorrere lo stesso “iter” argomentativo della sentenza di condanna, condividendone gli esiti” significa precisamente attribuire alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile al di fuori dei casi consentiti dalla legge, secondo il brocardo latino per cui “salvis verbis, legis sententiam eius circumvenit”.
Per non parlare di come il rigetto delle richieste di prova orale e la formazione del convincimento giudiziale, in sede civile, sulla sola base di elementi di prova sui quali il convenuto non ha avuto neppure la possibilità di interloquire (perizie stragiudiziali e verbali di sommarie informazioni testimoniali), raccolti - quanto alle prove costituende -senza nessuna delle garanzie prescritte dagli artt. 244 e segg. c.p.c., costituisca una patente violazione degli art. 24 Cost. e anche dell’art. 111, 2° co., a mente del quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità”.
Addirittura nella sentenza n.1593/2017 la Suprema Corte ha deciso un giudizio petitorio acquietandosi sulle risultanze delle indagini preliminari relative ad un procedimento penale nell’ambito del quale era stata accertata incidentalmente la proprietà di alcuni dipinti al fine dell’adozione di un provvedimento di dissequestro, omettendo di svolgere alcuna attività istruttoria nel contraddittorio, pure ritualmente richiesta dalla parte attrice, e sostanzialmente valutando alla stregua di prove precostituite le audizioni degli indagati, persone offese e sommari informatori e ritenendole inconfutabili.
Esiste tuttavia un orientamento più cauto, secondo cui il giudice non potrebbe prescindere dal raffronto critico delle prove atipiche provenienti da un giudizio penale, con le altre risultanze del processo (cfr. Cass. n.12577/2014; n.5965/2004).
Prove raccolte in un diverso processo svoltosi tra le stesse o altre parti.
Sull’ultima delle prove c.d. atipiche che mi sono proposta di esaminare, esiste un dato normativo (a mio parere, ineludibile) che circoscrive l’efficacia probatoria delle prove raccolte in altro giudizio nel senso che non possano di per sé sole fondare il convincimento del giudice e la sua decisione.
Ai sensi dell’art. 310 c.p.c., che regola gli effetti dell’estinzione del processo, “le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116 secondo comma” (cfr. art. 310, terzo comma, c.p.c),
A sua volta, l’art. 116 secondo co. c.p.c. dispone che “il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente (che è quello che regola l’interrogatorio non formale, n.d.r.), dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”.
Nonostante la lettera della legge, la giurisprudenza della Suprema Corte reputa che il giudice possa fondare il proprio convincimento anche solo sulle prove raccolte in altro processo, e che queste possano costituire fonte esclusiva col solo limite di non poter giustificare il rifiuto di ammissione di diverse prove (Cass. n.19457/2004).
Il giudice della nomofilachia ha infatti affermato di aver “costantemente ricondotto al giudizio del giudice circa l’utilità e pertinenza della prova, insieme al potere di utilizzare per la formazione del proprio convincimento le prove raccolte in altro giudizio, pur con parti diverse, poi estinto, anche il potere di trarre solo semplici indizi o elementi di convincimento o anche di attribuire loro valore di prova esclusiva” (Cass. n.11555/2013; n.14766/2007; n.8585/1999), aggiungendo che “ritenere che prove acquisite e provenienti da altro giudizio possano essere utilizzate solo come meri argomenti di prova contrasterebbe con il principio di economia processuale, funzionalizzato alla ragionevole durata prescritta dall’art. 111 Cost.”.
Successivamente, è stato superato perfino l’ultimo baluardo del necessario raffronto critico con le ulteriori ed eventuali prove ammesse ed assunte nel processo ad quem, secondo la valutazione per cui “in tale contesto, la prova può essere rappresentata anche dalla sentenza adottata dal diverso giudice, che costituisce in ogni caso un documento che il giudice civile è tenuto ad esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio… la necessità che il giudice proceda ad una diretta ed autonoma valutazione delle circostanze accertate con altra sentenza, non implica che debbano essere nuovamente esibiti e direttamente riesaminati i documenti presi in considerazione nell’altro giudizio, o che debbano essere riprodotti o ripetuti le prove o gli accertamenti ivi già compiuti, e non esclude che l’acquisizione o l’utilizzazione di quegli elementi e circostanze possa avvenire anche mediante adesione alla ricostruzione dei fatti eseguita dall’altro giudice, quando risulti che a tale adesione il giudice sia pervenuto attraverso un autonomo vaglio critico delle prove già raccolte e delle argomentazioni e deduzioni proposte dalle parti” (così Cass.n. n.840/2015, che sulla scorta del suddetto principio ha confermato la pronuncia della Corte territoriale che aveva negato ingresso alla prova testimoniale adducendone la superfluità per avere la teste già deposto nell’ambito di un giudizio disciplinare davanti al C.O.A., in assenza di contraddittorio; conforme a Cass. n.132/2008 circa il fatto che l’autonomo accertamento non deve necessariamente concretizzarsi nella reiterazione dell’istruttoria).
Il suddetto indirizzo interpretativo è stato condiviso dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte che, ad esempio, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva negato l’utilizzabilità, nell’ambito del giudizio di opposizione al passivo fallimentare, delle prove assunte nel giudizio in materia di lavoro, dichiarato interrotto a seguito dell’intervenuto fallimento, evidenziando che: “il collegio dell’opposizione ha ritenuto che i verbali delle dichiarazioni testimoniali relative al procedimento civile svoltosi avanti al giudice del lavoro non fossero opponibili alla curatela fallimentare, da ritenersi terzo e non anche successore e/o rappresentante della società fallita. Il rilievo, nel soffermarsi sulla posizione di terzietà della procedura fallimentare, trascura però di considerare la giurisprudenza di questa corte secondo cui il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, sempre che siano acquisite al giudizio della cui cognizione è investito, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova” (così Cass. n.25067/2018).
Tirando le somme del nostro discorso, mi sento di esprimere la preoccupazione che la generale valutazione di legittimità delle prove atipiche proclamata a gran voce dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, possa produrre (e nei fatti abbia prodotto) frutti avvelenati proprio rispetto a quegli enunciati obiettivi di valorizzazione del libero convincimento del giudice e massimizzazione della ricerca della verità materiale, all’insegna dei quali quella apertura è stata favorita.
Sotto il primo profilo perché l’orientamento di generale ammissibilità delle prove atipiche, saldandosi agli altrettanto consolidati insegnamenti che prescrivono per un verso una valutazione globale e complessiva delle prove da parte del giudice di merito e negano, per altro verso, che tra le prove liberamente valutabili possa istituirsi una gerarchia, rischia di valorizzare non tanto il libero convincimento del giudice quanto il suo arbitrio, collocando – come è stato efficacemente detto – il giudizio di fatto in una sorta di zona d’ombra, sottratta al vigore di qualsiasi regola normativa o razionale, e dunque ad ogni seria possibilità di controllo (si pensi in tal senso alla proposizione tralatizia secondo cui “la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni delle soluzioni accolte, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata”, ex plur. Cass. n.16056/2016; n.17097/2010).
Sotto il secondo profilo perché, nel modello di processo al quale fatalmente tende la indiscriminata ammissione e utilizzazione di materiale probatorio della più oscura origine, “non soltanto non possono trovare più attuazione, neppure simbolica, i principii dell’oralità e della immediatezza, ma finisce addirittura per scomparire la partecipazione del giudice alla formazione della prova.”[5]
Concludendo, penso che sia ancora attuale, e dovremmo prestare maggiore attenzione, all’ammonimento di Chiovenda secondo cui esiste “un rapporto fra la funzione della prova e la forma del procedimento”, in virtù del quale “la libertà del convincimento vuole l’aria e la luce dell’udienza”, mentre “nei labirinti del processo scritto essa si corrompe e muore”[6].
[1] Così Michele Taruffo ne “La semplice verità”, Ed. Laterza, pag. 145.
[2] Così Bruno Cavallone, ne “Il giudice e la prova nel processo civile”, CEDAM 1991.
[3] Così Bruno Cavallone, ibidem.
[4] Così argomenta condivisibilmente Bruno Cavallone, ibidem.
[5] Così giustamente Cavallone, ibidem.
[6] G. Chiovenda, Sul rapporto tra le forme del procedimento e la funzione della prova. L’oralità e la prova, in Saggi di diritto processuale civile, Roma, Foro italiano 1931, p. 197 ss. a p. 225.
L’ergastolo e l’accesso al rito abbreviato.
La questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale di La Spezia con l'ordinanza del 6 novembre 2019.
di Giorgio Spangher
Il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di La Spezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1 bis, c.p.p., così come inserito dall’art. 1 della l. n. 33 del 2019, per la violazione degli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., nella parte in cui in relazione ai reati di cui agli artt, 575, 576, comma 1, n, 1, c.p. con riferimento all’art. 61 c.p., 577, comma 2, c.p., in quanto puniti con l’ergastolo, impedisce l’accesso al rito abbreviato; e dell’art. 5 della l. n. 33 del 2019, in relazione agli artt. 117 Cost. e 7 Cedu nella parte in cui consente l’applicazione del neo introdotto art. 438, comma 1 bis, c.p.p., e parallelamente esclude applicazioni dell’art. 442, comma 2, c.p.p., anche agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo che abbiano tenuto la condotta prima dell’entrata in vigore della predetta legge, con verificazione dell’evento successivamente al mutamento di normativa.
Quest’ultimo profilo potrebbe essere scrutinato in via prioritaria, in considerazione del fatto che un’eventuale suo accoglimento potrebbe far venir meno la rilevanza dell’altra questione sollevata dal giudice di La Spezia.
Invero, tenuto conto di quanto già deciso proprio con riferimento alla successione di norme relativamente all’ergastolo punito con il rito abbreviato nella vicenda Scoppola la Corte edu si era espressa nel senso che ha riconosciuto il diritto dell’imputato ad ottenere il trattamento sanzionatorio previsto al momento della richiesta del rito (trenta anni) e non quello (l’ergastolo) operante al momento della celebrazione del rito (e decisione) per effetto del sopravvenuto art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001 (Corte edu 17 settembre 2009).
Per questa ragione, si è ritenuto superata la questione della riferibilità del tema de quo alla tematica della natura sostanziale e non processuale delle disposizioni relative al trattamento sanzionatorio nel rito contratto.
La questione nel caso di specie, tuttavia, coinvolge il problema relativo alla riferibilità della successione di norme, in relazione alla rilevanza tra il momento dell’azione e quello dell’evento.
Indiscutibilmente è necessario riferirsi al momento dell’azione, quello, cioè, del momento in cui si prefigura il atto delittuoso e lo pone in essere proiettandolo già da quel momento sull’evento voluto.
Il dato trova un preciso riscontro nell’art. 8 c.p.p., ove al comma 2 si precisa che “se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, competente è il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’amissione”.
Il conseguente possibile superamento della questione di costituzionalità ipotizzato in esordio, non impedisce – considerata la sua riproponibilità in termini generali, della compatibilità della riferita previsione delittuosa, “e di altre similari” che escludono l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo – di affrontare le questioni di costituzionalità sollevate sub artt. 3 e 111, comma 2, Cost.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, non appaiono condivisibili le considerazioni relative alla violazione che la nuova previsione determinerebbe in relazione alla durata ragionevole del processo, sia con riferimento a questi specifici reati, sia più in generale sull’intero sistema processuale. Anche considerando le implicazioni relativamente alle indiscutibili conseguenze negative sul “funzionamento” delle Corti di Assise, rispetto alla presenza di un giudice monocratico; alla indispensabile celebrazione di un giudizio di primo grado che l’abbreviato, invece, consentirebbe di non celebrare; alla diversa distribuzione delle sedi di svolgimento dei relativi processi, deve sottolinearsi come “ricadute” di questo tipo si determinano ogni qual volta il legislatore, fissando limiti all’accesso ai percorsi differenziati canalizza in modo diversificato i procedimenti, consentendo ovvero escludendo lo svolgimento dei vari riti premiali, acceleratori, deflattivi. Si consideri che questi percorsi sono derogatori del rito ordinario quindi eccezionali, con conseguente esigenza di una adeguata motivazione.
Lo stesso discorso vale per la distribuzione delle competenze ove siano sorrette da necessaria giustificazione, ragionevolezza, proporzionalità.
Maggiormente complesse si profilano le considerazioni in relazione al secondo profilo posto a fondamento della questione di incostituzionalità: quella relativa alla ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost.
Invero, la questione potrebbe essere presa in esame sotto due prospettive.
In primo luogo, si potrebbe considerare se la specifica ipotesi delittuosa di cui al processo presso il giudice dell’udienza preliminare di La Spezia, giustifichi l’esclusione del rito contratto.
Invero, le ipotesi delittuose che sono sanzionate con la pena dell’ergastolo sono differenziate tra di loro e proprio le ipotesi di omicidio aggravato evidenziano significative differenze, specificamente in relazione alla sanzionabilità differenziata per effetto necessario della presenza della circostanza specializzante.
Non si può non considerare al riguardo la giurisprudenza in materia cautelare, legata alle decisioni di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. in relazione alla presunzione di pericolosità.
Tuttavia, anche tenuto conto proprio di questa giurisprudenza non si può non sottolineare come il proprio riferimento all’aggravamento dell’ipotesi ordinaria di omicidio sia stata alla base della specifica scelta legislativa di escludere il rito contratto, in conseguenza della pena – l’ergastolo – riconducibile in astratto al fatto di reato.
Ciò non esclude, tuttavia, di considerare la questione sotto un altro profilo.
Superato – negativamente – questo passaggio, infatti, resterebbe da verificare se la questione di incostituzionalità non potrebbe prospettarsi sotto il profilo dell’applicazione della premialità del rito – necessabilmente richiesto dalla parte in limine – qualora all’esito del dibattimento il giudice escludesse l’applicabilità dell’ergastolo, in conseguenza dell’esclusione dell’aggravante per effetto dell’equivalenza o della prevalenza di un attenuante.
La questione, pertanto, potrebbe comportare la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 438, comma 6 bis, c.p.p. ove si prevede che “qualora la richiesta di rito abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1 bis (dello stesso art. 438 c.p.p.), il giudice se all’esito del dibattimento ritiene che il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato applica la riduzione della pena ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p.
Maggiori difficoltà incontrerebbe una questione prospettata in relazione all’art. 429, comma 2 bis, c.p.p., poiché si fa riferimento ad una “definizione giuridica diversa”.
Be your own boss
dal sito Web di reclutamento di Foodora
La qualificazione del lavoro dei riders alla prova della giurisprudenza: prime note di commento alla sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro del 24 gennaio 2020 n. 1663.
La sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro del 24 gennaio 2020 n. 1663 offre l’opportunità di affrontare il tema della natura della prestazione lavorativa dei riders e della disciplina loro applicabile; ciò, attraverso l’analisi delle tradizionali categorie codicistiche (lavoro autonomo e lavoro subordinato) e di quelle di recente introduzione, finalizzate a disciplinare le nuove forme di lavoro on demand anche al fine di scongiurare il diffondersi di pratiche abusive e socialmente deplorevoli (lavoro etero - organizzato).
Sommario: 1. Il caso. 2. Le questioni giuridiche e le soluzioni della Corte di Cassazione. 3. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e coordinamento della prestazione. 4. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e subordinazione.
1. Il caso.
Per comprendere meglio la vicenda oggetto di questo veloce contributo - che sicuramente non ha la presunzione dell’esaustività, vista la complessità e la vastità della materia - vorrei brevemente ripercorrere le tappe che hanno portato la Corte di Cassazione ad intervenire per la prima volta nel contenzioso sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro dei riders iniziato di fronte al Tribunale di Torino.
Con sentenza del 7 maggio 2018 il giudice di primo grado aveva respinto la domanda di alcuni lavoratori addetti alle consegne di pasti a domicilio organizzate tramite piattaforma digitale, tesa ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, ed aveva confermato la legittimità del contratto di collaborazione coordinata e continuativa sottoscritto con Foodora, escludendo l’applicabilità alla fattispecie anche dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015.[1]
Nel giudizio di fronte al Tribunale era rimasto provato che la prestazione lavorativa dei ricorrenti si era svolta a grandi linee nel modo seguente: dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora i lavoratori venivano convocati in piccoli gruppi presso l'ufficio per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l'attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di un telefono cellulare con funzionalità avanzate (smartphone); in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati gli indumenti di lavoro, i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l'attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box). Il contratto che veniva sottoscritto, cui era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso, aveva le seguenti caratteristiche: si trattava di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa; era previsto che il lavoratore fosse libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita; il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione; era previsto che il collaboratore avrebbe agito in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente, ma era tuttavia fatto salvo il necessario coordinamento generale con l'attività della stessa committente; era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con trenta giorni di anticipo; il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro trenta minuti dall'orario indicato per il ritiro del cibo, con la comminatoria a suo carico di una penale di euro 15; il compenso era stabilito in euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità; il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all'INPS domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995 n. 335 e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo; la committente doveva provvedere all'iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5; il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi; la committente - come accennato - doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell'azienda a fronte del versamento di una cauzione di euro 50.
Quanto alle modalità di esecuzione della prestazione, la gestione del rapporto avveniva attraverso piattaforma multimediale e un applicativo per smartphone per il cui uso venivano fornite da Foodora apposite istruzioni. L'azienda pubblicava settimanalmente le fasce orarie (slot) con l'indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della "flotta" confermava ai singoli riders l'assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all'orario di inizio di quest'ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite, attivare l'applicativo inserendo le credenziali (nome dell'utilizzatore, user name, e password) per effettuare l'accesso e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull'applicazione la notifica dell'ordine con l'indicazione dell'indirizzo del ristorante. Accettato l'ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l'ordine e comunicare tramite l'apposito comando dell'applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l'applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna.
Con sentenza dell’11 gennaio 2019 la Corte d'Appello di Torino, nel confermare l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti aveva accolto la domanda subordinata dei lavoratori, applicando la disciplina prevista dall'art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015.
Conseguentemente aveva dichiarato il diritto dei lavoratori a vedersi corrispondere le differenze maturate tra le somme percepite e quanto dovuto sulla base della retribuzione prevista per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, con condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle somme richieste.
Per giungere a tale soluzione la Corte distrettuale, dopo aver accertato il carattere continuativo della prestazione e l’etero-organizzazione dell’attività di collaborazione dei riders anche con riferimento ai tempi ed ai luoghi di lavoro - condividendo sul punto la decisione del Tribunale - aveva escluso che queste fossero condizioni sufficienti a provare la subordinazione posto che i lavoratori erano liberi di scegliere se e quando lavorare.
Diversamente dal Tribunale aveva ritenuto invece la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015.
A parere dei giudici di secondo grado la fattispecie normativa prevista dall’art. 2 del d.lgs 81/2015 si collocherebbe, quale terzo genere, tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. e le collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409 n. 3, c.p.c. a garanzia di una maggiore tutela delle nuove tipologie di lavoro sorte e sviluppate a seguito dell’evoluzione di nuove tecnologie.[2]
A parere della Corte torinese al lavoratore etero-organizzato deve perciò applicarsi, ai sensi del suddetto art. 2, comma 1, la disciplina del lavoro subordinato, in particolare per quel che riguarda sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza.
La Corte d’Appello ha quindi respinto ogni altro motivo tra cui in particolare quello relativo all’asserita illegittimità dei licenziamenti, non essendo in realtà mai stata espressa dal datore di lavoro una manifestazione di volontà di recedere dal contratto prima della naturale scadenza.[3]
2. Le questioni giuridiche e le soluzioni della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel richiamare la ricostruzione dei fatti contenuta nelle sentenze di merito, ha confermato il dispositivo della sentenza impugnata in quanto conforme a diritto, pur con diverso percorso argomentativo.
Innanzitutto occorre osservare che, in assenza di impugnazione del capo di sentenza relativo al rigetto dell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, la Corte di Cassazione ha concentrato in via esclusiva l’attenzione sull'applicazione alla fattispecie litigiosa dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 81/2015, nel testo vigente ratione temporis, interpretato anche alla luce delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.l. 3 settembre 2019 n. 101, convertito, con modificazioni dalla legge 2 novembre 2019, n. 128 - Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali.[4]
La prima osservazione che la lettura della sentenza suscita concerne l'irrilevanza attribuita dalla Corte di Cassazione alla qualificazione della fattispecie delle collaborazioni etero-organizzate come un terzo genere, rispetto al lavoro subordinato e alle collaborazioni coordinate e continuative.
La Corte di legittimità giustifica l’opzione ermeneutica sottolineando il percorso normativo compiuto dal legislatore del 2015, che all’art. 52 del medesimo d.lgs. 81 ha dapprima abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto e contestualmente ha fatto salva la disciplina del contratto di collaborazione coordinata e continuativa contenuta nell'art. 409 c.p.c., così ripristinando una tipologia contrattuale più ampia[5] ma priva del regime sanzionatorio previsto dall’art. 69 d.lgs. 276/2003 per il contratto a progetto.
In particolare secondo la Corte il legislatore, d'un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d'altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell'art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l'applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell'apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi.
In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell'autonomia, perchè ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l'ordinamento ha statuito espressamente l'applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina che non crea una nuova fattispecie.
Corollario di tale affermazione di principio è costituito dalla circostanza, affermata dalla Corte, per cui la disciplina applicabile dal giudice di merito alla fattispecie dedotta in giudizio può essere alternativamente l’art. 2094 c.c. ovvero l’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 a prescindere dalla qualificazione giuridica prospettata dalle parti, in quanto la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all'effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale…..trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all'uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione esaminata (analogamente v. Cass. n. 2884 del 2012, sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2, in tema di associazione in partecipazione).
Altra fondamentale conseguenza della scelta di politica legislativa - condivisa dalla Corte di Cassazione - volta ad assicurare al lavoratore etero-organizzato la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato è contenuta in un altro fondamentale passaggio della sentenza in commento, ove si afferma che la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici.
Di conseguenza resta affermata l’opzione interpretativa per la quale si applica al lavoro etero-organizzato la disciplina completa del rapporto di lavoro subordinato, fatte comunque salve situazioni particolari in cui l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell'ambito dell'art. 2094 c.c..
Si tratterà per lo più di verificare la compatibilità della norma con le ipotesi di cessazione del rapporto ad opera del datore di lavoro.
Nulla quaestio in caso di rapporto di lavoro a termine, potendosi applicare, senza alcuna difficoltà, la disciplina del recesso ante tempus dal contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.
Più complessa l’ipotesi di stipula di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo indeterminato al quale debba essere applicata la disciplina della cessazione del rapporto di lavoro subordinato.
Questo sarà sicuramente un tema di discussione nel prossimo futuro, anche in considerazione della specificazione aggiunta all’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 per cui Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalita' di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali, che a parere della decisione in commento costituisce un’affermazione rafforzativa della volontà del legislatore di utilizzare la tutela del lavoro subordinato a garanzia di una moltitudine di lavoratori, quali quelli operanti tramite piattaforme digitali, in coerenza con l'approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di "debolezza" economica, operanti in una "zona grigia" tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea.
3. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e coordinamento della prestazione.
La definitiva giustificazione interpretativa contenuta nella decisione in commento risiede pertanto nella riconduzione a sistema della legge n. 81 del 22 maggio 2017 e del d.lgs. 81/2015, con la conseguente prospettazione di un ventaglio di possibilità di inquadramento dei lavoratori autonomi, ciascuno caratterizzato da diversi profili di disciplina sostanziale e processuale.
Non si tratta di una discussione meramente teorica, ma di un approccio interpretativo con notevoli implicazioni pratiche.
La scelta operata dalla Cassazione di prescindere dal profilo qualificatorio delle collaborazioni etero-organizzate consente, sostanzialmente, di non mutarne la natura di prestazione di lavoro autonomo, mantenendo così inalterata la dicotomia lavoro subordinato - lavoro autonomo.
L’osservazione è utile a definire la modifica all’articolo 409 n.3 c.p.c. come utile elemento di specificazione della fattispecie, alla stregua di un fattore chiarificatore nella distinzione tra il coordinamento (compatibile con l’autonomia), la etero-direzione (tipica della subordinazione) e la etero-organizzazione delle modalità di esecuzione anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (compatibile con l’autonomia).
Fatte queste premesse, alla luce dell’orientamento assunto dalla suprema Corte, oggi tracciare il confine tra etero-organizzazione e coordinamento costituisce perciò il momento determinante nella individuazione dell’autonomia della prestazione di opera (e non di lavoro) resa possibile in via non più esclusivamente personale in favore di un committente.
In sostanza, per aversi una collaborazione coordinata e continuativa genuina (non etero-organizzata) le modalità di coordinamento non devono essere imposte dal committente, ma possono essere scelte autonomamente dal collaboratore o concordate tra le parti, risultando così confermata la compatibilità tra l’autonomia organizzativa e il coordinamento, nel senso che l’attività lavorativa può essere organizzata autonomamente dal prestatore, benché sia coordinata dal committente.
Mentre nella fattispecie contemplata dall’art. 2 d.lgs. 81/2015 l’autonomia organizzativa del collaboratore risulta fortemente compressa dal potere di organizzazione in capo al committente, nella fattispecie di cui all’art. 409 n. 3, c.p.c. essa non risulta scalfita dal requisito del coordinamento, che si limita ad orientare l’esecuzione della prestazione alle condizioni definite nel programma negoziale in vista del soddisfacimento dell’interesse creditorio.
Il lavoratore coordinato di cui all’art. 409 n. 3 può in tal modo essere definito come un lavoratore munito di una micro - organizzazione di risorse, soggetto ad un potere altrui utile a garantire l’utilità della sua prestazione nell’incontro dinamico tra due organizzazioni (quella “macro” del committente e quella “micro” del prestatore), mentre il lavoratore etero-organizzato di cui all’art. 2, comma 1 d.lgs. 81/2015 è sprovvisto di risorse proprie e promette l’adempimento della prestazione soggetto ad un potere utile all’inserimento della sua attività in una organizzazione altrui.
Ma la vera novità inserita nel novellato art. 409 n. 3 c.p.c. riguarda la possibilità di concordare le modalità di coordinamento che comprendono anche i modi ed i tempi di espletamento della prestazione al fine di garantire la genuinità delle scelte ed escludere l’ipotesi di etero-organizzazione.
Si renderà perciò assolutamente necessario formulare chiari accordi contrattuali, che evitino il rischio che tali modalità vengano in sede giudiziale considerate un’imposizione del committente, con conseguente applicazione al rapporto della disciplina del lavoro subordinato.
Dovrà in ogni caso tenersi conto che l’accordo sulle modalità di coordinamento attiene alla fase genetica del negozio, la quale non dovrà essere contraddetta dal concreto svolgimento del rapporto, proprio in nome della logica protettiva insita nell’art. 2, d.lgs. 81/2015 che, certamente, impone la prevalenza della dimensione fattuale rispetto alla volontà originariamente dichiarata.
Pertanto, se le parti hanno concordato le modalità del mero coordinamento tra di esse, ma poi emerge la sottoposizione della prestazione lavorativa ad un potere unilaterale di organizzazione (o, addirittura, di direzione) della stessa da parte del committente/datore di lavoro, la presunzione alimentata dal nomen iuris cadrà di fronte al dato fattuale, nei soliti termini a cui il contenzioso sulla qualificazione del rapporto di lavoro ci ha abituati.
In conclusione, coordinando la lettura dell’art. 2094 c.c., dell’art. 409 n. 3 c.p.c. e dell’art. 2 d.lgs. 81/2015 possono perciò essere individuate quattro ipotesi di qualificazione della prestazione lavorativa, ciascuna con un differente profilo di disciplina sostanziale e processuale:
1) prestazione di lavoro subordinato ex art. 2094 e ss. c.c.;
2) contratto d’opera ex art. 2222 c.c.;
3) collaborazione prevalentemente personale, coordinata e continuativa, ove la collaborazione è prestata nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti e il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa ex art. 409, n. 3, c.p.c.;
4) collaborazione continuativa, coordinata ed etero-organizzata ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.
4. Le conseguenze delle opzioni interpretative della Corte di Cassazione sui rapporti tra etero-organizzazione e subordinazione
Ancora un'ultima considerazione merita di essere svolta, rispetto al passaggio della sentenza che concerne la differenza che può essere apprezzata tra gli obblighi assunti dai lavoratori nella fase genetica del rapporto e quelli derivanti dalla sua funzionalità che, a parere della Corte, costituiscono la linea di confine utile a distinguere la subordinazione dall’etero-direzione.
Ritiene infatti la Corte che la mera facoltà del lavoratore ad obbligarsi alla prestazione costituisce utile elemento per la conferma dell’autonomia della prestazione, mentre le obbligazioni assunte nella fase funzionale di esecuzione del rapporto risultano determinanti per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui all’art. 2, comma 1, d..lgs. 81/2015.
In sostanza la Corte di Cassazione ha confermato l’interpretazione accolta dai giudici di merito che non avevano ritenuto condivisibile e, tanto meno applicabile al caso in esame, l'affermazione della Cassazione - contenuta nella sentenza n. 3457 del 2018 - resa in una fattispecie relativa agli addetti alla ricezione di scommesse presso agenzie ippiche - secondo la quale il potere direttivo del datore si esprime, oltre che nel controllo da parte del personale a tanto destinato, nella predisposizione del luogo, degli orari e di ogni pur minima modalità della prestazione (che, come dal giudicante incontestatamente accertato, era "standardizzata"). Poiché la subordinazione è limitata al rapporto effettivamente svoltosi, il fatto che, nel caso in esame, il singolo lavoratore fosse libero di accettare o non accettare l'offerta, e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, nonché, con il preventivo consenso del datore, di farsi sostituire da altri (che gli subentrava nel rapporto, per tutta o parte della relativa durata), resta irrilevante.(…). [6]
La Corte di Appello di Torino prima, e la Corte di Cassazione poi, hanno al contrario affermato che la scelta del lavoratore di accettare o meno l’offerta di presentarsi al lavoro doveva considerarsi elemento esterno al contenuto del rapporto, idoneo a incidere, quindi, sulla sua costituzione e sulla sua durata, ma non sulla forma e sul contenuto della prestazione.
In tal modo hanno confermato l'argomentazione per cui, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiare struttura organizzativa del datore di lavoro e del relativo atteggiarsi del rapporto, al fine di riconoscere la sussistenza della subordinazione, valore determinante è attribuito all'accertamento dell'obbligo del lavoratore di porsi a disposizione del datore di lavoro, con continuità e nel rispetto delle direttive impartite.
Occorre a questo punto rilevare che, diversamente dalla giurisprudenza italiana, in altri ordinamenti europei sono state adottate soluzioni diverse con riferimento alle prestazioni di lavoro dei riders, pur essendo queste connotate dalle medesime modalità di esecuzione.
Pur nella consapevolezza della diversità di discipline vigenti nei diversi Paesi europei e senza voler svolgere in questa sede delle compiute valutazioni comparatistiche, è però interessante evidenziare che in alcune decisioni aventi ad oggetto la qualificazione del lavoro nelle piattaforme digitali l’argomentazione della libertà di accettare o meno il lavoro è stata ritenuta puramente formale e non sostanziale.
La Corte di Cassazione del lavoro francese, con la decisione del 28 novembre 2018, n. 1737, prescindendo dal requisito dell’obbligatorietà genetica della prestazione, ha qualificato il rapporto dei riders come subordinato, osservando sia che l’applicazione della piattaforma digitale era dotata di un sistema di geolocalizzazione che consentiva alla società il monitoraggio in tempo reale della posizione del rider e la contabilizzazione del numero totale di chilometri percorsi, di modo che il ruolo della piattaforma non si poteva considerare limitato semplicemente a mettere in contatto tra loro il ristoratore, il cliente e il rider, sia che il datore di lavoro (Take Eat Easy) aveva un potere “afflittivo” nei confronti del rider medesimo.
Nel ragionamento della Corte francese ha avuto un peso determinante la sentenza della Corte Ue Asociación Profesional Elite Taxi nella quale i giudici ricostruiscono, in assenza di una definizione normativa, la nozione di lavoratore subordinato distinto dal lavoratore autonomo. [7]
Anche nelle Corti inglesi la valutazione del modello lavorativo dei tassisti di Uber[8] o dei riders[9] ha costituito l’occasione per considerare la prestazione lavorativa svolta nella sua globalità, valorizzando in particolar modo gli aspetti legati al rischio d’impresa ed alla titolarità dei mezzi di produzione immateriali come proprietà del marchio, dati dei clienti, app, piattaforma o algoritmi.
L’apparente libertà di adesione alla potenziale chiamata (obbligatorietà genetica) è stata considerata come parte di singole e plurime disponibilità tecnologicamente organizzate ed integrate, che rendono pressoché nullo il rischio per l'impresa rispetto alla possibilità di rendere o non rendere il servizio nel caso concreto e che qualificano il lavoratore come subordinato in quanto economicamente dipendente.
Il 1 giugno 2018 anche un tribunale del lavoro di Valencia[10] ha dichiarato che uno dei riders di Deliveroo era un dipendente piuttosto che un lavoratore autonomo.
Il dibattito è appena cominciato, la giurisprudenza europea interessata ai lavoratori cc.dd. on demand avrà modo di elaborare la nozione ed approfondire la disciplina applicabile al lavoro tramite piattaforme.[11]
Ciò che preme qui rilevare è che il passaggio da una società fondata sul paradigma del lavoro industriale di tipo subordinato a tempo pieno e indeterminato ad una società caratterizzata da discontinuità e autonomia del lavoro - nella quale la disoccupazione e l’esclusione sociale hanno raggiunto una preoccupante dimensione ed hanno aumentato le divergenze sociali tra e all’interno degli Stati membri dell’U.E. - rende sempre più necessario un approccio integrato che tenga conto delle differenti tipologie di lavoro nell'era digitale, confrontandosi con le opzioni regolative emergenti per ciascuna di esse, al fine di garantire una maggiore uniformità delle tutele e di scongiurare il dilagare di forme di sfruttamento plateali.
La frantumazione dello schema tipico del lavoro subordinato ha diminuito il valore e la dignità del lavoro: è compito del legislatore e degli interpreti dare un volto umano alla protezione dei lavoratori della c.d. Gig Economy.
[1]Sentenza Tribunale di Torino del 07/05/2018 n. 778. In termini analoghi si è espresso anche il Tribunale di Milano con sentenza del 04/07/2018 n. 1853.
[2] In dottrina si sono sviluppate diverse interpretazioni della norma, tra le quali senza pretesa di esaustività si ricordano: P. TOSI, L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in Arg.dir.lav., 2015, 1130 ss.; M. PALLINI, Dalla eterodirezione alla etero-organizzazione: una nuova nozione di subordinazione?, in RGL, 2016, I, 65 ss.; U. CARABELLI, Introduzione, al tema Subordinazione e autonomia dopo il d.lgs. n. 81/2015, in Riv. giur. lav., 2016, I, 5; U. CARABELLI-L. FASSINA (a cura di), Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, Roma, 41; P. ICHINO, Subordinazione, autonomia e protezione del lavoro nella gig economy, in RIDL, 2018, II, 294 ss; C. SPINELLI, Tecnologie digitali e lavoro agile, Bari, 2018, 105 ss.
[3] In tal senso la giurisprudenza unanime in caso di contratti a termine: cfr. per tutte Cassazione civile sez. lav. 26/03/2019, n. 8385.
[4] 1. Al decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 2, comma 1:
1) al primo periodo, la parola: "esclusivamente" è sostituita dalla seguente: "prevalentemente" e le parole: "anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro" sono soppresse;
2) dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: "Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.";……
c) dopo il capo V è inserito il seguente: Capo V-bis. Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali. (…), (v. infra § 4. nota 11).
[5] Si tenga altresì presente che l’art. 15 l. 81/2017 - c.d. Jobs Act degli autonomi - ha aggiunto, in coda alla previsione normativa contenuta nell’art. 409 n. 3 c.p.c., la precisazione che la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa.
[6] In epoca precedente la Corte di Cassazione con la nota sentenza del 21/03/2012 n. 4476 si era già espressa in termini analoghi con riferimento ai lavoratori dei call center confermando la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto non decisiva per affermare la natura autonoma del rapporto, la possibilità per la lavoratrice di recarsi o meno a lavoro e di effettuare un orario di lavoro autodeterminato pur nell'ambito delle sei ore di turno previste.
[7] Si tratta della nota sentenza C. Giust. 20 dicembre 2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi v. Uber nella quale era precisato che il servizio d’intermediazione, come quello svolto da Uber in Spagna, avente ad oggetto la messa in contatto mediante un’applicazione per smartphone, dietro retribuzione, di conducenti non professionisti, che utilizzano il proprio veicolo, con persone che desiderano effettuare uno spostamento nell’area urbana, doveva essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrava, pertanto, nella qualificazione di “servizi nel settore dei trasporti”, ai sensi dell’articolo 58, paragrafo 1, TFUE, con l’implicita riqualificazione del rapporto di lavoro dei conducenti non professionisti di Uber in lavoro subordinato.
[8] Employment Tribunal of London, 28 ottobre 2016, n. 2202550, in https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-v-uberemployment-judgment-20161028-2.pdf con nota di D. CABRELLI, Uber e il concetto giuridico di “worker”: la prospettiva britannica, in DRI, 2017, pp. 575-58;
[9] Il leading case è costituito da EA, GASCOIGNE v. Addison Lee Ltd, Case No: 2200436/2016, 25 July, 2017 reperibile in Mr C Gascoigne v Addison Lee Ltd: 2200436/2016 - GOV.UK
[10] TSJ Cataluña, Juzgado de lo Social nº 6 Valencia, Sentencia 244/2018, 1 jun. Rec. 633/2017. La sentenza è riportata da G. PACELLA, Alienità del risultato, alienità dell’organizzazione: ancora una sentenza spagnola qualifica come subordinati i fattorini di Deliveroo in Labour & Law Issue, vol. 4, no. 1, 2018.
[11] Si ricorda che nel nostro ordinamento è vigente la disciplina introdotta della tutela del lavoro tramite piattaforme digitali introdotta dal d.l. 3 settembre 2019 n. 101 (in Gazz. Uff., 4 settembre 2019, n. 207) convertito, con modificazioni dalla l. 2 novembre 2019, n. 128.
L’Inps e l’Inail rispettivamente con la circolare del 19/11/2019, n.141 e con la nota n. 866 del 23/01/2020 hanno fornito precise istruzioni utili per la corretta applicazione delle nuove disposizioni.
La riforma delle intercettazioni, dopo due anni, alla stretta finale con molte novità.
Claudio Gittardi
“Il Decreto Legge 30.12.2019 n. 161 ha introdotto in via di urgenza numerose e significative modifiche destinate ad avere efficacia dal 1.3.2020 su aspetti essenziali della disciplina processuale dettata dal Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 con il dichiarato scopo di “perfezionare e completare la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali prima che la stessa acquisti efficacia” evidenziando ”.. altresi' la straordinaria necessita' ed urgenza che le modifiche apportate entrino in vigore prima che sia applicabile la disciplina dettata dal decreto legislativo n. 216 del 2017 e che tale termine sia coordinato con le esigenze di adeguamento degli uffici requirenti dal punto di vista strutturale e organizzativo .
Il decreto 161/2019 oltre alla necessaria previsione di una diversa disciplina temporale interviene modificando punti essenziali della precedente normativa dettata dal DLVO 216/2017 in particolare quanto ai rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nella selezione delle intercettazioni rilevanti, all'ampliamento delle facoltà di copia delle registrazioni e dei flussi di comunicazione per i difensori in caso di deposito delle intercettazioni a seguito di avviso ex articolo 415 bis e con richiesta di giudizio immediato, sulla disciplina relativa alla trascrizione peritale delle intercettazioni prevista come necessaria ed anticipata in capo al Gip/Gup in sede di formazione del fascicolo del dibattimento, su ambito ed utilizzabilità delle intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo mobile per i delitti di pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio contro la P.A.”
sommario: 1. Disposizioni sull’ efficacia temporale - 2. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni. - 3. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di trasmissione al PM , deposito degli atti di intercettazione, acquisizione e trascrizione delle intercettazioni rilevanti . - 4. Il divieto di pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti. - 5. Modifiche delle disposizioni in materia di indicazione degli elementi relativi ad operazioni di intercettazione a sostegno delle misure cautelari e dei diritti di accesso. -
6. La modifica delle disposizioni in materia di intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile .
1. Disposizioni sull’ efficacia temporale
Il legislatore aveva introdotto all'articolo 9 del Decreto Legislativo 29.12.2017 n° 216 in sede di disciplina transitoria un meccanismo di applicazione differenziata sul piano della efficacia temporale delle disposizioni della riforma .
Risultano già applicabili al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo e quindi alla data del 26 gennaio 2018 soltanto le disposizioni di cui all'articolo 1 e 6 del decreto legislativo e quindi rispettivamente le disposizioni che prevedono l'introduzione della nuova figura delittuosa di cui all'articolo 617 septies CP di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e quelle che modificano le modalità di impiego di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione estendendo alle stesse la disciplina di cui all’art. 13 del D.L 13.5.1991 n° 152.
Le restanti norme sub articoli 2 ( ad eccezione della disposizione di cui al comma 1 lettera b) in materia di divieto di pubblicazione degli atti di intercettazione) 3, 4, 5 e 7 in materia di deposito, trascrizione ed acquisizione delle comunicazioni e conversazioni oggetto di intercettazione nonché in materia di archivio informatico si sarebbero dovute applicare alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il 180º giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto e quindi alle intercettazioni autorizzate provvedimenti emessi dal 26 luglio 2018 termine successivamente prorogato con successivi provvedimenti legislativi, come noto, sino al 31.12.2019 .
All’articolo 1 del DL si modifica la richiamata disposizione dell’art 9 comma 1 e 2 del DLVO 29.12.2017 n° 216 prorogando i termini dell’entrata in vigore della disciplina delle intercettazioni e stabilendone la decorrenza dal 1.3.2020 e prevedendo soprattutto che la stessa si applichi ai procedimenti penali iscritti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto stesso e quindi ai procedimenti iscritti dopo il 29.2.2020 .
In tal modo si superano gli effetti negativi della iniziale previsione introducendo l’omogeneità della disciplina sul punto per tutte le intercettazioni disposte nell’ambito del singolo procedimento prevedendo che per i procedimenti iscritti sino al 29.2.2020 mantenga efficacia la “vecchia” disciplina antecedente al DLVO 216/2017 .
Per i procedimenti iscritti sino al 29.2.2020 deve essere pertanto applicata la normativa processuale anteriore alle modifiche del 2017 anche per le richieste e proroghe di intercettazione formulate dopo quella data.
2. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni.
Le novità introdotte in questa parte dall’articolo 2 del DL sulle disposizioni processuali a suo tempo modificate dal DLVO 216/2017 sono rilevanti e modificano in modo integrale la precedente disciplina.
Viene soppressa sia quella parte delle disposizioni del DLVO 216/2017 che prevedeva un potere di selezione originario della PG delle intercettazioni rilevanti da inserire nei brogliacci, sia la disposizione sulla comunicazione preventiva dalla PG al PM del contenuto delle comunicazioni/conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini,( per l'oggetto e per i soggetti coinvolti, e di quelle, non rilevanti, contenenti dati personali definiti sensibili dalla legge) , sia la disposizione che introduceva , in coordinamento con tale previsione, una modalità di risoluzione di eventuali contrasti tra PG e PM nella individuazione del perimetro delle conversazioni/comunicazioni rilevanti .
In primo luogo viene soppresso l’ultimo periodo dell'articolo 267, comma 4 che come visto prevedeva che l’ufficiale di Polizia Giudiziaria a norma dell'articolo 268, comma 2-bis nella formazione dei verbali delle operazioni , informasse preventivamente il Pubblico Ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti e di quelle, non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge.
Viene inoltre sostituito l’art. 268 comma 2 bis come introdotto dal DLVO prevedendo in modo più generico che il PM dia indicazione e vigili al fine di evitare che si riportino(da parte della PG) nei verbali delle operazioni /brogliacci espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini.
Nella nuova formulazione degli articoli indicati si attribuisce nuovamente una funzione centrale al PM nella direzione e vigilanza dell’ attività di formazione del contenuto dei brogliacci e soprattutto nella individuazione delle conversazioni rilevanti nell’ambito del suo potere di direzione delle indagini e di coordinamento della PG.
In coerenza con tali norme e con il recupero della centralità del potere/dovere del PM nella selezione delle intercettazioni rilevanti viene abrogato l’art 268 comma 2-ter che prevedeva, come visto, che il Pubblico Ministero, con decreto motivato, in caso di “contrasto” con la PG nella individuazione delle conversazioni e comunicazioni dotate di rilevanza, potesse disporre che le comunicazioni e conversazioni di cui al comma 2-bis originariamente ritenute irrilevanti dalla PG o relative a dati sensibili fossero trascritte nel verbale quando ne ritenesse la rilevanza per i fatti oggetto di prova e potesse altresi' disporre la trascrizione nel verbale, se necessarie a fini di prova, delle comunicazioni e conversazioni relative a dati personali definiti sensibili dalla legge.
Da rilevare che la disciplina del 2017 prevedeva espressamente la non trascrivibilità da parte della PG nei brogliacci delle comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti mentre la nuova formulazione dell’ art. 268 comma 2 bis prevede solo che il PM dia indicazione e vigili al fine di evitare che si riportino(da parte della PG) nei verbali delle operazioni /brogliacci con riferimento alle espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili se non rilevanti ai fini delle indagini.
Pure se le comunicazioni e conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini non essendo oggetto della previsione di cui sopra sarebbero astrattamente inseribili per sunto nei brogliacci/verbali delle operazioni ragioni di evidente razionalità ed economia vanno nel senso di non riportare da aprte della PG il sunto della conversazione /comunicazione stessa indicando nei verbali delle operazioni i soli estremi identificativi del progressivo e della data e dell’orario con l’indicazione “conversazione non rilevante” o “conversazione su questioni personali/familiari non rilevante” o annotazione analoga.
Le comunicazioni e conversazioni relative a dati sensibili non rilevanti ai fini di indagine non dovranno essere riportate dalla PG nel loro contenuto nei verbali delle operazioni e dovranno essere riportati nei verbali , come già avviene, i soli estremi identificativi del progressivo e della data e dell’orario con l’indicazione “conversazione non rilevante relativa a dati personali sensibili ”.
Le parti di intercettazioni sui dati personali sensibili rimangono invece , come nella precedente formulazione, trascrivibili nei brogliacci se rilevanti ai fini di indagine.
Si deve ancora sottolineare che il divieto di trascrizione presuppone appunto la non rilevanza ai fini probatori di tali conversazioni contenenti dati sensibili. E quindi se il dato sensibile assume rilevanza per l'oggetto e ai fini di indagine lo stesso stessa potrà essere legittimamente trascritto; si pensi a titolo esemplificativo il riferimento in una registrazione allo stato di tossicodipendenza di un terzo soggetto acquirente nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto il reato cessione di cui all’art 73 aggravato ex art. 80 comma 1 lett.f) DPR 309/90.
Quanto al concetto di dato sensibile si deve fare riferimento alle previsioni di cui all'articolo 4 lettera B del decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196 che definisce dati sensibili i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale
Analogamente le parti delle comunicazioni e conversazioni contenenti espressioni e o contenuti lesivi della reputazione non rilevanti ai fini di indagine non dovranno essere riportate per questa parte dalla PG nei verbali delle operazioni . Nel caso in cui la conversazione/comunicazione abbia rilevanza ai fini di indagine in passaggi residui verranno riportati nei brogliacci tali passaggi espungendo dagli stessi le parti lesive della altrui reputazione con l’indicazione per tali parti “conversazione/parte di conversazione lesiva della reputazione” o annotazione analoga .
Da ultimo si rileva che interpretando con valore generale l’ultimo inciso del nuovo comma 2 bis anche le espressioni lesive della reputazione se assumono un significato probatorio indiretto (ad esempio in ordine ai rapporti tra i soggetti di indagine o tra gli indagati e le persone offese) dovranno essere parimenti riportati nei verbali .
Alla luce delle novità introdotte con il DL 161/2019 permane l’esigenza del continuo raccordo nel corso dell’attività di intercettazione con il PM titolare delle indagine per la corretta indicazione delle conversazioni/comunicazioni dotate di rilevanza e per l’individuazione, nei casi dubbi e problematici, delle conversazioni irrilevanti per contenuto ovvero non riportabili nei brogliacci in quanto non rilevanti ed afferenti a dati sensibili ovvero perché riportanti espressioni lesive della reputazione delle persone.
3. Disposizioni di modifica al codice di procedura penale in materia di trasmissione al PM , deposito degli atti di intercettazione, acquisizione e trascrizione delle intercettazioni rilevanti .
Anche su questa parte il legislatore di urgenza interviene sempre all’articolo 2 per una parte modificando in modo significativo e per altra parte snellendo la relativa procedura.
In primo luogo il DL sostituisce il comma 4 dell’art 268 cpp modificandolo ; inoltre introduce ulteriori commi allo stesso articolo 268 cpp (i commi 5, 6, 7 e 8) e correlativamente abroga integralmente gli articoli 268 bis, 268 ter , 268 quater cpp introdotti dal DLVO 216/2017.
Tali norme vengono inserite nell’art 268 cpp che ritorna dunque ad essere norma centrale sull’attività di deposito e trascrizione delle intercettazioni e sostituiscono la complessa disciplina prevista per tali parti dagli art 268 bis, 268 ter , 268 quater cpp introdotti dal DLVO 217 /2017, articoli integralmente abrogati.
Correlativamente a tali modifica vengono modificate i richiami ai predetti articoli tra cui l’ articolo 295 comma cpp in materia di intercettazioni per ricerche di latitante.
La nuova disciplina quanto alle cadenze procedimentali in materia di trasmissione dalla PG, deposito , accesso, acquisizione e trascrizione degli atti di intercettazione rilevanti prevede :
1) in modo analogo alla previsione del DLVO 216/2017 al comma 4 dell’art 268 cpp i verbali delle operazioni e le registrazioni sono immediatamente trasmessi dalla PG al PM per la conservazione e tali atti sono depositati dal PM entro 5 giorni nell’archivio rinominato ex art. 89 bis delle Disp.Att CPP Archivio delle intercettazioni insieme ai provvedimenti autorizzativi.
Viene previsto con una prima significativa modifica che tali atti rimangano depositati in archivio per il termine disposto dal PM fatta salva la necessità di proroga del termine riconosciuta dal Giudice . E’ quindi il Pubblico Ministero che, evidentemente in relazione al numero ed alla complessità delle conversazioni depositate , alla complessità degli atti ed al numero delle parti coinvolte valuta il tempo di deposito nell’Archivio degli atti di intercettazione.
Una seconda rilevante modifica consiste nel fatto che non è prevista, a differenza dell’originaria previsione contenuta nel DLVO 216/2017 , una facoltà di differimento in capo al PM degli adempimenti nell’invio degli atti di intercettazione al PM da parte della PG, atti che dovranno essere immediatamente inviati dalla PG al PM a prescindere dal numero e dalla complessità delle intercettazioni.
Il ritardato deposito viene disciplinato dall’art. 268 comma 5 cpp , come sempre non oltre alla chiusura delle indagini, e si giustifica nel caso in cui dall’immediato deposito derivi un grave pregiudizio per le indagini come nella originaria previsione ex art 268 bis cpp.
2) i commi successivi (commi 6,7 e 8) del novellato art 268 cpp disciplinano l’avviso di deposito degli atti e delle registrazioni nell’archivio delle intercettazioni e le correlative facoltà dei difensori dell’indagato.
Nella previsione dell’art 268 comma 6 cpp DL 160/2019 a seguito del deposito delle intercettazioni da parte del PM i difensori “dell’ imputato” presso gli ambienti destinati al c.d Archivio delle intercettazioni in una prima fase possono procedere alla consultazione telematica degli atti ed all’ascolto delle registrazioni o prendere cognizione dei flussi telematici entro il termine fissato dal PM per il deposito degli atti stessi .
Da notare che il legislatore prevede all’art 268 comma 6 l’avviso di deposito e le correlative facoltà solo nei confronti dei difensori dell’ “imputato” (in realtà indagato) e non nei confronti in generale dei difensori delle parti contrariamente a quanto previsto nell’originario art 268 bis comma 2 cpp come introdotto dal DLVO 216/2017.
La previsione potrebbe essere peraltro frutto di una “svista” posto che emerge il difetto di coordinamento con l’art 89 bis Disp. Att. che parla nell’accesso all’archivio di facoltà dei “difensori delle parti”.
In questa prima fase possono quindi solo visionare telematicamente ma non estrarre copia dei verbali delle operazioni né hanno la possibilità di avere copia delle registrazioni , registrazioni che potranno essere oggetto solo di ascolto presso tale archivio.
I difensori delle parti in base al comma 4 dell’ articolo 89 bis norme di attuazione c.p.p presso l’Archivio potranno (oltre ad ascoltare le registrazioni e visionare gli atti) ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando gli stessi vengono acquisiti a norma degli articoli 268 e 415-bis del codice.
Pertanto i difensori delle parti potranno avere copia informatica degli atti di intercettazione e copia degli atti di complessivi di intercettazione :
a)una volta emesso ex art 268 comma 6 CPP da parte del Gip il provvedimento di acquisizione delle intercettazioni valutate come non irrilevanti all’atto del deposito degli atti di intercettazione eventualmente ritardato nel corso delle indagini;
b) in alternativa come previsto dal nuovo comma 2 bis dell’art 415 bis cpp una volta intervenuto il deposito complessivo degli atti di indagine ex art 415 bis CPP con emissione da parte del PM dell’avviso di conclusione delle indagini all’atto della indicazione da parte del PM delle registrazioni e dei flussi qualificati come rilevanti ovvero dell’acquisizione da parte del Giudice in tale fase ai sensi dell’art 268 comma 6 cpp in caso di contrasto/ contestazione con le difese in ordine alla rilevanza di alcune intercettazioni.
IL DL all’articolo 2 lettera M introduce infatti una disciplina specifica sul punto aggiungendo all'articolo 415-bis il comma 2-bis.
Tale disposizione prevede che qualora non si sia proceduto ai sensi dell'articolo 268, commi 4, 5 e 6, provvedendo al deposito degli atti di intercettazione in corso di indagini preliminari, l'avviso ex art 415 bis cpp contiene inoltre l'avvertimento che l'indagato e il suo difensore hanno facolta' di esaminare per via telematica gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facolta' di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero.
Il difensore puo', entro il termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso, termine corrispondente a quello previsto per le ulteriori facoltà difensive ex art 415 bis CPP, depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia. Sull'istanza provvede il pubblico ministero con decreto motivato. In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza per procedere nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6.
Nel caso pertanto di ritardato deposito delle intercettazioni sino alla conclusione delle indagini e deposito delle stesse unitamente agli atti complessivi di indagine l’indagato e il suo difensore hanno una duplice facoltà:
- esaminare per via telematica presso l’Archivio delle intercettazioni telematico gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche;
- estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero (non è indicata espressamente la facoltà di estrarre copia atti di intercettazioni in quanto implicita nella facoltà di estrazione di copia derivante dal deposito integrale degli atti di indagine).
La norma non prevede la formazione di uno specifico elenco separato da parte del PM ma la semplice indicazione da parte dello stesso delle intercettazioni rilevanti e tale indicazione di fatto costituisce un provvedimento di acquisizione di tali registrazioni .
La soluzione più opportuna in tal senso sarà quello di inserire tale indicazione nel corpo dell’avviso ex art 415 bis cpp se le intercettazioni sono numericamente contenute o in alternativa, specie nel caso nel caso di intercettazioni rilevanti numerose, in un atto a parte allegato all’avviso ex art 415 bis CCP e richiamato come parte integrante dello stesso.
Il difensore puo', entro il termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso , all’esito dell’ascolto degli atti nell’Archivio , depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia.
Sull'istanza provvede il pubblico ministero con decreto motivato provvedimento che tiene di fatto luogo di un provvedimento di acquisizione delle registrazioni indicate dalle difese .
In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza affinche' si proceda nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6 pervenendo pertanto solo in tal caso a un provvedimento formale di acquisizione da parte del Giudice.
3) IL DL all’articolo 2 lettera O introduce una disciplina specifica sul deposito ed acquisizione delle intercettazioni in caso di esercizio dell’azione penale da parte del PM con richiesta di Giudizio immediato ordinario o cautelare.
All'articolo 454, dopo il comma 2, viene aggiunto il comma 2-bis. che prevede che qualora non abbia proceduto ai sensi dell'articolo 268, commi 4, 5 e 6, e quindi mediante deposito delle intercettazioni in fase di indagine , con la richiesta di giudizio immediato il Pubblico Ministero deposita l'elenco delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche rilevanti ai fini di prova.
Entro quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato e della relativa richiesta prevista dall'articolo 456, comma 4 cpp, il difensore puo' depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiede copia. Si osserva per inciso che il termine appare contenuto specie in caso di procedimenti di particolare complessità oggettiva , con pluralità di imputazione ed imputati anche se, in caso di immediato cautelare, molte , se non tutte, le intercettazioni rilevanti a sostegno della richiesta risultano già depositate all’atto della esecuzione dell’ordinanza cautelare e poste a disposizione dei difensori anche nei supporti fonici.
Sull'istanza provvede il Pubblico Ministero con decreto motivato. In caso di rigetto dell'istanza o di contestazioni sulle indicazioni relative alle registrazioni ritenute come nell’ipotesi precedente rilevanti il difensore puo' avanzare al giudice istanza affinche' si proceda nelle forme di cui all'articolo 268, comma 6.
Sebbene non espressamente previsto dalla norma le facoltà dei difensori sono corrispondenti a quelle di cui alla nuova previsione ex art 415 comma 2 bis CPP , anche se esercitabili nel termine più breve di 15 giorni dalla notifica della richiesta di Giudizio Immediato, ovverosia quelle di esaminare per via telematica presso l’Archivio delle intercettazioni gli atti relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ed estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero.
Corrispondenti sempre a quanto dettato dall’ art 415 comma 2 bis CPP sono le previsioni in caso di contestazioni/contrasti tra PM e difesa sulle registrazioni rilevanti.
Come visto in questo caso il legislatore prevede espressamente la formazione di un elenco da parte del PM delle conversazioni comunicazioni rilevanti e in tal caso appare preferibile che in sede di richiesta di giudizio immediato il PM formi tale elenco in un atto a parte allegato alla richiesta ex art 454 cpp e richiamato come parte integrante della stessa.
Da rilevare che in questo caso le facoltà di accesso e copia delle intercettazioni in Archivio a seguito della richiesta di Giudizio immediato sono previste dal DL genericamente nei confronti dei “difensori” ma risulta indubbio che tali facoltà siano da attribuire anche ai difensori della persona offesa per le ragioni sopra indicate ed essendo gli stessi destinatari delle notifiche del decreto di giudizio immediato.
4) il provvedimento di acquisizione da parte del GIP delle conversazioni/comunicazioni indicate dalle parti che non appaiono irrilevanti .
Fatto salvo quanto prima illustrato sulle modalità di indicazione di rilevanza ed acquisizione delle intercettazioni in caso di deposito ex art 415 bis CPP e in caso di richiesta di giudizio immediato , si prevede che il GIP acquisisca tutte le conversazioni /comunicazioni che non appaiono irrilevanti con un vaglio tendente ad escludere solo quelle conversazioni /comunicazioni manifestamente irrilevanti ricomprendendo invece anche le registrazioni dotate comunque di una anche minima o parziale rilevanza.
In secondo luogo la norma in questa fase non specifica quanto alle modalità di individuazione delle intercettazioni rilevanti , a differenza del DLVO che parlava di formazione di “elenchi” da parte del PM e ne disciplinava la comunicazione dal PM ai difensori , come debba avvenire tale indicazione da parte del PM all’atto del deposito e dei difensori a seguito del deposito del PM delle conversazioni ritenute rilevanti.
Si ritiene che possa avvenire da parte del PM ( e dei difensori) attraverso la semplice trasmissione al GIP di un atto contenente l’indicazione delle conversazioni /comunicazioni ritenute rilevanti (con riferimenti all’utenza, al numero di RIT, al progressivo e/o agli estremi delle conversazioni /comunicazioni).
Inoltre sebbene non espressamente prevista una forma di comunicazione rispettiva tra le parti tali elenchi delle conversazioni inviati al GIP dalle parti devono essere naturalmente consultabili dalle stesse presso l’Ufficio GIP prima della successiva fase in modo in che le difese possano indicare le intercettazioni ritenute rilevanti non indicate dal PM e quest’ultimo possa interloquire sulle indicazioni delle difese.
5) il provvedimento di stralcio delle conversazioni non utilizzabili e delle intercettazioni su dati personali definiti “particolari” non rilevanti.
IL GIP procede di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali atti di cui è vietata utilizzazione e di quelle su dati personali definiti “particolari” sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza . La dizione letterale della norma indica come oggetto del provvedimento di stralcio del GIP le conversazioni su dati personali “particolari” privi di rilevanza ( da ritenersi comprensive anche delle intercettazioni di contenuto offensivo se non rilevanti) , oltre a quelle inutilizzabili.
Tale provvedimento viene assunto dal GIP nell’ambito di una “fase camerale” di stralcio non qualificata dal legislatore , alla luce di quanto verrà di seguito detto, per cui le parti (PM e difensori delle parti ) vengono avvisati almeno ventiquattro ore prima con diritto a partecipare allo stralcio stesso. La formulazione della norma comporta la validità dello stralcio da parte del GIP anche se disposto in assenza di tutte od alcune delle parti processuali avvisate.
6) il provvedimento da parte del Giudice (GIP o GUP ) anche in sede di formazione del fascicolo del dibattimento ex art 431 cpp , in sede di udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato ex art. 457 cpp, con cui dispone la trascrizione integrale delle registrazioni o la stampa dei flussi delle comunicazioni informatiche e telematiche , trascrizione da effettuare nella forma della perizia.
La locuzione “anche” fa ritenere possibile un tale provvedimento anche in fase anticipata nel corso della udienza preliminare ed eventualmente ancor prima nella fase incidentale di stralcio avanti al GIP ove abbiano partecipato le parti .
Si deve sottolineare che l’uso della locuzione “dispone” da parte del legislatore di urgenza non lascia dubbi in ordine al fatto che la trascrizione peritale delle conversazioni comunicazioni in fase di indagini preliminari a seguito del deposito delle intercettazioni o al più tardi in sede di udienza preliminare e/o in sede di formazione del fascicolo per il dibattimento sia prevista dal legislatore quale attività da disporre obbligatoriamente e non come quale attività eventuale nella prospettiva dello svolgimento della successiva fase dibattimentale .
Le trascrizioni peritali e le stampe sono naturalmente destinate all’inserimento nel fascicolo del dibattimento .
Tale soluzione è opposta rispetto alla previsione del DLVO 216/2017 ove si era intervenuti in primo luogo inserendo nell'ambito delle disposizioni relative agli atti introduttivi del dibattimento l'articolo 493 bis cpp per effetto del quale si prevedeva che il Giudice dibattimentale disponesse, su richiesta delle parti, la trascrizione delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche acquisite osservando le forme, i modi le garanzie previsti per lo svolgimento delle perizie.
Veniva correlativamente abrogato l’originario articolo 268 comma 7 c.p. p, che prevedeva, come noto, una competenza del Giudice delle indagini preliminari in materia di trascrizione integrale delle intercettazioni o la stampa in forma intelligibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche sempre con l'osservanza delle forme e dei modi della perizia.
Una residuale competenza in materia di trascrizioni in capo al Gip poteva essere astrattamente individuabile in base al DLVO 216/2017 nei casi in cui il PM avesse richiesto nella forma dell’incidente probatorio la trascrizione in forma peritale delle intercettazioni in presenza dei presupposti indicati dall'articolo 393 comma 2 c.p. p ovverosia allorché l'attività di trascrizioni peritale delle intercettazioni, se fosse disposta nel dibattimento, avrebbe potuto determinare una sospensione del dibattimento superiore a 60 giorni.
A seguito dello svolgimento della trascrizione peritale i difensori hanno facoltà di estrarre copia delle trascrizioni peritali e di avere copia delle registrazioni foniche attraverso la trasposizione su idoneo supporto e di avere inoltre la copia dei flussi telematici o la copia della stampa degli stessi.
All'articolo 242 cpp in correlazione alle modifiche introdotte dal DL all’art 268 comma 7 CPP in punto di fase procedimentale in cui inserire la trascrizione delle conversazioni e comunicazioni rilevanti ed alla relativa competenza del GIP per l’emissione del provvedimento di trascrizione nelle forme peritali anche in fase di formazione del fascicolo per il dibattimento le parole: «a norma dell'articolo 493-bis, comma 2» sono sostituite dalle parole «a norma dell'articolo 268, comma 7”.
Viene inoltre modificata la rubrica dell’art 242 cpp adeguandola ai nuovi supporti tecnologici sostituendo l’indicazione della trascrizione della registrazione alla trascrizione del nastro magnetofonico e al comma 2, le parole: «acquisito un nastro magnetofonico» sono sostituite dalle seguenti: «acquisita una registrazione».
Su piano generale della disciplina delle intercettazioni sempre all’art 267 CPP si sopprime l’ultimo periodo del comma 4 in coerenza con le modifiche generali, disposizione che prevedeva che l'ufficiale di polizia giudiziaria a norma dell'articolo 268, comma 2-bis informasse preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni.
Inoltre al comma 5 si prevede con opportuna e coerente specificazione organizzativa che il registro delle intercettazioni gestito, anche con modalita' informatiche, destinato a contenere le annotazioni , secondo un ordine cronologico, dei decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni e, per ciascuna intercettazione, l'inizio e il termine delle operazioni sia tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica, e non come prima indicato presso “l’ufficio del Pubblico Ministero” , dizione ambigua che poteva ritenersi riferita all’ufficio del singolo Pubblico Ministero.
4. Il divieto di pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti
La disposizione introdotta dal DLVO 216 /2017 all’articolo 2 comma 1 lettera b), modificava l’ articolo 114 comma 2 cpp escludendo l’ordinanza di applicazione della misura cautelare dal divieto di pubblicazione sino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero sino al termine dell’udienza preliminare.
Tale disposizione , non modificata dal DL 161/2019, ha acquisito efficacia differita una volta decorsi 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo e quindi alla data del 26 gennaio 2019.
IL DL 161/2019 all'articolo 114 ha invece aggiunto il comma 2-bis che prevede che sia sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268 e 415-bis cpp .
La disposizione prevede dunque espressamente il divieto assoluto di pubblicazione anche parziale delle altre intercettazioni non acquisite dopo il deposito ex art 268 cpp dal Giudice ovvero ex art 415 bis cpp ( più precisamente ex art 415 comma 2 bis CPP) .
Le intercettazioni valutate come non rilevanti, e come tali non acquisite su iniziativa o indicazione del PM e delle difese con le modalità previste dagli articolo indicati ( a cui si deve peraltro aggiungere l’art 454, comma 2-bis CPP in caso di deposito delle stesse con richiesta di giudizio immediato) rimangono soggette al divieto di pubblicazione in qualsiasi fase processuale.
Archivio delle intercettazioni ex art. 269 cpp e 89 bis CPP
Il DLVO 216/2017 prevedeva come noto la creazione di un archivio denominato Archivio Riservato destinato alla custodia integrale di atti di intercettazione che erano coperti dal segreto
Il DL 161 /2019 prevede ex art. 269 cpp e 89 bis CPP la creazione di un archivio telematico denominato Archivio (telematico) delle intercettazioni.
Il decreto introduce la previsione nel modificato art 269 comma 1 CPP, a fronte di un’ indicazione contenuta nella precedente normativa di un Archivio riservato “presso l’Ufficio del Pubblico Ministero”, che l’Archivio delle intercettazioni rientri nella direzione e sorveglianza diretta del Procuratore della Repubblica dell’ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni.
L'archivio e' gestito con modalita' tali da assicurare la segretezza della documentazione relativa , segretezza che attiene peraltro solo alle intercettazioni non necessarie per il procedimento, a quelle irrilevanti o di cui é vietata l'utilizzazione ovvero riguardanti categorie particolari di dati personali come definiti dalla legge o dal regolamento in materia , sempre che le stesse , come visto, non siano rilevanti.
In tale Archivio si ricorda vanno conservati ex art 92 comma 1 bis Disp Att. anche gli atti contenenti l le comunicazioni conversazioni intercettate ritenute dal Giudice non rilevanti in sede di emissione dell’ordinanza di applicazione di misure cautelari.
Spetta al Procuratore della Repubblica impartire , con particolare riguardo alle modalita' di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito.
I difensori delle parti possono ascoltare le registrazioni con apparecchio a disposizione dell'archivio e , come in precedenza analizzato. possono ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando acquisiti a norma degli articoli 268 e 415-bis del codice.
Ogni rilascio di copia deve essere annotato in apposito registro, sempre gestito con modalita' informatiche; che deve contenere le indicazioni della data e dell’ora di rilascio e degli atti consegnati in copia.
Con disposizione corrispondente alla previsione del precedente art. 89 bis Disp. Att si prevede che all'archivio possono accedere, secondo quanto stabilito dal codice, il giudice che procede e i suoi ausiliari, il pubblico ministero e i suoi ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati all'ascolto, i difensori delle parti (indagati e persone offese), assistiti, se necessario, da un interprete. Ogni accesso e' annotato in apposito registro, gestito con modalita' informatiche; in esso sono indicate data, ora iniziale e finale, e gli atti specificamente consultati.
Con la modifica dell'articolo 269 comma 2 cpp si prevede con riferimento alle registrazioni , salvo quelle dichiarate inutilizzabili, che in relazione alle stesse sussiste l'obbligo di conservazione fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione. Si prevede che gli interessati quando la documentazione non è necessaria per il procedimento a tutela della riservatezza possono richiedere la distruzione delle registrazioni non acquisite al Giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione.
5. Modifiche delle disposizioni in materia di indicazione degli elementi relativi ad operazioni di intercettazione a sostegno delle misure cautelari e dei diritti di accesso.
Viene in primo luogo abrogato il comma 1 bis dell’art 269 cpp che stabiliva che non fossero coperte da segreto ( e non rientrassero pertanto negli atti custoditi nell’archivio riservato ) i verbali e le registrazioni delle intercettazioni poste alla base delle misure cautelari non essendo prevista nella normativa di urgenza alcuna disciplina differenziata tra atti di intercettazione a seconda che siano o meno posti alla base di richieste cautelari.
IL DL ha poi modificato l’art 291 comma 1 cpp in materia di procedimento applicativo delle misure cautelari sopprimendo, quanto al novero degli elementi a sostegno della richiesta, l’indicazione dei “verbali delle operazioni di cui all’art 268 comma 2 limitatamente alle conversazioni e comunicazioni rilevanti”. Indicazione evidentemente ritenuta superflua dal legislatore posto che si tratta di elementi necessariamente posti ed allegati dal PM alla base delle proprie richieste cautelari e nella misura in cui gli stessi siano ritenuti contenere elementi rilevanti ed idonei a sostenere la richiesta stessa .
Viene inoltre soppresso con l’art 2 lettera H del DL l’art 293 comma 3 cpp nella parte della disposizione che prevede espressamente il diritto dei difensori di esaminare e di avere copia dei verbali delle intercettazioni e di ottenere trasposizione su supporto idoneo delle relative intercettazioni una volta depositata nella cancelleria del Giudice l’ordinanza applicativa della misura cautelare, la richiesta del PM e gli elementi a sostegno della stessa .
Modifica che appare in realtà scarsamente comprensibile se non solo sulla base della considerazione che il legislatore si è mosso dal superamento di una disciplina specifica in materia di accesso alle intercettazioni poste alla base delle richieste cautelari e che tali diritti di esame e copia sono comunque pacificamente affermati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità nell’ambito del generale diritto difensivo alla conoscenza ed alla estrazione di copia degli atti a sostegno della richiesta di misura e presentati dal PM con la richiesta cautelare stessa ex art 293 cpp .
La novella legislativa dell’art 293 comma 3 CPP ex DLVo 216/2017 era infatti intervenuta indicando in forma espressa, con recepimento sul punto degli arresti giurisprudenziali dopo la pronuncia della Cassazione SSUU n 27 maggio 2010 n° 20300 Lasala, conseguenti alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art 268 cpp intervenuta con la sentenza Corte Cost. n° 336/2008, le facoltà e i diritti della difesa conseguenti al deposito dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare con riferimento alla richiesta del Pubblico Ministero e agli atti presentati a fondamento della stessa statuendo che «Il difensore ha diritto di esame e di copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate. Ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati e delle relative registrazioni».
Veniva pertanto espressamente recepito anche in sede normativa il diritto pieno di accesso dei difensori degli indagati destinatari di ordinanza di misura cautelare al materiale di intercettazione nella sua integralità posto alla base della richiesta di misura cautelare prevedendo il diritto delle difese non solo di esaminare ma di estrarre copia dei verbali delle operazioni di intercettazione nonché il pieno diritto di estrazione di copia integrale delle registrazioni stesse e non di semplice ascolto delle registrazioni a differenza di quanto previsto in caso di deposito, come visto , per le intercettazioni non collegate a misura cautelare depositate dal PM nell’ Archivio riservato.
Tale effetto sul piano delle garanzie della difesa era del resto strettamente conseguente nel DLVO 216/2017 al dato procedimentale secondo cui per le conversazioni o comunicazioni utilizzate in sede cautelare dopo il deposito in favore delle difese degli atti di intercettazione l’acquisizione di tali atti al fascicolo delle indagini costituiva un atto processuale rientrante nella sfera di attività del Pubblico Ministero e di fatto coincidente e “ fissato “ al momento dell'adozione della misura cautelare, a differenza di quanto previsto per le conversazioni non collegate a misura cautelare.
A prescindere dalla diversa opzione del legislatore del 2019 il diritto delle difese di estrazione di copia delle registrazioni delle conversazioni e comunicazioni intercettate, con riferimento alle comunicazioni e conversazioni poste dal Pubblico Ministero alla base della richiesta cautelare , costituisce un diritto non subordinato ad un provvedimento espresso da parte del Magistrato titolare delle indagini.
Deve essere attivato con una richiesta avanzata dal difensore dell’indagato destinatario della misura al Pubblico Ministero da presentare in tempo utile per l' espletamento degli incombenti conseguenti da parte delle segreterie del Pubblico Ministero. La messa a disposizione delle registrazioni da parte del Pubblico Ministero deve conseguentemente intervenire , in conformità alle pronunce giurisprudenziali richiamate e come del resto già avviene all'interno di questa Procura, attraverso opportuni meccanismi organizzativi, in termini temporali compatibili quindi con le scansioni temporali dettate dall'articolo 309 cpp per la proposizione eventuale da parte delle difese della richiesta di riesame avendo l'obbligo le segreterie del PM di provvedere in tempo utile a consentire l'esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale “de libertate”.
A questo riguardo si deve aggiungere che gli atti e le intercettazioni alla base delle richieste e misure cautelari ,vista la scelta del legislatore nel DL 161/2019 e in assenza di diversa disposizione normativa , al momento della conclusione delle indagini ex art 415 bis CPP ovvero in sede di deposito di richiesta di Giudizio immediato , dovranno essere sottoposte , al pari delle ulteriori intercettazioni acquisite nel corso delle indagini e non poste alla base della richiesta cautelare , alle modalità di deposito ed acquisizione previste dalla disciplina introdotta dal Dl in parola.
Da ultimo si rileva che il DL non modifica due disposizioni introdotte dal DLVO 216/2017 in materia di tecnica di redazione delle richieste ed ordinanze cautelari, quanto al richiamo dei contenuti delle intercettazioni, limitandosi a determinare , con la modifica della disciplina temporale, l’applicazione di tali disposizioni ai procedimenti iscritti a partire dal 1.3.2020.
Con l'inserzione nel corpo dell’art.291 cpp del comma uno ter cpp, si dispone che « Quando e' necessario, nella richiesta sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate.».
Corrispondente modifica è stata introdotta con l’art.292 comma 2 quater cpp con riferimento alla motivazione dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare con la previsione che “quando è necessario per l'esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali.».
L’inserimento da parte del PM dei contenuti delle comunicazioni / conversazioni rilevanti nella motivazione della richiesta di misura cautelare in base alla novella legislativa deve pertanto rispondere in primo luogo ad una necessità espositiva degli elementi dotati di gravità indiziaria e deve essere comunque limitata ai passaggi essenziali delle comunicazioni e conversazioni essendo finalizzato alla compiuta indicazione da parte del PM degli elementi strettamente funzionali alla adeguata rappresentazione del materiale indiziario.
Evidente la finalità della riforma sul punto tesa a contenere l'esposizione indifferenziata in sede di richieste e provvedimenti cautelari di elementi non strettamente rilevanti in sede di indagine e ai fini cautelari.
Si deve osservare che nell'ambito delle indagini di maggiore complessità , specie se fondate su prolungate attività di intercettazione, risulta necessaria ai fini di una completa esposizione del materiale indiziario ed agevola in buona sostanza la conoscenza delle cadenze e del materiale complessivo dell’indagine. una riproduzione coerente e completa all'interno della richiesta di applicazione di misure cautelari delle conversazioni e comunicazioni. Ovviamente deve trattarsi di un’ esposizione non indifferenziata ma limitata ai punti essenziali e “mirata” del materiale di intercettazione unitamente alle altre risultanze di indagine.
Di converso l'esposizione in forma esclusivamente riassuntiva dei contenuti delle intercettazioni o attraverso una tecnica di semplici richiami agli estremi delle intercettazioni nei brogliacci o alle Annotazioni di PG nella maggior parte dei casi costituisce un limite oggettivo alla completezza della ricostruzione delle risultanze d'indagine e può comunque incidere sulla chiarezza e completezza espositiva in caso di sintesi eccessiva o incongrua tanto per il Giudice chiamato a pronunciarsi quanto successivamente per le parti.
Tale tecnica espositiva infatti richiede sovente per il destinatari comunque la necessità di completare l’esame delle risultanze di indagine con la lettura integrale dei verbali delle conversazioni e comunicazioni sintetizzate o richiamate.
In considerazione della novella legislativa e di quanto in precedenza osservato sul punto risulta di conseguenza necessario che anche la Polizia Giudiziaria si conformi a tale disciplina nella predisposizione delle annotazioni in vista della presentazione da parte di questo Ufficio di richieste di misure cautelari .
In tale prospettiva, anche per finalità di sintesi , la PG si limiterà a riportare nei suoi atti il contenuto necessario delle conversazioni e comunicazioni rilevanti per le finalità sottese e i passaggi essenziali delle conversazioni o comunicazioni intercettate, evitando di inserire in modo pedissequo passaggi irrilevanti a fini di indagine.
Si assicurerà tra l’altro in tal modo in via progressivo una coerenza ed un’organicità espositiva degli elementi rilevanti di indagine desunti dall'attività di intercettazione.
6. La modifica delle disposizioni in materia di intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile .
1) In primo luogo il DL 161/2019 modifica l’art. 266 comma 2 bis CPP estendendo l’ammissibilità della intercettazione delle comunicazioni tra presenti mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile oltre che per i delitti dei pubblici ufficiali anche per i delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali e' prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4.
2)Si armonizza anche l’art 267 comma 1 CPP in materia di presupposti del provvedimento prevedendo che anche per gli indicati delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione , come per delitti contro la PA dei pubblici ufficiali e e per i delitti di cui agli artt. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp , nel decreto autorizzativo non sia necessario indicare il luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, di attivazione del microfono .
3)Con opportuna modifica a fronte di una disarmonia non comprensibile del DLVO 216 /2017 tra la disciplina ordinaria di intercettazione e quella di urgenza (che si traduceva tra l’altro in una ingiustificata limitazione dei poteri di indagine del PM in situazioni di oggettiva urgenza) si modifica l’art 267 comma 2 bis CPP.
Si prevede con la modifica introdotta all’art 2 lettera D2 del DL che nei casi di urgenza , il pubblico ministero può disporre, con decreto motivato, l'intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non solo nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater ma anche per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali e' prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4.
Si era segnalata nella precedente direttiva l’ulteriore incongruità derivante dal combinato disposto del nuovo comma 2bis dell’art. 267 e dell’art. 6 c. 1 D.lvo 216/2017: infatti, mentre in base a quanto previsto dall’art. 6 c. 1, per i reati più gravi contro la p.a., applicandosi il regime dell’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, il P.M. poteva disporre d’urgenza le proroghe delle intercettazioni (anche con riferimento a quelle con il captatore informatico installato su dispositivi mobili) non poteva disporre con decreto di urgenza tali intercettazioni, non trattandosi di reati rientranti nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p..
Appariva oggettivamente incongrua la scelta legislativa in materia dei reati più gravi contro la p.a., atteso che, in entrambi i casi il sistema prevede la successiva convalida del G.I.P. con conseguente controllo sulla sussistenza dei presupposti di legge.
4) Con il DL 160/2019 viene inoltre modificato l’art 270 comma 1 bis CPP introducendo una rilevante modifica in materia di utilizzabilità di tali intercettazioni.
Nel precedente regime i risultati di tali intercettazioni mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile , come avviene per le altre tipologie di intercettazioni, non potevano essere utilizzati per la prova di reati diversi rispetto ai quali era stata emessa l’intercettazione salvo che fossero indispensabili per la prova di delitti con arresto obbligatorio in flagranza.
Con la opportuna modifica introdotta dal DL 160/ 2019 i risultati di tali intercettazioni possono essere invece utilizzati senza alcun riferimento al requisito della indispensabilità anche per la prova di reati diversi per i quali era stata emessa l’intercettazione che siano ricompresi nella previsione dell’art 266 comma 2 bis CPP ovverosia per la prova dei i delitti di cui all’art 51 comma 3 bis e 3 quater cpp e per dei delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, ovverosia per quelle di categorie di delitti per i quali è sempre consentita l’intercettazione mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile anche nei luoghi del domicilio indipendentemente dal requisito della sussistenza di un fondato motivo di svolgimento in tali luoghi dell’attività criminosa.
6) Il DL come il precedente DLVO 216/2017 è intervenuto quanto alla disciplina delle intercettazioni ambientali mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile anche sul contenuto dell’art 89 Disp. Att. ,norma che (conteneva e)contiene importanti previsioni quanto alle modalità di esecuzione di tali tipologia di intercettazioni
-Si dispone in via generale che il verbale delle operazioni previsto dall'articolo 268 comma 1 del codice contenga l'indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, la descrizione delle modalita' di registrazione, l'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonche' i nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni.
- Quando si procede ad intercettazione delle comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale indica il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni. Relativamente alle annotazioni previste sul verbale delle intercettazioni, l’art 89 1 comma seconda parte (come del resto il precedente il comma 1, novellato nel 2017 dell’art. 89 disp. att. cpp prevedendo il DL la sola aggiunta della locuzione ove possibile )prevede dunque che, oltre a quelle relative agli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, alla descrizione delle modalità di registrazione, all'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché ai nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni, quando si proceda ad intercettazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale debba indicare “il tipo di programma impiegato e ove possibile i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni”.
La norma, in questo caso, non distingue i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. e i reati contro la PA dagli altri reati . Pertanto, se è vero che, per i reati di competenza della Procura distrettuale di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p, e come visto per i più gravi delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio non è necessario che il Giudice indichi e specifichi i luoghi, anche indirettamente determinati “ex ante” dove potranno avvenire le intercettazioni (sulla base del novellato art. 267 c. 1 seconda parte, c.p.p.) nel verbale delle operazioni si dovrà sempre cercare di identificare da parte della PG (in questo caso ex post) sulla base delle conversazioni e dei dati desumibili dall’uso del captatore, il luogo e/o i luoghi dove esse sono avvenute e riportare tali luoghi nel verbale ex art. 89 disp. att. c.p.p..
Tale dato, in realtà , specie se l’attività non è accompagnata da contestuali servizi di osservazione dalla PG non sempre attivabili non è per nulla di facile acquisizione o determinazione né pare che sia aggirabile la prescrizione con un indicazione del tutto generica. Appare auspicabile, al fine di evitare controversie in sede processuale che tra i requisiti tecnici dei programmi informatici che verranno stabiliti dal Ministero della Giustizia vi siano quelli di consentire ai programmi di accedere al sistema di localizzazione GPS (ormai presente ad esempio praticamente in tutti gli smartphone) per permettere all’operatore di identificare con certezza il luogo ove avvenga la comunicazione.
- Il DL ha previsto che con decreto del Ministro della giustizia sono stabiliti i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all'esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile.
A tale proposito si deve rilevare che in base all’art. 7 del D.lvo 216/2017 contenente analoga previsione ( decreto da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del DLVO per fissare i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all'esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile secondo misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitino all'esecuzione delle operazioni autorizzate) il Ministro della Giustizia ha già emanato in materia il DM 20.4.2018 .
-Nei casi previsti dal comma 2 le comunicazioni intercettate sono trasferite, dopo l'acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilita' della rete di trasmissione, esclusivamente nell'archivio digitale di cui all'articolo 269, comma 1, del codice. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrita' che assicurino l'integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.
Relativamente a tali disposizioni , come per quelle di analogo tenore inserite nel DLVO 216/2017 deve evidenziarsi che alcune di esse appaiono in alcuni casi formulate in modo non sufficientemente chiaro in altri casi di difficile attuazione.
In primo luogo non si comprende se , come sembra palesare il tenore letterale della disposizione , la trasmissione dei dati debba avvenire, di volta in volta per le singole trasmissioni , previa “…acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”.
Posto che la rete di trasmissione fornita dalla società che noleggia gli apparati e dalla società telefonica che fornisce la connessione dati sarà, normalmente, sempre la medesima la stessa è affidabile e tecnicamente sicura o meno dall’origine ; non si comprende, pertanto, quale controllo possa fare l’operatore e soprattutto l’utilità ad ogni trasmissione dati (quindi anche più volte in un giorno) nell’acquisire “necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione”.
La disposizione che prevede che “durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità in modo da assicurare l'integrale corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasmesso e registrato” appare comprensibile sul piano tecnico e operativo se non riferita a controlli dell’operatore fisico (atteso che trattandosi di trasferimento di dati informatici non è possibile per un operatore “umano” effettuare un controllo durante il trasferimento).
Un simile controllo, infatti, può essere effettuato solo da un programma informatico che confronti il pacchetto dati conservato nel dispositivo “target” (che contiene la conversazione captata) con il pacchetto dati che viene ricevuto e conservato sul server della Procura e ne attesti l’assoluta identità.
Quando e' impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all'articolo 268 del codice da' atto delle ragioni impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate.
Si tratta a ben vedere di cautele predisposte dal legislatore finalizzate ad evitare un indiscriminato ed incontrollato utilizzo del microfono del dispositivo elettronico portatile, che tuttavia finiscono per aggravare notevolmente il lavoro della Polizia Giudiziaria delegata allo svolgimento delle operazioni e dei tecnici specializzati delle società di intercettazione, dal momento che le disposizioni in parola impongono un costante aggiornamento del verbale con dati precisi sullo svolgimento delle operazioni.
-Al termine delle operazioni si provvede, anche mediante persone idonee di cui all'articolo 348 del codice, alla disattivazione del captatore con modalita' tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi. Dell'operazione si da' atto nel verbale.
Onde evitare modalità di gestione tecnica difficilmente compatibili con le esigenze di indagine il termine per la disattivazione non può che coincidere col termine della durata massima delle operazioni fissata dal provvedimento autorizzativo sullo specifico bersaglio (comprese le proroghe) e non certo del singolo e specifico ascolto .
“A Trento per amore ma con Palermo nel cuore” di Alessandro Clemente
La prima cosa a cui ho pensato è stata il titolo.
Era il 23 settembre 2015 e prendevo servizio alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Trento, come sostituto, su mia domanda di trasferimento determinata da esigenze familiari.
Solo pochi giorni prima, l’ultimo bagno nel mare di Balestrate, col carissimo Gaspare, amico e collega alla Procura di Palermo. Mia prima sede di servizio, voluta con orgoglio e determinazione, dalla quale si può dire che non sia mai andato via.
In quelle acque limpide, quel giorno, avvertivo con struggimento il peso dell’imminente distacco, che poche ore dopo sfociava in un pianto senza sosta, a poppa di quella nave ormai familiare come casa mia, dalla quale vedevo l’isola allontanarsi e sulla quale lasciavo amici che piangevano con me e che, ancora oggi, mi accolgono con gioia quando mi diventa intollerabile il mancarsi.
Di lì a poco, seduto accanto al finestrino mi facevo scorrere l’Italia davanti agli occhi, fino a quando il treno iniziò a lambire le foglie precocemente ingiallite dei vigneti di Trento, dove l’estate finisce sempre troppo presto.
Era, a suo modo, un ritorno, seppure in una nuova veste umana e professionale. Già, perché nel frattempo era spuntata fuori una famiglia con due bambini, e quel funzionario dell’Agenzia delle Entrate – il concorso da sfigati, ricordate? – era diventato magistrato e aveva salutato Trento: destinazione Palermo, appunto.
Anche nel mio addio ai monti avevo riversato la mia buona dose di lacrime. Certo, è meno dolente il distacco quando non ti porti dietro un bagaglio pieno di rimpianti, ma questo ancora non lo sapevo. O meglio, facevo affidamento sul mio senso di responsabilità, che fino ad allora non mi aveva mai tradito. Il fatto è che nel frattempo avevo letto Julian Barnes – “chiamiamo senso di responsabilità nient’altro che la nostra vigliaccheria” – e il suo avvertimento mi risuonava nelle orecchie.
Ma insomma. La vita mi aveva fatto decidere di tornare a Trento, e qui avrei continuato nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sebbene in un’altra veste e in una nuova dimensione umana e territoriale.
P.M. minorile: e dire che durante il tirocinio manco c’ero stato, alla Procura dei minori! E quando si trattò di scegliere la sede, con malcelato pregiudizio avevo snobbato tutti gli uffici, giudicanti e requirenti, che avessero dentro quella parola. Non per una visione retrograda e maschilista, intendiamoci, quanto perché volevo cimentarmi in una funzione e in una realtà in cui la repressione di alcuni fenomeni criminali – i reati economici; l’evasione fiscale; la corruzione; il malaffare in tutte le sue forme; il soggiogamento indotto da iniquità economiche e sociali, il “compromesso morale” – potesse farmi sentire utile nel contribuire a rendere questo mondo, per dirla con Eduardo, “meno rotondo, ma un poco più quadrato”.
Avendo deciso che la sede del mio nuovo ufficio sarebbe comunque stata Trento, dovetti accontentarmi dell’unico posto disponibile tra gli uffici requirenti del distretto. Sinceramente, all’epoca avrei preferito mantenere le funzioni di p.m. ordinario, e continuare ad occuparmi prettamente di affari penali, sebbene non disdegnassi puntate negli affari civili, in ossequio alle attribuzioni, troppo spesso mortificate, che anche in quell’ambito l’ordinamento riserva al pubblico ministero.
Iniziai dunque, sul campo, un percorso di formazione all’interno di un ufficio di piccolissime dimensioni: due soli magistrati, me compreso. Mi sentivo come Gulliver in balìa dei lillipuziani, io che ero cresciuto in una Procura con cinquanta e passa sostituti. Fortunatamente, i virgulti della gioventù trentina non mi parevano così animati da tentazioni di devianza criminale, e il settore penale pertanto non mi spaventava. Si trattava soltanto di prendere confidenza con quei tre o quattro istituti del rito minorile che, nel tempo, ho imparato a maneggiare. Ancora fino a poco tempo fa – in pratica, fino al 1 gennaio 2019, quando sono rimasto l’unico magistrato in servizio perché l’allora Procuratore aveva deciso di andare anzitempo a riposo – ho provato più volte l’eccitante sensazione di avere la scrivania sgombra dai fascicoli. Penali, s’intende.
E già, perché appena misi piede nel nuovo ufficio mi resi conto che la gran mole di lavoro del p.m. minorile era costituita dai procedimenti del settore degli “Affari Civili”. In pratica, tutto quel variegato mondo fatto di interventi socio-assistenziali che, sovente grazie all’intervento dell’Autorità Giudiziaria, si attivano nel superiore interesse del minore.
Dovevo in poco tempo familiarizzare con istituti e prassi che poco o per nulla conoscevo, quali il mandato di indagine psicosociale, la “presa in carico” del minore, il collocamento in comunità di accoglienza, e poi ovviamente l’adozione, l’affidamento eterofamiliare, la limitazione e la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Una nemesi storica, perché a suo tempo, su iniziativa di Dino Petralia – allora, mio Procuratore Aggiunto a Palermo e mio maestro – avevo affrontato la tematica del riparto di competenza tra p.m. ordinario e p.m. minorile in ordine all’interpretazione del nuovo art. 38 delle disposizioni di attuazione al codice civile, tentando vanamente di addossare sul p.m. minorile quante più competenze si potesse. Ed ecco che, di lì a pochi anni, mi ritrovavo dall’altra parte, a destreggiarmi in un settore a me sconosciuto e che ancora oggi, dopo oltre quattro anni, mi riserva sorprese.
In più, soffrivo con malcelata inquietudine la penuria di riferimenti normativi, proprio io che quando ero di turno dormivo col codice sul comodino… Spaesato in questa selva oscura, cercai di affidarmi al più presto ad un Virgilio che, con la sua esperienza e competenza, mi rendesse meno impervio l’ingresso nel misterioso mondo degli affari civili. Per fortuna, la competenza e la dedizione delle persone con cui ho lavorato fin dai primi giorni, hanno contribuito a rendere il mio lavoro meno affannoso fino al punto da riuscire a trattarlo con una discreta padronanza.
Ho dovuto riadattarmi radicalmente, passando dalle aspirazioni per un posto in D.D.A. alle audizioni di adolescenti ribelli; dall’esame di collaboratori di giustizia agli incontri “di rete” con assistenti sociali, psicologi, educatori; dagli interrogatori all’Ucciardone alle visite ispettive nelle strutture di accoglienza per l’infanzia.
Più volte, non lo nego, ho messo in discussione il senso della funzione giudiziaria – requirente e giudicante – in ambito minorile, e ancora oggi devo ammettere che ho più di un dubbio sull’utilità di questa persistente diversità. Ciononostante, ho sempre cercato di esercitare le mie funzioni con inalterato spirito di servizio e con la massima serietà, forse ancor più rigorosamente perché percepivo di muovermi in un sistema per il quale non manifestavo spiccate attitudini.
Nell’ultimo anno, e ancora in questo scorcio di 2020, ho esercitato le funzioni di Procuratore reggente, nell’attesa della nuova nomina da parte del C.S.M. e dell’ormai imminente arrivo del nuovo capo. Ho avuto modo di fronteggiare le tante e spesso spinose grane che connotano il lavoro quotidiano di un direttivo, con l’evidente surplus di carico di lavoro in assenza di applicazioni da altri uffici che, pur gentilmente offertemi dalla Procura generale, ho inteso rifiutare perché convinto di riuscire da solo e stimolato da questa nuova sfida con me stesso. In realtà, da solo non mi sono mai sentito perché il personale, di polizia giudiziaria e amministrativo, ha contribuito a rendere meno gravoso il carico di lavoro.
Ho affrontato l’esperienza dell’ispezione ministeriale, arricchente ma senza dubbio portatrice di un carico emotivo non indifferente, che ho condiviso con tutto il personale dell’ufficio e che ha sortito effetti positivi contribuendo a migliorare il lavoro di tutti. L’occasione mi ha permesso di considerare con sincero apprezzamento il ruolo del magistrato ispettore, ingrato e scomodo per molti aspetti, ma che probabilmente ciascuno di noi, quale che sia la funzione esercitata, dovrebbe prima o poi esercitare per acquisire consapevolezza piena di ciò che rappresenta il lavoro del magistrato, dagli uffici più piccoli e remoti a quelli di grandi dimensioni.
Di certo non posso negare che il già lacerante strappo dall’ambiente professionale e umano della Procura di Palermo sia stato acuito dall’assenza, qui a Trento, di un collega “della porta accanto”, col quale poter interloquire e a cui chiedere consigli, prassi operative, o anche per un semplice scambio di vedute. Quante volte mi sono sentito come il Tenente Drogo del “Deserto dei tartari”, rinchiuso nella sua fortezza nella vana attesa del suo giorno di gloria!
Ho allora deciso – o forse me ne sono accorto solo strada facendo – di cambiare pelle, fin dove la mia formazione intellettuale e il mio temperamento mi consentissero. Mi sono scoperto un abile interlocutore con i vari enti, pubblici e privati, che gravitano nel mondo della giustizia minorile; ho intrapreso una florida attività di relatore a convegni, seminari e corsi di formazione per le più disparate categorie professionali: sanitarie, scolastiche, psicopedagogiche; ho fornito pareri a disegni di legge provinciale in materia di giustizia minorile.
Resta, dunque, da chiedersi cosa ne è dell’imperativo iniziale, che forse con estrema severità mi sono imposto all’inizio di questa mia esperienza a Trento: sono riuscito a dimenticare Palermo?
In verità no. E non sarebbe neanche stato giusto: avrei fatto un torto a me stesso e alle tante persone care con cui ho condiviso affetti, gioie, esperienze, dolori privati e l’abbagliante luce di un cielo unico al mondo. Ma è innegabile che, oggi, quello stesso magistrato sia una persona più matura e consapevole del proprio ruolo e della delicata funzione che esercita, e che non ha più paura di quella sottile inquietudine che, per dirla col linguaggio del cinema, “ci fa stare bene solo in mare, in viaggio tra un’isola e l’altra”.
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