ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Decidere nell’emergenza. Limitazione e bilanciamento dei diritti fondamentali.
Prendendo spunto dall'intervista rilasciata nel maggio scorso al settimanale Die Zeit da Jurgen Habermas e Klaus Gunter (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1126-diritti-fondamentali-nessun-diritto-fondamentale-vale-senza-limiti-di-juergen-habermas-e-klaus-guenther-2?hitcount=0) e della rilettura operata alla luce della cultura giuridica italiana dalla dottrina gius-pubblicistica (https://www.giustiziainsieme.i...), l'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo - AIPDA dedica il suo convegno annuale al tema della limitazione e del bilanciamento tra diritti fondamentali nell'emergenza pandemica.
Il convegno si svolgerà in forma di webinar venerdì 9 ottobre dalle ore 10.00 alle 13.00 sulla piattaforma zoom e sarà possibile accedere tramite il link di seguito indicato:
https://zoom.us/j/96635732283?pwd=dGdwYzhvbUZrNHpjWkJYRGE2REJ0Zz09
L'annosa questione dei settant’anni di Piercamillo Davigo.
Il 20 ottobre 2020 Davigo compirà settant’anni e uscirà dall’ordine giudiziario.
Decadrà dalla carica elettiva di consigliere del CSM?
Nel nostro ordinamento c’è un principio in base al quale la decadenza deve essere espressamente prevista? O viceversa il principio generale è che il venir meno del requisito per l’elettorato passivo determina la decadenza dall’incarico elettivo?
Come influisce sulle qualità dell’organo di governo autonomo della magistratura, composto di togati e non togati nella proporzione prevista dalla costituzione, il venir dell’appartenenza all’ordine giudiziario di un componente?
Come influisce la scelta degli elettori che alle scorse elezioni votarono consapevoli che a metà del quadriennio, per limiti di età, Davigo avrebbe cessato di far parte dell’ordine giudiziario?
Da un punto di vista politico e dell’amministrazione della res publica, in termini di buona amministrazione, quali saranno gli effetti del subentro di un nuovo componente togato (il primo dei non eletti del collegio della legittimità) tenuto conto della natura di alta amministrazione e rilevanza costituzionale di un organo complesso quale il Consiglio superiore della magistratura?
Tenuto conto che la consiliatura 2018-2020 è stata martoriata da dimissioni, subentri e elezioni suppletive (si è ancora in attesa dell'ultimo subentro e ancora non si sa se con o senza ulteriori suppletive), quali saranno gli effetti dell' una o dell’altra scelta?
Quali saranno gli effetti sugli equilibri di forza delle correnti presenti nell’attuale composizione del Consiglio?
Non ci si può nascondere dietro una norma "che per qualcuno c’è e per qualcun’altro non c’è" ma la questione andrà affrontata ( e questo lo farà il CSM entro il 20 ottobre prossimo) tenendo conto di tutte le sfaccettature connesse all’uscita di Piercamillo Davigo da Palazzo dei Marescialli; sfumature politiche, di opportunità, legittimazione e efficienza.
Giustizia insieme, in attesa della decisione, offre ai suoi lettori due diversi punti di vista: quello di Rosario Russo che conclude per la decadenza e quello di Stefano Amore che conclude per la permanenza.
L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex?
di Rosario Russo
In qualità di magistrato esercente funzioni di legittimità, dal 25 settembre 2018 il dott. Camillo Davigo è membro elettivo del Consiglio Superiore della Magistratura e fa parte della Sezione Disciplinare, chiamata a decidere sui procedimenti originati dallo scandalo delle Toghe sporche. Essendo egli prossimo al pensionamento per raggiunti limiti d’età (ottobre 2020), si pone il problema della sua legittima permanenza tra i membri togati del C.S.M. (e della S.D.). È appena il caso di rimarcare l’importanza della questione.
L’obiezione fondamentale opposta alla cessazione dalla carica fa capo ad una norma dal significato letterale indiscutibile: l’art. 104, 6° Cost. prevede che i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, sicché – si sostiene con forza - Davigo continuerà a fare parte dell’attuale consiliatura fino al 2022 (epoca in cui cesserà per legge l’attuale consiliatura), nonostante il sopravvenuto suo pensionamento.
È un’opinione insostenibile, intanto sul piano sistematico. Il C.S.M. governa e (per tramite dell’apposita S.D.) tecnicamente giudica in sede disciplinare soltanto i magistrati in servizio. Infatti, il potere disciplinare presuppone il perdurante rapporto di servizio, cessato il quale (specialmente per raggiunti limiti di età, che operano automaticamente) si estingue il procedimento disciplinare dianzi avviato, in qualunque fase esso si trovi[1]. Tale essendo la ‘missione’ del Consiglio, il legislatore ha coerentemente disciplinato l’elettorato attivo e passivo, riservandoli per l’appunto soltanto ai magistrati ordinari in servizio. In particolare, ai sensi dell’art.14 della L. n. 195/ 1958, sono esclusi dall’elettorato attivo i magistrati sospesi dalle funzioni. Parimenti sono esclusi dall’elettorato passivo, i «magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime ai sensi...». Né è sufficiente l’esercizio delle funzioni giudiziarie soltanto al momento della nomina: infatti l’art. 37 della L. cit. predica la sospensione di diritto del magistrato componente del Consiglio se, dopo la nomina, egli sia stato sospeso dalle funzioni. Ovviamente in tal caso la sospensione perdura fino alla pronuncia di merito disciplinare che, se comporti una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, provocherà la decadenza e la conseguente sostituzione ai sensi dell’art. 39. Dunque a fortiori, se il componente togato del Consiglio cessa definitivamente dalle funzioni per raggiunti limiti d’età, si darà luogo non a sospensione, ma a immediata sostituzione.
L’interpretazione sistematica, così argomentata, è avallata e garantita da quella costituzionale.
Come risulta dalla stessa disposizione richiamata (art. 104, 4° Cost.), i magistrati in servizio hanno eletto alla controversa carica il dott. Davigo non come magistrato d’indubbie qualità personali e professionali, ma in quanto appartenente (anche) ad una specifica ‘categoria’: quella di magistrato esercente le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte, ch’egli al momento della nomina svolgeva. La disposizione costituzionale non si limita a stabilire la prevalenza numerica (e perciò decisionale) dei componenti togati (2/ 3) rispetto ai laici (1/ 3), giacché impone altresì che i primi siano eletti tra gli appartenenti alle specifiche categorie previste dall’ordinamento giudiziario; una della quali è per l’appunto quella dei magistrati che esercitano le funzioni di legittimità (presso la Suprema Corte o la Procura generale presso la Suprema Corte), come detta l’art. 23, 2° lett. a) della L. cit. Il rigoroso rispetto della ‘categorizzazione’ rende puntuale e articolato il principio di rappresentatività, cioè l’esigenza che il Consiglio, nella sua componente togata, costituisca l’espressione di gruppi di interessi professionali sufficientemente omogenei, in concreto individuati per legge nelle categorie dei magistrati, esercenti in concreto: le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte ovvero la P.G. (due seggi); le funzioni requirenti (quattro seggi); le funzioni di merito (dieci seggi). Il rigoroso rispetto di tale categorizzazione è stato sancito dalla Corte Costituzionale (sentenze nn. 12 del 1971, 87 del 1982 e 262 del 2003) e deve essere ovviamente permanente. I magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte o la P.G. devono potere contare sul fatto che i loro specifici interessi (e le pertinenti e vissute modalità del loro servizio) siano puntualmente rappresentati (anche) da due loro colleghi, che quelle funzioni in concreto e personalmente abbiano svolto e continueranno a svolgere dopo la cessazione del mandato (non immediatamente rinnovabile) al C.S.M. Niente è più rassicurante dal sapere che il decidente adotta un orientamento cui egli stesso potrà essere sottoposto; al contrario non è affidabile la rappresentanza di chi non sarà mai soggetto alle decisioni adottate. Con il collocamento a riposo, Davigo cesserà di rappresentare istituzionalmente quegli specifici interessi in rappresentanza dei quali è stato nominato al Consiglio. Uscito dall’ordine dei magistrati per raggiunti limiti di età, in iure egli rappresenterebbe soltanto sé stesso, ovvero (eventualmente) la corrente di cui fa parte all’interno dell’A.N.M.; mentre i magistrati esercenti funzioni di legittimità potranno contare giuridicamente soltanto sul contributo di esperienza del secondo (ed unico) consigliere a ciò preposto, registrando così una menomata rappresentanza. A questa situazione si può porre adeguato rimedio soltanto con la sostituzione del Davigo ai sensi dell’art. 39 L. cit.
Sulla base di queste osservazioni si può dare spazio alle prolepsi.
La prima. É indubbiamente vero che gli elettori (in grande numero) del dott. Davigo sapevano - o agevolmente potevano sapere – che nel corso della consiliatura, egli sarebbe uscito dall’ordine giudiziario. Sennonché, in primo luogo, le norme che regolano la composizione e le finalità del Consiglio non sono disponibili, neppure ad opera degli elettori; in secondo luogo ed in subordine, gli elettori che non hanno votato Davigo non possono essere comunque pregiudicati.
La seconda. É altresì vero che non esiste un divieto espresso che ab origine impedisca l’elezione di un componente destinato ad essere sostituito qualora esca dall’ordine dei magistrati nel corso della consiliatura. Ebbene, il divieto non sussiste, ma – come si è cercato di argomentare – vige invece la disposizione per cui – nel caso anzidetto – il consigliere togato ultrasettantenne deve essere sostituito; d’altronde, nessuno mette in dubbio la legittimità della funzione svolta in seno al Consiglio dal consigliere Davigo finché egli resti magistrato.
«Un diamante è per sempre»; un magistrato (anche con i meriti di Davigo) no!
[1] Cass, Sezioni Unite, sent. nn. 15878/ 2011, in motivazione: «Occorre altresì rilevare che la "cessazione del rapporto di servizio del magistrato" influisce sullo stesso esercizio del potere disciplinare tanto che l'intervenuta cessazione dell'appartenenza all'Ordine Giudiziario" determina - come correttamente dichiarato con l'ordinanza impugnata - l'estinzione del procedimento disciplinare anche innanzi al Consiglio Superiore della Magistratura per esserne venuto meno il presupposto del perdurante rapporto di servizio dell'incolpato (in tali sensi, tra le tante, ordinanze del CSM 8/2/2001 n. 23; 22/12/2010 n. 192; 18/11/2010 n. 168)».
In senso conforme S.U. sent. n. 16980/2019.
UNA DIVERSA OPINIONE.
Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M.
di Stefano Amore
Sommario: 1. Rispetto e dissenso - 2. Qualche considerazione di sistema e una precisazione sul ruolo del C.S.M. nell’ordinamento - 3. Il C.S.M. come organo di garanzia e la legge 24 marzo 1958, n. 195 - 4. Gli argomenti desunti dall’analisi del sistema di giustizia amministrativa - 5. L’aspetto disciplinare ed etico - 6. Conclusioni.
1. Rispetto e dissenso
Prendo spunto per questo contributo sull’“affaire Davigo” (l’espressione è volutamente ironica) dai molti interventi e articoli che si sono succeduti sul tema negli ultimi mesi.
Mi sembra opportuno evidenziare subito che trovo le considerazioni formulate sull’argomento degne tutte del massimo rispetto e, in ogni caso, utili a quella trasparenza e capacità di dialogo che dovrebbe animare, in ogni occasione, la magistratura.
Mi dolgo solo che il dibattito si sia aperto negli ultimi mesi e non già quando Davigo è stato candidato al C.S.M., come forse sarebbe stato più opportuno.
Che la problematica fosse già nota all’epoca in cui si sono tenute le elezioni è, infatti, indubbio, anche se credo che molti magistrati, non solo tra quelli che lo hanno votato, fossero convinti che l’assenza di una esplicita norma di decadenza avrebbe, comunque, assicurato la pienezza del mandato del collega.
Certamente, sarebbe impensabile invocare a sostegno della permanenza in Consiglio di Davigo, nonostante il collocamento a riposo, l’ampio successo elettorale conseguito. Mi permetto, anzi, di richiamare in proposito una considerazione di Luigi Ferrajoli: «la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto pre-esistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo. Di qui il suo carattere anti-maggioritario: nessun consenso di maggioranza può rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero» (1).
Nel caso in esame non siamo propriamente di fronte ad una ipotesi di giurisdizione, ma credo che le conclusioni di Ferrajoli possano trovare, comunque, brillante applicazione.
Da questo punto iniziano però le mie perplessità sulla ricostruzione del sistema normativo e sull’interpretazione che se ne è voluta dare in diversi contributi sul tema apparsi negli ultimi mesi (2).
2. Qualche considerazione di sistema e una precisazione sul ruolo del C.S.M. nell’ordinamento
Che la perdita dello status di magistrato in servizio sia ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle funzioni di componente del Consiglio Superiore è quanto sostiene il Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza n. 6051 del 16 novembre 2011, in cui il giudice amministrativo, esaminando il caso del Consigliere Borraccetti, imperniato sulla questione della natura del termine per esercitare l’opzione per il mantenimento in servizio dei magistrati sino al settantacinquesimo anno di età, formula alcune considerazioni in ordine ai presupposti che la legge contempla per il conseguimento della qualità di componente elettivo togato del C.S.M.
Il Consiglio di Stato, in quella pronuncia, sostiene, più precisamente, che «una lettura formalistica del già citato art. 24 della legge nr. 195 del 1958 o di altre disposizioni in materia appare decisamente insufficiente a illuminare sui principi e sulla ratio sottesi alla disciplina tutta in materia di autogoverno della magistratura. Se, infatti, per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano. In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare. Di conseguenza, del tutto legittima è una lettura dell’art. 39, l. nr. 195/1958 laddove prevede il subentro del primo dei non eletti in caso di cessazione dalla carica “per qualsiasi ragione”, ben potendo ricomprendersi in tale ampia formula anche l’ipotesi suindicata senza alcuna indebita estensione analogica di norme eccezionali e senza alcuna violazione de principi di rango costituzionale».
La ricostruzione sul ruolo e sulla natura del C.S.M. proposta dal Consiglio di Stato e le conclusioni che ne vengono tratte appaiono, come risulta chiaramente dal passaggio richiamato, profondamente influenzate dell’idea che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere qualificato come “organo di autogoverno” della magistratura, costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica.
Nella pronuncia appare, invece, sottovalutata o, comunque, non adeguatamente considerata la funzione di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura svolta dal C.S.M. e le conseguenze che da tale funzione si possono e si debbono trarre nell’interpretazione delle disposizioni della legge 24 marzo 1958 n. 195 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura) (3).
In un suo recente contributo, il Prof. Gaetano Silvestri, già componente laico del C.S.M. e, successivamente, Presidente della Corte costituzionale, ha evidenziato, esaminando la questione della classificazione del CSM nella dicotomia tra organo politico e organo di garanzia, che «la risposta maggioritaria in dottrina è, senza dubbio, per la seconda ipotesi» e che, nonostante ciò «nell’uso corrente, il Consiglio è qualificato “organo di autogoverno” e addirittura vi è stato un congresso dell’Associazione nazionale magistrati (1996) intitolato «Governo della giustizia e autogoverno della magistratura». Si potrebbe dire: due equivoci messi insieme fanno un grave errore. Chi può pretendere di “governare” la giustizia? Il Governo? Certamente no, poiché il Ministro del settore non si occupa della giustizia tout court, ma, più limitatamente, dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.), mentre il CSM non governa né la giustizia né i magistrati, ma espleta soltanto quelle funzioni che Alessandro Pizzorusso ha felicemente denominato di “amministrazione della giurisdizione”, sottratte al Ministro per garantire l’indipendenza esterna dei magistrati e non per sostituirsi a quest’ultimo in una inammissibile pretesa di direzione dall’alto.» (4).
Al di là delle opinioni di dottrina, non può poi essere dimenticato che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 142 del 1973, aveva già escluso, in modo inequivoco, che il Consiglio Superiore della Magistratura potesse essere ritenuto organo di rappresentanza, in senso tecnico, dell’ordine giudiziario.
«Né può affermarsi, come si assume, che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario, di guisa che, attraverso di esso, se ne realizzi immediatamente il cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliersi piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica): con la conseguenza che, esercitando il potere autorizzativo in questione, esso verrebbe ad agire in luogo, per conto ed in nome dell'ordine giudiziario medesimo. La composizione mista dell'organo, solo in parte - anche se prevalente - formato mediante elezione da parte dei magistrati, e per altra parte, invece, da membri eletti dal Parlamento (tra i quali dev'essere scelto il Vicepresidente), oltre che da membri di diritto, tra cui il Capo dello Stato, che lo presiede, si oppone chiaramente ad una simile raffigurazione.
Al più - e questa stessa definizione, com'é noto, é controversa in dottrina - potrebbe parlarsi di organo a composizione parzialmente rappresentativa; ma é certo comunque, ed é argomento decisivo, che la presenza nel Consiglio di membri non tratti dall'ordine giudiziario e la particolare disciplina costituzionalmente dettata quanto alla presidenza di esso rispondono all'esigenza (che fu avvertita dai costituenti) di evitare che l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato. Sono stati predisposti, perciò, accorgimenti idonei ad attuarne e mantenerne una costante saldatura con l'apparato unitario dello Stato, pur senza intaccarne le proclamate e garantite autonomia e indipendenza.»
In altri termini, in ragione della stessa conformazione del potere giudiziario come potere diffuso, sembra potersi concludere che il C.S.M. non rappresenta l’organo di «vertice» del potere giudiziario, né il suo organo rappresentativo in senso proprio, pur non potendosi negare, evidentemente, che la componente togata sia rappresentativa dei magistrati che la eleggono, ma rappresentativa non già in un organo politico, ma in un organo con funzioni di garanzia.
3. Il C.S.M. come organo di garanzia e la legge 24 marzo 1958, n. 195
La ricostruzione della natura e del ruolo che il C.S.M. svolge nell’ordinamento non consente, naturalmente, di dedurre automaticamente la soluzione della questione che stiamo affrontando. Ma, certamente può orientare, in funzione degli aspetti che vengano accentuati, l’interpretazione delle disposizioni in tema di elettorato passivo e di decadenza contenute nella legge 24 marzo 1958, n. 195.
Come è noto i requisiti di elettorato passivo dei componenti togati del CSM possono essere ricavati, a contrario, dall’art. 24 della detta legge che stabilisce che non sono eleggibili:
a) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime ai sensi degli articoli 30 e 31 del citato regio decreto legislativo n. 511 del 1946, e successive modificazioni;
b) gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica;
c) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subìto sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare;
d) i magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni;
e) i magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
Il requisito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie è, certamente, indispensabile, ai sensi di legge, per la sussistenza dell’elettorato passivo del magistrato, ma manca una disposizione che stabilisca, esplicitamente, la necessità della sua permanenza ai fini del mantenimento della carica.
Inoltre, va considerato che il secondo comma dell'art. 30 del d.P.R. 916 del 1958, contenente disposizioni di attuazione e coordinamento della legge 195 del 1958, che nella sua versione originaria prevedeva che i componenti del C.S.M. eletti tra i magistrati continuassero ad esercitare le funzioni giudiziarie per tutta la durata della carica, è stato sostituito dall’art. 8 della legge n. 1 del 1981 che ha introdotto la diversa previsione, tutt’ora vigente, secondo cui «i magistrati componenti elettivi sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura».
Previsione che attenua sensibilmente il collegamento tra carica elettiva ed esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie, richiedendolo solo al momento delle elezioni.
Il legislatore mantiene il silenzio sulla questione che stiamo esaminando anche nell’art. 37 della detta legge n. 195 del 1958, in cui individua le ipotesi di sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio, stabilendo, in particolare, nel quarto comma, che i componenti (sia laici che togati) del CSM «decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo” e, nel quinto comma, che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
Il carattere “scontato” dell’indispensabilità dello status di magistrato in servizio ai fini del mantenimento dell’incarico di componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura costituirebbe, secondo quanto sostenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 6051 del 16 novembre 2011, la ragione del silenzio della legge in materia.
Ad avviso del giudice amministrativo, il legislatore avrebbe ritenuto che non fosse necessaria una esplicita disposizione normativa per disciplinare il caso, in quanto la perdita dello status di magistrato in servizio (che rappresenta, come già rilevato, un requisito dell’elettorato passivo dei magistrati) comporterebbe senz’altro “il venir meno del presupposto della partecipazione all’autogoverno” e, quindi, la decadenza dall’incarico.
L’inversione dei termini del ragionamento interpretativo e la petizione di principio mi sembra evidente. Nel caso di specie non si tratta, infatti, di estendere la portata precettiva di una disposizione normativa ad un caso che solo apparentemente ne sembra escluso, quanto piuttosto di integrare le sue previsioni con una regola aggiuntiva, che viene però dedotta dal Consiglio di Stato in maniera sostanzialmente apodittica.
A conforto di tale conclusione basterebbe osservare che il Consiglio di Stato non spiega in alcun modo per quali ragioni il silenzio del legislatore non potrebbe, invece, essere interpretato secondo il tradizionale criterio per cui “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” (certo non basta affermare che questa sia una interpretazione formalistica del dato normativo).
D’altra parte, nel caso in esame, appare discutibile lo stesso, eventuale, ricorso al procedimento di interpretazione analogica.
L’articolo 12, comma 2, delle disposizioni preliminari al codice civile ne prevede, infatti, l’applicazione ai soli casi in cui una controversia non possa essere decisa con una specifica disposizione, consentendo in tale caso l’applicabilità di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Ovvero, se il caso rimane ancora dubbio, facendo ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Il ricorso all’interpretazione analogica rappresenta, in altri termini, una extrema ratio a cui è possibile ricorrere soltanto quando sussista una lacuna normativa. Concludere diversamente comporterebbe, infatti, il generalizzato ricorso all’analogia in ogni caso in cui manchi una disposizione normativa espressa, con il risultato di trasformare surrettiziamente in lacune normative quelle che, invece, rappresentano precise scelte legislative.
In altri termini, il ricorso all’interpretazione analogica non sembrerebbe praticabile, non solo nei casi indicati dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, ma anche quando ad una disposizione normativa si voglia attribuire un significato più ampio di quello che se ne può dedurre in forza della interpretazione letterale, al solo fine di ampliarne l’ambito di operatività, ovvero in tutti quei casi in cui il legislatore non abbia dettato una disciplina espressa proprio nell’intento di escluderla.
Nel caso in esame, quindi, l’ostacolo ad una eventuale interpretazione analogica non sarebbe rappresentato soltanto dalla stessa natura delle previsioni contenute nell’art. 24 della legge n. 195 del 24 marzo 1958 che individuano le cause di ineleggibilità al C.S.M. (secondo un costante insegnamento giurisprudenziale e dottrinario le norme limitative del diritto di elettorato passivo, così come tutte quelle riguardanti la materia elettorale, sono di stretta interpretazione), ma dall’assenza stessa, in senso proprio, di una lacuna normativa, risultando dubbio che tale possa considerarsi la circostanza che il legislatore, con riferimento ai componenti togati del C.S.M., non abbia previsto esplicitamente l’ipotesi del collocamento a riposo del magistrato come causa di decadenza o di ineleggibilità sopravvenuta dall’incarico.
Che la scelta legislativa non sia frutto di dimenticanza, ma di una precisa intenzione, appare, d’altra parte, confermato da quanto invece previsto dal comma 4 dell’art. 7 della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali) che, con riferimento al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, stabiliva espressamente che «i membri eletti che nel corso del triennio perdono i requisiti di eleggibilità o cessano per qualsiasi causa dal servizio oppure passano dal Consiglio di Stato ai tribunali amministrativi regionali o viceversa, sono sostituiti, per il restante periodo, dai magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale che seguono gli eletti per il numero dei suffragi ottenuti».
Forse è discutibile, e va stigmatizzato, che il legislatore non abbia avvertito la necessità di regolare in modo inequivocabile la materia, stabilendo o negando esplicitamente la decadenza dall’incarico di componente del C.S.M. nell’ipotesi di collocamento a riposo del magistrato, ma, alla luce delle disposizioni stabilite per il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, e considerato il rilievo che assumono le regole elettorali e di funzionamento del C.S.M., il silenzio del legislatore in materia di collocamento in quiescenza del magistrato ordinario nominato componente del Consiglio Superiore sembra da intendere come frutto di una precisa scelta. Peraltro, anche nel caso in cui si ritenga che nel caso in esame ricorre effettivamente una lacuna normativa, è evidente che decidere come colmarla appartiene alla discrezionalità del giudice o, in questo caso, almeno in prima battuta, del C.S.M., che potrebbe evidentemente valorizzare, in un senso o nell’altro, il silenzio del legislatore (5).
In altri termini, e con il massimo rispetto per le opposte valutazioni, non mi sembra proprio che alla questione che stiamo esaminando si possano fornire risposte obbligate o soluzioni che possano definirsi scontate.
4. Gli argomenti desunti dall’analisi del sistema di giustizia amministrativa
Nel parere reso il 7 marzo 2007 dall’Adunanza del Consiglio di Stato, Sezione Prima, sul quesito riguardante la possibilità o meno per un magistrato della Corte dei Conti eletto nel Consiglio di Presidenza di rimanere nell’organo elettivo dopo il suo collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di altro incarico sembra, pure, essere stata sostenuta la tesi che la cessazione del rapporto di servizio determini, immancabilmente, il venir meno della rappresentatività necessaria per l’espletamento delle funzioni di componente dell’organo elettivo.
Al di là della evidente diversità esistente tra un magistrato della Corte dei Conti eletto nel Consiglio di Presidenza e un componente togato eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura, è opportuno evidenziare che il menzionato parere del Consiglio di Stato risulta essere stato formulato in un contesto normativo in cui, come già rilevato, il legislatore si era preoccupato di stabilire, chiaramente ed inequivocabilmente, all’articolo 7, comma 4, della legge 27 aprile 1982, n. 186, che «i membri eletti che nel corso del triennio perdono i requisiti di eleggibilità o cessano per qualsiasi causa dal servizio oppure passano dal Consiglio di Stato ai tribunali amministrativi regionali o viceversa, sono sostituiti, per il restante periodo, dai magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale che seguono gli eletti per il numero dei suffragi ottenuti».
Tale disposizione, relativa al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, era infatti specificamente richiamata dall’art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (poi modificato dall'art. 18 della legge 21 luglio 2000, n. 205), istitutiva del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, che modellava quel Consiglio sul paradigma del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa.
Successivamente l’art. 18, comma 1, della legge 21 luglio 2000, n. 205 ha modificato il testo dell’art. 7 della legge 27 aprile 1982, n. 186, ma solo per elevare a quattro anni il termine di durata del mandato dei componenti del Consiglio di Presidenza.
In altri termini, nell’ambito del sistema di giustizia amministrativa e contabile, una specifica disposizione legislativa stabiliva espressamente che la perdita dei requisiti di eleggibilità o la cessazione per qualsiasi causa dal servizio determinasse il venir meno del mandato elettivo nel Consiglio di Presidenza. Regola che, invece, con riferimento al Consiglio Superiore della Magistratura, nonostante le numerose riforme del sistema elettorale susseguitesi nel tempo, non è mai stata introdotta.
Il Consiglio di Stato può, quindi, giustamente affermare che «la rappresentatività deve permanere per tutto il mandato” e che “l’elettorato passivo, dopo l’elezione, si traduce in un diritto alla permanenza nella carica elettiva che - a pena di decadenza - rimane condizionato al non sopravvenire di fatti che privino il soggetto dell'attitudine rappresentativa a suo tempo necessaria per l'elezione» proprio alla luce di questo diverso ed esplicito contesto normativo.
Contesto normativo che, peraltro, nonostante l’intervenuta abrogazione dell'art. 7, quarto comma, della legge n. 186 del 1982 ad opera dell'art. 1 del Decreto legislativo 7 febbraio 2006, n. 62 (successivamente dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18 del 2018, per violazione dell’art. 76 Cost., sia nella parte in cui, modificando l’art. 9, terzo comma, della legge n. 186 del 1982, prevedeva che dovessero essere indette le elezioni suppletive per la sostituzione del componente togato del CPGA cessato anzitempo dal mandato, sia nella parte in cui disponeva l’abrogazione del richiamato comma 4 dell’art. 7 della legge n. 186 del 1982) non sarebbe, ad avviso del Consiglio di Stato, sostanzialmente mutato, in quanto la «norma abrogante (art. 1 d.lgs. n. 62 del 2006) ha regolato la fattispecie mediante il nuovo art. 9, terzo comma, per il quale "in caso di dimissioni o di cessazione di uno o più membri elettivi dall'incarico per qualsiasi causa nel corso del quadriennio, sono indette elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale per designare, per il restante periodo, il sostituto del membro decaduto o dimessosi». E « il fatto che non sia più testualmente presente la previsione della sorte elettiva di quanti "perdono i requisiti di eleggibilità" nulla significa, giacché il contrario proverebbe troppo: a guardare alla lettera, nemmeno è riprodotta, ad esempio, la fattispecie delle dimissioni o dalla cessazione dal servizio; eppure per un criterio di logica generale che è anche di logica giuridica (e che afferma che accessorium sequitur principale) non si può dubitare che persistano come cause di cessazione dal mandato rappresentativo» (6).
Avrebbe potuto il Consiglio di Stato formulare queste medesime considerazioni se la normativa non avesse regolato esplicitamente l’ipotesi del sopravvenuto venir meno dei requisiti di eleggibilità dei componenti del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa? Io credo di no. O, comunque, le opzioni ermeneutiche possibili non avrebbero certamente avuto esiti obbligati o scontati.
Dopo aver sottolineato il dato testuale che «l’effettivo esercizio delle funzioni d’istituto costituisce un requisito di eleggibilità al Consiglio di presidenza, non essendo eleggibili i magistrati che, al momento della indizione delle elezioni, non esercitano funzioni istituzionali» (art. 8, primo comma, l. n. 186 del 1982), il Consiglio di Stato afferma che tale impedimento della capacità elettorale passiva si fonda sulla considerazione che, per la funzione di (parziale) autoamministrazione, «l’eleggibilità richiede nell’eletto una rappresentatività del corpo sociale che sia effettiva ed attuale». La causa di ineleggibilità – prosegue il parere – non è perciò soltanto genetica ma funzionale, destinata cioè ad operare sub specie di decadenza anche se sopravviene nel corso del mandato al Consiglio di presidenza.
In altri termini, «la rappresentatività deve permanere per tutto il mandato, giacché la stessa ragione di presunta riduzione di capacità rappresentativa può intervenire ad operare in un momento sopravvenuto qualsiasi del mandato stesso. Perciò il fatto che automaticamente ed implicitamente la dichiara (il collocamento fuori ruolo in corso di mandato) realizza una vera e propria condizione risolutiva del mandato medesimo. In altri termini, dal punto di vista dell’eletto l’elettorato passivo, dopo l’elezione, si traduce in un diritto alla permanenza nella carica elettiva che – a pena di decadenza - rimane condizionato al non sopravvenire di fatti che privino il soggetto dell’attitudine rappresentativa a suo tempo necessaria per l’elezione: questo avviene in caso di cessazione del rapporto di servizio, ma anche nel caso di sopravvenuto non esercizio delle funzioni d’istituto e dunque del collocamento fuori ruolo che sopravvenga durante munere».
Come è evidente, nel ragionamento svolto dal Consiglio di Stato si ritiene indiscutibile che la rappresentatività necessaria per l’espletamento delle funzioni di componente del Consiglio di Presidenza sia totalmente elisa dalla cessazione del rapporto di servizio. Ma a fondamento di questi ragionamenti e delle relative conclusioni vi era e vi è un quadro normativo esplicito, ben diverso da quello che caratterizza il Consiglio Superiore della Magistratura.
Naturalmente nulla vieta di ritenere applicabile al Consiglio Superiore, nel silenzio del legislatore, una regola fissata dalla legge con riferimento al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa. Ma l’opzione ermeneutica non sembra convincente, anche in considerazione della diversa natura dei due organi.
In proposito voglio ricordare alcune considerazioni, fatte nel libro “Alla ricerca dello Stato di diritto” dal Prof. Andrea Orsi Battaglini sul sistema di giustizia amministrativa: «cosa dovrebbe ritenersi di una ipotetica legge che affidasse al Governo la nomina del primo Presidente della Corte di Cassazione e di un quarto dei suoi componenti? … Quanti accetterebbero che per la giurisdizione ordinaria si applicassero norme di questo genere?» (7).
E’ noto che il sistema di garanzie previsto per la magistratura ordinaria dall’art. 104 Cost. non è riprodotto dall’art. 108 Cost. per la magistratura amministrativa e che, quindi, l’applicazione di una regola dettata dal legislatore con riferimento al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa non può trovare senz’altro applicazione in relazione al Consiglio Superiore della Magistratura.
5. L’aspetto disciplinare ed etico
Un altro aspetto che è stato considerato negli interventi pubblicati sul tema è quello disciplinare ed etico.
L’argomento utilizzato per sostenere la tesi della cessazione del mandato consiliare è che il componente togato del Consiglio superiore collocato in quiescenza sarebbe sottratto al sistema disciplinare, non essendo più esercitabile nei suoi confronti alcuna azione disciplinare e non potendo trovare applicazione, nel suo caso, neppure la norma secondo cui «i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento» (art. 37, comma 4, legge n. 195 del 1958 e succ. modif.).
Nonostante ciò, si è rilevato, evidenziando una apparente aporia del sistema, quello stesso componente del Consiglio Superiore continuerebbe ad esercitare la funzione di giudice disciplinare nei confronti dei magistrati ancora in servizio.
Non solo. Nei confronti di tale magistrato, ormai pensionato, non potrebbe neppure essere fatta valere alcuna violazione del codice etico dell’A.N.M., né essere disposta, evidentemente, alcuna sanzione disciplinare.
Gli argomenti addotti sono, indubbiamente, estremamente suggestivi, ma sembrano frutto di una inversione dei termini della ricostruzione del sistema.
Una volta, infatti, che si sia escluso che la cessazione dal servizio per collocamento a riposo faccia venir meno il mandato del Consigliere, è evidente che questo non potrebbe trovarsi in una situazione in cui i suoi poteri e il suo ruolo sono dimezzati.
A fronte dell’ibrido paventato da alcuni del “magistrato, metà pensionato e metà consigliere” (8) starebbe, infatti, “il Consigliere dimezzato”, una figura, se possibile e se vogliamo dar sfogo alla nostra fantasia e alle nostre reminiscenze letterarie, ancora più paradossale.
Sembrano, poi, possibili ulteriori considerazioni.
Il pensionato, almeno quello appena collocato in quiescenza, non è, infatti, un extraneus alla magistratura se non dal punto di vista formale. Nella sostanza è un individuo che ha trascorso la sua esistenza nella magistratura e che dei valori e dei doveri connessi alla posizione di magistrato ha (o dovrebbe avere) piena consapevolezza. Il fatto che abbia raggiunto l’età di pensionamento non lo priva della sua esperienza, della sua conoscenza e dei valori a cui ha improntato la sua attività.
E’ opportuno evidenziare, inoltre, anche un altro aspetto.
A prescindere dalla circostanza che numerosi magistrati non sono iscritti all’A.N.M. (magistrati che potrebbero essere, evidentemente, comunque candidati ed eletti al C.S.M.), le dimissioni dall’A.N.M. (così come il collocamento a riposo) troncano attualmente, senz’altro, il giudizio disciplinare, sulla base di una regola che appare quanto meno discutibile.
Considerato il rilievo dei valori in gioco, sarebbe miglior partito prevedere, quanto meno nei casi più gravi, che possa continuare ad essere coltivata l’azione disciplinare, nonostante l’intervenuta estinzione del rapporto associativo.
In questo senso, d’altronde”, sia pure mutatis mutandis, abbiamo già un modello nel pubblico impiego privatizzato, per cui la Cassazione, in numerose sentenze, ha stabilito che “la cessazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato non estingue il procedimento disciplinare già avviato quando l’infrazione commessa dal lavoratore preveda la sanzione del licenziamento o, nelle more del procedimento stesso, sia stata disposta la sospensione cautelare”.
La stessa Cassazione civ. Sez. Unite Sent. 08/07/2019, n. 18264 ha evidenziato anche come «la cessazione dal servizio per collocamento a riposo del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare non (omissis…..) determina il venir meno dell'interesse dell'Amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, atteso che gli effetti prodotti dal provvedimento di sospensione cautelare di natura provvisoria non possono "cristallizzarsi" in conseguenza della cessazione dal servizio avvenuta nel corso del procedimento penale, tenuto altresì conto del principio di buon andamento all'Amministrazione della giustizia, in virtù del quale persiste l'interesse a una pronuncia sul merito in considerazione non solo dell’elevato onere finanziario cui sarebbe esposta la stessa amministrazione in caso di una pronuncia di improcedibilità che comporterebbe la ricostruzione economica e giuridica della carriera del magistrato incolpato, ma anche dell'interesse a tutelare l'immagine ed il prestigio della Magistratura».
Resta il fatto che un componente del Consiglio Superiore che mantenesse l’incarico, pur essendo stato collocato in quiescenza, non potrebbe sicuramente essere sottoposto a procedimento disciplinare per fatti successivi al suo pensionamento e che nei suoi confronti non troverebbe applicazione neppure la norma secondo cui «i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento» (art. 37, comma 4, legge n. 195 del 1958 e succ. modif.).
Unico rimedio a questa situazione, evidentemente, un intervento legislativo che colmi la lacuna del sistema disciplinare. Ma, lo ribadisco, da una carenza di regolamentazione del sistema, non possiamo ricavare l’impossibilità giuridica del suo presupposto. Almeno, questa è la mia opinione.
Un’ultima considerazione.
Come ben sappiamo, l’età pensionabile dei magistrati può essere modificata dal legislatore ordinario in modo estemporaneo.
Supponiamo che la cd. legge Orlando (il decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114) che ha abbassato da 75 a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, venga adottata oggi. Immaginiamo un “ritorno al passato” o (lo scrivo ironicamente) un “ritorno al futuro”, con un ulteriore abbassamento dell’età pensionabile.
Non solo verrebbero liberati, all’improvviso, centinaia di posti direttivi e semi-direttivi (come è già accaduto), ma gli eventuali Consiglieri togati che dovessero compiere l’età di pensionamento in corso di mandato, si potrebbero trovare, all’improvviso, privati dell’incarico. E’ questo che vogliamo?
Naturalmente, si tratta di un paradosso e non di un ragionamento giuridico. Ma anche i paradossi hanno una loro verità. In un caso del genere, si potrebbe obiettare, l’applicazione della legge non potrebbe che essere graduale e la nuova regola dovrebbe essere applicata solo ai componenti togati del C.S.M. eletti successivamente all’entrata in vigore della legge.
Le considerazioni di buon senso però, come noto, rischiano sovente di rimanere nel limbo delle buone intenzioni. Come risulta chiaramente anche da quanto riferito, nel corso di un’intervista (9), dallo stesso ex Ministro della Giustizia Orlando che ha ricordato come, nonostante il suo parere favorevole, non si volle prevedere all’epoca una gradualità nell’applicazione della nuova normativa che stabiliva l’abbassamento dell’età di pensionamento.
In conclusione, e qui torniamo agli argomenti iniziali incentrati sulla natura di organo di garanzia del Consiglio Superiore della Magistratura, pur non potendosi negare che la componente togata sia rappresentativa dei magistrati che la eleggono, mi sembra che non solo puntuali ragioni giuridiche, ma anche ragioni di opportunità, militino senz’altro a favore di una interpretazione che salvaguardi, non tanto l’incarico del singolo, quanto la stessa funzione del Consiglio Superiore.
6. Conclusioni
Ragionare sulla decadenza o meno di Davigo dal mandato al C.S.M. non significa dimenticare o voler accantonare i grandi problemi della giustizia e la profonda crisi culturale ed etica della magistratura.
Credo, anzi, che queste riflessioni costituiscano una buona occasione per fare alcune considerazioni ulteriori.
Ritenere che la giustizia continuerà a costituire, anche per il futuro, quanto meno metaforicamente, il “primo requisito delle istituzioni sociali” (secondo la nota definizione di Rawls) non significa ignorare i problemi che l’avvento di una società tecnocratica, fondata sul populismo e sulla comunicazione di massa, pone rispetto alla sua nozione tradizionale.
Alcune di queste difficoltà sono già ben note in Italia e derivano soprattutto dalla tendenza dei mass media a fornire una rappresentazione estremamente semplificata della realtà, imponendo, secondo una felice espressione coniata qualche tempo fa da Umberto Eco, “simboli e miti dalla facile universalità”.
Questa “semplificazione”, già pericolosa di per sé considerando l’estrema complessità della gran parte delle vicende che sono alla base dei procedimenti giudiziari, viene poi ulteriormente aggravata dall’evidente incapacità dei media di rappresentare i fatti giudiziari in un’ottica e con un lessico che non sia quello mutuato dallo scontro politico.
La vivacità delle “tribune politiche” degli anni settanta, animate dalle grandi contrapposizioni ideologiche rivive, così, oggi nei dibattiti televisivi in cui si discute di giustizia. Viene addirittura il dubbio che questa tendenza degli organi di informazione integri gli estremi di un vero e proprio fenomeno di acculturazione, di riduzione cioè dei valori generali e delle culture particolari al modello di una cultura (se così possiamo chiamarla) unica.
Non è un paradosso e quello che è accaduto e sta accadendo lo dimostra senza tema di errore.
In “Idee essenziali per una nuova Costituzione”, Simone Weil scriveva: “I giudici devono ricevere una formazione spirituale, intellettuale, storica, sociale, ben più che giuridica” (10).
Forse è giunto il momento di accogliere, finalmente, questi auspici e di ripensare radicalmente il sistema di accesso in magistratura e la stessa formazione universitaria e culturale dei magistrati.
Stefano Amore, magistrato, assistente di studio presso la Corte costituzionale.
(1) “Contro la giurisprudenza creativa” di Luigi Ferrajoli, p. 25, Questione Giustizia, n. 4 del 2016, numero monografico dedicato a “Il giudice e la legge”
(2) Tra gli altri, “L’esercizio delle funzioni giudiziarie requisito per la permanenza nella carica di Consigliere togato” di Rinaldo Romanelli e Giorgio Varano, pubblicato sulla rivista dell’Unione delle Camere penali dirittodidifesa.eu e “Sta per nascere al CSM un caso Davigo?” di Nello Rossi, pubblicato su Questione Giustizia del 31 luglio 2020.
(3) definiscono il C.S.M. organo di garanzia costituzionale Bonifacio-Giacobbe, Commento all'art. 104 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1986, p. 46.
(4) “Princìpi costituzionali e sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura” di Gaetano Silvestri, su Sistema Penale, rivista giuridica online.
(5) così Francesco Galgano, “La globalizzazione nello specchio del diritto”, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 150: «lo stabilire quale sia la norma di legge da applicare al caso di specie, quale sia l’interpretazione da dare alla norma e, soprattutto, il decidere come colmare le lacune della legge, che sempre più spesso tace di fonte agli incessanti mutamenti della realtà, sono valutazioni largamente discrezionali, tali da conferire all’autorità giudiziaria, anche nei sistemi di civil law, una grande latitudine di potere, ben lontana dalla visione illuministica della legge e della sua interpretazione giudiziaria».
(6) Comma abrogato dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. 7 febbraio 2006, n. 62 (Gazz. Uff. 3 marzo 2006, n. 52), a decorrere dal novantesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2 dello stesso decreto. Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza 5 dicembre 2017-30 gennaio 2018, n. 10 (Gazz. Uff. 7 febbraio 2018, n. 6 - Prima serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del suddetto comma 2, nella parte in cui ha modificato l'art. 9, terzo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, prevedendo che «[I]n caso di dimissioni o di cessazione di uno o più membri elettivi dall'incarico per qualsiasi causa nel corso del quadriennio, sono indette elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale per designare, per il restante periodo, il sostituto del membro decaduto o dimessosi», e nella parte in cui ha disposto l'abrogazione del comma 4 dell'art. 7 della legge n. 186 del 1982.
(7) Andrea Orsi Battaglini, “Alla ricerca dello Stato di diritto”, Milano, 2005.
(8) In questo senso Nello Rossi in “Sta per nascere al CSM un caso Davigo?”, pubblicato su Questione Giustizia del 31 luglio 2020.
(9) “Nello scontro tra correnti della magistratura ci finisce anche il Pd”, di David Allegranti, su il Foglio del 7 giugno 2019.
(10) Simone Weil, “Idee essenziali per una nuova Costituzione”, in Una costituente per l'Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi editore, 2013.
Principali indirizzi della Procura generale presso la Corte di cassazione sulla risoluzione dei contrasti tra pubblici ministeri
La Procura generale presso la Corte di Cassazione ha recentemente pubblicato sul proprio sito istituzionale i principali indirizzi sulla soluzione delle tipologie più ricorrenti ed attuali di contrasti di competenza tra pubblici ministeri (si rinvia a questo link). Il documento ha la funzione di orientare i sostituti Procuratori dell’intero territorio nazionale circa l’opportunità di sollevare un contrasto, in base alla presumibile opinione di chi dovrà deciderne l’esito. Pubblichiamo di seguito una breve presentazione di Pasquale Fimiani, coordinatore del lavoro di redazione ed aggiornamento svolto dai magistrati addetti al settore.
Presentazione di Pasquale Fimiani
La soluzione dei contrasti negativi e positivi tra pubblici ministeri, ai sensi degli artt. 54 e 54-bis c.p.p., quando sia in discussione la competenza tra diversi distretti di Corte di appello è affidata ad uno specifico settore della Procura generale presso la Corte di Cassazione la cui organizzazione è stata tradizionalmente abbinata a quella relativa alla trattazione dei reclami avverso i provvedimenti di avocazione delle indagini preliminari disposti dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o dal Procuratore generale presso la Corte di appello.
L’efficienza dell’intervento in tale settore si misura non soltanto con la tempestività della decisione, ma anche con la capacità di prevenire contrasti su questioni, di carattere sostanziale e procedimentale, già risolte dall’Ufficio, in quanto istanze scarsamente motivate, prive di adeguata istruttoria o di confronto con la giurisprudenza e/o gli orientamenti della Procura generale finiscono per appesantire inutilmente il sistema rallentando inutilmente il corso delle indagini (va ricordato che i termini di prescrizione non sono sospesi in pendenza della decisione sul contrasto).
La duplice funzione - decisoria e preventiva - dell’intervento del Procuratore generale della Cassazione nella materia ha portato nel 2020 ad un’ampia rivisitazione degli orientamenti in materia di contrasti (emanati a partire dal 2014 e risalenti nell’ultima versione al febbraio 2018), con la creazione di un assetto organizzativo incentrato sulla messa a punto di un sistema di aggiornamento costante, grazie al contributo di tutti i magistrati facenti parte del gruppo di lavoro (si rinvia al documento per l’indicazione dei partecipanti) e sulla pubblicazione immediata sul sito internet dell’Ufficio della versione di volta in volta aggiornata
L’attuale versione è la prima ad essere pubblicata con tali modalità (si rinvia a questo link) e, grazie a tale nuova modalità di diffusione, potrà essere aggiornata con cadenze più brevi, in modo da poter dare immediatamente conto di novità giurisprudenziali ed interpretative.
Il documento contiene i principali orientamenti della Procura generale della Cassazione relativi alle tipologie di contrasto maggiormente ricorrenti, ordinati secondo un indice ipertestuale, tendenzialmente coerenti con la giurisprudenza di legittimità; ha la funzione di orientare i sostituti Procuratori dell’intero territorio nazionale circa l’opportunità di sollevare un contrasto, in base alla presumibile opinione di chi dovrà deciderne l’esito.
L’iniziativa si integra con il trend evolutivo delle attività di attuazione dell’art. 6, che, dalla fine del 2019, sono state impostate su un più stretto e costante collegamento con gli Uffici territoriali, andando oltre il tradizionale incontro annuale e valorizzando il ricorso a metodi di confronto più agili nella discussione delle varie questioni.
In tale contesto è stata avviata la costituzione di gruppi di lavoro su questioni di particolare importanza, aperti alla partecipazione volontaria dei colleghi, con funzioni sia di supporto delle attività di attuazione dell’art. 6, sia di approfondimento di tematiche di carattere trasversale, rilevanti per la materia civile e l’eventuale proposizione del ricorso nell’interesse della legge di cui all’art. 363 c.p.c. (soluzione operativa inaugurata con la costituzione del gruppo di lavoro sul ruolo del pubblico ministero nella crisi di impresa).
Questa duplice prospettiva di lavoro ha caratterizzato anche la fase acuta dell’emergenza da Covid-19.
In questo periodo, infatti, le attività di attuazione dell’articolo 6 hanno richiesto plurime interlocuzioni con gli Uffici, agevolate dall’uso dell’applicativo Teams, sulle varie problematiche emerse durante la fase emergenziale, le quali, grazie anche al positivo apporto dei gruppi di studio istituiti sui vari temi all’interno dell’Ufficio (estesi alla partecipazione dei Procuratori generali e, per i gruppi crisi di impresa e responsabilità sanitaria, ad alcuni Procuratori di Tribunale, nonché a rappresentanti istituzionali ed esperti della materia), hanno consentito l’elaborazione di orientamenti e linee guida su diversi temi (si rinvia, per il testo degli orientamenti, al sito internet dell’Ufficio, sezione Orientamenti per gli Uffici di Procura).
Trattasi di una prassi già positivamente sperimentata che potrà applicarsi anche alla materia dei contrasti qualora si dovessero presentare questioni di particolare importanza e di rilievo generale (come è avvenuto nel 2019 quando uno dei temi del tradizionale incontro annuale con i Procuratori generali fu quello della individuazione del pubblico ministero competente a promuovere il procedimento di conversione delle pene pecuniarie non pagate, cui fece seguito l’emanazione di orientamenti consultabili nella predetta sezione dedicata del sito dell’Ufficio).
Il Codex Incertus
Simplicius Incertus o Incerto – come ormai tutti gli studiosi riconoscono [1] – è stato il più grande retore e giurista dell’antichità. Le sue eccezionali doti di sapienza, intuizione ed equilibrio e la sua straordinaria abilità di oratore, su qualsivoglia argomento, furono evidenti fin dalla nascita (fu infatti immediatamente battezzato “fante”: qui fari potest, soprannome col quale divenne popolarissimo tra le Milizie) e tutti a lui si rivolgevano per risolvere qualsiasi genere di contrasto.
Ebbe vita lunghissima, tenuto conto dell’epoca.
Recenti studi hanno infatti dimostrato, in modo incontrovertibile, che Incerto il Giovane e Incerto il Vecchio furono in realtà la stessa persona ([2]). A differenza di quanto avvenuto per altri grandi dell’antichità [3], “Giovane” e “Vecchio” furono utilizzati per indicare non diverse persone, ma fasi diverse di una stessa vita. E siccome nell’antichità la vecchiaia iniziava intorno ai trent’anni, fino a quella soglia Incerto venne detto il Giovane, dopo venne denominato il Vecchio.
Egli fu perfettamente consapevole di essere il Giovane fino ad una certa età, e il Vecchio dopo.
Si narra, infatti, che l’imperatore Sesto Moscato Giubilo [4], ansioso di passare alla storia, gli chiese di raccogliere in un testo da diffondere in tutto l’impero le leggi fondamentali di Roma, comprendenti lo jus gentium. Allora, Incerto aveva poco più di vent’anni, ma la sua fama già aveva travalicato i confini delle Province anche più remote.
«Sono davvero onorato per la tua richiesta, imperatore» rispose Incerto «ma tu stai facendo una richiesta al Giovane; e forse soltanto il Vecchio, tenuto conto della complessità del lavoro che mi assegni, potrà soddisfarla».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Dì al Giovane di parlarne col Vecchio» replicò «e vedete un poco, tutti e due, cosa potrete fare per accontentarmi».
Incerto il Giovane si mise al lavoro, certo che Incerto il Vecchio gliene sarebbe stato grato.
Ma, dopo una prima ricognizione delle numerose fonti, Incerto chiese all’imperatore:
«Nobile Moscato, le leggi di Roma possono consentire o possono vietare. A seconda di come imposterò la raccolta, potrà dirsi che è vietato tutto ciò che non è consentito, ovvero che è consentito tutto ciò che non è vietato».
L’imperatore convenne con tale rilievo. Dopo averci pensato un poco, disse:
«Incerto, ci devo riflettere ben bene. Se consento, diranno di me che sarò stato un imperatore liberale o, peggio, permissivo. Se vieto, diranno di me che ho preferito essere un cieco repressore. A me non importa cosa raccontino di me questi quattro buzzurri [5] dei miei contemporanei, però voglio che i posteri non abbiano a criticarmi. Mi occorre quindi un parere illuminato. Per la prima volta nella mia vita, ho paura di sbagliare. Mi rimetto alla tua ben nota saggezza».
Incerto rispose:
«Grande Moscato. Una sola persona potrà consigliarti al meglio. Questa persona è Incerto il Vecchio».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Allora tu portati avanti col lavoro» disse «e quando verrà il tempo giusto, lo chiederò al Grande Incerto».
Quando Incerto ebbe compiuto il trentesimo anno, l’imperatore lo mandò a chiamare.
«Grande Incerto. Dimmi se debbo raccogliere leggi che consentono, o leggi che vietano. Non mi importa cosa diranno di me i contemporanei, che non stimo punto, ma voglio essere un esempio per la posterità».
«Imperatore» rispose Incerto il Vecchio «tu solo sei Grande, e lo sei sempre stato. Io ormai sono soltanto un Vecchio, e ti confesso di esserlo diventato proprio riflettendo attorno al quesìto che tu hai posto al Giovane Incerto. Sono giunto, dopo tanti anni, alla conclusione che non è tanto importante il segno delle tue leggi, quanto il loro numero e il loro oggetto. Se vieterai tante cose ne consentirai meno, e viceversa. Se ne consentirai poche ne avrai vietate tante, e viceversa. Qualsiasi soluzione ti espone al severo giudizio dei posteri. Se è quello che ti preme, devi assolutamente fare in modo di sottrarti ad un simile giudizio. Quando non puoi controllarlo, lo devi eliminare: il giudizio è invero l’arma più temibile dell’uomo. E quello dei posteri, te lo dico per esperienza, è il giudizio più impietoso, perché in genere non tiene conto delle contingenze nelle quali il caso ti ha costretto a operare».
L’imperatore, turbato, si ritirò nella sua residenza, per pensarci un po’ su.
Dopo qualche mese, mandò a chiamare Incerto il Vecchio.
«Incerto» disse l’imperatore «tu sei il più grande giurista della nostra storia. Il caso ha voluto che le nostre vite si incrociassero. Scusa se te lo dico apertamente, ma io vorrei trarre da questo fortunato incrocio il massimo di utile per me. Siccome la sola cosa che mi interessa è essere ricordato dalla posterità come il miglior imperatore di Roma, dimmi tu quale raccolta dovrò mettere in cantiere. Posso abrogare o approvare qualsiasi legge, non mi interessa a vantaggio o a detrimento di chi. Non mi interessa quale fenomeno si dovrà regolare con nuove leggi. Non mi interessa sapere di quante leggi abbiamo bisogno per realizzare il nostro disegno. La sola cosa che mi interessa è che la storia parli bene di me»
Incerto il Vecchio si avvicinò.
«Grande Moscato» disse «c’è una sola soluzione: devi fare in modo che le tue leggi non si capiscano. Più la legge è complessa, oscura, contraddittoria, maggiore sarà la responsabilità degli interpreti. Se la legge è fatta bene, dal tuo punto di vista (che è il solo che conta), essa potrà essere, al tempo stesso, permissiva e repressiva. Il risultato finale non dipenderà dalla legge, e quindi non sarà dipeso da te. Tu potrai sempre dire: questa interpretazione restrittiva non rispetta lo spirito e la lettera della legge, e viceversa. Se ti tieni l’ultima parola nessuno potrà giudicarti, e tu potrai sempre prevalere sulla legge. Ricordati, non esiste una legge buona o una legge cattiva: ne esistono soltanto buone o cattive interpretazioni e applicazioni. E tu, per non essere giudicato dall’interprete, devi porti al di sopra della legge e soprattutto al di sopra di chi, quella stessa legge, è chiamato ad interpretarla».
L’imperatore guardò il suo interlocutore con un velo di sospetto.
«Perché ti chiamano Incerto, Vecchio?».
«Non lo so, Grande Moscato; avevo lo stesso nome sin da Giovane; e del resto nessuno mi ha mai chiamato Simplicius, che è poi il mio primo nome, o Fante, che è il mio soprannome».
«Bene» disse l’imperatore dopo una breve riflessione «Giovane o Vecchio che tu sia, mi hai semplicemente convinto, Fante. Ti dò mandato di scrivere un intero codice di leggi che non si capiscono, e quando avrai terminato abrogherò tutte le leggi anteriori, perché solo il Codex Incertus dovrà avere applicazione, in tutto l’impero. Esso sarà la mia definitiva consacrazione. Il monumento delle leggi incomprensibili che onorerà per sempre la mia gloria. A te l’onore di coniarle».
Fu così che Incerto il Vecchio si mise al lavoro.
Ma era già molto avanti con gli anni, e ad un certo punto si accorse che non avrebbe mai avuto il tempo né le forze di completare la sua poderosa raccolta di astruserie.
Si presentò quindi dall’imperatore.
«Grande e Nobile Moscato, di protetta appellazione. Sono diventato troppo Vecchio. Improvvisamente. Temo che non riuscirò a completare il Codex Incertus. Ti chiedo di perdonarmi. Ho deluso le tue aspettative. Se aspetti me, stai fresco».
«Non preoccuparti, troppo Vecchio. Tu sei un grande giurista, il più grande che l’umanità avrà mai avuto. La tua mente è superiore a ogni altra: ciò che tu giudichi comprensibile, per altri è perfettamente incomprensibile, e viceversa. Ma hai commesso il più classico degli errori in cui incorre la mente superiore: giudicare gli altri sul tuo metro, senza tener conto che quelli sono ben diversi e ben peggiori di te. Mentre riflettevi, anch’io nel mio piccolo ho riflettuto. Io non ho la tua testa, ma proprio per questo posso vedere cose che tu non vedi. E sono giunto alla seguente conclusione: per i buzzurri che sono intorno a noi qualsiasi legge è incomprensibile. Il problema non è nelle leggi. Il Codex non serve, è già nella testa e nella coscienza di chi ci circonda. Mi limiterò ad alimentare stupidità ed ignoranza. Io, in ogni caso, avrò vinto la mia battaglia».
Incerto il Vecchio sorrise.
Guardò il suo interlocutore con ammirazione, sollevato, sapendo di essersi liberato di un compito molto difficile.
Sesto Moscato Giubilo gli rivolse uno sguardo annoiato.
Incerto si inchinò davanti all’imperatore e s’incamminò con passo veloce per la strada dei secoli, la stessa che porta sino a noi.
[1] Vedi, per tutti ed anche per citazioni, O. Ignazio Picone, Perdutamenti. Grandi e perdute menti del passato, Napoli, 2010, pag. 170.
[2] Il primo ad avanzare la rivoluzionaria ipotesi fu, com’è noto, Aristarco di Plotina, in Annales, IV, 2, De Illustribus, pag. 702.
[3] Il caso più noto è quello di Plinio; il Vecchio, infatti, altri non era che Gaio Plinio Secondo, morto tra le esalazioni sulfuree del Vesuvio il 25 agosto del 79 d.C., mentre il Giovane, nipote del primo, rispondeva al nome di Gaio Plinio Cecilio (anch’egli) Secondo, e del primo divenne il figlio adottivo dopo la morte di entrambi i genitori. Forse per distinguerlo dallo zio sarebbe stato sufficiente chiamarlo Cecilio, ma sembra che entrambi preferissero chiamarsi Plinio.
È nota la lite giudiziaria che contrappose i due Plinii quanto all’appellativo di Secondo, che in partenza spettava a entrambi; dopo la sentenza, emessa dal senatore Pellegrino Stanziale, esso non spettò più a nessuno dei due, perché il Giovane non riuscì a dimostrare l’esistenza di un Plinio Primo, mentre il Vecchio, che non voleva essere Secondo a nessuno, ma casomai Terzo, rifiutò l’appellativo di Primo e scelse di chiamarsi soltanto Plinio.
[4] Noto per essere stato, oltre che gran bevitore, il primo compilatore ufficiale dei mores romani. Le malelingue del tempo spiegavano il suo nome con l’effervescenza di cui l’imperatore era regolare vittima dopo aver bevuto sei coppe di vino dei Castelli.
[5] Il termine “buzzurro”, secondo le fonti ufficiali, avrebbe origine più tarda, designando coloro che, nell’evo medio, calavano dalle regioni settentrionali a Roma per vendere polenta e caldarroste, oltre che per pulire i camini delle case patrizie. Ma, sul punto, la testimonianza dello storico Aristarco non può mettersi in discussione: egli attesta infatti che l’imperatore era solito rivolgere ai suoi concittadini i termini di “buzzurro” ovvero di “ciafruijone”, dal significato esattamente corrispondente.
L’imparzialità del “maestro” nei concorsi universitari e la comunità scientifica (nota a Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2020 n. 5610).
di Alessandro Cioffi.
Il caso è molto particolare: in un concorso interno per la chiamata di professore ordinario (art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010), il membro designato dal dipartimento è il “maestro” delle due concorrenti, entrambe sue allieve. In un caso come questo, afferma il Consiglio di Stato, occorre evitare che un membro della commissione sia così vicino alle parti e bisogna attingere ad altri professori del settore scientifico-disciplinare.
In particolare, il Consiglio di Stato considera che oggi la comunità scientifica è molto più estesa che in passato: prima – si legge nella motivazione della sentenza - la comunità scientifica di un certo settore disciplinare aveva “carattere ristretto” e questo giustificava la “deroga alle norme di astensione che presiedono a qualsiasi procedura concorsuale”; oggi invece, dice la sentenza, vi è una “ampia diffusione numerica sul territorio”. Quindi, “il giudice della legittimità deve poter valutare se quel carattere di ristrettezza degli appartenenti al determinato settore scientifico in questione sussista ancora”. Rileva la sentenza che sono “145 i professori ordinari” di quel settore scientifico, secondo il sito del ministero, consultato nel momento del passaggio in decisione dell’appello. Secondo la sentenza, in conclusione: “questo numero” - 145 ordinari del settore- “non può più giustificare quella deroga” e quindi il professore in questione aveva “l’obbligo di astenersi”, in quanto “Maestro” di entrambi i concorrenti. Dunque la Sezione accoglie il ricorso e annulla tutti gli atti successivi al bando.
Il caso solleva molte domande: quando una comunità scientifica può dirsi ristretta e quando può dirsi estesa? Cosa si intende per “maestro”? E infine: è l’estensione di una comunità che segna la distanza e garantisce l’imparzialità?
Più semplicemente, nel concreto, la regola pratica che la sentenza offre è estratta da un caso che riguarda una fattispecie molto particolare, quasi unica: il maestro di due concorrenti, membro interno, in una procedura riservata. Ed è vero, sempre nel concreto, che un particolare in più viene dalle circostanze del fatto stesso – vi era stata una segnalazione preventiva all’ANAC e l’Autorità aveva risposto che in effetti vi è il “sospetto che la valutazione della candidata non sia stata oggettiva e genuina”; ed è, questo, un rilievo che la motivazione della sentenza coglie e menziona, citando il passo della delibera ANAC, nel momento della decisione. Infine, si deve osservare che nel caso di specie non esiste una norma ad hoc. E’ quindi naturale che il Consiglio di Stato abbia dato un segnale. Per questi caratteri del caso, sembra che la sentenza porga la soluzione di un caso raro e particolare, ma non la dettatura di un principio.
Quanto al principio, è bene ricordarne la formulazione classica, nella massima corrente elaborata dalla giurisprudenza: il rapporto maestro-allievo non altera di per sé l’imparzialità del concorso, perché l’interesse che può violare l’imparzialità è solo quello finanziario ed economico, fonte di rapporti patrimoniali e professionali[1].
Questa massima tradizionale, va precisato, è resa sul terreno degli interessi e sembra dire che la vicinanza scientifica non è un interesse pericoloso. Non dovrebbe alterare l’imparzialità di chi giudica, almeno in teoria. Nella sua realtà effettuale, però, questo caso così particolare fa intravedere qualcosa di più. Considerando la comunità di un settore scientifico, la relazione maestro allievo può essere pericolosa per l’imparzialità; così, quando la comunità scientifica è estesa, la relazione si può e di deve evitare, scegliendo un membro diverso.
Se questa è la regola pratica che è estraibile dalla sentenza, il sottinteso può essere questo: è l’estensione della comunità scientifica, ovvero la distanza, che garantisce l’imparzialità.
E’, questa, una visione che porge una questione più ampia, che supera l’imparzialità e riguarda la scienza stessa. E’ destinata ad altre sedi e qui si possono anticipare solo alcuni cenni. Siamo davanti ad una valutazione che riguarda la “scienza come professione”, ovvero la morale di una comunità scientifica, la sua latitudine e l’effettività dei rapporti che si intessono nello scientiam facere. Quindi nei concorsi. Da qui sorge un interrogativo di fondo: la scienza ha ancora un’etica della responsabilità?
E nel caso specifico: questa responsabilità si soddisfa con l’astensione del “maestro” o, invece, può entrare in una sfera di vicinanza, la valutazione dell’allievo, conservando quel carattere disinteressato che è proprio della scienza?
E infine: la regolazione giuridica di questa responsabilità dovrebbe essere materia dell’autonomia universitaria (art. 33 Cost. e codice di autoregolazione) o materia della legge?
Dovrebbe assumere la forma della responsabilità scientifica o quella del dovere giuridico?
Nel vuoto attuale, il Consiglio di Stato ha dettato la regola del caso concreto, aprendo la discussione al riguardo.
* * *
[1] Cons. Stato, Sez. V, n. 4782/2011; T.A.R. Lazio n. 6945/2013; Cons. Stato., sez. VI, n. 3366/2014; Cons. Stato, sez. VI, n. 4105/2017.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.