Le ragioni del debito comune europeo, oltre il pretesto del Covid
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Eccezionalità del Covid e problemi permanenti del disegno europeo - 2. Perdita di peso del “mercato europeo” e venti di statalismo sull’Unione - 3 Il debito comune e le sue prospettive.
1. Eccezionalità del Covid e problemi permanenti del disegno europeo
L’accordo trovato nel Consiglio europeo del 21 luglio 2020 è politico programmatico, ma molte sue conseguenze sono giuridicamente inevitabili. La più rilevante è l’emissione di un debito comune europeo, equivalente sul piano dei principi a quegli eurobond di cui si parla da dieci anni e che finora avevano visto le resistenze dei paesi meno indebitati. Su questo dibattito pluriennale si è inserita l’epidemia Covid, circostanza straordinaria che ha molto facilitato l’accordo politico della settimana scorsa. Un rifiuto di principio del debito comune avrebbe infatti alimentato ulteriormente polemiche ed incertezze che da anni scuotono la costruzione europea. Mi riferisco allo scetticismo verso una sorta di superstato europeo, non governato da rappresentanti politici comuni eletti[1], senza uffici amministrativi controllati da un’opinione pubblica comune. Quest’ultima, che interagisce coi propri rappresentanti politici, e li controlla socialmente, è infatti configurabile solo a livello nazionale[2].
Si tratta di un “unicum geopolitico”, molto più fluido delle confederazioni, ma di cui troviamo incursioni anche nei più intimi dettagli della vita quotidiana. Verso tutto questo montava da anni, nelle opinioni pubbliche di molti stati membri, uno scetticismo rivelato sia dal referendum Brexit, sia dalla nascita, nei più importanti paesi europei, di tendenze tutt’altro che entusiaste del disegno comunitario; queste tendenze, al di là delle banalizzazioni di alcune forze politiche che vi si collegano, non possono essere puramente e semplicemente esorcizzate[3], etichettandole come populiste e retrograde.
Al di là della retorica secondo cui l’Europa ci avrebbe regalato 70 anni di pace, legata invece ad altri fattori di geopolitica internazionale, le libertà europee di muovere persone, imprese, merci e capitali sono state molto positive. Esse hanno infatti eroso rendite di posizione e contribuito al benessere comune; nel mercato unico han potuto coesistere paesi con meno stato e meno imposte, relativamente liberisti , oppure, secondo innumerevoli sfumature intermedie, più socialdemocratici, con più imposte ed intervento pubblico. Lo sfondo condiviso era quello di economia mista, con possibilità di iniziativa economica privata e vari assetti “stato-mercato”. L’obiettivo era di passare da una competizione politico-militare ad una economica, a seconda dell’efficienza raggiunta in concreto da ciascun paese nel suo mix stato-mercato.
2. Perdita di peso del “mercato europeo” e venti di statalismo sull’Unione
Il disegno di cui al punto precedente si è incrinato sotto vari profili, come l’eccesso regolatorio autoprodottosi per armonizzare la concorrenza economica con altri valori quali la sicurezza, la sanità, l’ambiente etc… La normativa comunitaria si è infatti intromessa nei minimi dettagli delle caratteristiche produttive delle imprese, e dei beni di largo consumo, fino alle prese elettriche e alla taglia minima per la pesca delle vongole. A questa sensazione di invadenza burocratica si è aggiunta la crisi dei mercati (il mercato unico) e dell’idea semplicistica di concorrenza presupposta dalla Comunità[4].
I propositi europeisti di integrazione politica attraverso l’economia si sono scontrati anche con la perdita di centralità produttiva da parte del continente. Molte produzioni Europee sono diventate economicamente mature e la globalizzazione ha spostato le “fabbriche del mondo”, spesso tra l’altro in paesi con tradizioni più antiche e raffinate di quelle europee. In misura notevole l’Europa è diventata cioè un mercato di consumo, anziché di produzione, e con una minore portata unificante dei rapporti economici. Sarebbe improprio parlare, come fanno gli economisti, di fallimento del mercato, composto da aziende, ciascuna delle quali ha l’obiettivo particolare di produrre e vendere beni e servizi, non di contribuire a un migliore ordine sociale. Al di là degli opportuni caveat dell’ordoliberismo tedesco e dell’economia sociale di mercato, la politica Europea di unificazione si aspettava troppo da una sorta di semplicistica personalizzazione dei mercati, come fossero entità senzienti con obiettivi di autoregolamentazione; per questo neppure ha senso criticare i mercati perché non raggiungono obiettivi che neppure si pongono, in quanto spettano invece alla politica e agli studi sociali. Economia di mercato significa semplicemente ammettere l’iniziativa economica privata, sempre in qualche misura tollerata nel tempo e nello spazio, salva la religione civile del comunismo. Ammettere il mercato non significa però che esso possa sempre e comunque autoregolarsi, ignorando i bisogni pubblici e privati cui non è in grado di rispondere. Proprio l’aumento di tali bisogni ha messo gli stati europei in una posizione delicata, sia per “sostenere il tenore di vita” cui la società era ormai abituata, sia per salvaguardare le organizzazioni produttive, evitandone la disgregazione. L’Europa è complessivamente diventata più statalista, per fronteggiare i suddetti squilibri economici; ciò è avvenuto col “consumo a debito”, sia da parte di privati sussidiati sia da parte di politiche di investimenti pubblici. Di fronte alla necessità di iniziativa economica di pubblici poteri, gli obblighi e i divieti un tempo dettati in nome della concorrenza hanno provocato le già indicate crisi di rigetto e le risposte di cui al paragrafo successivo.
3. Il debito comune e le sue prospettive
Uno degli strumenti più diffusi del moderno intervento pubblico di cui al paragrafo precedente è l’emissione di moneta, ormai prerogativa pubblica (sovrana con evidenti relazioni con l’espressione sovranismo), limitata da vincoli europei di varia natura[5]. Verso questi vincoli si dirigono molte delle tendenze antieuropee di cui al precedente paragrafo 1. Tra esse c’erano anche quelle di paesi europeisti (e rigoristi), restii a spendere il credito del proprio stato a beneficio dei prestiti di un altro. Si tratta di resistenze comprensibili, non liquidabili eticamente in termini di “egoismi nazionali”, essendo naturale la tendenza a sfruttare la propria capacità di credito, sui mercati, prima di tutto nell’interesse proprio, anziché in quello di altri stati, che tra l’altro hanno già consumato la propria.
Paradossalmente il Covid, come circostanza straordinaria, su cui l’accordo del 21 luglio calca molto la mano, ha consentito a tutti di accettare un compromesso, salvando le forme, ma tenendo le proprie riserve mentali; non a caso, dietro ogni frase della risoluzione del Consiglio, è palpabile la necessità di superare, con formule verbali, differenze tra impostazioni molto distanti.
Il debito comune europeo sembra rispondere alle nostalgie sovraniste verso la vecchia creazione unilaterale di base monetaria. E’ un po' come se la sovranità monetaria europea sostituisse la perduta sovranità monetaria nazionale (cari sovranisti, la sovranità ve la diamo noi europeisti). I paesi rigoristi hanno accettato il debito comune, con una serie di limiti e condizioni, per mantenere il disegno europeo di cui al punto 1. Il fallimento di uno stato dell’Unione lo costringerebbe infatti a politiche protezionistiche, contro le libertà europee, o ad accettare colonizzazioni economiche svalutando il costo del lavoro.
L’accordo politico sul debito comune, da utilizzare per metà a fronte di sussidi a fondo perduto, porrà problemi di gestione amministrativa molto superiori a quelli del quantitative easing che ha difeso i titoli pubblici dei paesi dell’area euro dalla speculazione ribassista.
Si tratterà infatti di erogare e distribuire sussidi ai paesi più danneggiati dal COVID, a riprova che i redditi nazionali basati su turismo, ristorazione e ricreazione sono molto più fragili di quelli basati su produzioni organizzate di beni e servizi. E’ prevedibile quindi un flusso di aiuti netto verso i paesi del sud Europa, anche tenendo conto del loro contributo alla gestione e al ripianamento di un debito che è comune, quindi anche loro. Vista la modestia delle risorse comunitarie proprie di cui agli ultimi paragrafi dell’accordo, dove di nuovo c’è solo una vaga imposta ecologica sulla plastica, dovranno essere gli stati membri a contribuire ai rimborsi del debito comune in proporzione ai rispettivi redditi nazionali.
L’attribuzione e gestione degli aiuti aumenterà i livelli di competenze, comunitarie e nazionali, che si intrecciano. Ciò è destinato in primo luogo a creare vischiosità nella ripartizione dei sussidi, con relativi strascichi polemici nelle opinioni pubbliche dei vari paesi. Per i paesi, come l’Italia, già in difficoltà nell’ordinaria amministrazione dei fondi comunitari, in buona misura restituiti perchè inutilizzati, si profilano sfide burocratiche non facili.
[1] Nonostante il Parlamento Europeo, il vero governo dell’Europa è affidato alla commissione, dall’investitura politica molto indiretta.
[2] Sulle relative barriere linguistico-culturali e di appartenenza a vari sistemi di welfare cfr. i parr.4.16 ss del mio volume di Scienza delle finanze reperibile sul mio sito universitario didatticaweb.
[3] Si pensi ai movimenti di opinione retrostanti alla recente sentenza della corte costituzionale tedesca (maggio 2020) sul quantitative easing.
[4] Come se a competere fossero piccoli commercianti a artigiani, non organizzazioni con migliaia di dipendenti ed elevatissimi costi di impianto ed avviamento.
[5] Non mi dilungo sulle illusioni e i limiti all’emissione di moneta per i quali rinvio al mio Moneta e sovranità tra economia e diritto, in Innovazione e diritto, online ad accesso aperto n.6-2017.