ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020)
Renato Rolli
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. I presupposti dell’informativa antimafia ed il principio del più probabile che non - 3. Riflessioni conclusive: la informazione antimafia come frontiera avanzata.
1.Premessa: la vicenda contenziosa
Circa l’ampiezza dei poteri del Prefetto nell’applicazione della misura amministrativa dell’informazione antimafia[1] è doveroso segnalare una importantissima pronuncia del Consiglio di Stato: la numero 3641 del 2020.
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a decidere, in sede di appello, sulla riforma della sentenza del Tar Reggio Calabria dell’11.02.2019, il quale aveva respinto il ricorso proposto per l’annullamento, tra l’altro, di una informazione interdittiva antimafia emessa nei confronti di una società di gastronomia da asporto e di somministrazione di alimenti e bevande.
Fin da subito è doveroso evidenziare che il provvedimento prefettizio prende le mosse da un quadro indiziario piuttosto preoccupante: la società appellante annoverava come amministratore unico una signora, dipendente di una altra società destinataria, a sua volta, di certificazione antimafia interdittiva; la signora in questione aveva svolto nel 2015 attività domestica familiare al servizio di un certo personaggio, socio unico e amministratore unico nel 2016 della seconda società summenzionata, nonché notariamente legato, per vincoli familiari e non, a soggetti appartenenti alla cosca della ‘ndragheta; tale soggetto ha avuto una partecipazione sociale anche nell’ambito della società appellante; le due società, poi, vantavano la medesima sede legale; esisteva un rapporto di continuità lavorativa tra le due società, in quanto la società appellante aveva rilevato la totalità dei beni della prima società colpita da interdittiva, mettendovi, dunque, a capo un soggetto privo di mezzi e di esperienza, il quale, peraltro, ha rassegnato le dimissioni successivamente al rigetto (in I e II grado) dell’istanza di sospensione degli atti avversati.
Pertanto, la Prefettura, valorizzando tali elementi, ha reputato sussistente un rapporto di continuità tra le due società tale da far emergere il malcelato fine di nascondere il reale assetto gestionale delle stesse e da far ritenere che la società appellante potesse essere condizionata dalla criminalità organizzata.
Il Tar ha dato seguito a questa ricostruzione, sulla scorta del principio “imperatore” in materia di interdittiva antimafia, ovverosia quello del più probabile che non.
La interpretazione del I grado ha trovato, poi, conferma in sede di appello, ove il Consiglio di Stato ha sic et simpliciter ampliato l’impianto motivazionale a fondamento del rigetto del gravame, contestando puntualmente ogni eccezione dell’appellante, non senza il supporto della folta giurisprudenza pregressa, contraddistinguendosene, nello stesso tempo, per aver posto l’accento – come vedremo - sulla funzione di frontiera avanzata dell’informativa antimafia[2].
2. I presupposti dell’informativa antimafia ed il principio del più probabile che non
Tanto testé premesso, è opportuno ripercorrere le tappe fondamentali dell’iter logico che hanno condotto i Giudici di Palazzo Spada a rigettare l’appello proposto dalla società interdetta all’auspicato fine di fare luce sul complesso bilanciamento degli interessi in gioco: tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, da un lato, e libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost., dall’altro[3].
Bilanciamento, quest’ultimo, che deve esser sempre ponderato durante la valutazione giudiziale, onde evitare la sciagurata degradazione attuativa da diritto amministrativo della prevenzione a diritto della paura e del sospetto (quest’ultimo di tipo certamente afflittivo)[4].
Partendo dal dato normativo, l’art. 84, co.3, del d.lgs. n. 159 del 2011 (Codice antimafia), nel definirne il concetto, riconosce quale elemento fondante l’informativa antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”.
Dunque, la ratio di tale norma, e, di riflesso, di tutto il diritto amministrativo della prevenzione[5], risiede incontrovertibilmente nella finalità di scongiurare ogni minaccia per la pubblica sicurezza, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi, e non nel sanzionare fatti penalmente rilevanti nè nel reprimere condotte illecite. D’altro canto, il pericolo dell’infiltrazione mafiosa non può sostanziarsi in un mero sospetto, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e basarsi su una serie di elementi fattuali, taluni tipizzati dal legislatore (art. 84, co.4, codice antimafia), mentre altri, “a condotta libera”, lasciati al prudente e motivato apprezzamento dell’autorità amministrativa[6].
A fronte di quanto disposto dal legislatore della prevenzione, la giurisprudenza è granitica nel ritenere che l'informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell'autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa. Tale pericolo, però, richiede una valutazione da fondarsi su di un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede, pertanto, di attingere un livello di certezza oltre alla soglia del ragionevole dubbio (tipica dell'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Ed invero, l'interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste[7].
Tali orientamenti giurisprudenziali rappresentano il fulcro motivazionale della sentenza di II grado: nel caso in esame, le “spie d’allarme” rivelatrici della continuità lavorativa tra la società appellante e altra società già interdetta sono molteplici e disseminate nei diversi frammenti di cui si compone la fattispecie, dall’intimo legame[8] dell’amministratore della prima con l’amministratore della seconda, quale soggetto notoriamente affiliato all’ambiente mafioso, alla condivisione della sede legale tra le due società, le quali non possono dirsi estranee l’una all’altra per la mera differenza dell’oggetto sociale.
Il Consiglio di Stato apprezza il richiamo compiuto dal Tar ai legami familiari che hanno caratterizzato la gestione delle due società interessate, poiché “le decisioni del responsabile di una società e la sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto”.
Quanto al fondamento del pericolo di infiltrazione mafiosa sui legami familiari intercorrenti tra i soci delle due società, è bene osservare che se da un lato, vi è parte della giurisprudenza che sostiene che in sede di interdittiva antimafia il criterio del c.d. “più probabile che non” non può giungere ad affermare che l’imprenditore, il quale abbia rapporti di parentela, anche molto prossimi, con un indiziato di appartenenza mafiosa, sia permeabile all’infiltrazione se alla mera relazione familiare non si accompagnino, in concreto, anche elementi indicativi di stretti collegamenti[9], dall’altro lato, si rileva come nella specie questo orientamento non venga affatto disatteso. Ed invero, ai legami familiari si accompagnano tutti gli elementi summenzionati, tra cui la presenza, seppur con diverso peso, in entrambe le compagini societarie considerate di un soggetto affiliato alla mafia, e la comune residenza di tale soggetto e dell’amministratore unico, poi dimessosi, della società appellante, così da integrare, peraltro, il presupposto dalla stabile convivenza ex art. 84, comma 4, lett. f), d.lgs. n. 159 del 2011. Tanto considerato non può che avere l’effetto di ritenere che tra le due società vi sia una continuum di attività imprenditoriale[10].
Orbene, se il mero legame di parentela non è di per sé sufficiente a contaminare con i sospetti di contiguità alla criminalità organizzata, nel caso in esame, i giudici hanno tenuto giustificatamente in considerazione che ai legami familiari si accompagnano ulteriori fattori di rischio: la condivisione di aspetti della vita quotidiana, le cointeressenze economiche o comunque alcuni collegamenti tali da far supporre una comunanza di attività[11].
I Giudici di Palazzo Spada, infatti, ben descrivono, soprattutto nelle realtà locali, la mafia come fenomeno organizzativo di tipo particellare in grado di manipolare ed influenzare i comportamenti di chi vi entra in contatto direttamente o indirettamente.
Né sarebbe potuto essere argomento convincente[12] quanto eccepito circa la “fedina penale pulita” dell’amministratore unico, poi dimessosi, della società appellante colpita da interdittiva, poiché tale provvedimento risponde ad una logica probatoria diversa da quella tipica degli accertamenti di natura penale e non deve necessariamente collegarsi a provvedimenti giurisdizionali o a misure preventive di altro tipo, la cui proposta di adozione o il cui provvedimento di applicazione, siano esse misure di natura personale o patrimoniale, non a caso figurano tra gli elementi dai quali è possibile desumere il rischio di infiltrazione mafiosa[13]; né, a fortiori, è richiesto un accertamento penale definitivo[14].
E’ innegabile, quindi, che nella specie sussistano prepotentemente i gravi, precisi e concordanti indizi circa il pericolo di infiltrazione mafiosa, in ossequio, appunto, al criterio del più probabile che non, e come tali indizi siano stati ben assunti a fondamento dell’informazione antimafia dal Prefetto di Reggio Calabria.
All’uopo, è doveroso rammentare come l’informazione antimafia rappresenti una forma di documentazione avente un duplice contenuto: per un verso trattasi di un contenuto vincolato simile a quello della comunicazione antimafia ( altro atto che compone la documentazione antimafia) che conferma la sussistenza o meno di cause impeditive all’esercizio dell’attività imprenditoriale, per altro verso trattasi di un contenuto di tipo discrezionale, nella parte in cui il Prefetto valuta la sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa nelle attività d’impresa, desumibili secondo la sussistenza o meno degli elementi indizianti di cui all’art.84, c.4, d.lgs. 159/2011[15].
3. Riflessioni conclusive: l’informazione antimafia come “frontiera avanzata”
Il particolare pregio del dictum giudiziale risiede non solo nell’aver messo in luce con esaustività i tratti salienti degli eventi susseguitesi nella specie e nell’aver ricostruito il lungo iter giurisprudenziale che ha condotto ad una più compiuta individuazione dei presupposti di operatività dell’interdittiva, ma anche nell’averne evidenziato la veste e la funzione di “frontiera avanzata” per la tutela dei valori fondanti la democrazia. Nozione, questa, che, nella sua singolarità, riassume perfettamente la natura, da sempre controversa, dell’informazione antimafia.
In particolare, in merito alla discrezionalità prefettizia sottesa alla valutazione degli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, il Giudice di II grado afferma che: “la sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi” (Cfr. Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
Se, pertanto, da un lato, il potere prefettizio non debba concretizzarsi mai nella cd. “pena del sospetto”, dall’altro, si osserva come la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza smantellando ex nuce le fitte reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali[16].
Strumentale a tale fine, non può non essere, talvolta, e con tutti i rischi che ne derivano, una legge formulata volutamente in termini più o meno vaghi, e tanto sulla scorta dell’insegnamento della Corte Europea dei diritti umani circa il concetto di legittimità sostanziale: “la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze”, conseguendone che “molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi”, sicchè da garantire una certa discrezionalità, seppure non illimitata, in capo all’autorità amministrativa[17] di valutare ogni elemento, anche atipico, al fine di tutelare con effettività l’interesse pubblico. Discrezionalità prefettizia che chiaramente non può mai divenire arbitrio, ma è tenuta sempre ad ancorarsi ad un equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica[18].
L’informazione antimafia riveste il ruolo di frontiera avanzata poiché è la più immediata barriera posta dall’ordinamento al fine di persuadere la mafia dall’intento di avvicinarsi, tramite le società, alla cosa pubblica[19]. Uno Stato, infatti, è veramente solido nella sua struttura istituzionale quando, fiducioso dei suoi mezzi, non consente ad agenti patogeni esterni di aggredirne il sistema, attivandosi previamente per scongiurare ogni rischio[20] in tal senso.
La valutazione prefettizia in materia deve essere, quindi, scudo quando si innesca per difendere il buon andamento della res publica dalla minaccia di infiltrazione mafiosa, che, come un cancro con le sue metastasi, “infetterebbe” vene e circuiti della P.a. (soprattutto nell’ambito degli appalti[21]), e spada nel momento in cui, in concreto, reprime questa minaccia prima che sia troppo tardi mediante l’adozione della informativa antimafia.
In altri termini, la finalità di anticipazione della tutela del sostrato economico-sociale, che contrassegna l’interdittiva antimafia, svincola la potestà prefettizia dalle logiche penalistiche di accertamento «oltre ogni ragionevole dubbio», dovendo valutare il pericolo di inquinamento mafioso dell’impresa, sulla base del giudizio preventivo e discrezionale del richiamato canone del più probabile che non[22].
Avendo delineato la ratio del provvedimeno interdittivo, non v’è dubbio che la sentenza n. 3641 del 2020, nel confermare l’apprezzamento di I grado sull’operato del Prefetto di Reggio Calabria, certamente, si pone nella medesima ottica.
[1] Di recente sul tema, O.Morcavallo, L’informazione interdittiva antimafia, Giuffrè, 2019.
[2] Dall'alternatività dei criteri Engel discende altresì che, in applicazione questa volta del criterio della severità, devono essere ricondotte alla nozione di “materia penale” anche le sanzioni di natura ripristinatoria che incidono in modo rilevante sulla sfera giuridica dei soggetti cui vengono irrogate. […]
Sempre in virtù del criterio della severità, dovrebbero essere considerati di “natura penale” anche tutti quei provvedimenti, come ad esempio le informative interdittive antimafia e i provvedimenti di commissariamento delle imprese disposti ai sensi dell'art. 32 del D.L. n. 90/2014, che, pur non avendo teoricamente funzione sanzionatoria (136) , finiscono, comunque, per comportare gravissime conseguenze economiche nei confronti dei loro destinatari. Tali provvedimenti, infatti, quali che sia la loro funzione (preventiva o punitiva), sembrano indubbiamente presentare qual carattere di severità bastevole per la giurisprudenza della Corte EDU analizzata in precedenza per considerare una data misura comunque sottoposta alle garanzie di matrice penalistica (P. Provenzano, Note minime in tema di sanzioni amministrative e “materia penale”, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.6, 1 dicembre 2018, p. 1073).
[3] Cons. di Stato, Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1553; dello stesso tenore, di recente, il T.A.R. Napoli , sez. I , 13/01/2020 , n. 155: “La formula elastica adottata dal legislatore nel disciplinare l'informativa interdittiva antimafia su base indiziaria rinviene dalla ragionevole esigenza di bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall' art. 41 Cost. e l'interesse pubblico alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della P.A.”.
[4] Sul punto, il Consiglio di Stato, Sez.III, con sentenza n. 6105 del 5 settembre 2019, in merito al corretto esercizio del potere prefettizio di adozione dell’informativa antimafia, ha chiarito che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale.
[5] La nuova legislazione antimafia persegue, per finalità di sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, l'obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche non solo nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni), mediante lo strumento delle informazioni antimafia (art. 90-95 del d. lgs. n. 159 del 2011), ma anche quello di inibire l'esercizio dell'attività economica, nei rapporti tra i privati stessi, mediante lo strumento delle comunicazioni antimafia (artt. 87-89 del d. lgs. n. 159 del 2011), richieste per l'esercizio di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, o anche alla segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a) e alla disciplina del silenzio assenso (art. 89, comma 2, lett. a) e lett. b) del d. lgs. n. 159 del 2011) (in questi termini, M.Noccelli, I più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul complesso sistema antimafia, in Foro Amministrativo (II), fasc. 12, 1 marzo 2017, p. 2524).
[6] Cons. di Stato, Sez.III , 3 aprile 2019, n.2212.
[7] T.A.R. Napoli , Sez. I , 1 febbraio 2019 , n. 553.
[8] I due soggetti, oltre ad essere parti di un rapporto di lavoro domestico, condividono la medesima residenza.
[9] Sul punto cfr. T.A.R. Bari, Sez. III, 16 luglio 2018, n. 1084.
[10] Sul punto il Consiglio di Stato sez. III, 27/12/2019, n.8882 ha chiarito che: “uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, in ragione della valenza sintomatica attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti”.
[11] G.Romano, Interdittiva antimafia, il semplice legame di parentela non dimostra contiguità alla criminalità organizzata, in SalvisJuribus, 6 agosto 2018.
[12] D’altronde, il Consiglio di Stato sez. III, con sentenza del 09/04/2019, n.2324, ha ritenuto che l'interdittiva antimafia può essere superata soltanto se sono dimostrati fatti che attestino l'inattendibilità della situazione rilevata in precedenza (“Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è da ricondursi non tanto al trascorrere del tempo dall'ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, bensì al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza”).
[13] Ex multis cfr. T.A.R. Napoli, Sez. I , 2 marzo 2020 , n. 970.
[14] Cfr. T.A.R. Catanzaro, Sez. I, 24 febbraio 2020, n. 350.
[15] Si veda C. Venturi, Le certificazioni, le comunicazioni e le informazioni previste dalla normativa antimafia, in Tuttocamere – Normativa antimafia, 20 Febbraio 2008.
[16] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[17] Corte eur. dir. uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.
[18] M. A. Sandulli, Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa, in Foro Amministrativo (Il), fasc.9, 1 settembre 2019, p. 1377.
[19] Sul punto, si rammenti che l’informativa antimafia ha conseguenze giuridiche piuttosto notevoli. Ed invero, l'interdittiva prefettizia, che provoca “una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247). Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all'adozione di un provvedimento adottato all'esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario. Essa è: — parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d.lgs. n. 159/2011); — tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell'autorità amministrativa competente (il Prefetto) (così, G. Leone, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alle prese con l'interdittiva prefettizia antimafia e la teoria dell'interpretazione, in Foro Amministrativo (II), fasc. 6, 1 settembre 2018, p. 1103).
[20] Non si è mancato di osservare l’informativa antimafia come una misura particolarmente afflittiva che si colora di carattere sia amministrativo, sia, in un’ottica sostanzialistica, penale, attesa anche la sua natura a carattere indiziante. All’uopo, si fa riferimento alla concezione sostanzialistica della Corte Edu in tema di sanzioni penali, affermata in primis dalla sentenza della Grande Camera, 8 giugno 1976 (ric. 5100/71; 5101/71; 5102/71; 5354/72; 5370/72), Engel e altri c. Paesi Bassi, §82 (8 giugno 1976, serie A n. 22); ma sul punto si ricorda anche il dibattito sulla natura sostanzialmente penalistica, o para-penalistica, da attribuire alle sanzioni da responsabilità amministrativa delle società e degli enti di cui al d.lgs. 231/2001, su cui v., ex multis, C.E.Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in F.Palazzo (a cura di), Societas puniri potest, Padova, 2003, p. 19 s.; T.Padovani, Il nome dei principi e il principio dei nomi: la responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche, in G.De Francesco (a cura di), La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia “punitiva”, Torino, 2004, pp. 16 e ss.; nonché N.Selvaggi – A. Fiorella, Compliance programs e dominabilità 'aggregata' del fatto. Verso una responsabilità da reato dell'ente compiutamente personale, in Diritto Penale Contemporaneo (Riv. trim.), 2014, III-IV, pp.105 e ss.
[21] V.Di Iorio, Informative interdittive antimafia, in l’Amministrativista – Il Portale sugli appalti e i contratti pubblici, 10 gennaio 2017.
[22] P.M.Zerman, Lotta alle infiltrazioni nelle imprese, vanno valutati fatti concreti, in ilSole24 ore, 25 settembre 2019.
L’etica del magistrato. Esiste ancora? di Alfonso Amatucci
Intervista di Giuseppe Amara ad Alfonso Amatucci
Alfonso Amatucci. Un altro giudice che ha segnato la storia della giurisdizione ordinaria italiana degli ultimi anni mettendo al servizio della funzione giudiziaria, nei diversi gradi in cui essa si declina, intelletto, acutezza intellettuale, spirito di servizio anche nelle funzioni di autogoverno e, ci piace dirlo, etica nella funzione.
Ascoltare le risposte a domande in parte originate da alcuni colloqui avuti con lui è particolarmente utile, depurando il clima reso irrespirabile dalle note vicende che hanno colpito al cuore il sistema giustizia ed aiutando non a nascondere i problemi ma semmai ad evitare che si ripetano, che continuino a rimanere striscianti, sottotraccia, irrisolti.
L'intervistatore, giovane sostituto procuratore a Modena, ha così attivato un canale di collegamento con chi si è messo al servizio della sua generazione e che ha inteso trasmettergli tutto il suo essere alto magistrato serio, colto, non autoreferenziale ed equilibrato.
G. Amara
Caro Alfonso, un dialogo sull’etica del Magistrato, la cui idea è nata il giorno dell’espulsione, dall’A.N.M., di un ex presidente dell’A.N.M., è un tema su cui doverosamente tutti dobbiamo confrontarci, in ossequio al dovere costituzionalmente previsto, dal comma 2 dell’art. 54 della Carta, di adempiere le funzioni pubbliche cui siamo affidati, con disciplina ed onore, rifuggendo, nell’esercizio della giurisdizione, da altri criteri, quali la ricerca del consenso, diversi dall’applicazione della legge. E ciò anche a fronte del pubblico disappunto come più volte, anche di recente, manifestato nei confronti di Magistrati che hanno adempiuto con rigore a tale precetto.
Cosa significa, oggi, per un magistrato l’obbligo di fedeltà alla Repubblica di cui parla l’art.54 c.2 Cost.?
Noti differenze significative in base all’esperienza personale che hai maturato in Magistratura per un lungo periodo di tempo?
A.Amatucci
Agli studenti delle scuole per le professioni legali ed ai magistrati in tirocinio negli incontri di Scandicci ho spesso detto che chi si fosse determinato al concorso in ragione dei buoni stipendi dei magistrati, avrebbe operato una scelta economicamente migliore se avesse scelto di fare l’idraulico o se avesse aperto un buon negozio di ferramenta; chi fosse stato attratto dal desiderio di notorietà avrebbe fatto meglio a calcare le scene piuttosto che frequentare le aule dove ci si affanna a ius dicere. Naturalmente ignoro quanto l’uno o l’altro aspetto potessero incidere sulle scelte individuali future o abbiano inciso su quelle passate, ma ho rilevato con soddisfazione che il discorso è stato apprezzato e, non senza meraviglia, che molti dei MOT presenti alla Scuola per la magistratura mi hanno ringraziato, addirittura affermando che “avevano bisogno di sentirsi dire quelle cose”. Il che significa che non gliele aveva mai dette nessuno o che non erano state dette con sufficiente incisività, né prima del concorso né durante il tirocinio. Beninteso, non il riferimento all’idraulico o al negozio di ferramenta, ma il privilegio di aver avuto la ventura di esercitare il più bel mestiere del mondo, dove il potere di incidere fortemente sulle vite degli altri non può non essere bilanciato da un assoluto rigore morale, da un profondo impegno allo studio e al continuo perfezionamento, dal costante sforzo di capire con autentica umiltà quali siano le speranze, i timori, le aspettative che si nascondono dietro ogni carta processuale e quali le loro ragioni.
Altro che adempiere il munus publicum con disciplina ed onore! Il dovere del magistrato è enormemente superiore, ieri come oggi. Per quelli della mia generazione (sono entrato in magistratura nel 1971) era assolutamente scontato e dovrebbe esserlo sempre. So bene che non lo è mai stato davvero per tutti e che la valenza dell’orgoglio e del peso di essere magistrato si è andata attenuando nel tempo, man mano che nel Paese, a torto o a ragione, diminuiva il rispetto per le istituzioni e rifaceva capolino il magistrato-burocrate che tiene molto allo stipendio, moltissimo alla carriera, ancor di più alla notorietà, e un po’ meno alla determinante importanza della funzione ed ai suoi riflessi sulla qualità della vita delle persone.
Credo – e rispondo alla tua prima domanda – che il dovere di fedeltà alla Repubblica, proclamato dall’art. 54 Cost. per tutti i cittadini, debba essere letto alla luce dell’art. 1 della Carta, che definisce l’Italia una Repubblica “democratica”, con tutte le implicazioni che l’aggettivo comporta. La via verso la democrazia, secondo le più attuali accezioni semantiche del termine, non finisce mai. Bisogna che ogni magistrato lo sappia e lo senta quando interpreta ed applica la legge. Ed occorre che glielo si spieghi subito, a fondo, in ogni sede ed in ogni contesto. Serve che di deontologia gli si parli immediatamente, prima e più ancora che di diritto; che gli si chiarisca perché il rigoroso rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato e perché la credibilità del magistrato è essenziale all’accettazione da parte della società della autonomia e dell’indipendenza della magistratura, che non costituiscono un grazioso regalo fatto dai costituenti ad un gruppo di privilegiati, ma che sono a loro volta funzionali alla pronuncia di decisioni imparziali. Si dica loro, appena vincono il concorso (e se possibile prima, nelle università e nelle scuole preparatorie) che l’autonomia e l’indipendenza bisogna sapersele meritare e che – come affermò in un celebre discorso Franco Bile – il primo dovere del giudice è “stare dentro le cose tenendosene rigorosamente fuori”.
***
Amara
Quotidianamente, dobbiamo confrontarci con una proliferazione di articoli di stampa che, muovendo dalle condotte dei singoli, rischiano di gettare ombre sull’intero operato della Magistratura di fronte la società civile. Anche il Presidente Mattarella, nel discorso tenuto lo scorso 19 giugno, nel celebrare le figure di Magistrati che, al servizio, hanno donato la vita, ha dichiarato che, quanto emerso dall’indagine di Perugia, sembra presentare “l'immagine di una Magistratura china su se stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all'attribuzione di incarichi” ed inoltre, pur ribadendo come queste siano logiche che non appartengono alla Magistratura nel suo insieme, nonché come “la stragrande maggioranza dei magistrati è estranea alla “modestia etica” – di cui è stato scritto nei giorni scorsi - emersa da conversazioni pubblicate su alcuni giornali e oggetto di ampio dibattito nella pubblica opinione” ha rinnovato l’invito alla Magistratura ad “impegnarsi a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca”, evidentemente ritenendo questo sia effettivamente occorso.
Abbiamo perso la fiducia dei cittadini?
Qual è la nostra immagine nella società civile?
E quella che emerge dai fatti balzati alla cronaca è una fotografia sbiadita, sfocata o bruciata?
Amatucci
I fatti recenti hanno avuto e stanno avendo l’effetto di una deflagrazione. Certo che abbiamo largamente perso fiducia. Certo che la nostra immagine è assai più che offuscata. Come sempre accade, la notizia che tiene banco sovrasta poi ogni altra considerazione, e la sacrosanta osservazione del Presidente Mattarella, relativa alla estraneità della stragrande maggioranza dei magistrati alla modestia etica emersa dalle conversazioni pubblicate, contribuisce assai poco a lenire gli effetti micidiali di quanto si va leggendo.
Quante volte abbiamo del resto sentito dire, quando è emerso un fatto di corruzione a carico di esponenti politici, che … sono tutti uguali! Non è vero per i politici, non è vero per i fatti che talora coinvolgono gli esponenti delle forze dell’ordine, non è vero per gli scandali sessuali che hanno interessato la chiesa cattolica e non è vero per i magistrati. Non sono affatto tutti uguali, mai. La stragrande maggioranza (ripeto: la stragrande maggioranza) dei magistrati è frastornata, benché degli accordi tra gruppi associativi consiliari molti sapessero e benché sia noto da sempre che l’appoggio di un gruppo è spesso determinante anche per ottenere quello cui si ha diritto. Direi dunque che la foto è sfocata, nel senso che mette a fuoco il peggio ed offusca tutto il resto. Ma il resto c’è, grazie al cielo.
Ed il peggio non è, prevalentemente, in chi chiede appoggi correntizi per ottenere un risultato. Il peggio sta in chi l’appoggio offre. Il questuante si sente spesso costretto ad essere tale perché sa, o gli viene detto, che se non chiede è molto improbabile che ottenga, quand’anche i suoi titoli e i suoi possibili meriti siano in ipotesi superiori a quelli altrui. Molti diventano attivi o presenti nelle correnti per questa specifica ragione. E, quando non lo fanno, al bisogno si rivolgono a chi attivo o presente è, ed ottiene per questo maggior ascolto “colà dove si puote”. Il punto è perché colà, cioè al CSM, si presta ascolto alla richiesta, diretta o mediata che sia. Credo che l’unica possibile risposta logica che si possa dare sia la seguente: per acquisire gratitudine; e dunque, per dirla più crudamente, per ragioni di potere. Di potere associativo nella stragrande maggioranza dei casi, in funzione della propria futura carriera; di potere tout court in alcuni più sparuti casi, come emerge dalle intercettazioni che quotidianamente leggiamo, sulle quali si va peraltro formando l’opinione che i cittadini hanno oggi della magistratura.
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Amara.
Le correnti. Stigma, espressione di tutte le distorsioni della Magistratura o luogo di confronto che consente la dialettica fra posizioni diverse, espressione di pluralismo culturale e, dunque, luogo che rappresenta una ricchezza, un potenziale arricchimento? Nel postulato, ormai credo ineludibile, della degenerazione del sistema correntizio, è doveroso interrogarsi sul significato da attribuire, oggi, all’associazionismo. Ritengo sia necessario mantenere la presenza di un luogo ideale, dove il doveroso tecnicismo, cui dobbiamo tendere in un’ottica, tendenziale, di uniforme interpretazione normativa, sia integrato dal confronto sul senso e sui riflessi dell’esercizio della giurisdizione.
Tu cosa ne pensi?
E se degenerazione c’è stata, è un fenomeno del nostro tempo o ha avuto carattere endemico?
Ed ancora, come da taluno sostenuto, per negarlo, un magistrato preparato può riuscire ad esprimere tutte le sue potenzialità al servizio della giustizia senza l’aiuto delle correnti?
Sul punto, responsabilità, se ve ne sono, sono da ravvisarsi anche nella formazione iniziale?
Amatucci
Sulla prima domanda: la penso esattamente come te.
Sulla seconda: la degenerazione è stata progressiva, è stata esaltata dall’abbassamento della anzianità di carriera per l’accesso ai posti di prestigio e non ha riguardato con la stessa intensità tutte le correnti, ma alcune assai più di altre.
Sulla terza: un buon magistrato può certamente raggiungere posizioni ambite anche senza l’aiuto delle correnti, ma può non averne occasione, soccombendo nelle valutazioni comparative. Benché accada raramente che un magistrato mediocre rivesta posti di grande prestigio e responsabilità, nondimeno succede. E capita anche che magistrati di assoluto valore, anche persone che meriterebbero nomine unanimi da parte del CSM, vedano ritardata la loro ascesa (comunque frustrata per quelle specifiche funzioni direttive in una sede determinata) perché il posto per la cui copertura avevano concorso “spettava” (?!) ad altri per ragioni di equilibrio tra correnti. Questo è inammissibile e frustrante, non solo per chi concorre ma anche per chi osserva dall’esterno, che ne trae negative lezioni su come regolarsi in futuro, così alimentando il perverso meccanismo della richiesta e della offerta di tutela.
Di quanto la formazione iniziale possa concorrere a delineare la veste del magistrato ho già detto. E’ certamente importante che la Scuola, gli incontri di studio, le riunioni periodiche si soffermino a fondo anche sugli aspetti di cui stiamo dicendo. Sai, io credo che l’abito concorra a fare il monaco se al novizio si spiega a fondo il valore ed il significato di quello che farà. Ho spesso riflettuto su quale sarebbe stata la mia concezione dell’etica professionale, quella profonda e non solo quella codificata, se invece del magistrato avessi fatto l’avvocato. E lì ho capito che fenomeni come la piaggeria verso il giudice, il desiderio di accattivarsene la benevolenza e la critica inviperita quando sbaglia o non capisce è connaturato al ruolo che si riveste nel processo. L’avvocato vuole vincere la causa, o far assolvere il cliente o far condannare l’imputato se assiste la parte civile. E’ ovvio che sia così. Il giudice ha un’altra funzione, altri obiettivi, altri doveri.
Devo aggiungere che questo servirà, ma non basterà a cambiare in modo determinante le cose se non si saprà fare in modo che il CSM muti registro. Le responsabilità sono spesso diffuse, è vero, ma credo che sia velleitario sperare che la soluzione dei problemi possa trovarsi solo nella formazione di una nuova cultura, nella sensibilizzazione dei singoli magistrati a questi temi e nella responsabilizzazione degli elettori (per il CSM). Ma ne ho già detto abbastanza.
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Amara.
La fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario, oltre che sugli articoli di stampa, si forma sull’esperienza di chi, con l’esercizio delle funzioni, volente o nolente, ha dovuto confrontarsi. Dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e la sua ricerca di sostanza che si riflettono nel rapporto con le parti privati e pubbliche, alla redazione dei provvedimenti che, della giurisdizione, sono il punto di arrivo.
Quale deve essere il rapporto del magistrato con l’atto giudiziario e come rifuggire dai rischi di tecnicismo, ipertrofismo e solipsismo?
E come spiegare il magistrato nel processo e nell’aula di udienza, teatro della giustizia?
Amatucci
Chi si comporta con dignità ottiene solitamente rispetto, purché a sua volta ne abbia verso chi lo circonda. Ed il rispetto che gli sarà dato ridonderà sulla funzione che svolge. Credo sia una regola elementare e provo vivo disappunto ogniqualvolta la vedo ignorata. V’è chi pensa di aver “diritto” al rispetto perché va rispettata la sua qualifica di magistrato, ma spesso si tratta solo di un modo per dissimulare la propria ipertrofia dell’io, che in magistratura è purtroppo un male abbastanza diffuso. In quarantacinque anni non mi è mai capitato di percepire mancanza di rispetto. Non so se si sia trattato di fortuna, ma ho sempre pensato che gli avvocati vadano rispettati anche quando si crede che non se lo meritino e che le parti e i testimoni devono poter percepire un clima di serena serietà e devono poter apprezzare l’impegno del giudice ad ascoltare e comprendere. Certo, talora non è stato affatto facile, ma è possibile ed è assolutamente doveroso. L’arroganza suscita immediato dispetto in chi la subisce, la frettolosità un’insopportabile sensazione di mancanza di interesse e di superficialità da parte di chi, pure, ha il potere di decidere. Il risultato è la diffusione di un clima di sfiducia prim’ancora che intervenga una qualsiasi decisione. Tra cittadini in primo luogo e, in seconda battuta, tra gli avvocati. Anche questo tipo di insegnamenti andrebbe impartito, tenendo conto dei casi in cui il MOT non abbia potuto contare, per sua sfortuna, sulla semplice emulazione di quanto abbia visto fare dai colleghi presso i quali ha svolto il tirocinio.
E veniamo alla redazione degli atti, dove tecnicismo, ipertrofismo e solipsismo costituiscono un cocktail inutilmente e stupidamente velenoso, perché la fatica della redazione non solo non è compensata da alcun beneficio per i destinatari degli atti (parti e avvocati), ma è produttiva di un danno anche per l’immagine di chi il cocktail abbia preparato (il giudice). Dalle scuse espresse in una celebre lettera da Cicerone per aver scritto a lungo perché … non aveva avuto abbastanza tempo discendono varie verità.
La prima è che scrivere di meno per dire le stesse cose che si direbbero con un lungo scritto è doveroso. La seconda è che il pensiero di chi scrive (ratio decidendi nel caso di una sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale) è colto più facilmente da chi legge se lo scritto è breve ed incisivo; dunque non solo dalle parti ma anche dal giudice dell’impugnazione, che a sua volta capirà meglio e prima, con ovvie, benefiche conseguenze a valle della decisione. La terza verità è che la sintesi costa fatica, ma solo fino a quando non si impara ad essere sintetici. Da noi – mi riferisco ovviamente ai miei tempi, ma le cose non sono molto cambiate a quanto vedo – prevalgono abitudini opposte: si tende a pensare che è meritevole chi scrive molto, che è doveroso dar conto di tutto anziché solo di quello che davvero rileva, che più si scrive meglio è, quasi a retaggio dell’opinione diffusa che, per superare il concorso, gli scritti devono essere adeguatamente lunghi. E’ vero l’esatto contrario. Il bravo magistrato è quello che scrive poco (e bene, dicendo tutto quel che serve) anche quando il caso giustificherebbe uno scritto diffuso, mentre non è certamente meritevole di apprezzamento chi riempie dieci cartelle quando ne basterebbe una, o cento quando ne basterebbero dieci. Col “copia e incolla” si raggiungono poi vette inimmaginabili. Viene poi fatto di pensare che l’ipertrofia di uno scritto spesso si accompagna alla ipertrofia dell’io, cui ho fatto sopra riferimento. E poiché raramente accade che chi è affetto da tale sindrome sia anche intelligente, appare anche legittima la conclusione che chi scrive sempre molto, probabilmente non è annoverabile fra coloro che si collocano ai livelli più alti della scala. Ecco, se se si diffondesse questa convinzione, se nelle (spesso agiografiche) relazioni periodiche si conferisse maggior rilievo alla “mirabile capacità di sintesi” che alla “lodevole scrupolosità di analisi”, si farebbe forse un passo avanti nel convincere il corpo giudiziario (e, di riflesso gli avvocati, che tendono a fare come noi) che essere brevi si deve ogni volta che si può.
Il tecnicismo è un altro grave male, che connota l’intero apparato burocratico del nostro Paese e, purtroppo, anche la magistratura, benché dovrebbe essere chiaro a tutti (quantomeno dai tempi del congresso di Gardone del 1965) che il giudice … non è un burocrate. In Italia, del resto, i carabinieri non vanno ma si portano, nelle ZTL i varchi sono attivi quando non si può passare, nelle stazioni ferroviarie il biglietto si oblitera, nelle linee guida sulla riapertura anticovid delle scuole la distanza va assicurata tra le rime buccali degli studenti, e nelle sentenze è rarissimo che una vettura slitti sull’asfalto bagnato e invece molto frequente che il conducente ne perda il controllo perché il manto stradale era stato reso viscido dalla pioggia battente sulla carreggiata. Mi sono chiesto spesso il perché e mi sono risposto che lo si fa per dimostrare di essere capaci di utilizzare un linguaggio che non è da tutti, per senso di appartenenza ad una cerchia “colta”, sostanzialmente per vanità. Non è facilissimo intaccare un costume consolidato, ma credo possa aiutare la riflessione sulla funzione della motivazione: che è anzitutto quella di dar conto del processo logico percorso per arrivare ad una decisione controllabile, ma che è anche quella di persuadere, per quanto possibile. Fatto sta che controllo e persuasione presuppongono la comprensione, che dovrebbe essere tendenzialmente agevole anche per chi non sappia di diritto (le parti), così come le leggi dovrebbero essere tendenzialmente comprensibili per tutti.
L’individualismo estremo (solipsismo) dovrebbe essere estraneo alla cultura propria del giudice, che lavora sempre sugli altri, essendo egli istituzionalmente esperto in doveri altrui, in quanto deve sempre spiegare ex post quello che, alla stregua delle regole giuridiche del sistema ordinamentale, si sarebbe dovuto fare ex ante. Il giudice individualista non solo non può rendere un buon servizio alla società ma, in ragione dell’enorme potere che ne connota la funzione, può arrivare ad essere addirittura pericoloso. Un collega della Procura generale della Corte di cassazione affermò una volta che ogni giudice, prima di decidere, dovrebbe chiedere scusa (alle parti) e dire grazie (allo Stato): scusa per essere sul punto di incidere in qualche modo sulle vite delle persone; e grazie per essere stato investito del potere di farlo. Deve essere, per dirla con un ossimoro, orgogliosamente umile.
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Amara
Un altro tema che, occasionalmente, torna all’attenzione della cronaca, talvolta con una curiosità più prossima alla morbosità che al bisogno di approfondimento, in assenza di condotte di rilevanza penale, ovvero disciplinare, è il comportamento del magistrato fuori dal processo. Tema che, oggi, anche a mente l’art. 6 del Codice Etico dell’A.N.M., deve necessariamente trovare confronto, fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, con l’interrogativo del come declinare i criteri di equilibrio/dignità/misura nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, a mente la loro rapidità e diffusività, nonché la loro, tendenziale, irreversibilità.
Ma c’è un’etica del magistrato? E qual’è?
Incide anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni?
Ed ancora, sul punto, noti delle differenze tra magistrati giovani e meno giovani?
Amatucci
Per chi colga che il giudice non ha costituzionalmente ragione di essere se non è imparziale, che l’indipendenza serve a consentire che possa esserlo, che potrà essere indipendente finché la magistratura avrà autonomia, che nel lungo periodo essa resterà autonoma se sarà credibile e che la credibilità della magistratura dipende dal comportamento di tutti i magistrati e dunque (anche) di ognuno di loro, il parametro è delineato. Aggiungo che si tratta di un parametro variabile, nel senso che quanto maggiore è, in un determinato momento storico, il pericolo di perdita di credibilità, tanto più rigorosa dovrà essere la valutazione di ciò che al magistrato è consentito o vietato, sia all’interno che all’esterno delle funzioni. Quella stessa variabilità è ovviamente correlabile anche alle caratteristiche dei mezzi di comunicazione cui fa riferimento l’art. 6 del codice etico dell’ANM.
Quello che stiamo vivendo è un momento estremamente grave. I fatti di cui si sta occupando la Procura di Perugia intaccano la credibilità dell’organo di autogoverno e, di riflesso, della magistratura tutta, che nell’opinione comune assegna i posti di vertice in base a criteri lottizzatori. Non che questo abbia, a ben vedere, ricadute dirette sulla credibilità dell’attività giurisdizionale (almeno non quante ne ha, gravissime, all’interno della magistratura), ma si tratta di un sottile distinguo, che diventa difficile da spiegare alla luce dei collegamenti emersi con appartenenti alla classe politica estranei al CSM. Ai miei tempi (ho fatto parte del CSM dal 1990 al 1994) non sarebbe stato neppure pensabile che componenti togati del CSM incontrassero esponenti politici estranei al Consiglio per discutere di nomine future e, magari, per delineare linee di condotta. Sarebbe stato considerato un errore di grammatica istituzionale non solo il farlo, ma anche il solo sentirselo chiedere. E però un quarto di secolo è un quarto di secolo ed io sono in pensione già da qualche anno. Fatto sta che, rispetto al passato, il degrado è certo. Non credo, però, che dipenda dalla minore qualità etica dei magistrati più giovani rispetto ai più vecchi o addirittura agli ex - e qui mi scuso se talvolta mi sfugge un abusivo noi quando mi riferisco ai magistrati -; dipende, come ho sopra accennato, pressoché esclusivamente dalla qualità etica di chi a quelle pratiche si è prestato.
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Amara
Mi consentirai un piccolo ricordo personale riemerso in questi giorni. Durante il mio esame orale, ormai dieci anni fa, l’ultima domanda era quella di ordinamento giudiziario. Sulle materie precedenti avevo risposto correttamente e vedevo i volti dei commissari compiaciuti, ormai era andata. Mi fu chiesto di parlare del C.S.M.; iniziai, con sincero orgoglio, ritenendomi, oramai, quasi parte del tutto, rappresentando come fosse l’istituzione espressione massima e baluardo dell’Autogoverno, dell’Indipendenza e dell’Autonomia della Magistratura. Sul momento, ho percepito, distintamente, come alcuni volti assumessero un’espressione diversa, meno compiaciuta, ho creduto di aver suscitato, quasi, una certa infantile tenerezza di cui, allora, non mi vergognavo; dopo, pensai di essermi sbagliato, di aver frainteso, ma forse non era così.
Ed oggi, il C.S.M. rimane il presidio delle guarentigie della Magistratura?
Il sistema elettorale come può essere ricondotto ad equità ed “eticità”?
Amatucci
E’ l’unico presidio possibile: l’assenza del CSM costituirebbe un’alternativa assai peggiore del suo cattivo funzionamento. Altra questione, e non poco complessa, è se la sua riconduzione ad eticità possa essere perseguita attraverso una riforma del sistema elettorale del tipo di quelle che si vanno profilando.
Francamente, non lo so. Ma è certo che alchimie quali quelle che si sono viste nelle numerose riforme succedutesi negli anni servono a poco, o non servono affatto. Le correnti esistono, è bene che esistano in quanto espressione di diverse concezioni della funzione giurisdizionale e delle sue modalità operative, è inevitabile che esistano e che tendano all’affermazione delle proprie impostazioni culturali. E’ dunque assolutamente ovvio che una corrente tenda a far eleggere i propri esponenti in occasione delle elezioni per la formazione della componente togata dell’organo di autogoverno o che comunque si adoperi perché, in prima o seconda battuta in caso di doppio turno elettorale, riesca ad influire sulla scelta degli eletti. Ed è altrettanto scontato che ci riesca, come la storia degli ultimi 25 anni inconfutabilmente attesta. Il punto è come fare ad evitare che diventino uno strumento di prevalente gestione del potere. Non ho ricette risolutive, ma credo che un sistema elettorale dovrebbe mirare ad incidere sul classico e, ahimé, del tutto umano meccanismo che vede l’eletto grato all’elettore o al gruppo che sull’orientamento degli elettori riesce ad incidere (le correnti). Se si attenua quel vincolo, il più è fatto.
Mi chiedo allora se, in astratto, abbia maggiori ragioni di gratitudine un magistrato di elevato valore, apprezzato dai colleghi, destinato ad una brillante carriera per le sue doti e per il suo impegno o, invece, un magistrato il cui “merito” primario (non dico esclusivo) sia quello di aver militato in un gruppo associativo. La domanda è evidentemente retorica e la risposta scontata: il primo. Si tratta allora di pensare ad un sistema che solleciti l’interesse di ciascun gruppo (corrente) a candidare i magistrati più stimati, che spesso sono anche i migliori e che, in quanto tali, hanno meno bisogno di appoggi correntizi in funzione della carriera, e sono dunque anche meno condizionabili dal gruppo che li ha candidati. Anzi, dovrebbe farsi in modo che siano paradossalmente i gruppi ad essere semmai grati a loro per aver accettato di candidarsi! Per esempio, con un sistema di questo tipo: a) si vota una sola volta in collegi territoriali costituiti dai distretti di corte d’appello, per uno solo dei candidati facenti parte di una delle liste presentate da un numero tendenzialmente elevato di elettori; b) il numero dei seggi assegnato a ciascuna lista è determinato con criterio strettamente proporzionale sulla base del numero dei voti complessivamente riportati su base nazionale; c) gli eletti di ciascuna lista vengono individuati sulla base dei migliori quozienti tra voti complessivamente espressi in ogni collegio (per tutte le liste) e voti riportati da ogni candidato della lista in considerazione in ciascun collegio (sembra complicato ma è in realtà assai semplice), col limite probabilmente superfluo di non più di un eletto per lista in ogni collegio.
L’interesse (“che muove il sole e l’altre stelle”) di ogni gruppo a candidare, in ogni distretto, i magistrati più noti e stimati sarebbe una diretta conseguenza della regola sub b), giacché il numero dei seggi ottenuti dipenderebbe dalla somma dei voti riportati in tutti i collegi. La regola sub c) garantirebbe o aumenterebbe rilevantemente le probabilità che davvero accedano al CSM i magistrati con elevato prestigio, noti ed apprezzati sul piano territoriale, e per questo eletti. Al contempo consentirebbe anche ai piccoli distretti di poter avere un eletto al CSM, considerata la regola del miglior quoziente in comparazione con i quozienti di tutti gli altri collegi. E, ancora, attenuerebbe di molto la propensione a militare in un gruppo al fine di far carriera e magari accedere all’agognato traguardo del CSM, giacché non sarebbe la militanza a facilitare quei risultati ma il prestigio conseguito mediante l’esercizio del mestiere di giudice.
Ho, peraltro, appena letto di un autorevole suggerimento di Gustavo Zagrebelsky, che in sostanza propone di diminuire il numero dei componenti del CSM per aumentarne il grado di responsabilità individuale. Mi pare anche questa una buona idea, che tuttavia presuppone che la “responsabilità” (non in senso giuridico) sia dagli stessi effettivamente avvertita. E tanto più lo sarebbe quanto maggiori fossero gli effetti negativi sulla loro immagine di comportamenti non assolutamente lineari; quanto meno, insomma, a loro convenisse fare favori. Ma la minor convenienza di comportamenti di favore e la maggior convenienza di comportamenti retti dipende sempre dal giudizio altrui, in definitiva dalla cultura degli altri. Di tutti gli altri.
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Amara
Il magistrato all’esterno, nella società civile ed in particolare nel mondo della formazione, settore dove asservire le competenze maturate con le funzioni svolte, all’esigenza di accrescimento, oltre che individuale, anche degli operatori del diritto.
Pensi che rispetto agli incarichi extragiudiziari si opportuno promuovere la gratuità come modello virtuoso per recuperare credibilità?
Amatucci
No, non è quello della gratuità l’aspetto determinante. Gli incarichi extragiudiziari possono essere utili alla società ed a chi li svolge, ma non possono e non devono essere il criterio di valutazione decisivo per il conferimento di incarichi direttivi. Sia perché nulla più dell’attività giurisdizionale ben svolta può determinare l’idoneità a continuare a svolgerla, sia perché va frenata la corsa dei magistrati … a non fare i magistrati! Quella corsa esiste (talora anche solo per riavvicinarsi alla città di provenienza o per interporre una pausa a ritmi di lavoro insostenibili), ma non va invogliata con una sorta di assicurazione a chi smette per qualche tempo di fare il mestiere che aveva scelto in origine di avere migliori probabilità di tornare poi a farlo a livelli più alti. Questo non significa affatto, sia chiaro, che chi sia per qualche tempo collocato fuori ruolo vada addirittura penalizzato quando rientra: un’eccellenza resta spesso un’eccellenza, dovunque svolga il suo lavoro. Significa, piuttosto, che non bisogna consentire che le conoscenze acquisite e i rapporti instaurati “fuori” abbiano poi un peso determinante “dentro”.
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Amara
Dell’epoca del terrorismo, delle stragi, dell’uccisione di magistrati simbolo nel contrasto alla criminalità organizzata, fenomeni che hanno segnato la Repubblica ed alla cui lotta la Magistratura ha apportato un contributo fondamentale, il ricordo personale, con l’incedere dei d.m. di nomina, sfuma nello studio storico e, a volte, nella personale curiosità e ricerca. Viverli in prima persona deve aver consentito una prospettiva diversa, oggi, probabilmente, esaminata e ripensata con la formazione acquista.
Pensi che alcuni grandi eventi accaduti in Italia abbiano inciso sul modo di intendere la professione?
Amatucci
Senz’altro, e non poco, soprattutto per i magistrati che si occupano del penale e, specificamente, di criminalità organizzata. Nell’aula magna della Corte di cassazione, dove si tengono le udienze delle sezioni unite civili e penali, al limite dell’emiciclo dove siedono i consiglieri giudicanti, alle spalle del banco del procuratore generale, v’è una lapide con i nomi di tutti i magistrati uccisi durante o a causa di indagini sul terrorismo e sulla criminalità organizzata. Il pensiero di persone alle quali lo svolgimento dello stesso mestiere che fa l’osservatore è costato la vita non può non suscitare sentimenti di profondo dolore e di desiderio emulativo nel modo di intendere la funzione del magistrato.
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Amara
Ad un Magistrato della tua esperienza, se mi consenti, vorrei poi formulare alcune domande che, inevitabilmente, toccano la sensibilità del Singolo, come maturata nella propria esperienza privata e professionale. Grazie.
Vedi mutato il rapporto fra le generazioni vecchie e nuove di magistrati?
Come hai trovato e come hai lasciato la Corte di Cassazione, dove ti ricordano come persona colta e raffinata, ma anche dotata di notevole fermezza anche nei rapporti con i colleghi?
Come pensi che vivano le nuove generazioni il rapporto con il giudice di legittimità?
Sinceramente, sei pessimista o ottimista sul futuro della Magistratura italiana?
Amatucci
Mi dicono, ma relata refero, che sì, in Corte di cassazione qualcosa è mutato. Nel senso che l’approccio dei nuovi arrivati è meno umile di quello di una volta. Sarà che quando, nel 1995, misi piede nella terza sezione civile presieduta da un gigante (buono) qual era Bile, vi trovai magistrati del livello di Iannotta, Vittoria, Lupo, Preden e molti altri, a fronte dei quali mi sentivo davvero piccolo e dai quali avevo solo da imparare. Anche oggi vi sono professionalità eminenti, ma spesso si sentono eminenti anche quelli che arrivano e questo può creare qualche problema. Ti racconto una storiella. Prima di arrivare in Corte di cassazione mi ero occupato ed avevo scritto in materia di effetti della mora nelle obbligazioni di valuta e di valore e fui naturalmente portato, quando me ne capitò l’occasione, a decidere in modo conforme alle mie idee. Iannotta mi disse che la mia impostazione era degna di ogni attenzione, ma che la Corte aveva reiteratamente affermato il contrario e che egli intendeva tenere la barra dritta. Non insistetti in alcun modo perché la rotta fosse mutata. Lo feci solo 10 anni dopo, ma in sede di sezioni unite. Ecco, mi si dice che oggi non è sempre facilissimo far cogliere agevolmente a tutti quanto sia importante la stabilità delle soluzioni, da cui dipende la certezza del diritto. E non è certo un bene. La cosa influisce fortemente anche sul prestigio della Corte e, indirettamente ma in modo rilevantissimo, sul numero dei ricorsi, essendo innegabile l’effetto moltiplicatore connesso alla speranza dei ricorrenti che la Corte muti o riveda i propri indirizzi. E, a valle, sull’intensità o sulla flebilità del vincolo avvertito dai giudici di merito a non discostarsi dai precedenti di legittimità.
Sul futuro della magistratura sono, nonostante tutto, tendenzialmente ottimista. Credo che la tempesta che ci ha investito (mi scuso di nuovo per il “ci”) passerà e spero che ci avrà insegnato qualcosa. Ne abbiamo avute altre e c’è voluto meno tempo del previsto per uscirne. E dipenderà (non solo, ma) soprattutto dalla magistratura. Ripeto: autonomia ed indipendenza bisogna sapersele meritare.
Grazie a te per aver voluto conoscere la mia opinione.
Stefania Caggegi
L’esecuzione della pronuncia silenziosa.
Nota a Consiglio di Stato, Sezione V, Ordinanza del 14/04/2020 n. 2413
1.- Premessa. 2.1.- I problemi dell’esecuzione del giudizio sul silenzio.2.2.- Il problema del contraddittorio a fronte della domanda di nomina del commissario ad acta. 2.3.- Il provvedimento sopravvenuto: il carattere interlocutorio o decisionale e la discrezionalità. 3. L’accertamento concretamente operato nella fase di cognizione può giustificare la nomina del commissario ai sensi dell’art 117 cpa.
1.- Premessa. L’ordinanza n 2413/2020, resa dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato, merita di essere segnalata per i principi affermati in materia di esecuzione delle pronunce rese nell’ambito del rito sul silenzio, con particolare riferimento all’ipotesi in cui, dopo la sentenza conclusiva della fase cognitiva che abbia ordinato all’Amministrazione di provvedere, sia stato emanato un provvedimento espresso che sia però ritenuto non conclusivo del procedimento.
Nella fattispecie l’ordinanza accoglie l’istanza per la nomina del commissario ad acta presentata dalla Società dei Parchi S.p.A., la quale deduce l’inottemperanza della sentenza pronunciata dalla stessa Sezione V del Consiglio di Stato (n. 5022 del 17 Luglio 2019), che aveva disposto “l’obbligo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di adottare un provvedimento espresso che compiutamente concluda il procedimento di aggiornamento/revisione del P.E.F. entro il termine […] fissato nella data del 30 ottobre 2019”.
Preliminarmente, l’ordinanza chiarisce che il rimedio dell’ottemperanza ovvero quello dell’istanza volta alla nomina di un commissario ad acta ai sensi dell’art 117 c.p.a. sono rimedi concorrenti, tra loro alternativi, a disposizione della parte qualora l’amministrazione intimata non ottemperi ad una sentenza dispositiva di un obbligo di provvedere e che nel caso di specie la domanda di esecuzione era da intendersi “proposta ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cod. proc. amm., sicché è da intendersi introduttiva della fase esecutiva del processo sul silenzio, la cui fase di cognizione si è conclusa con la sentenza”.
2.1.- I problemi dell’esecuzione del giudizio sul silenzio.
L’art. 2 della L. n. 241/1990, sancisce il dovere della Pubblica amministrazione di concludere ogni procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, colorando, quindi, di illegittimità il mancato esercizio del potere amministrativo[1].
Del resto, il silenzio della P.A. – inteso come omesso esercizio dei poteri cui la medesima è investita per la cura degli interessi pubblici – costituisce una delle più grandi disfunzioni dell’apparato amministrativo, in quanto l’inerzia dell’Autorità preposta a provvedere si ripercuote gravemente sulla sfera del privato[2].
Per evitare che l’inottemperanza al dovere di cui all’art. 2 pregiudichi irreparabilmente la posizione del privato, l’ordinamento prevede due forme di tutela[3]: quella di tipo pretensivo che si ha quando il legislatore interviene per prevenire lo stesso prodursi di effetti pregiudizievoli connessi all’inerzia, riconoscendo un significato legale tipico alla mancata adozione del provvedimento espresso e quella di tipo successivo, che si ha quando l’ordinamento consente al privato di reagire attraverso l’azione giudiziaria per ovviare agli effetti negativi prodotti dall’inerzia.
Del resto, è di piena evidenza l’intima connessione tra la doverosità dell’azione amministrativa e i rimedi contro il suo mancato rispetto[4].
Difatti, in virtù del generalizzato dovere di cui all’art. 2 L. 241/1990, il legislatore ha previsto all’art. 31 c.p.a. la possibilità per chi ne abbia interesse di chiedere l'accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere[5] e all’117 c.p.a. che, in caso di accoglimento del ricorso avverso il silenzio, il Giudice ordina all’Amministrazione di provvedere entro un termine (solitamente non superiore a trenta giorni) e ove occorra nomini un commissario ad acta con la sentenza conclusiva del giudizio o successivamente su istanza della parte interessata.
L’azione avverso il silenzio, come costruita dal combinato disposto degli artt. 31 e 117 c.p.a., può essere considerata concettualmente scindibile in due domande: la prima, di natura dichiarativa, volta all’accertamento dell’obbligo; l’altra, inquadrabile nel novero delle azioni di condanna, diretta ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione inadempiente all’adozione del provvedimento esplicito, previo accertamento della spettanza del bene della vita nei casi in cui venga in rilievo l’esplicazione di un potere discrezionale[6].
Nei casi in cui l’amministrazione intimata perduri nell’inerzia, si pone il problema dell’esecuzione del giudizio conclusosi con l’accertamento dell’obbligo e la conseguente condanna a provvedere.
Il legislatore permette al privato di censurare anche la successiva inottemperanza del disposto della sentenza.
In tali ipotesi, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che l’art. 117 c.p.a. (come, prima, l’art. 21 bis della Legge T.A.R.) non rinvia alle norme che lo contemplano, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha più propriamente un’ottemperanza “anomala” o “speciale”, dove la specialità risiede nella circostanza per la quale si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto, si ammette l’intervento del commissario senza la necessità di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al Giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio[7].
In dottrina (Picozza) è stato affermato in proposito che, qualora l’amministrazione non provveda, il giudizio di cognizione si allarghi con una fase (e non un giudizio autonomo) di esecuzione[8].
È prassi ormai consolidata nei Tribunali di merito, disporre sull’eventuale mancata esecuzione della sentenza dispositiva dell’obbligo di provvedere, già a conclusione del giudizio instaurato avverso il silenzio ab origine.
Difatti, in ossequio al principio di economia processuale, contestualmente all’accertamento dell’obbligo e alla condanna di provvedere, il giudice nomina un commissario ad acta, che intervenga in caso di inadempienza.
Tale modus operandi elimina, di fatto, la necessità che la parte sia gravata dell’onere di proporre l’ulteriore istanza a causa della perdurante inerzia dell’amministrazione[9], ragion per cui è considerato preferibile provvedere in maniera unitaria.
Resta il fatto che normativamente è prevista la possibilità di percorrere indifferentemente entrambe le strade, sicché spetta al Giudice decidere quale intraprendere.
2.2.- Il problema del contraddittorio a fronte della domanda di nomina del commissario ad acta. A prescindere dalla qualificazione teorica della natura del procedimento instaurato con l’istanza di nomina del commissario ad acta - che sia un nuovo autonomo giudizio ovvero piuttosto una fase dello stesso - ciò che risulta irrinunciabile è il dovere gravante sulla parte che propone l’istanza di instaurare correttamente il contraddittorio.
Difatti, nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato afferma a chiare lettere che l’autonoma istanza per la nomina di un commissario ad acta, avanzata dopo la pubblicazione della sentenza che ha concluso la fase di cognizione, deve essere ritualmente notificata all’amministrazione intimata, non rilevando - ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio - la circostanza che fosse stata già proposta col ricorso, dal momento che la sentenza non l’ha accolta.
2.3.- Il provvedimento sopravvenuto: il carattere interlocutorio o decisionale e la discrezionalità. L’ordinanza in commento offre un interessante spunto di riflessione in ordine alla questione concernente il provvedimento sopravvenuto nelle more del giudizio sull’istanza di nomina del commissario - quale quello di rigetto emanato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti -, essendo stato questo dichiarato dal Consiglio di Stato inidoneo a determinare la conclusione del procedimento amministrativo in corso tra le parti.
Come è noto, prerogativa del processo sul silenzio è che il giudice, nel decidere, si limiti a valutare l’esistenza o meno di un preciso obbligo dell’amministrazione intimata di provvedere in merito ad un’istanza, concludendo il procedimento evocato dalla parte entro il termine astrattamente previsto per lo stesso e a nominare, nel caso di inadempienza, un commissario che provveda.
Non gli è, infatti, concesso sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, poiché ciò significherebbe invadere lo spazio che la legge ha riservato alla discrezionalità dell’amministrazione.
All’inizio del nuovo secolo, il ricorso avverso il silenzio venne codificato con la legge n. 205/2000, che introdusse l’art. 21 bis della L. TAR, ora riscritto, con modifiche non sostanziali per i limiti della legge delega, negli artt. 31 e 117 del Codice del Processo Amministrativo[10].
Il Codice - nel recepire in gran parte le indicazioni della precedente giurisprudenza in materia[11] - ha, tuttavia, segnato un ampliamento dei poteri di sindacabilità originariamente previsti nel rito ex art. 21 bis, ben oltre la semplice azione di accertamento, fino a ricomprendervi anche la possibilità per l’organo giudicante di valutare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, deliberando dunque, in sede di valutazione, anche in merito alla concreta spettanza del bene della vita.
È stata prevista, difatti, all’art. 31 comma 3, la possibilità che il giudice si pronunci su questa, nei casi in cui si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuino ulteriori margini di discrezionalità e non siano necessari ulteriori adempienti istruttori.
Il ricorso avverso il silenzio è stato così disegnato come tendente non soltanto all’accertamento dell’illegittimità del silenzio, ma all’accertamento, ove possibile, della spettanza della pretesa fatta valere dal privato.[12]
Di contro, la fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento, coinvolge attività procedimentali connotate dall’esercizio di ampi poteri discrezionali[13], che quindi, attenendo ai profili di merito dell’azione amministrativa, dovrebbero essere escluse dal potere di sindacabilità del Collegio.
Nel caso di specie, il Giudice ha dapprima disposto l’obbligo di provvedere a fronte del quale - nelle more del giudizio sull’istanza di nomina del commissario ad acta - l’Amministrazione intimata ha emanato un provvedimento di rigetto che lo stesso Giudice, in sede di decisione, ha (correttamente) valutato privo di carattere decisorio, ossia non idoneo a determinare la conclusione del procedimento.
A tal proposito è utile ricordare che l’obbligo della pubblica Amministrazione di provvedere sull'istanza del privato si considera adempiuto solo con l’adozione di una decisione espressa sulla pretesa avanzata, con la conseguenza che la determinazione che vale a interrompere l’inerzia è solo quella idonea a concludere il procedimento e non anche l’adozione di un atto meramente soprassessorio, interlocutorio o endoprocedimentale[14].
Nel concetto di “decisione espressa” contemplato dall'art. 2 della legge n. 241/1990, infatti, rientra una substantia che va ben oltre la forma apparente della decisione: è necessario, cioè, che tale decisione sia in grado di definire la materia trattata senza lasciare margini indeterminati in ordine alla necessaria sistemazione degli interessi oggetto del procedimento.
La tutela in materia di silenzio è, in essenza, il correlato espressivo del principio del contraddittorio, fondamento della trasparenza nei rapporti inter partes, in applicazione della buona fede in ambito procedimentale.
Pertanto, il Consiglio di Stato, accogliendo l’istanza di nomina del commissario ad acta, non ha invaso lo spazio di discrezionalità dell’amministrazione entrando nel merito del suo operato, piuttosto si è occupato di svolgere una valutazione sulla natura dell’atto emanato, qualificandolo come interlocutorio.
Tale conclusione è stata determinata da precisi elementi, quali la circostanza che il procedimento non possa dirsi definito poiché “non risulta essersi concluso con alcuna determinazione di merito”, ovvero il fatto che lo stesso provvedimento contenga la “riserva di assumere ogni determinazione conseguente”, elemento questo che, a detta del Consiglio, permetterebbe di richiamare “le valutazioni già espresse riguardo al provvedimento di analogo contenuto del 5 gennaio 2018, n. 175 - nella sentenza 17 luglio 2019, n. 5022”, relative alla natura di atto interlocutorio.
Peraltro, la società ricorrente - probabilmente convinta anch’essa della natura interlocutoria del provvedimento emanato dal MIT - non si è avvalsa della possibilità prevista al comma 5 dell’art. 117 c.p.a., che consente, nel caso di un atto sopravvenuto ritenuto illegittimo, la proposizione dei motivi aggiunti nello stesso rito avverso il silenzio.
È altrettanto vero però che, il provvedimento emanato dal MIT dispone il rigetto dell’istanza presentata dalla Società dei Parchi S.p.A.; pertanto, potrebbe sembrare forzata una qualificazione dello stesso come atto interlocutorio o ancora come non incidente sul definitivo assetto degli interessi coinvolti.
Di sicuro, la pronuncia in commento sembra suggerire che il confine tra la mera valutazione circa l’adempimento di un obbligo di provvedere e la valutazione nel merito circa l’attitudine di un provvedimento a determinare effetti esterni - che di fatto determina una valutazione dell’attività discrezionale dell’amministrazione - sia in realtà più che mai labile.
3. L’accertamento concretamente operato nella fase di cognizione può giustificare la nomina del commissario ai sensi dell’art 117 cpa.
In sede di prima analisi, si potrebbe concludere che seguire la linea interpretativa espressa dal Consiglio di Stato possa generare il rischio che la fase esecutiva del processo sul silenzio sia di fatto mutuata in una indagine sul contenuto e/o sulla natura del provvedimento emanato - finalizzata a valutare gli effetti dispositivi dello stesso -, fino a far dipendere dal risultato della suddetta indagine la qualificazione di un provvedimento di rigetto, ad esempio, come atto interlocutorio.
È lo stesso Giudice, nel motivare la propria decisione, a richiamare quanto già statuito con la sentenza conclusiva della fase di cognizione; ciò in quanto l’attività di accertamento svolta in tale precedente fase, può legittimamente fondare l’accoglimento dell’istanza di nomina del commissario.
Pertanto, nella fase esecutiva del processo non viene svolto un nuovo accertamento: piuttosto, sulla base di quanto già accertato, viene valutata l’istanza di nomina, la quale, come è noto, risponde all’esigenza di assicurare al privato la sola decisione amministrativa in grado di incidere sulla sua sfera giuridica. Difatti, l’iter logico seguito dal Giudice, nel caso di specie, emerge con maggiore chiarezza puntando l’attenzione su quanto lo stesso aveva già precisato nella sentenza conclusiva della fase cognitiva (la n. 5022 del 17 Luglio 2019), affermando che la “determinazione che vale ad interrompere l’inerzia facendo venire meno l’interesse del ricorrente avverso il silenzio della pubblica amministrazione può essere soltanto quella che conclude il procedimento, con effetti definitivi e decisori, tali da superare lo stallo procedimentale e da porre con il provvedimento conclusivo la decisione amministrativa per il definitivo assetto degli interessi coinvolti”.
Ed è proprio in virtù di tale accertamento già svolto che il Consiglio di Stato – accogliendo l’istanza di nomina del commissario – ritiene non concluso il procedimento per l’aggiornamento/revisione del Piano Economico Finanziario, qualora venga emanato un provvedimento di rigetto non contenente alcuna determinazione di merito adottata dal competente Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e, ancorché il provvedimento stesso disponga che il rigetto della proposta di PEF determini la conclusione del relativo procedimento amministrativo.
Si tratta di una soluzione che pare coerente con il principio di effettività della tutela, declinato nell'ambito della patologia omissiva che il silenzio determina in uno alle ipotesi “di contorno” di cui si è sopra fatto cenno, laddove l'Amministrazione si pone in una posizione borderline rispetto al dovere di concludere il procedimento secondo i dettami dell'art. 2 della legge n. 241 del 1990.
Se, infatti, la tutela in materia di silenzio è, in tesi, ormai emancipata dalle incertezze della disciplina precedentemente enucleata dalla sola giurisprudenza a partire dall'intervento riformatore del 2005 sull'art. 2 (poi, come noto, trasfuso nell'ambito del Codice del processo amministrativo), non vi è dubbio che nell'orbita delle inerzie amministrative gravitano una serie di fattispecie site al confine tra adempimento e inadempimento degli obblighi anzidetti, rispetto ai quali, ancora una volta, il Consiglio di Stato apporta il suo significativo contributo, evitando elusioni in grado di incidere sulle posizioni giuridiche protette e, in ultima analisi, sui beni della vita correlati alle pretese proprie dello stesso interesse legittimo.
[1] A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, commento all’art. 2 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, in Codice dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 283 ss.;
[2] S. COGLIANI, Il giudizio avverso il silenzio della P.A.: i nuovi poteri del Giudice Amministrativo, in Codice
dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 309 ss.;
[3] R. MANCUSO, L’inerzia delle Pubblica Amministrazione, www.altalex.it 2013;
[4] si veda in proposito G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione (artt. 2, 17-bis e 20 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in Principi e regole dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. Sandulli, Milano 2015;
[5] N. PAOLANTONIO Commento all’art. 31, in Codice della giustizia amministrativa (a cura di) G. MORBIDELLI, Milano 2015;
[6] Cons. St., sez. V, 28 Aprile 2014 n. 2184;
[7] Cons. St., Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602;
[8] N. SAITTA, Sistema di Giustizia Amministrativa, Napoli 2015, 577;
[9] sull’irragionevolezza della separazione del procedimento ex multis, per primo, Cons. St., Sez. V, 16.01.2002 n. 230;
[10] sul punto si vedano, fra i molti, F.G. SCOCA, Il silenzio della Pubblica Amministrazione alla luce del nuovo trattato processuale, in Il diritto processuale amministrativo 2002, 245 ss.; F. FRACCHIA Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino 2003, 63 ss.; G. MONTEDORO Il giudizio avverso il silenzio, in Codice della giustizia amministrativa (a cura di) G. MORBIDELLI, Milano 2005, 251 ss.; N. PAOLANTONIO, I riti speciali, in Giustizia Amministrativa F.G. SCOCA, Torino 2013, 499 ss;
[11] v. ex multis Cons. St., Sez. V, n. 4939/2008;
[12] sulla modifica legislativa v. M. OCCHINEA, Riforma della legge 241/1990 e nuovo silenzio rifiuto: del diritto v’è certezza, www.giustamma.it 2005;
[13] in riferimento ad analoghe vicende cfr. TAR Lazio – Roma, Sez. I, 02.11.2016 n. 10815; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 09.02.2016, n. 182;
[14] cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI., 17 dicembre 2013, n. 6037.
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana. I civilisti (parte prima): R.Natoli intervista Francesco Busnelli e Aurelio Gentili
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana - Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuovere un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana.
Sono state già pubblicate le interviste a Gaetano Silvestri, Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima.Intervista di Roberto Conti a Gaetano Silvestri e Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte seconda. I giuspubblicisti. Intervista di F. Francario a D. Sorace, F.G. Scoca e G.Montedoro.
Roberto Natoli ha raccolto le riflessioni di quattro autorevoli civilisti: Francesco Busnelli, Aurelio Gentili, Francesco Denozza e Pasquale Femia. La prima parte è dedicata alle risposte di Busnelli e Gentili.
Roberto Natoli: Nel saggio “Per la critica della violenza” del 1921, Walter Benjamin osservava che “varrebbe la pena di indagare il dogma della sacertà della vita”. A distanza di un secolo e a causa di una pandemia dalle conseguenze non solo sanitarie devastanti, nel dibattito giusfilosofico tedesco questo dogma è stato seriamente discusso. A partire da alcune impegnative prese di posizione di autorevoli politici tedeschi come Wolfgang Schauble, il filosofo Jürgen Habermas e il teorico del diritto Klaus Günther, in un dialogo apparso su Die Zeit il 9 maggio scorso e prontamente tradotto su questa Rivista, hanno affrontato il tema della bilanciabilità del diritto alla vita con altri diritti costituzionalmente protetti. Il dibattito tedesco risente ovviamente dell’impostazione della Grundgesetz — al cui vertice è, come noto, è posta la dignità umana — ma è spia di una questione generale che, in modo forse meno esplicito che in Germania, si è posta in tutti i paesi occidentali e dunque anche in Italia. In questa intervista si confrontano, a partire dai temi indagati da Habermas e Günther, due insigni civilisti, di solidissima cultura teorico-generale, che contribuiscono a una riflessione sul tema anche dal punto di vista del diritto civile.
Fin dall’inizio della crisi sanitaria si è compreso che le persone maggiormente a rischio fossero le più anziane. Nota però Günther che “Il dover morire in conseguenza di malattie apparteneva, nei tempi passati, al generale rischio di vita, che solo di rado poteva evitarsi o ridursi”; pertanto, “solo da quando disponiamo di un sistema di assistenza medica altamente complesso e dispendioso si pone fondamentalmente la domanda su cosa e quanto stato e società possano e debbano fare per impedire o per ridurre decorsi patologici prevedibilmente rischiosi per la vita”. Questo ragionamento contiene, a mio avviso, una profonda intuizione: che, a monte del bilanciamento che tutti i legislatori hanno operato, sia pur con cadenze diverse, stia la tecnica. È la tecnica, infatti, ad aver conformato il diritto alla vita fino a trasformarlo in una pretesa positiva (garantire le possibilità tecniche di sopravvivenza), assai diversa dalla originaria pretesa negativa (essere protetti dalle aggressioni di terzi). Se si condivide questa analisi, fino a che punto un ordinamento costituzionale può legittimamente scegliere di allocare in modo preponderante le proprie risorse sul sistema sanitario, producendo, per riprendere le parole di Habermas, “forse a lungo termine persino danni irrimediabili a bambini, scolari e genitori, all’industria e al commercio?”. A coloro che si richiamano alla relatività del diritto fondamentale alla vita Günther pone poi una domanda tanto “tragica” quanto, a ben vedere, retorica, nella misura in cui li invita a “spiegare al primo paziente che non possa essere fatto respirare in conseguenza dell’allentamento, che egli dovrebbe morire per amore della libertà di altri”. Le misure di contenimento adottate dai governi sono state però ampie e variegate. Al termine dell’emergenza quel milione di italiani circa che, secondo le stime attuali, avrà perso il lavoro, potrebbe ben domandare se tutte le misure adottate siano state funzionali alla necessità di garantire le possibilità di sopravvivenza degli infetti. In termini giuridici, mi pare che ciò si traduca in questa domanda: le misure di contenimento sono state effettivamente informate ai principî di proporzionalità e adeguatezza cui si è, fin dall’inizio dell’emergenza, fatto riferimento?
Francesco Busnelli: Anno 1947. La Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …. e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2); “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32, comma 1); “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” (art. 3, comma 1).
Anno 1978. La legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, in attuazione dell’art. 32, comma 1, Cost., assicura “la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica … senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini” (art. 1, commi 1 e 3).
Anno 1979. La Corte di Cassazione, a Sezioni unite (sentenza 8 ottobre 1979, n. 5172), ne ha dedotto che “la salute è protetta in via primaria, incondizionata e assoluta. Il carattere garantistico della tutela va ribadito ove si consideri che neppure all’autorità che operi a tutela specifica della sanità pubblica è dato il potere di sacrificare o di comprimere la salute dei privati”.
L’avvento della “tecnica” e l’asserita “trasformazione della pretesa” possono giustificare un mutamento radicale di indirizzo interpretativo?
Il fulcro della questione chiama in causa quelle che in altra sede ho chiamato le “alterne vicende del principio di dignità della persona umana”.
Mentre la Corte costituzionale italiana continua ad affermare che la dignità “propone un valore assoluto in un contesto di relativismi di valori” (Flick, 2015) e una dottrina recente ne approfondisce il fondamentale “valore ermeneutico” (Scalisi, 2019), l’Europa sembra da tempo optare per un ridimensionamento dell’assolutezza dei diritti umani. La Convenzione per “la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” omette un esplicito riferimento alla dignità umana mentre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza), pur aprendosi con una norma di tutela della dignità umana, la inserisce nel Preambolo tra “i diritti, le libertà e i principi riconosciuti” dalla Carta proponendosi di “rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”. Infine, con l’avvento del nuovo secolo è venuto affermandosi un indirizzo per così dire “demolitorio” che ha origine nell’ambito dell’etica medica nordamericana – “Dignity is a useless concept” (R. Macklin, 2003) – e ha trovato in Europa un suo sviluppo nel campo giuridico in virtù di una “comparazione” volta ad accreditare questa conclusione e a “diffondere l’idea di un diritto individuale alla dignità come diritto di autodeterminazione” (G. Cricenti, 2013).
Se si condivide l’analisi sottesa in questo percorso, un mutamento radicale di indirizzo interpretativo diviene possibile, ed è stato chiaramente delineato contrapponendo idealmente “alla scelta politica e filosofica anti-moderna della dignità della persona umana il soggettivismo della modernità dei diritti dell’uomo” (O. Cayla; Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754).
È questa la prospettiva della “relativizzazione dei diritti umani” che “inquieta” Habermas, mentre Günther si propone di accoglierla in linea di massima come “necessità di bilanciamento tra due o più diritti” (nel nostro caso, tra “vita e salute” e “libertà”) imperniata sulla “idea centrale del principio di proporzionalità”, fermo. restando comunque il limite della riserva di legge.
La “proporzionalità” è però un miraggio. In effetti, l’art. 52, comma 1, della Carta di Nizza contempla, in termini generali e astratti, l’ipotesi di “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Carta in quanto previste dalla legge … nel rispetto del principio di proporzionalità … solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente … all’esigenza di proteggere diritti e libertà altrui”.
In concreto, “l’attuale crisi rende però difficile un tale controllo di proporzionalità” (Günther). Occorre allora mettere spregiudicatamente a nudo tale difficoltà. Se un tempo, in caso di crisi, una selezione di pazienti privi di fondate chances di sopravvivenza alla malattia era agevolmente praticabile come criterio idoneo allo scopo di alleggerire il corrispondente limite ai “diritti e libertà altrui” necessariamente coinvolti, lo stesso criterio entra irrimediabilmente in crisi oggi a fronte delle radicali innovazioni tecnologiche che hanno profondamente trasformato i sistemi di assistenza medica. Ne è testimonianza eloquente la crescente prassi giurisprudenziale di cause originate da richieste di risarcimento del danno non patrimoniale da morte intraprese dagli eredi del paziente per asserita perdita di chances terapeutiche di sopravvivenza (da ultimo, Cass., 11 novembre 2019, n. 28993).
Ma ancor prima, è “la legittimità giuridico-costituzionale dello scopo così perseguito” che rimane “dubbia” (Günther). “Piuttosto” come si potrebbe pensare che “il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non abbia un effetto impeditivo di ogni arretramento che gli altri diritti fondamentali non hanno? (Habermas).
Oltre l’inquietudine di Habermas e i dubbi di Günther, aleggia nel nostro ordinamento lo “spirito” della Costituzione.
Qual è la lezione che si può trarre dalle fasi più drammatiche della terribile crisi tuttora in atto?
L’esperienza che abbiamo vissuto è servita a mettere in evidenza i seguenti fenomeni: 1) l’esemplare professionalità e l’ammirevole dedizione del personale medico e infermieristico e di tutte le collaborazioni di supporto all’assistenza dei pazienti, prestata con l’obiettivo di raggiungere la guarigione dei pazienti, a prescindere dalle condizioni di età, di salute e di livello sociale ed economico degli stessi; 2) la clamorosa situazione di inefficienza organizzativa e funzionale delle strutture e dei servizi di assistenza medica, del tutto impreparate ad affrontare una crisi del genere, e gli effetti della progressiva riduzione delle risorse economiche da tempo affliggente il sistema della sanità pubblica; 3) le conseguenze traumatizzanti del parallelo “contenimento” dei diritti e delle libertà personali degli individui e delle famiglie nonché gli effetti economici devastanti di un’economia ingessata con conseguenti strascichi di perdita del lavoro da parte di migliaia di persone.
Orbene, il primo fenomeno mette in evidenza il verificarsi di una piena consonanza con i principi della vocazione dignitaria del nostro ordinamento costituzionale: come dire, una vox populi a suggello dello “spirito” della Costituzione. Ne consegue l’obiettivo primario di salvaguardare la tutela assoluta della salute dei pazienti, atta a garantire le possibilità di sopravvivenza degli “infetti” (sgradevole termine ‘burocratese’ e ‘pestilenziale’).
Oltre tutto, non è sicuro che con uno “scarto” (o, comunque, con un trattamento differenziato in peius) dei pazienti più problematici (per esempio, anziani oltre una certa età e/o con problemi pregressi di salute) si riesca a ottenere risultati decisivi in ordine all’allentamento dei limiti che paralizzano la tutela dei diritti e delle libertà altrui nonché al superamento della paralisi economica.
Semmai è il secondo fenomeno che rischia di ostacolare o addirittura di vanificare in fatto la realizzazione dell’obiettivo primario. Ne consegue la necessità e l’urgenza di provvedere al “risanamento” delle strutture sanitarie, e in modo particolare di riservare al sistema della sanità pubblica le risorse economiche che consentano di realizzare detto obiettivo.
Sullo sfondo si staglia, comunque, il problema fondamentale della latente conflittualità tra il primo e il terzo fenomeno, evidenziata e resa drammatica in caso di crisi - o pandemie, come quella presente -, suscettibili di ripetersi in futuro.
L’esperienza appena vissuta ci ha messo di fronte a misure di contenimento di diritti e libertà personali improvvisate, variegate e, spesso, scoordinate per fronteggiare la tutela della salute (non solo individuale ma anche) “come interesse della collettività”.
Occorrerà trarre profitto da questa esperienza per ricercare ed elaborare un sistema speciale di norme dirette a delineare un modello elastico ma uniforme di regolamentazione delle insorgenze, delle dinamiche e degli esiti di una “crisi-tipo”; e tutto ciò nell’osservanza di un principio-cardine: il quale non può consistere, a mio avviso, nel relativismo di un imperativo in base al quale “nessun diritto fondamentale vale senza limiti”, ma deve avere come fulcro il valore assoluto della tutela della dignità della persona umana, dell’intera collettività, con particolare attenzione al diritto alla vita e alla salute delle persone più fragili e bisognose fino ad arrivare ai c.d. “infetti” con poche chances di sopravvivenza alla malattia ma a cui non si può negare la dignità.
Un presupposto essenziale per il funzionamento di un simile sistema è tuttavia rappresentato dalla necessaria soluzione di un problema già accennato: la presentazione e rapida approvazione di un piano di rilancio, dopo un ventennio di sistematico depotenziamento, del Servizio sanitario nazionale, e di riproposizione aggiornata dei suoi obiettivi (art. 2, n.8).
Il momento sembrerebbe particolarmente propizio: l’Europa, da cui per lunghi anni è giunta una spinta a tagliare la spesa sanitaria, ci invita oggi a “investire nella sanità”. Purtroppo, non vi sono per il momento segnali incoraggianti che inducano a ritenere che l’invito è stato raccolto. Né le “sei grandi aree di intervento” annunciate dal c.d. “piano Colao”, né i “nove dossier principali” del “nuovo programma” di governo – “Progettiamo il rilancio” - illustrati dal Presidente del Consiglio ai c.d. “Stati generali” che si svolgono in questi giorni a Roma, contemplano l’urgenza di un piano di “risanamento della sanità pubblica”. Dai giornali (Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020) si apprende che “un piano con cifre e obiettivi al Ministero della Salute ancora non c’è”; ma il cognome del Ministro, che “ha appeso in Senato il suo programma a una citazione di Papa Francesco (‘Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla’)”, lascia comunque aperta la porta a una (pia?) speranza.
Aurelio Gentili: Da seguace del metodo analitico-linguistico penso che la risposta alla domanda ‘fino a che punto un ordinamento può scegliere di trasferire risorse in modo preponderante da altri settori meritevoli di tutela alla protezione del diritto alla vita’ vada data all’esito di alcune distinzioni preliminari.
La prima. Intendiamo interrogare la filosofia morale, la politica, o un ordinamento giuridico? E quale? Bisogna saperlo perché le risposte sono distinte e possono essere diverse. Io mi proverò a rispondere dal punto di vista del Trattato sull’Unione Europea.
La seconda. Bisogna distinguere valori, fini e mezzi. I valori sono i beni protetti. I fini sono la loro protezione e promozione. I mezzi sono le risorse impiegate ed il criterio di allocarle. Dal punto di vista dell’Unione, quanto ai valori l’art. 2 richiama in aggiunta a quelli che elenca quelli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e quelli delle ‘tradizioni costituzionali comuni’ (l’art. 6). Il ‘diritto alla vita’ vi rientra. Quanto ai fini si stabilisce (art. 3) un compito non solo di protezione, quindi di non permettere lesioni, ma di promozione, quindi di incrementare l’effettività ed il godimento di quei beni che sono i valori. Mentre quanto ai mezzi sono richiamati i criteri di ‘appropriatezza’ (art. 3, 6° c.), di ‘sussidiarietà’ e di ‘proporzionalità’ (art. 5). La sussidiarietà, però, concerne solo il riparto tra Unione e Stati. Quindi il criterio nella determinazione dei mezzi è nei principi di appropriatezza e proporzionalità.
La terza. Bisogna distinguere effettività e validità (essere e dover essere). I mezzi, e la tecnica fra questi, incidono sull’effettività, ma mai sulla validità dei valori, così come l’adempimento incide sulla soddisfazione ma mai sulla validità del credito. Solo altri valori possono incidere sulla validità di un valore, ovviamente in caso di conflitto. Quindi, per venire al caso, il diritto alla vita vale, ed impegna lo Stato a proteggerlo, indipendentemente dalle risorse disponibili (i mezzi) per il sistema sanitario: una vita non protetta perché i respiratori costano troppo è solo un diritto insoddisfatto. Il punto non è dunque se la tecnica entri nel bilanciamento (qui la mia risposta è: no! non si bilanciano i fini con i mezzi), ma: i) se il diritto alla vita sia anch’esso da bilanciare con altri valori, e ii) se a seguito di un simile eventuale bilanciamento sia legittimo (rispetti cioè il principio di appropriatezza e proporzionalità) e in che misura mettere un limite alla protezione della vita come fine ed alla devoluzione a tal fine, a costo del detrimento di altri valori, delle risorse. Torno sul primo quesito con la successiva distinzione; sul secondo tornerò con la mia risposta alla seconda domanda.
La quarta. La vita – filosoficamente, come anche nel sistema del Trattato - non è un valore come gli altri (dignità, libertà, uguaglianza, integrità fisica, sicurezza, famiglia, non discriminazione, giusto processo), per una ragione ontologica: unica, non ammette un ‘più o meno’; o è, o non è. Di più: è la condizione di fruizione di tutti gli altri beni (o valori). Da questo carattere assoluto del bene deriva il carattere illimitato della protezione (il ‘diritto’ alla vita). Sul piano del dover essere, ovviamente. Sul piano dell’essere il limite (ma come detto è insoddisfazione, non invalidità del diritto) deriva dalle cose: non abbiamo, o non sempre, sicuri mezzi di protezione.
Ovvia a questo punto la prima risposta. Al contrario degli altri valori il valore della vita non si bilancia. E se non si bilancia, almeno in astratto devolvere ad esso le risorse è legittimo – anche a costo di sacrificare altri valori – fin dove necessario a proteggerla.
Il punto dunque non è – a mio avviso – se fare un bilanciamento di beni e fini, o se invece sia necessario e quindi legittimo spostare risorse a favore del diritto alla vita, per quanto ciò costi. Il punto è solo ravvisare i limiti di questa necessità. E di questo mi occupo rispondendo alla seconda domanda.
Se la mia risposta alla prima domanda tiene, la risposta alla seconda, se cioè ‘le misure adottate siano proporzionate ed appropriate, anche dove anno sacrificato altri valori’, non concerne i valori e i fini, ma solo i mezzi. Concerne, soprattutto, il modo di sceglierli e il criterio di allocarli.
In altri e più specifici termini: stabilire se sia giusto limitare la libertà di movimento, le condizioni di vita dei cittadini, le possibilità di lavoro e di commercio, le garanzie democratiche, per tentare di salvare la vita degli infetti (spesso anziani e con una flebile speranza di vita), e se sia giusto, e in che misura, devolvere risorse alla sanità sottraendole ad altro, nonostante le iniziali apparenze, dissipate – spero – dalle distinzioni operate, non è questione di corretto bilanciamento di valori, ma di corretta applicazione dei mezzi. La domanda diventa insomma: quali altri diritti vanno conculcati, e quanto, e quante risorse vanno trasferite?
Se il criterio di scelta dei mezzi fosse solo l’appropriatezza (l’utilità allo scopo) la risposta sarebbe: ‘senza limiti’, e quindi anche a detrimento di altro. Senza limiti perché, come visto, dal carattere assoluto del bene protetto deriva il carattere illimitato della protezione, e quindi la rimozione di ogni limitazione al pregiudizio ad altri valori ed all’impiego di risorse.
Ma il criterio è anche la proporzionalità. Cioè: a) pregiudicare solo quei valori il cui pregiudizio è necessario alla protezione del diritto alla vita, e solo nella misura necessaria; b) destinare alla protezione della vita le risorse solo nella misura che appare ragionevolmente necessaria a proteggerla nelle circostanze date. Insomma: è necessario – per esempio e nelle circostanze date dall’attuale epidemia – pregiudicare la libertà (non ci si sposta, non ci si assembra, non ci si tocca), la famiglia (i figli lontani non tornano a casa a rischio di infettare i parenti), il lavoro (non si proseguono le attività al pubblico potenzialmente foriere di contagi), perché non farlo induce un concreto pericolo di vita; ma non – sempre per esempio – il giusto processo (che senso ha avuto bloccare e ritardare l’attività giudiziaria, invece di riorganizzarla in modi – si pensi al processo telematico – che avrebbero contemperato?). E ancora: è necessario trasferire alla sanità o meglio ancora destinare preventivamente ad essa le risorse che ragionevolmente consentiranno di fronteggiare un’evenienza che scienziati e OMS avevano addirittura previsto, e che quindi la politica avrebbe dovuto parare; ma non è certo necessario – sempre per esempio – predisporre sessanta milioni di postazioni di terapia intensiva per sessanta milioni di abitanti. Ovvio che la scelta sia politica, e sempre relativa alle circostanze date ed agli elementi di giudizio di cui disponiamo (tra cui quelli scientifici).
In sintesi: la scelta dei beni, ossia l’individuazione dei valori, è stata compiuta dal diritto, e non lascia spazio. La scelta dei fini, ossia il bilanciamento, lo fornisce la logica e non lascia spazio. Solo la scelta dei mezzi, ossia quali? quanti?, è rimessa alla politica ed alla responsabilità della collettività, che deve valutare cosa è davvero necessario a promuovere e proteggere. E qui c’è spazio. Spazio per la solidarietà. Ma anche per il buon senso.
Giudicato esterno, diritto eurounitario e fattispecie pluriennali.
Dalla Corte di Giustizia una indicazione equilibrata per la sistemazione definitiva di un delicato busillis (note a prima lettura di Corte giust.,16 luglio 2020, C-424/2019)
di Alberto Marcheselli
La sentenza 424/2019, Cabinet de avocat UR, offre una occasione assai preziosa.
Quella di dare una sistemazione concettuale ponderata ed equilibrata a un tema che da tempo agita il sonno dei giuristi, quello della portata del giudicato esterno in materia tributaria (e, più, in generale, sui rapporti di durata).
Anticipando immediatamente la modesta conclusione di queste riflessioni, a me pare che la Corte, con molta chiarezza, affermi che, se è consentita la celia, come per Jessica Rabbit, il problema del giudicato esterno non è “lui”, ma “come viene disegnato”.
Più seriamente, si legge, in filigrana, ma nettamente, nelle parole della Corte, che il problema sta non nell’istituto in sé, ma in alcune possibili configurazioni del relativo concetto.
Alcune configurazioni, che, anticipiamo subito, sono veri e propri “slittamenti dogmatici” da evitare e stigmatizzare.
Procedendo comunque con ordine, cominciamo con il rilevare, perché non sarà assolutamente inutile, che la regola del giudicato è il risultato del compromesso tra due valori ed esigenze: quello della accuratezza della decisione (che spingerebbe verso giudizi infiniti) e quello della certezza e dell’uso ragionevole della risorsa scarsa della giustizia (che impone concentrazione).
Il punto di equilibrio, per il diritto interno e quello eurounitario, è stabilire che, esaurita una certa serie processuale, la soluzione di una “questione” non può più essere messa in discussione.
Sul piano oggettivo, il problema sta tutto nello stabilire la portata del termine, volutamente improprio, appena usato: “questione”.
Sul piano soggettivo, il problema è stabilire chi non possa più discutere (il limite soggettivo). Questo secondo aspetto non è toccato dalla sentenza, ma ha cospicui aspetti di attualità nel diritto tributario, cui dedichiamo un cenno en passant (ad esempio in materia societaria): l’estensione soggettiva va prudentemente valutata, per il rischio di estendere gli effetti a soggetti che non hanno potuto esplicare le loro difese (non a caso il codice civile limita l’effetto del giudicato a “parti, eredi e aventi causa”, da intendere rigorosamente, proprio per il problema del rispetto del diritto di azione e difesa).
Orbene, tornando al punto, in realtà la portata oggettiva del giudicato ha alcuni caposaldi nitidi e chiari.
Il giudicato copre l’oggetto della singola controversia, cioè la soluzione data alla fattispecie oggetto del giudizio. È allora assolutamente decisivo (e sufficiente, in realtà), individuare questa ultima. Essa si esaurisce, per utilizzare la terminologia tradizionale civilistica, nel petitum e causa petendi in concreto. In materia tributaria l’oggetto del giudizio è, di regola, una certa pretesa a titolo di tributo, fondata su certi fatti (costitutivi, direbbero i civilisti), cui debbono essere applicate certe norme.
Ebbene, individuare tale fatto costitutivo è, in realtà, sempre piuttosto semplice. Si tratta del fatto espressione di capacità contributiva da tassare.
Il problema, endemico nel diritto tributario (e causa delle incertezze concettuali cui la Corte risponde) sta nella presenza, usuale, frequentissima, di fattispecie durevoli, anzi, più esattamente, di fattispecie periodiche. Detto altrimenti, la più gran parte dei rapporti tributari concernono fattispecie che spesso si iterano nella dimensione temporale del periodo di imposta.
Nella controversia che ha dato vita alla sentenza della Corte, per esempio, un avvocato forniva prestazioni professionali, distinte e reiterate, e collocate in diversi periodi di imposta. L’avvocato, messo alle strette dall’obiezione secondo cui non si vedeva perché mai la sua attività non potesse essere considerata economica, si rifugiava a eccepire un precedente giudicato, a lui favorevole, ottenuto quanto a certe altre operazioni precedenti, che erano state ritenute non imponibili assumendo che un avvocato non fosse un soggetto IVA. Egli eccepiva che tale decisione precedente, su altre sue operazioni, avvenute anni prima, precludesse ulteriori giudizi sul tema dell’assoggettamento a IVA della sua attività e gli attribuisse, definitivamente, lo status di non soggetto IVA per sempre.
Ora, una cosa appare evidente. Il giudicato ha una portata propria, che corrisponde alla sua funzione propria. Impedire il reiterarsi del giudizio sulla medesima fattispecie. In questo caso, il punto di equilibrio (tra certezza ed economia da un lato, e accuratezza dall’altro) è sicuro: la medesima fattispecie non la si giudica più di una volta. Ma vi è una evidentissima differenza tra il caso in cui la fattispecie sia una e i giudizi più di uno (quella appena considerata) e quella, del tutto diversa, in cui vi siano più giudizi per più fattispecie, non importa quanto simili o financo identiche.
Anche in questa seconda ipotesi esiste una innegabile “tensione” alla uniformità (se le questioni sono uguali, perché deciderle diversamente?), ma tale “tensione” non si fonda tecnicamente, a nostro avviso, sull’istituto del giudicato in senso proprio, ma su altre esigenze, apprezzabili (prevedibilità della decisione, coerenza dell’ordinamento, ecc.) e potrebbe trovare efficace tutela, ricorrendone i presupposti, in altri istituti, quale quello, largamente sottoutilizzato, della tutela dell’affidamento.
Tecnicamente, non si dovrebbe allora trattare di giudicato esterno in senso proprio, ma di richiami alla forza – sicuramente persuasiva, e, nei casi di affidamento, anche giuridicamente direttamente rilevante –del precedente giudiziale su un caso, identico, magari tra le stesse parti.
Nella prassi, come artificio retorico, agenzie e difensori delle parti private, per enfatizzare il peso del motivo, presentano usualmente questo argomento come eccezione di giudicato (che avrebbe forza giuridica cogente) cercando di far valere il peso della precedente pronuncia. Qualcosa di simile a quanto accade nel processo civile, ove il convenuto che sostenga di non essere debitore, traveste spesso la sua difesa nel merito nella forma, del tutto diversa, della eccezione di “difetto di legittimazione passiva”, che, come noto, è tutt’altro (vizio di prospettazione della domanda e non difetto del suo fondamento nel merito).
Questo, se è comprensibile nella dialettica processuale, comporta però un pericoloso “slittamento dei concetti” che rischia di compromettere la corretta comprensione delle categorie dogmatiche, con possibili conseguenze dannose.
Come nel processo oggetto della sentenza, dove l’eccezione, del tutto fuori segno (almeno alla luce delle nostre categorie giuridiche), dell’avvocato rumeno ha messo in discussione il concetto di giudicato esterno e comportato il rischio di una sua compromissione nel diritto eurounitario.
Rischio che non si è concretizzato nella sentenza, che è scandita nei seguenti passaggi:
- Il giudicato corrisponde a un valore riconosciuto dalla UE (certezza e, aggiungerei, economia delle risorse giurisdizionali);
- Il giudicato, che impedisce la reiterazione dello stesso processo (cioè, processo sullo stesso fatto) non può però essere il pretesto per ripetere errori (di diritto UE) in processi diversi (cioè su fatti distinti, anche se identici);
- Ove un ordinamento nazionale estenda la portata del giudicato esterno anche a processi diversi (cioè a nuove fattispecie, ancorché identiche), tale nozione di giudicato può ledere il diritto eurounitario, se il precedente giudicato lo violava.
La regola si potrebbe anche esprimere in questo modo: esiste un giudicato esterno proprio (nel caso di nuovo processo sulla stessa fattispecie) e, se vogliamo dargli un nome, uno pseudogiudicato esterno (a mio avviso, fattispecie estranea alla nozione, nel caso di richiamo a una fattispecie ulteriore ma identica, ove il riferimento al giudicato in realtà nasce come artificio retorico): per chi opini diversamente esso potrebbe definirsi “giudicato esterno in senso lato”). Ebbene, per la Corte, il secondo vincolo, per gli Stati che eventualmente lo riconoscano, potrebbe ledere il diritto della Unione.
Se tutto quanto precede è corretto, la sentenza risulta di estrema importanza, ma non perché essa limiti l’efficacia del giudicato esterno e neppure perché introduca un regime speciale nella materie armonizzate.
Non è vera la prima affermazione perché, se si maneggia in maniera rigorosa lo strumentario tecnico, la sentenza ammonisce a non estendere il vincolo del giudicato a situazioni estranee, ove le ragioni della ponderazione tra certezza e correttezza della decisione non sussistono nello stesso modo (è diverso decidere due volte la stessa causa - unica - o due cause identiche).
Non è vera la seconda, perché quel vincolo da pseudogiudicato non deve valere manco nelle materie interne: anche per il diritto interno si tratta di cose diverse e per le quali non vale la stessa ponderazione tra certezza e giustizia.
Se vogliamo un po’ forzare i concetti, exempli causa, si potrebbe spostare il ragionamento nel territorio della bioetica. Ammesso che Tizio si presti ad aiutare il suicidio dei malati terminali in condizioni di disperata sofferenza e venga processato, prima per la morte di Caio e, poi, per quella di Sempronio, nessuno si sognerebbe, credo, di evocare il giudicato di assoluzione rispetto all’aiuto al suicidio di Caio, nel diverso processo per la morte di Sempronio.
Non ostante le situazioni penalistiche evocate appaiano diverse, non lo sono, almeno non lo sono nell’essenziale. Domandarsi se l’avvocato rumeno avesse fatto operazioni imponibili o no nel 2011 non è la stessa cosa che domandarsi se fossero imponibili le operazioni (sempre di quell’avvocato e del tutto identiche) del 2014: sono processi su fattispecie distinte, anche se identiche e quindi non vi può essere alcun giudicato, in senso proprio.
Tutto a posto, quindi?
No, in realtà manca la precisazione più importante, per la pratica del diritto tributario.
Essa corrisponde al necessario inquadramento della rilevanza del periodo di imposta, nella determinazione della fattispecie oggetto del giudizio.
Il periodo di imposta, infatti, spesso è il “confine della fattispecie”, ma non sempre.
Lo è certamente se si discute del reddito o di qualsiasi presupposto di imposta del periodo (il reddito del 2019 è un fatto diverso dal reddito del 2018).
Ma esistono anche, e non possono essere trascurate, fattispecie tributarie uniche con effetti giuridici pluriennali (oppure fattispecie di durata la cui dimensione temporale non è dalla legge tributaria condizionata a una verifica di periodo).
Sono due cose completamente diverse: nella prima il periodo è il limite che individua le fattispecie, nella seconda il periodo è, cosa completamente diversa, la scansione in cui si ribaltano gli effetti della fattispecie, unica (o si protrae la fattispecie durevole).
Non sarebbe, quindi, a mio modestissimo avviso, corretto generalizzare la regola affermando, tout court, che il giudicato tributario non si può ribaltare su altri periodi di imposta.
Dipende.
Dipende da cosa era oggetto del giudicato: una fattispecie che si esaurisce nel periodo o no?
La precisazione è, praticamente, importantissima.
Facciamo due esempi di fattispecie unica con effetti giuridici pluriennali.
In materia di ammortamenti (cioè quote in cui può essere suddivisa la deduzione del costo complessivo per un bene che dura più anni) una cosa è discutere dell’ammontare del costo complessivo. Se oggetto della controversia è stato quello, direttamente o indirettamente, il giudicato sul costo complessivo è un giudicato che si ribalta necessariamente su tutti gli eventuali successivi processi aventi ad oggetto le singole quote di ammortamento (per dirla semplice, una volta stabilito definitivamente quanto è grossa la torta, non lo si può rimettere in discussione ogni volta che si litighi a proposito di una fetta…). Se, invece, oggetto della questione è.. per restare alla metafora, una fetta (i criteri di determinazione della singola fetta, non, neppure indirettamente, la torta), il giudicato su una fetta (una quota) non si estende, mi pare alle controversie sulle altre fette (le altre quote). Ma se nel processo in giudicato era stata statuita la dimensione della torta, questa resta ferma per tutte le annualità diverse.
In materia di detrazioni, invece, se scende il giudicato sulla spettanza di una detrazione da imposta (per esempio assumendo che determinati lavori di ristrutturazione sono stati effettivamente meritevoli di detrazione) la spettanza della detrazione deve restare ferma per tutti i periodi successivi: unica fattispecie, effetto di giudicato.
Ciò posto, al giurista tributario sovverrebbe una ulteriore sollecitazione e cioè domandarsi se le stesse considerazioni dovrebbero valere anche – non per il giudicato ma – per i provvedimenti amministrativi definitivi. Riconosciuto in via definitiva dalla Agenzia delle entrate che una detrazione spetta, ne potrebbe essere messa in discussione la spettanza, quanto alla rata di un periodo diverso?
Profilo intrigante, ma estraneo all’oggetto delle presenti riflessioni.
Resta però fermo che dalla sentenza in rassegna della Corte di Giustizia è arrivato uno stimolo di grande valore concettuale e pratico, da mettere certamente a frutto nel modo ponderato ed equilibrato che essa suggerisce.
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