ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’uso off-label dell’idrossiclorochina per il trattamento del COVID-19 (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, ord.za 11 dicembre 2020, n. 7097) di Giordana Strazza
Sommario: 1. Premessa - 2. L’uso off-label dei farmaci- 3. Le novità sulla sperimentazione dei medicinali introdotte per l’emergenza COVID-19 - 4. L’uso off-label dell’idrossiclorochina per il trattamento del COVID-19; 5. L’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato; 6. Osservazioni a prima lettura - 7. Conclusioni.
1. Premessa
La pandemia, dovuta alla progressiva diffusione del COVID-19[1], ha posto la comunità scientifica di fronte all’esigenza impellente di individuare terapie farmacologiche sperimentali, per tentare di arginare le conseguenze (non solo sanitarie) causate dal nuovo virus.
Nelle more del vaccino contro il COVID-19[2], infatti, la sperimentazione di farmaci[3] già in commercio per il trattamento di altre malattie ha ricoperto (almeno in potenza) un ruolo-chiave per limitare gli effetti del virus.
Le incertezze scientifiche sull’utilizzo sperimentale di terapie farmacologiche – in particolare, dell’idrossiclorochina[4]– per il trattamento del COVID-19 hanno avuto, però, rilevanti ripercussioni anche sul piano giuridico.
La parabola sull’uso dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19 ha innescato, infatti, un “braccio di ferro” tra l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA)[5] e il Consiglio di Stato, al punto tale da riportare in auge il tema “classico” del sindacato sulla discrezionalità tecnica.
L’AIFA – che fa parte del sistema normativo europeo per i medicinali, costruito sul modello a rete, che coinvolge le autorità di regolazione nazionali dello Spazio economico europeo, l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) e la Commissione europea – svolge, infatti, un ruolo centrale in termini di farmacovigilanza, di sperimentazione e di ricerca medicinale, oltre che di informazione pubblica[6], sulla base dei dati forniti dalla scienza di settore.
2. L’uso off-label dei farmaci
Come evidenziato, per contrastare la pandemia dovuta al COVID-19, sono state riposte grandi speranze sull’uso off-label di alcuni medicinali, ossia sull’impiego nella pratica clinica di farmaci già registrati, ma utilizzati in maniera non conforme (per patologia, popolazione o posologia)[7] da quanto previsto dall’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC)[8].
Il ricorso ai farmaci off-label riguarda, dunque, molecole ampiamente note che, però, sulla base di nuove evidenze scientifiche, possono essere usate, in modo razionale, anche in situazioni cliniche non previste nella scheda tecnica e nel foglietto illustrativo.
L’esigenza è, quindi, quella di bilanciare le opportunità di cura e i progressi nella conoscenza e nella terapia di alcune patologie offerti dalle prescrizioni “fuori indicazione” (artt. 9 e 33 Cost.) e la necessità di preservare i pazienti da rischi per la loro salute (art. 32 Cost.).
In Italia, l’impiego di farmaci “fuori dal bugiardino” [9] è sottoposto a una disciplina piuttosto articolata e disorganica.
Nel nostro ordinamento, nel tentativo di realizzare il bilanciamento di interessi sopra accennato, il d.l. 21 ottobre 1996, n. 536 (recante “Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996”), convertito nella legge 23 dicembre 1996, n. 648, ha ammesso, a certe condizioni, la possibilità di prescrivere e di utilizzare farmaci al di fuori delle indicazione terapeutiche approvate[10].
L’art. 1, comma 4, della legge appena citata ha stabilito, infatti, che – in assenza di valida alternativa terapeutica[11] – sono erogabili a totale carico del Sistema sanitario nazionale (SSN), i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati, ma non sul territorio nazionale (un-licensed use); quelli non ancora autorizzati, ma sottoposti a sperimentazione clinica (compassionate use); quelli da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata (off-label use), purché inseriti in un apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione tecnico-scientifica dell’AIFA, in conformità alle procedure e ai criteri a suo tempo adottati dalla Commissione unica del farmaco (CUF) [12].
Secondo tale disciplina, dunque, il medico che prescrive un farmaco inserito nella c.d. lista 648 deve rispettare le condizioni ivi indicate, con dichiarazione di assunzione di responsabilità del trattamento, previa acquisizione del consenso informato dal paziente.
L’excursus normativo sulle prescrizioni off label include anche l’art. 3 del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito dalla legge 8 aprile 1998, n. 94 (“legge Di Bella”)[13] ai sensi del quale, di regola, nel prescrivere un farmaco, il medico deve attenersi “alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall'autorizzazione all'immissione in commercio” riferibile allo stesso medicinale.
L’art. 3, comma 2, della stessa legge ha individuato, però, un’eccezione a tale regola generale, circoscritta nei seguenti termini: “in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare il medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’art. 1, comma 4, del D.L. 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla Legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quell’indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”[14].
Ad ogni modo, l’art. 3 comma 4, della legge appena citata ha precisato che tale possibilità non costituisce riconoscimento del diritto del paziente all’erogazione dei medicinali a carico del SSN, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dall’art. 1, comma 4, della l. n. 648/1996[15].
A ciò si aggiunga che il d.m. 8 maggio 2003, sull’ “Uso terapeutico di medicinali in sperimentazione clinica”, ha regolamentato il c.d. “uso compassionevole” dei farmaci, per consentire (entro determinati limiti) l’accesso a terapie farmacologiche sperimentali ai pazienti privi di alternative terapeutiche, con oneri a carico delle imprese produttrici.
Il decreto sopra indicato ha previsto, infatti, che un medicinale sottoposto a sperimentazione clinica in Italia o all’estero possa essere richiesto all’impresa produttrice per l’uso al di fuori della sperimentazione clinica “qualora non esista valida alternativa terapeutica al trattamento di patologie gravi o di malattie rare o di condizioni di malattia che pongono il paziente in pericolo di vita”.
Secondo tale d.m, l’autorizzazione all’uso è rilasciata solo alle condizioni seguenti: il medicinale sia oggetto, per la medesima indicazione terapeutica, di studi clinici, in corso o conclusi, di fase terza[16] o, in caso di condizioni di malattia che pongono il paziente in pericolo di vita, di fase seconda, già conclusi; i dati disponibili sulle sperimentazioni siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sull’efficacia e sulla tollerabilità del medicinale (ferma l’approvazione del protocollo terapeutico da parte del Comitato Etico nel cui ambito ha avuto origine la richiesta e la notifica al Ministero della salute, i cui uffici possono formulare un eventuale giudizio sospensivo della procedura o dell’uso).
Nella realtà ospedaliera, però, l’utilizzo dei farmaci fuori indicazione spesso non era relegato al rango dell’eccezionalità, ma assumeva la portata di una vera e propria “prassi quotidiana”[17].
Per ovviare a tale impiego improprio dell’off-label è intervenuto l’art. 1, comma 796, lett. z), delle legge 27 dicembre 2006, n. 296 (c.d. legge Finanziaria del 2007).
Tale norma ha disposto, infatti, che la fattispecie prevista dall’art. 3, comma 2, della c.d. legge Di Bella “non sia applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a carico del SSN, che, nell’ambito dei presidi ospedalieri o di altre strutture e interventi sanitari, assuma carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di autorizzazione all’immissione in commercio, quale alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione al trattamento”.
La ratio di tale disposizione consiste, infatti, nel prevenire l’abuso di farmaci impiegati off-label, così da evitare l’utilizzo indiscriminato di medicinali senza adeguata verifica di indicazioni terapeutiche da parte delle Agenzie regolatorie.
A distanza di un anno, l’art. 2, comma 348, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (c.d. legge Finanziaria 2008) ha previsto, inoltre, che ogni somministrazione off-label da parte del medico curante richieda “almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda”, “introducendo così un elemento di oggettività riconoscibile secondo criteri scientifici certi e riconosciuti”[18].
Il successivo comma 349 ha soggiunto anche che, ai fini delle decisioni sui farmaci off-label, la Commissione tecnico-scientifica dell'AIFA valuta, “oltre i profili di sicurezza, la presumibile efficacia del medicinale, sulla base dei dati disponibili delle sperimentazioni cliniche già concluse, almeno di fase seconda”.
Il 2 dicembre 2017 è poi entrato in vigore il nuovo decreto ministeriale sulla “Disciplina l'uso terapeutico di un medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”, che ha abrogato il citato d.m. 8 maggio 2003, sugli usi compassionevoli, e ha previsto nuove norme al riguardo, in conformità dell’art. 158, co. 10, d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219[19](“Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonchè della direttiva 2003/94/CE”).
3. Le novità sulla sperimentazione dei medicinali introdotte per l’emergenza COVID-19
Per l’esigenza di fronteggiare l’emergenza sanitaria dovuta al SARS-CoV-2, l’art. 17 (“Disposizioni urgenti materia di sperimentazione dei medicinali e dispositivi medici per l’emergenza epidemiologica da Covid-19”) del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (“Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”), come convertito nella legge 24 aprile 2020, n. 27, ha introdotto delle novità sulla sperimentazione dei farmaci per pazienti che hanno contratto il nuovo virus[20].
Tale norma ha stabilito, infatti, che “Limitatamente al periodo dello stato di emergenza, […] ferme restando le disposizioni vigenti in materia di sperimentazione clinica dei medicinali e dei dispositivi medici, al fine di migliorare la capacità di coordinamento e di analisi delle evidenze scientifiche disponibili, è affidata ad Aifa, la possibilità di accedere a tutti i dati degli studi sperimentali e degli usi compassionevoli”.
Al contempo, la disciplina emergenziale, ha istituto un Comitato etico unico centrale, a livello nazionale, in capo a quello già afferente Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani (IRCCS), per valutare le sperimentazioni farmaceutiche intraprese nelle aziende ospedaliere italiane e instaurare un dialogo con l’Agenzia italiana del farmaco.
Nell’ambito dell’emergenza epidemiologica, dunque, sono state apportate delle deroghe (temporanee) a quanto previsto dal d.lgs. 6 novembre 2007, n. 200 (recante “Principi e linee guida dettagliate per la buona pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali”)[21], finalizzate a una semplificazione e centralizzazione della procedura, e all’AIFA è stato affidato un ruolo-chiave nel controllo (preventivo)[22] sulle sperimentazioni cliniche sui medicinali per pazienti con COVID-19[23].
L’Autorità ha tentato, quindi, di far fronte all’emergenza sanitaria con procedure straordinarie e semplificate per la presentazione e l’approvazione delle sperimentazioni e per la definizione delle modalità di adesione agli studi e di acquisizione dei dati[24].
Al contempo, l’Agenzia italiana del farmaco ha costituito un’apposita unità di crisi, impegnata – tra l’altro – sui farmaci in uso "off label"[25].
4. L’uso off-label dell’idrossiclorochina per il trattamento del COVID-19
In un primo momento, con nota del 17 marzo 2020, l’AIFA ha comunicato che la sua Commissione Tecnico Scientifica aveva espresso parere favorevole in merito, tra l’altro, all’inserimento a carico del SSN (in deroga alla l. n. 648/1996[26]) dell’uso off-label dell’idrossiclorochina per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2[27].
Due settimane dopo, l’Agenzia ha pubblicato una nota informativa, in cui sono indicate le informazioni di sicurezza e le principali interazione farmacologiche dell’idrossiclorochina[28].
In quell’occasione, l’AIFA ha evidenziato la comparsa di casi di cardiotossicità e ha raccomandato, prima della prescrizione, di prestare attenzione, con particolare riferimento ai soggetti con disturbi della conduzione cardiaca, con favismo o in presenza di altre terapie concomitanti.
Nello stesso giorno, l’Agenzia europea per i medicinali ha comunicato che “al momento e sulla base dei dati preliminari presentati” “nessun farmaco ha ancora dimostrato la sua efficacia nel trattamento del COVID-19” e ha soggiunto che tra i potenziali trattamenti per il COVID-19, sottoposti a sperimentazione clinica per valutare la sicurezza ed efficacia contro la malattia, era incluso l’utilizzo dell’idorossiclorochina[29].
Pochi giorni dopo, l’Agenzia europea ha sottolineato che la clorochina e l’idrossiclorochina devono essere utilizzati solo negli studi clinici o nei programmi di utilizzo in emergenza per il trattamento del COVID-19[30]. Si legge, infatti, che i due medicinali “sono oggetto di studio in tutto il mondo in quanto potenzialmente in grado di curare la malattia da coronavirus (COVID-19). Tuttavia, l'efficacia nel trattamento del COVID19 non è ancora stata dimostrata negli studi”. Per di più, entrambi i medicinali “possono avere effetti indesiderati gravi, soprattutto a dosi elevate o in associazione ad altri farmaci.
Nel frattempo, l’Agenzia italiana del farmaco ha autorizzato una serie di sperimentazione cliniche per valutare l’efficacia dell’idrossiclorochina, rispetto allo standard di cura, per il trattamento domiciliare di pazienti con un quadro clinico lieve di COVID-19 e in isolamento domiciliare[31].
Il 23 aprile, l’Agenzia europea per i medicinali ha richiamato nuovamente l’attenzione sul rischio di gravi effetti indesiderati con clorochina e idrossiclorochina impiegati nel contesto della pandemia in corso per il trattamento di pazienti con COVID-19[32].
Qualche giorno dopo, ossia il 29 aprile 2020, l’AIFA ha aggiornato la scheda sull’utilizzo di idrossiclorochina per la terapia dei pazienti affetti da COVID-19[33], con una revisione critica delle ultime evidenze di letteratura e con le prove di efficacia e sicurezza disponibili al momento, fornendo ai clinici elementi utili a orientare la prescrizione e a definire un rapporto fra i benefici e i rischi sul singolo paziente.
Il 26 maggio 2020, dato che “nuove evidenze cliniche relative all’utilizzo di idrossiclorochina nei soggetti con infezione da SARS-CoV-2 (seppur derivanti da studi osservazionali o da trial clinici di qualità metodologica non elevata) indicano un aumento di rischio per reazioni avverse a fronte di benefici scarsi o assenti … in attesa di ottenere prove più solide dagli studi clinici in corso in Italia e in altri Paesi (con particolare riferimento a quelli randomizzati)”, l’AIFA ha sospeso l’autorizzazione all’utilizzo di idrossiclorochina per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2, “al di fuori degli studi clinici, sia in ambito ospedaliero che in ambito domiciliare. Tale utilizzo viene conseguentemente escluso dalla rimborsabilità”[34].
Il 29 maggio, con apposita scheda, l’AIFA ha indicato le motivazioni alla base della decisione di sospendere l’autorizzazione all’utilizzo di idrossiclorochina (e di clorochina) per il trattamento del COVID-19 al di fuori degli studi clinici[35].
Lo stesso giorno l’EMA ha ribadito i rischi (principalmente cardiaci e neuropsichiatrici) connessi all’uso del farmaco nei pazienti COVID-19, per come emersi da studi osservazionali, e ha evidenziato che, “alla luce dei dati emergenti, alcuni paesi dell'UE hanno sospeso o interrotto le sperimentazioni cliniche”[36].
Nel comunicato, si legge, inoltre, che “Per alcune sperimentazioni, tra cui il grande studio multinazionale Solidaritydell’OMS, è stato sospeso l’arruolamento dei pazienti nei bracci che prevedono l’impiego di questi medicinali[37]. La revisione preliminare di Recovery, uno studio in corso di grandi dimensioni sui pazienti con COVID-19, non ha individuato motivi per sospendere o interrompere la sperimentazione”[38].
Le sospensioni sono state adottate, peraltro, dopo la pubblicazione di uno studio sulla prestigiosa rivista “The Lancet”, poi ritirato, che ha evidenziato l’(in)efficacia e i rischi del farmaco per il trattamento del COVID-19[39].
“Alla luce delle attuali evidenze di letteratura”, il 22 luglio 2020, l’AIFA ha confermato “la sospensione dell’autorizzazione all’utilizzo off-label dell’idrossiclorochina al di fuori degli studi clinici”[40].
Ne è sorta una querelle nella stessa comunità scientifica-medica, prima ancora che in ambito giuridico.
A coloro che hanno affermato l’inefficacia dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19[41] si sono contrapposti i sostenitori dell’impiego del farmaco (tendenzialmente nella fase precoce di sintomatologia)[42] al punto che la rivista Panorama ha lanciato una petizione (che ha ormai superato le quindicimila firme) per chiedere all'Agenzia italiana del farmaco di “ripristinare l'uso dell'idrossiclorochina”.
5. L’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato
A seguito del ricorso proposto da un gruppo di medici avverso la citata sospensione dell’AIFA, la “parabola” sull’uso dell’idrossiclorochina per il trattamento dei pazienti con COVID-19 è proseguita dinanzi al giudice amministrativo.
Con l’(approfondita) ordinanza 11 dicembre 2020, n. 7097, la terza Sezione del Consiglio di Stato ha accolto l’appello cautelare proposto dai ricorrenti[43] e ha sospeso la nota (del 22 luglio) dell’Autorità italiana del farmaco[44].
Secondo il Collegio, innanzitutto, a differenza di quanto sostenuto nella memoria dell’AIFA, l’atto impugnato non si limita a sospendere l’autorizzazione all’utilizzo off-label del farmaco al di fuori degli studi clinici randomizzati controllati (e ad escluderne la rimborsabilità a carico del SSN), ma limita la libertà prescrittiva del medico, vietando l’utilizzo dell’idrossiclorochina[45].
Il Consiglio di Stato ha soggiunto che la c.d. riserva di scienza dell’AIFA non la sottrae al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica, basato sulla conoscenza piena del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Amministrazione.
Pur riconoscendo il “delicato compito” affidato alla citata Autorità e pur non potendo “decretare l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina nel contrasto al SARS-CoV-2 in una fase iniziale della malattia, proprio per i limiti connaturati al suo sindacato giurisdizionale”, il Consiglio di Stato ha affermato “il dovere di rilevare che la perdurante incertezza circa la sua efficacia terapeutica, ammessa dalla stessa AIFA a giustificazione dell’ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati, non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti in base ad una conclusione – la totale definitiva inefficacia del farmaco sotto ogni aspetto, anche immunomodulatorio – che, allo stato delle conoscenze e della ricerche tuttora parziali e provvisorie, sembra radicale e prematura già a livello scientifico”.
Secondo il Collegio, dunque, “La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico, con l’ovvio consenso informato del singolo paziente, e non ad una astratta affermazione di principio, in nome di un modello scientifico puro, declinato da AIFA con un aprioristico e generalizzato, ancorché temporaneo, divieto di utilizzo”.
6. Osservazioni a prima lettura
La premessa di fondo su cui si snoda l’ordinanza cautelare, secondo cui la c.d. riserva di scienza non sottrae l’atto di un’autorità amministrativa al sindacato del giudice amministrativo, è – in linea teorica – assodata e inconfutabile, in virtù di quanto sancito dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., oltre che dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.e. e dagli artt. 6, par. 1, 7 e 13 della CEDU[46].
In concreto, però, è estremamente sottile e labile la linea di confine del (consentito – rectius dovuto – e costituzionalmente sancito) controllo giurisdizionale di legittimità degli atti che, secondo quanto evidenziato dallo stesso Collegio, sono esercizio di discrezionalità tecnica[47].
Come noto, quest’ultima espressione – considerata “elegante ossimoro”[48] – concerne le valutazioni compiute dalla pubblica Amministrazione quando l’esame dei fatti implica il ricorso a cognizioni tecniche e scientifiche di carattere specialistico, che non appartengono al diritto e che non conducono a un risultato univoco.
I giudizi formulati sulla base di regole tecniche/scientifiche inesatte sono connotati, infatti, dall’opinabilità, tenuta tradizionalmente distinta dall’opportunità[49]: la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa o “pura”, non dovrebbe implicare una scelta (di merito), ma per l’appunto, un giudizio[50].
Posta tale distinzione, grazie all’opera della giurisprudenza amministrativa[51], e alle novità introdotte per effetto della l. 2000, n. 205, che ha previsto, tra l’altro, la consulenza tecnica nel processo amministrativo[52], il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche non si è arrestato al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’Autorità amministrativa[53].
Al contrario, il controllo del giudice sui giudizi tecnici si è concretizzato “nella verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza, quanto a criterio tecnico e procedimento applicativo”[54], tramite l’uso delle regole e delle conoscenze tecniche appartenenti alla scienza specialistica applicata dalla p.A.
Acclarata la natura “intrinseca” del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, sono emersi dubbi sulla sua intensità.
Sul punto, è sorta la dicotomia tra sindacato “debole”, ossia che non consente al giudice di sovrapporre (e, dunque, di sostituire) la propria valutazione tecnica opinabile a quella (altrettanto opinabile) della p.A.[55], e sindacato “forte”, che ammette la prevalenza del giudizio tecnico sviluppato nel processo su quello dell’Autorità amministrativa[56].
Almeno in apparenza, la giurisprudenza amministrativa ha superato questa contrapposizione con l’affermazione secondo cui il g.a., “al di là dell'ormai sclerotizzata antinomia sindacato forte/sindacato debole, deve attestarsi sulla linea di un controllo che, senza ingerirsi nelle scelte discrezionali della Pubblica autorità, assicuri la legalità sostanziale del suo agire, per la sua intrinseca coerenza anche e soprattutto in materie connotate da un elevato tecnicismo”[57].
Nell’ambito delle sanzioni antitrust (sia pure in una fattispecie[58] che intercettava il tema dei farmaci off-label), l’evoluzione del controllo giurisdizionale sulle valutazioni tecniche è giunta all’avvicendamento del sindacato di “attendibilità” con quello di “maggiore attendibilità”[59].
Ad oggi, però, permangono margini di incertezza sulla consistenza del controllo della discrezionalità tecnica rimesso al giudice amministrativo.
Premesso che questo tipo di discrezionalità è accompagnato, di frequente, da aggettivazioni – come “elevata”[60], “ampia”[61], “massima”[62] – occorre evidenziare che, non di rado, la portata del sindacato del g.a. si declina diversamente non solo in riferimento a settori-poteri differenti[63] (e, dunque, con una modulazione, per certi aspetti, fisiologica) ma – talvolta – anche nello stesso ambito-potere.
Ai fini che qui rilevano, di recente, proprio con riguardo alle valutazioni AIFA, l’autorità giurisdizionale aveva affermato che il controllo giudiziario deve attestarsi sui vizi di “manifesta” erroneità o di “evidente” illogicità del giudizio, ossia sulla “palese” inattendibilità[64].
Nella fattispecie sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato, quest’ultimo ha enunciato (testualmente) che il sindacato effettuato consiste in un controllo “intrinseco”, di “credibilità razionale”, di “attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti”, per “verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica”.
In concreto, la pronuncia sulla nota sospensiva si colloca proprio al limite della “soglia” di sindacato indicata dallo stesso Collegio.
L’ordinanza sembra caratterizzata, infatti, da un’inversione dell’applicazione “tradizionale” del principio di precauzione[65], giustificata alla luce della (grave) situazione di emergenza e di sovraffollamento degli ospedali, per cui, nel dubbio circa la non pericolosità/piena sicurezza del farmaco per i pazienti COVID-19, il Consiglio di Stato ha ritenuto non corretta l’adozione di misure restrittive[66]. “Nell’incertezza perdurante circa l’efficacia della terapia sulla base degli standard scientifici più accreditati”[67], il g.a. ha attenzionato la potenziale efficacia del farmaco nello stadio iniziale della malattia (forse indugiando meno sul tema della pericolosità) e ha dimostrato comunque una maggiore propensione al rischio rispetto a quella dell’Agenzia.
Né sembra peregrino domandarsi, inoltre, se nella vicenda “tortuosa” sull’uso off-label dell’idrossiclorochina per la lotta al COVID-19 si insinuino anche momenti di discrezionalità amministrativa, dal momento che lo stesso Consiglio di Stato ha evocato il “bilanciamento tra gli opposti valori (quello dei medici curanti e quello tutelato da AIFA)”[68].
Da ultimo (non per importanza) occorre considerare se la nota con cui l’AIFA ha sospeso l’autorizzazione all’utilizzo di idrossiclorochina per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2, al di fuori degli studi clinici, comporti – almeno indirettamente – anche un divieto totale di impiego di tale farmaco per la lotta al COVID-19.
In sede difensiva, l’AIFA ha sostenuto di aver “solo proibito il rimborso del farmaco per tale uso a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi dell’art. 1, comma 4, del d.l. n. 356 del 1996, conv. in l. n. 648 del 1996”, ma non di aver vietato ai medici “di prescriverlo off label, sotto propria responsabilità”.
Il tenore dell’atto è effettivamente ambiguo (specie se – procedendo come il Consiglio di Stato – viene letto alla luce della successiva nota del 25 novembre[69]).
Ad ogni modo, se la nota AIFA sottende, dunque, tanto un comando (la sospensione d’autorizzazione all’uso già adottata), quanto un divieto generale (di prescrizione off-label), sorge il dubbio se quest’ultimo contenuto sia scindibile dal resto dell’atto e sia da ritenere illegittimo, più che per un difetto di istruttoria, irragionevolezza/illogicità[70], perché l’Agenzia non dispone di tale potere (visto anche quanto previsto dal già citato art. 3, comma 2, della c.d. legge Di Bella[71]).
7. Conclusioni
L’ordinanza, con cui il Consiglio di Stato ha avuto il compito – piuttosto difficile e delicato – di pronunciarsi sulla sospensione della nota AIFA, è stata accolta con “sentimenti contrastanti” [72].
Ai fini che qui rilevano, l’ordinanza è stata occasione di riflessione sul tema – sempre attuale – della discrezionalità tecnica, sull’applicazione (tutt’altro che agevole) del principio di precauzione anche nella materia dei farmaci, sul momento di bilanciamento tra interessi contrapposti, che sembra insinuarsi nella vicenda in oggetto, di cui dà conto la stessa pronuncia e sulla sussistenza (o meno) di un potere di divieto generalizzato dell’uso di un farmaco off-label in capo all’Agenzia italiana del farmaco.
Con riguardo al trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2, peraltro, le sorti dell’idrossiclorochina restano ancora aperte.
Il Collegio ha accolto l’appello cautelare e ha sollecitato la fissazione dell’udienza di merito, ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a., “con la conseguente possibilità, in pendenza del presente giudizio, per i medici ricorrenti, come per tutti i medici abilitati ad operare sul territorio nazionale, di prescrivere l’idrossiclorochina ai pazienti affetti da SARS-CoV-2 nei primi giorni dall’esordio dei sintomi, in dosi non elevate, e in assenza di particolari controindicazioni o effetti collaterali per il singolo paziente, salve ulteriori prescrizioni di AIFA sulla scorta di ulteriori studi e aggiornamenti sui dati a sua disposizione, all’esito di più compiuta istruttoria, nella scheda dedicata all’idrossiclorochina sul sito www.aifa.gov.it, ad oggi aggiornata al 25 novembre 2020”.
Nell’ordinanza, il Collegio ha anche evidenziato che l’“AIFA provvederà ad aggiornare la scheda dell’idrossiclorochina in modo tale che essa non si presti ad essere nemmeno interpretata, per il futuro, nel senso di un assoluto divieto al suo utilizzo nei confronti dei medici”.
Il 22 dicembre 2020, l’Agenzia ha aggiornato la scheda sull’uso di questo farmaco nei pazienti adulti e ha evidenziato che “Alla luce delle evidenze che si sono progressivamente accumulate nell’uso terapeutico e su pazienti ricoverati e che dimostrano la completa mancanza di efficacia a fronte di un aumento di eventi avversi, seppur non gravi, AIFA non raccomanda l’uso dell’idrossiclorochina nei pazienti con COVID-19 in ospedale. (…) Nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 gestiti a domicilio, di bassa gravità e nelle fasi iniziali della malattia, esistono evidenze più limitate che dimostrano la completa mancanza di efficacia a fronte di un aumento di eventi avversi, seppur non gravi, pertanto AIFA non raccomanda l’utilizzo dell’idrossiclorchina. Una eventuale prescrizione nei singoli casi si configurerebbe quindi come uso off label”[73].
L’aggiornamento dell’AIFA si sostanzia, dunque, in una raccomandazione che – proprio per la sua natura non vincolante – non è assimilabile a un “assoluto divieto”, ma potrebbe essere motivo di riflessione (che, per materia, esula dalla presente sede) sulle possibili conseguenze in punto di responsabilità (civile e penale) del medico curante che prescriva l’idrossiclorochina per i pazienti infettati da SARS-CoV-2.
***
[1] Proprio per il suo carattere globale, l’infezione da COVID-19 (rectius, da SARS-CoV-2) è stata definita ufficialmente quale pandemia dal Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, in occasione del briefing di Ginevra dell’11 marzo 2020. Tale qualificazione è l’epilogo dell’escalation nella valutazione del rischio compiuta dall’OMS che, in un primo momento, ossia lo scorso 30 gennaio 2020, ha dichiarato l’epidemia in questione “emergenza internazionale di salute pubblica”, per poi evidenziarne, il 28 febbraio 2020, il livello di minaccia “molto alto”.
[2] Si v. http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaqNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=249.
[3] Con la precisazione che, secondo l’art. 2, d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211 (“Attuazione della Direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico”), per sperimentazione clinica si intende “qualsiasi studio sull’uomo finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali, e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali, e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia, nonché altri elementi di carattere scientifico e non. Questa definizione include le sperimentazioni cliniche effettuate in un unico centro o in più centri, solo in Italia o anche in altri Stati membri dell’Unione europea”.
[4] “L’idrossiclorochina (Plaquenil® cp da 200 mg o corrispondente generico) è un analogo della clorochina chimicamente molto simile e che ne condivide il meccanismo d’azione. È un antimalarico, attualmente utilizzato nel nostro Paese in campo reumatologico alla dose di 200 mg x 2 anche per periodi molto prolungati; esiste quindi ampia esperienza clinica (superiore rispetto alla clorochina) riguardo alla sua tollerabilità”. Così l’AIFA, Idrossiclorochina nella terapia dei pazienti adulti con COVID-19, 22 luglio 2020, reperibile sul sito dell’Autorità (www.aifa.gov.it).
[5] L’istituzione dell’AIFA è avvenuta con l’art. 48, co. 2, decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici”), come convertito nella legge 2003, n. 326. Le competenze dell’Agenzia sono individuate, nel dettaglio, fra l’altro, nel comma 5 dell’art. 48 della citata legge istitutiva. Sui compiti dell’AIFA, si v. L. Casini, L’Agenzia italiana del farmaco: ufficio-agenzia o agenzia-ente pubblico?, in Giorn. dir. amm., 2004, 2, 121 ss.; M. Clarich, B.G. Mattarella, L’Agenzia del farmaco, in G. Fiorentini (a cura di), I servizi sanitari in Italia, Bologna, 2004, 263 ss.; V. Molaschi, Osservazioni sul ruolo dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) nel governo della spesa farmaceutica, in Foro amm.-TAR, 2006, 233 ss.; G. Bobbio L’Agenzia italiana del farmaco, in G. Bobbio, M. Morino (a cura di), Lineamenti del diritto sanitario, Padova, 2010, 69 ss.; M. Atripaldi, L'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) tra tutela del diritto alla salute ed esigenze finanziarie nel settore farmaceutico, in Federalismi.it, 26 luglio 2017; M. Monteduro, Modelli organizzativi e funzione: Il caso dell'Agenzia italiana del farmaco, Torino, 2018.
[6] Oltre alla nota precedente, si v. www.agenziafarmaco.gov.it. Per un approfondimento, si rinvia a P. Mighetti, M. Marchetti, Legislazione farmaceutica, Milano, 2015, 139 ss.
[7] In tema, Cons. Stato, Sez. III, 15 luglio 2019, n. 4967.
[8] La CGUE, 29 marzo 2012, in C-185/10, Commissione vs Polonia, ha affermato che, ai sensi dell’art. 6 della direttiva 2001/83/CE ss.mm.ii., la commercializzazione dei medicinali sul mercato dell’Unione europea è subordinata al conseguimento dell’AIC, rilasciata dalle autorità nazionali competenti, oppure a un'autorizzazione a norma del regolamento 2309/9/CEE. Per un approfondimento, si v. anche B. Bertanini, Tutela della salute, principio di precauzione e mercato del medicinale, Torino, 2016 (in particolare, 134 ss.).
[9] Sul tema, si rinvia anche ad A. Pira, L’uso off-label dei medicinali: un’agenda per il dopo-Covid-19, in quotidianosanità.it, 9 aprile 2020; G. Guerra, La commercializzazione dei farmaci a confronto con gli usi off-label: il difficile bilanciamento tra tutela della salute e concorrenza, in Politiche sanitarie, 2014, vol. 15, 2, 99 ss.; L. Pani, Off label: disciplina italiana piena di zone d'ombra, in IlSole24Ore, 21 marzo 2014; F. Massimino, Recenti interventi normativi e giurisprudenziali in materia di prescrizione dei farmaci off label, in Danno e resp., 2010, 12, 1104 ss.
[10] La sentenza della Corte cost., 12 gennaio 2011, n. 8, con nota di M. Gigante, Esigenze unitarie nella politica farmaceutica: l’uso off label dei farmaci tra principi fondamentali e riserva all’AIFA, in Giur. It., 2011, 12, 2492 ss., ha specificato che l’uso delle prescrizioni off-label non può essere regolato dal legislatore regionale. In argomento, di recente, si v. Cons. Stato, Sez. III, 15 dicembre 2020, n. 8033. Si v. anche Corte cost., 29 maggio 2014, n. 151, secondo cui un farmaco non è una valida alternativa terapeutica quando realizza “condizioni economicamente non accettabili e discriminatorie, tali da limitare l’accesso alle cure e, dunque, ledere la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantita”, poiché comporta un costo eccessivo per il SSN o la mancata rimborsabilità a scapito del paziente.
[11] A seguito della citata pronuncia della Corte cost., 29 maggio 2014, n. 151, l’art. 3, legge 16 maggio 2014, n. 79, in materia di stupefacenti e impiego off-label di medicinali, ha aggiunto il co. 4-bis, ai sensi del quale, in presenza di una alternativa terapeutica valida, previa valutazione AIFA, nell’elenco possono essere inseriti medicinali da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, “purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell'ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza”.
[12] Prima del 2003 (anno di istituzione dell’AIFA, su cui si rinvia supra, nota 5) la competenza spettava alla Commissione unica del farmaco. Con provvedimento del 17 gennaio 1997, tale Commissione ha indicato i criteri e i requisiti per l’inserimento dei farmaci nell’elenco, individuando nella stessa Commissione, nelle associazioni dei pazienti, nelle società scientifiche e negli organismi sanitari pubblici e/o privati i soggetti legittimati ad attuare la proposta e a presentare la documentazione necessaria per l’ammissione. Con provvedimento del 20 luglio 2000, la Commissione appena indicata ha istituito l’elenco delle specialità medicinali erogabili a totale carico del SSN, integrato e/o modificato periodicamente dall’AIFA.
[13] Sul noto caso c.d. Di Bella, si v. Corte cost., 26 maggio 1998, n. 185; sul più recente caso c.d. Stamina, si v. Id., 5 dicembre 2014, n. 274. In argomento, si v. anche Corte cost., 13 giugno 2000, n. 188.
[14] “La normativa del 1998, quindi, limita, ma non vieta la prescrizione dei medicinali fuori indicazione, con un’impostazione che si concilia con quella che è stata successivamente adottata a livello comunitario dalla Direttiva 2001/83/CE”. Così F. Massimino, Recenti interventi normativi e giurisprudenziali in materia di prescrizione dei farmaci off label, cit., 1106.
[15] Secondo la Cass. civ., 17 aprile 2019, n. 10719, “il diritto alla fruizione di prestazioni sanitarie a carico del Servizio sanitario, garantito dalla Costituzione e dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in favore di un numero quanto più ampio possibile di fruitori, deve dunque essere accertato sulla base dei seguenti criteri: a) le prestazioni richieste devono presentare, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, validate da parte della comunità scientifica; b) l’appropriatezza, che impone che vi sia corrispondenza tra la patologia e il trattamento secondo un criterio di stretta necessità, tale da conseguire il migliore risultato terapeutico con la minore incidenza sulla qualità della vita del paziente; c) l’economicità nell’impiego delle risorse, che richiede di valutare la presenza di altre forme di assistenza, meno costose ma di efficacia comparabile, volte a soddisfare le medesime esigenze ed erogabili dalle strutture pubbliche o convenzionate”.
[16] A proposito delle fasi della sperimentazione, si v. AIFA, Come nasce un farmaco, in www.aifa.gov.it: “Ha inizio con lo studio di fase 1 la sperimentazione del principio attivo sull’uomo che ha lo scopo di fornire una prima valutazione della sicurezza e tollerabilità del medicinale. Se il farmaco dimostra di avere un livello di tossicità accettabile rispetto al beneficio previsto (profilo beneficio/rischio) allora può passare alle successive fasi della sperimentazione. Nello studio di fase 2 (definito anche terapeutico-esplorativo) comincia ad essere indagata l’attività terapeutica del potenziale farmaco, cioè la sua capacità di produrre sull’organismo umano gli effetti curativi desiderati. Questa fase serve inoltre a comprendere quale sarà la dose migliore da sperimentare nelle fasi successive, e determinare l’effetto del farmaco in relazione ad alcuni parametri (come, ad esempio, la pressione sanguigna) considerati indicatori della salute del paziente. Questa seconda fase è utile quindi a dimostrare la non tossicità e l’attività del nuovo principio attivo sperimentale. Ci sono però ancora altri quesiti a cui bisogna dare una risposta: ma il farmaco quanto è efficace? Ha qualche beneficio in più rispetto a farmaci simili già in commercio? E qual è il rapporto tra rischio e beneficio? A tutte queste domande si risponde con lo studio di fase 3 (o terapeutico-confermatorio). In questo caso non sono più poche decine i pazienti “arruolati”, ma centinaia o migliaia. L’efficacia del farmaco sui sintomi, sulla qualità della vita o sulla sopravvivenza è confrontata con un placebo (sostanza priva di efficacia terapeutica), con altri farmaci già in uso, o con nessun trattamento”.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem. L’A. prosegue evidenziando che “Deve quindi ritenersi che la norma del 2007 rappresenti una restrizione rispetto alla disciplina previgente, che deve quindi considerarsi tacitamente abrogata, limitatamente all’aspetto delle pubblicazioni scientifiche come requisito sufficiente per l’ammissibilità della prescrizione off label”.
[19] “Con decreto del Ministro della salute, da adottarsi entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, tenuto conto anche delle linee guida EMEA per l'uso compassionevole dei medicinali, sono stabiliti i criteri e le modalità per l'uso di medicinali privi di AIC in Italia, incluso l'utilizzo al di fuori del riassunto delle caratteristiche del prodotto autorizzato nel paese di provenienza e l'uso compassionevole di medicinali non ancora registrati. Fino alla data di entrata in vigore del predetto decreto ministeriale, resta in vigore il decreto ministeriale 8 maggio 2003, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 173 del 28 luglio 2003”.
[20] La norma è poi confluita – con alcune modifiche/aggiunte – nell’art. 40, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (recante “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali”) come convertito dalla legge 5 giugno 2020, n. 40
[21] Per come, a sua volta modificato, dalla legge 11 gennaio 2018, n. 3.
[22] Come evidenziato da E. Bellomo, L’emergenza sanitaria Covid-19: l’impatto della decretazione d’urgenza sulla sperimentazione di farmaci ad uso compassionevole, in Ceridap, 26 ottobre 2020, “In questo caso, non si attua infatti quel concorso di azioni che partono dal promotore dello studio e che arrivano a coinvolgere lo sperimentatore e la struttura sanitaria lasciando che sia, invece, il medico a ritenere di dover applicare un protocollo di studio previa (secondo la normativa emergenziale) avvallo scientifico e monitoraggio di AIFA e del Comitato etico nazionale”.
[23] AIFA, COVID-19: precisazioni su definizioni di uso compassionevole e relative applicazioni del decreto legge 18/2020, 26 marzo 2020, ha specificato che la disposizione di cui all’art. 17 si applica unicamente alle richieste che ricadono nei programmi di uso terapeutico. Con tale definizione si intende “il protocollo clinico predefinito e identico per tutti i pazienti, presentato dalle aziende farmaceutiche, con applicazione di criteri univoci di inclusione, esclusione e schema di trattamento per specifici farmaci somministrati a più pazienti (secondo il DM 7/9/2017)”. Di contro, “Gli usi terapeutici nominali (…) NON devono essere sottoposti per valutazione al Comitato Etico unico Spallanzani, ma restano assoggettati alla normativa vigente e quindi rimangono di competenza dei Comitati Etici locali”. Si specifica inoltre che per la presentazione all’AIFA dei programmi di uso terapeutico su COVID-19 da parte di aziende farmaceutiche viene fatta deroga al termine dei 15 giorni antecedenti l’avvio degli stessi. L’Autorità ha chiarito, inoltre, che “Per i programmi di uso terapeutico, visti i tempi brevissimi dell'attivazione dei trattamenti d'emergenza, è consentita l'importazione di stock dei farmaci inclusi nei programmi di uso compassionevole, sulla base dei seguenti documenti: del parere preliminare favorevole dell’AIFA, oppure del parere favorevole del Comitato Etico nazionale per l'emergenza COVID Spallanzani, oppure del Comitato Etico della struttura trattante nel caso di programma già con parere favorevole da parte del relativo Comitato Etico prima del 17 marzo, oppure del Comitato Etico della struttura trattante nel caso di usi terapeutici su base nominale. Tutti i trattamenti (di cui alla definizione 1 o 2) che hanno ricevuto un parere positivo saranno pubblicati sul sito istituzionale dell’AIFA, nell’apposita sezione Emergenza COVID-19”.
[24] Si v. la Circolare sulle procedure semplificate per gli studi e gli usi compassionevoli per l'emergenza da COVID-19, 19 aprile 2020, pubblicata sul sito dell’AIFA (www.aifa.gov.it).
[25] Nel comunicato AIFA, emergenza COVID-19: costituita “Unità di crisi Coronavirus”, 12 marzo 2020, si legge che “In considerazione del fatto che nell’emergenza gli ospedali fanno ricorso a protocolli che prevedono l’uso off label di medicinali in commercio in Italia, AIFA sta predisponendo l’approvazione di quelli già identificati, che verranno sottoposti a valutazione da parte del CTS”.
[26] Si v. quanto indicato supra, par. 2.
[27] AIFA, Azioni intraprese per favorire la ricerca e l’accesso ai nuovi farmaci per il trattamento del COVID-19, 17 marzo 2020.
[28] AIFA, Comunicazione AIFA sull’utilizzo di Clorochina e Idrossiclorochina nella terapia dei pazienti affetti da COVID-19 - Informazioni di sicurezza, 31 marzo 2020.
[29] EMA, Aggiornamento sui trattamenti e i vaccini in fase di sviluppo contro il COVID-19, 31 marzo 2020.
[30] EMA, COVID-19: clorochina e idrossiclorochina devono essere utilizzati solo negli studi clinici o nei programmi di utilizzo in emergenza, 1° aprile 2020.
[31] Si v., ad es., AIFA, COVID-19 - AIFA autorizza nuovo studio clinico sull’idrossiclorochina, 9 aprile 2020.
[32] EMA, COVID-19: si richiama nuovamente l’attenzione sul rischio di gravi effetti indesiderati con clorochina e idrossiclorochina, 23 aprile 2020.
[33] AIFA, COVID-19 - Aggiornamento scheda informativa AIFA su idrossiclorochina, 29 aprile 2020.
[34] AIFA, AIFA sospende l’autorizzazione all’utilizzo di idrossiclorochina per il trattamento del COVID-19 al di fuori degli studi clinici, 26 maggio 2020.
[35] AIFA, COVID-19. Le motivazioni della decisione AIFA sull'uso di idrossiclorochina e clorochina, 29 maggio 2020.
[36] EMA, COVID-19: ribaditi i rischi di clorochina e idrossiclorochina, 29 maggio 2020.
[37] L’OMS ha poi ripreso la sperimentazione a inizio giugno per interromperla il 17 giugno 2020. Si v. WHO, Coronavirus disease (COVID-19): hydroxycloroquine, 19 giugno 2020 (pubblicato sul sito www.who.int).
[38] Con l’aggiunta che, a fine novembre 2020, il comitato per la sicurezza (Prac) dell'EMA ha raccomandato di aggiornare le informazioni sui farmaci contenenti clorochina o idrossiclorochina, proprio perchè la revisione di tutti i dati disponibili ha confermato un collegamento tra l'uso di questi medicinali e il rischio di disturbi psichiatrici e di comportamento suicidario. Si v. Redazione ANSA, Ema, rischio suicidio collegato a uso idrossiclorochina, in Ansa.it, 30 novembre 2020.
[39] MR Mehra e a., RETRACTED: Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19: a multinational registry analysis, in The Lancet, pubblicato il 22 maggio 2020 e ritirato il 5 giugno 2020.
[40] AIFA, Idrossiclorochina nella terapia dei pazienti adulti con COVID-19, Update del 22 luglio 2020. Si v. anche l’aggiornamento, AIFA, COVID-19: AIFA limita l’uso di remdesivir in casi selezionati e consente idrossiclorochina solo in studi clinici randomizzati a domicilio, 26 novembre 2020, con cui l’Autorità ha confermato la sospensione dell’autorizzazione all’utilizzo off-label dell’idrossiclorochina “sia per l’uso terapeutico (ospedaliero e territoriale) sia per l’uso profilattico, sulla base delle evidenze che si sono progressivamente accumulate e che dimostrano la completa mancanza di efficacia a fronte di un aumento di eventi avversi, seppur non gravi”. Ha poi soggiunto che “L’utilizzo nei pazienti non gravi e nelle fasi iniziali della malattia può essere consentito solo nell’ambito di studi clinici randomizzati, in quanto al momento le evidenze, seppur tendenzialmente negative, sono ancora limitate”.
[41] E. Burba, È iniziata la battaglia dell’idrossiclorochina, in Panorama, 24 novembre 2020; S. Turina, Covid e idrossiclorochina: che cosa dicono gli ultimi pareri scientifici. Le ragioni di una bocciatura, in Corriere della sera, 12 dicembre 2020.
[42] Si pensi allo studio promosso dal Movimento IppocrateOrg, intitolato “Recovery trial and hydroxychloroquine”, pubblicato sull’International Medical Journal, il 29 Settembre 2020. Si v. anche C. Scaldaferri, Chi usa e chi vieta l'idrossiclorochina nella lotta al Covid, in Agi, 18 maggio 2020.
[43] Avverso l’ordinanza del TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 16 novembre 2020, n. 7069.
[44] Il TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, con l’ordinanza (non appellata) del 14 settembre 2020, n. 5911, ha rigettato l’istanza cautelare avverso la nota AIFA del 26 maggio 2020.
[45] A sostegno di tale interpretazione, il Cons. Stato ha invocato la determinazione n. 484 del 2020, pubblicata in G.U. n. 112 del 2 maggio 2020, e l’aggiornamento (citato supra, nota 39) al 25 novembre 2020 della scheda sull’idrossiclorochina del 25 novembre 2020.
[46] Si v. anche l’art. 1 c.p.a.
[47] Sul tema, tra i numerosi contributi, si v. F. Cammeo, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur. it., 1902, III, 276 ss.; E. Presutti, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, ivi, 1910, 16 ss.; Id., I limiti del sindacato di legittimità, Milano, 1911; M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, ora in Id., Scritti, Milano, 2000, I, 387 ss.; P. Virga, Appunti sulla cosiddetta discrezionalità tecnica, in Jus, 1957, 95 ss.; V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, 372 ss. (e in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, Milano, 1987, II); V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. amm., 1984, 463 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 575 ss.; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica, in Dir. proc. amm., 1992, 685 ss.; G. Pelegatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica e sindacato giudiziario, un’analisi critica dei recenti sviluppi della dottrina giuspubblicistica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 158 ss.; D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; N. Paolantonio, Interesse pubblico ed apprezzamenti amministrativi, in Dir. amm., 1996, 2, 413 ss.; Id., Il sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Padova, 2000; B. Tonoletti, L’accertamento amministrativo, Padova, 2001; F. Fracchia, C. Videtta, La tecnica come potere, in Foro amm., 2002, III, 493 ss.; D. Mastrangelo, La tecnica nell’amministrazione fra discrezionalità pareri e merito, Bari, 2003; A. Travi, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2004, 2, 439 ss.; F. Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e giurisdizionalizzazione, Milano, 2005; Id., Tecnica e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 4, 983 ss.; Id., Discrezionalità tecnica (voce), in Enc. del diritto, II, 2009, 471 ss.; A. Giusti, Contributo allo studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, Napoli, 2007; M. Allena, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche complesse: orientamenti tradizionali versus obblighi internazionali, in Dir. proc. amm., 4, 2012, 1602 ss.; F. Volpe, Il sindacato sulla discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine della sentenza Cass. SS. UU., 17 febbraio 2012, n. 2312), in Giustamm.it, 2012. Si consideri, inoltre, la recente Ricerca dell’Ufficio Studi, curata dal Presidente M. Lipari, dai Cons. Giovagnoli e Storto, con la collaborazione dei Presidenti R. De Nictolis e R. Chieppa, Autorità indipendenti di regolazione dei mercati e tutela giurisdizionale amministrativa, in www.giustizia amministrativa.it, 2019.
[48] Così il TAR Trentino-Alto Adige, ordinanza 5 maggio 2008, n. 228; M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2000, 269; Id., Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1993, 55-56 ha affermato che la discrezionalità tecnica “non ha proprio nulla di discrezionale” e che, quindi, tale definizione costituisce “un errore storico della dottrina”; come ha evidenziato E. Capaccioli, citato in P. Lazzara, L'opera scientifica di Enzo Capaccioli tra fatto, diritto e teoria generale, in Dir. amm., 2009, 995 ss., § 4, “le due valutazioni tecnica e discrezionale, non coincidono mai; dove comincia l'una finisce l'altra e dove c'è l'una non vi è posto per l'altra”. Si v. anche F. Merusi, La Teoria generale di Enzo Capaccioli nel dibattito amministrativo contemporaneo, in Dir. amm., 2009, 873 ss. Nello stesso senso, F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica, cit., 688-689, ha sottolineato l’ “equivocità della formula”.
[49] Su cui si v. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1988, 54.
[50] A tale riguardo, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Milano, 2017, 179, hanno evidenziato che la formulazione di un giudizio “alla stregua di una scienza, in luogo di legittimare una riserva di amministrazione, costituisce all’opposto la premessa della sua verificabilità”. Contra, si v. la posizione di G. Clemente Di San Luca, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale, in Giustamm.it, 7, 2016.
[51] A partire da Cons. Stato, Sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in Foro it., 2001, III, 11, con nota di A. Travi.
[52] Oggi disciplinata dagli artt. 63, comma 4 e 67 c.p.a. Come evidenziato da A. Travi, Sindacato debole e giudice deferente, in Giorn. dir. amm., 2006, 3, 313: “Nel giudizio le parti sono sempre sullo stesso piano e l’attendibilità dell’affermazione di una parte non può essere privilegiata per il fatto che… sia stata recepita in un provvedimento amministrativo (art.113 Cost). La regola del giudizio è sempre la stessa: tutti i fatti controversi devono essere verificati nel rispetto delle norme sulle allegazioni e sulla prova e tale regola non incontra eccezioni nella dimensione di ordine tecnico dei fatti: altrimenti la giustizia amministrativa diventa qualcosa di diverso e minore rispetto alla giustizia senza aggettivi”.
[53] Si veda anche Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2014 n. 1013, in Dir. proc. amm. 2014, 1057, con nota di B. Gilberti: “l’esercizio della discrezionalità tecnica, non essendo espressione di un potere di supremazia della pubblica amministrazione, non è di per sé solo idoneo a determinare l’affievolimento dei diritti soggettivi di coloro che del provvedimento amministrativo siano eventualmente pregiudicati. Non può pertanto sostenersi che chi lamenti la lesione del proprio diritto, a causa del cattivo esercizio della discrezionalità tecnica, non possa chiederne l’accertamento al giudice, il quale non potrà quindi esimersi dal verificare se le regole della buona tecnica sono state o meno violate dall’amministrazione. Ne fornisce evidente conferma il fatto stesso che il giudice amministrativo disponga oggi di ampi mezzi istruttori, ivi compreso lo strumento della consulenza tecnica”.
[54] Così, di recente, Cons. Stato, Sez. I, 30 novembre 2020, n. 1958.
[55] A tale fine, A. Romano Tassone, Sulle vicende del concetto di «merito», in Dir. amm., 2008, 549, ha evocato la nozione di “preferenza” – anziché di “riserva” – di amministrazione, nel senso che la valutazione ragionevole, ancorchè opinabile, dell’autorità amministrativa deve essere preferita rispetto alle altre possibili alternative “ragionevoli e legittime”.
[56] Secondo G. Clemente Di San Luca, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale, cit., “Anche questa distinzione è da considerarsi priva di senso: l’unico sindacato coerente con il principio di separazione delle funzioni resta quello basato sul vizio dell’eccesso di potere. E tale vizio – una volta essendo stato acquisito che può risolversi, oltre che nella forma del mero sviamento, pure in quella fondata sulla rilevazione delle figure sintomatiche – ben può rivelarsi sussistente anche laddove la valutazione compiuta dalla P.A., alla verifica della sua attendibilità tecnico-scientifica, risulti superficiale, incongrua, irragionevole, inadeguata, ecc. Il che, evidentemente, non può che integrare una delle varie figure sintomatiche progressivamente elaborate, in un tempo ormai assai lungo, dalla giurisprudenza amministrativa: non diversamente da quanto accade con riguardo alla valutazione che la P.A. compie in funzione della scelta del contenuto provvedimentale”.
[57] Cons. Stato, Sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645. In termini, di recente, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 25 febbraio 2019, n. 408.
[58] Ossia il noto caso La Roche-Novartis (o Avastin-Novartis).
[59] Cons. Stato, Sez. VI, 19 luglio 2019, n. 4990, in Foro it., 2019, 10, 533 ss. con nota di R. Pardolesi; in Giustamm.it, con nota di G. Cice. Nell’Osservatorio sulla giustizia amministrativa, in Foro amm., 2019, 9, 1377 ss., è evidenziato che il Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2019, da 5558 a 5564 e 6022, 6023, 6025, 6027, 6030, 6032 e 6065; Id., 23 settembre 2019, n. 6314, hanno richiamato il Cons. Stato, Sez. VI, 19 luglio 2019, n. 4990, ma limitatamente “alla parte ricognitiva delle precedenti acquisizioni (sindacato “non sostitutivo di attendibilità”), estromettendo quella che ha proposto il revirement in senso ampliativo (sindacato “pieno di maggiore attendibilità”)”. Sul tema, si v. R. Garofoli, Il controllo giudiziale amministrativo e penale della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 2, 405 ss.; F. Goisis, L’efficacia di accertamento autonomo del provvedimento AGCM: profili sostanziali e processuali, in Dir. proc. amm,, 2020, 1, 45 ss.; S. Torricelli, Per un modello generale di sindacato sulle valutazioni tecniche: il curioso casi degli atti delle autorità amministrative indipendenti, in Foro amm., 2020, 1, 97 ss.; M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro … e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, in Federalisimi.it, 2019. Per F. Patroni Griffi, Giustizia amministrativa: evoluzione e prospettive nell’ordinamento nazionale e nel quadro europeo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020, “in settori tradizionali (per esempio, quello dei beni culturali o dei concorsi universitari, mentre resiste quello degli esami di abilitazione) o di più recente rilevanza (soprattutto quello delle sanzioni e della regolazione economica, sia pure con accenti che devono restare differenti), l’area del “merito” amministrativo resta confinata alla scelta vera e propria, mentre il giudice valuta se la scelta effettuata in concreto sia quella dotata di “maggiore attendibilità” e non semplicemente quella comunque riconducibile al novero delle opzioni possibili. Con il solo ovvio limite della sostituzione di una propria scelta a quella amministrativa. È chiaro che questo principio riuscirà ad affermarsi se i giudici amministrativi saranno particolarmente sensibili alle evenienze in fatto del processo e la Corte di cassazione saprà distinguere, in sede di controllo sui limiti cd. esterni della giurisdizione amministrativa, tra area riservata al merito amministrativo e sindacato pieno ed effettivo sulla legittimità dell’azione amministrativa.”. Sull’applicabilità del criterio della maggiore attendibilità la giurisprudenza non è univoca. Ad esempio, con riferimento al vincolo culturale apposto dalla p.A., il TAR Piemonte, Sez. I, 3 marzo 2020, n. 155, ha sostenuto che “I recenti orientamenti sui limiti che il giudice incontra nel sindacato della c.d. discrezionalità tecnica impongono al Collegio di verificare se l’indagine qualitativa del bene effettuata dall’amministrazione si presenti come quella dotata di maggiore attendibilità e non solo come una delle tante valutazioni possibili”; a proposito del giudizio tecnico sull’infermità da causa di servizio, il TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° dicembre 2020, nn. 12790 e 12794 ha affermato, invece, che “il sindacato del giudice amministrativo è ammissibile laddove la valutazione si ponga al di fuori dell’opinabilità o della maggiore attendibilità”.
[60] Si v., ad esempio, di recente, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 4 settembre 2020, n. 9335.
[61] Si v., ad esempio, di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2021, n. 37; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 4 gennaio 2021, n. 4.
[62] Si v., ad esempio, di recente, Cons. Stato, Sez. IV, 15 ottobre 2020, n. 6258; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 24 luglio 2020, n. 8741.
[63] F. Patroni Griffi, Giustizia amministrativa: evoluzione e prospettive nell’ordinamento nazionale e nel quadro europeo, cit.; Id., Il sindacato del Giudice amministrativo sugli atti delle Autorità Indipendenti, in www.giustizia-amministrativa.it; C. Deodato, Nuove riflessioni sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo. Il caso delle linee guida dell’ANAC, in Federalismi.it, 2, 2017. Di recente, sul tema, su iniziativa della Prof.ssa M.A. Sandulli e del Prof. F. Francario, si è svolta una Tavola rotonda per l’apertura del modulo di diritto amministrativo della SSPL dell’Università egli studi “Roma Tre”, intitolata “Attività discrezionale e attività vincolata della PA e sindacato del GA”, Roma, 30 gennaio 2020. Si v. anche il webinar “La discrezionalità tecnica tra procedimento e processo”, organizzato dalla Città Metropolitana di Firenze, in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze, 25 giugno 2020.
[64] Si v. TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 13 agosto 2020, n. 9198. Secondo, TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 17 gennaio 2020, n. 591, 592 e 593: “quello della commissione AIFA costituisca senz’altro giudizio connotato da discrezionalità tecnica: pertanto occorre dimostrare anche l’abnormità di un siffatto giudizio onde poter demolire la eventuale determinazione finale. In altre parole, il relativo sindacato giurisdizionale deve attestarsi su riscontrati (e prima ancora dimostrati) vizi di manifesta erroneità o di evidente illogicità del giudizio stesso, ossia sulla palese inattendibilità della valutazione espressa dalla stessa commissione AIFA. A tale specifico riguardo osserva infatti il collegio che il sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica, quale è quello che caratterizza la valutazione di equivalenza terapeutica tra medicinali, non può sfociare nella sostituzione dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo dell’amministrazione ma è piuttosto finalizzato a verificare se il potere amministrativo sia stato esercitato mediante utilizzo delle regole conforme a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza. Sicché un tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, pena un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. Il parere della commissione AIFA costituisce pertanto atto di esercizio di ampia discrezionalità tecnica e il sindacato del giudice amministrativo è di tipo intrinseco debole (o di attendibilità), limitato cioè alla verifica della sussistenza di vizi sintomatici dell’eccesso di potere quali la palese carenza di istruttoria e l’abnorme travisamento dei fatti nonché la evidente illogicità e incongruenza delle valutazioni espresse”.
[65] Tale principio non è espressamente enunciato nel testo della pronuncia, ma sembra implicitamente presente, visto che, più volte, il g.a. ha evocato il concetto di “rischio” e il “rapporto rischi/beneifici”. “Si riferisce a un approccio alla gestione del rischio in base al quale, se vi è la possibilità che una data politica o azione possa danneggiare il pubblico o l’ambiente, e se non c’è ancora consenso scientifico sulla questione, la politica o l’azione in questione non dovrebbe essere perseguita”. Sul principio di precauzione, tra i numerosi contributi, si rinvia a U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt am Main, 1986; A. Jordan, J. Cameron, Interpreting the Precautionary principle, London, 1994; U. Di Fabio, Gefahr, Vorsorge, Risiko, in Jura, 1996, 566 ss.; A. KISS, The rights and interest of future
generations and the precautionary principle, in D. Freeston, E. Hey, The Precautionary principle and international law. The challenge of implementation, The Hague, 1996, 19 ss.; J. Scott, The Precautionary Principle Before the European Courts, in R. Macrory (a cura di), Principles of European Environmental Law, Groningen, Europa, 2004; V. Heyvaert, Facing The Consequences of the Precautionary Principle in European Community Law, in European Law Review, 2006, 185 ss.; A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006; A. Bianchi, M. Gestri (a cura di), Il principio precauzionale nel diritto internazionale e comunitario, Milano, 2006; D. Bevilacqua, I limiti della scienza e le virtù della discrezionalità: il principio di precauzione nel diritto globale, in G. Della Cananea (a cura di), I principi dell’azione amministrativa nello spazio giuridico globale, Napoli, 2007; M. Antonioli, Precauzionalità, gestione del rischio ed azione amministrativa, in Riv. It. Dir. pubbl., 2007, 51 ss.; A. Zei, Il principio di precauzione: programma, regola, metodo, in R. Bifluco, A. D’Aloia, Un diritto per il futuro, Napoli, 2008; Id., Principio di precauzione, in Dig. disc. pubbl., Torino, II, 2008, 670 ss.; C.R. Sunstein, Il diritto della paura, Bologna, 2010; P. Savona, Il principio di precauzione e il suo ruolo nel sindacato giurisdizionale sulle questioni scientifiche controverse, in Federalismi.it, 2011; S. Cognetti, Potere amministrativo e principio di precauzione fra discrezionalità tecnica e discrezionalità pura, in S. Cognetti, A. Contieri, S. Licciardello, F. Manganaro, S. Perongini, F. Saitta (a cura di), Percorsi di diritto amministrativo, Torino, 2014, 142 ss.; F. De Leonardis, Il principio di precauzione, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 413 ss.; Id., Tra precauzione, prevenzione e programmazione, in L. Giani, M. D’Orsogna, A Police, Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018, 49 ss.; con specifico riferimento all’applicazione del principio di precauzione nell’emergenza COVID-19, si v., in particolare, F. Scalia, Principio di precauzione e ragionevole bilanciamento dei diritti nello stato di emergenza, in Federalismi.it, 32, 2020; G. Pitruzzella, Il principio di precauzione è debole nella società globale del rischio, in Il Foglio, 12 luglio 2020; M. Basigli, L’epidemia di CoVid-19: il principio di precauzione e i fallimenti istituzionali, in Mercato concorrenza regole, 2019, 3, 475 ss. Sulla natura “transettoriale” del principio di precauzione, che ormai non attiene più solo al diritto ambientale (art. 191, par. 2, TFUE), si v., tra gli altri, P. Kourilssky, G. Viney, Le principe de précaution, Parigi, 2000, 144; B. Delfino, Una nuova nozione di sicurezza nel diritto pubblico: riflessioni, rapporti con i principi di prevenzione e di precauzione e sua forza espansiva, in Foro amm., 2008, 11, 3183 ss.; F. De Leonardis, Il principio di precauzione, cit., 416-417 e la CGUE, Grande Sezione, 1° ottobre 2019, Mathiew Blaise e a., C-616/17, par. 41.
[66] Con riferimento all’applicazione del principio in materia di farmaci, si v. TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 9 febbraio 2017, n. 2225, che ha affermato che l'insegnamento in materia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, «(…) qualora risulti impossibile determinare con certezza l'esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute nell'ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l'adozione di misure restrittive»”. Con riguardo alle misure adottate in fase di emergenza, si v., ad esempio, TAR Campania, Napoli, Sez. V, ordinanza 22 aprile 2020, n. 826, in www.quotidianogiuridico.it, che – nel rigettare l’stanza di sospensiva di un provvedimento con cui era stata disposta la chiusura temporanea di una casa di cura – ha richiamato il Cons. Stato, Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655, secondo cui “Il c.d. « principio di precauzione », di derivazione comunitaria (art. 7, Regolamento n. 178 del 2002), impone che quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; l'attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche”)”.
[67] Così l’ordinanza in commento.
[68] Per completezza, si segnala che in un passaggio precedente dell’ordinanza, si afferma, però, che “Si deve anzitutto fugare ogni dubbio circa l’insinuarsi di un pericoloso relativismo terapeutico o irrazionalismo decisorio, fondato su nebulose intuizioni curative, più o meno verificabili, del singolo medico, su pseudoconoscenze del paziente o addirittura su valutazioni di mera opportunità politica dello stesso decisore pubblico, in quanto le decisioni sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, dovrebbero prevedere «l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali e sovra-nazionali – a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che a questi fini rivestono gli organi tecnico-scientifici»”.
[69] Su cui si rinvia supra.
[70] Come ritenuto dal Consiglio di Stato (con riferimento alla nota integralmente intesa).
[71] Per cui se manca (o è sospesa) l’autorizzazione AIFA, ma persistono i requisiti per la prescrizione “fuori dal bugiardino”, ai sensi di tale disposizione, il medico può comunque impiegare tale farmaco (viceversa, se non sussistono i presupposti ivi stabiliti, il sanitario non può utilizzare il farmaco, perché è la legge stessa a vietarlo).
[72] Per un commento favorevole alla pronuncia, si v., tra gli altri, l’Assessore alla sanità del Piemonte, come riportata da E. Burba, Il Piemonte dà il via libera all’idrossiclorochina, in Panorama, 16 dicembre 2020; P. Varese nell’intervista rilasciata ad A. Mariotti, L’idrossiclorochina torna tra i farmaci che si possono usare contro il Covid: “Sentenza storica per i medici”, in La stampa, 12 dicembre 2020; Contra, si v. la posizione del Presidente dei medici internisti della Fedoi, D. Manfellotto, e del Presidente del Consiglio superiore di sanità, F. Locatelli, riportate da Huffpost, Ok del Consiglio di Stato all’idrossiclorochina? I giudici vogliono sostituirsi alla scienza, in Huffingtonpost, 12 dicembre 2020; L. Simonetti, Il covid in tribunale, in Il Foglio, 18 dicembre 2020; l’editoriale G. Corbellini, Il Tribunale del Covid, ivi, 12 dicembre e G. Ciliberto, Gli studi dimostrano che l’idrossiclorochina non ha alcun beneficio contro il Covid, ivi.
[73] AIFA, Idrossiclorochina nella terapia dei pazienti adulti con COVID-19, Update del 22 dicembre 2020.
Il giudice interprete o legislatore?*
Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli
Sommario: 1. Le domande - 2. introduzione al tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?
2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?
3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?
4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.
Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?
5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?
2. Introduzione al tema
La scelta di aprire un cantiere permanente di riflessioni sulle nuove frontiere del diritto giurisprudenziale è stata già compiuta tempo fa dalla Rivista (vedi, da ultimo, A. Costanzo, Il precedente friabile e gli slittamenti della nomofilachia, in Giustizia Insieme, 13 maggio 2020) e contribuisce al dibattito fecondo sul tema che sempre più permea dottrina, avvocatura e magistratura (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017, e M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, 2018).
La coscienza della crescita impetuosa del peso dell’interpretazione, a detta di molti oramai “creativa” della fattispecie penale, ha toccato anche il legislatore, che sembra quasi averne preso atto, introducendo una disposizione quale è il nuovo comma 1-bis dell’art. 618 del codice di procedura penale, che, attraverso il valore di precedente tendenzialmente vincolante delle affermazioni di principio provenienti dalle Sezioni Unite con valore nomofilattico, ha probabilmente inteso provare a rispondere alle istanze di uniformità e stabilità che fanno da contrappunto all’innegabile, moderna potenza del formante giurisprudenziale (per un’analisi della valenza della nuova norma, si rimanda, per tutti, a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018; nonché a G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, in Dir. Pen. Cont., 4 febbraio 2019).
Senza dubbio all’espansione della law in action ha contribuito il continuo flusso interpretativo proveniente dalle Corti europee, prima tra tutte la Corte Europea dei diritti dell’uomo, divenuto negli ultimi dieci anni una vera e propria corrente costante, pronta a trascinare con sé il diritto interno ed i suoi paradigmi consolidati, fino a toccare lo stesso principio di legalità formale che da sempre ispira il nostro diritto penale.
Tuttavia, il fenomeno che oggi constatiamo nasce dall’antica dicotomia tra “legalità della legge” e “legalità dell’esperienza giuridica” o “effettuale” – per usare le parole di Francesco Palazzo (il richiamo è F. Palazzo, Legalità fra law in the books e law in action, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.) – e ripropone l’eterno enigma del rapporto tra legge e giudice: l’una senza l’altro sarebbe vuota enunciazione; il giudice, al di fuori della legge, in un sistema penale a legalità formale, potrebbe costituire un vulnus democratico.
Ma al di là di tali due estreme ipotesi, emerge il piano fisiologico ed ordinario di un’interdipendenza inevitabile tra i due poli che sovrintendono alla nascita del precetto penale “vivente”, per la necessità di conferire, attraverso l’interpretazione e la giurisprudenza, piena ed effettiva espansione ai principi declinati dal legislatore.
è altrettanto evidente che la crisi della capacità di legiferare con forme e tecniche congrue ed efficaci ha determinato l’accrescersi sempre più intenso dell’importanza dell’ermeneutica, dell’attività di interpretazione, cui gli interlocutori istituzionali (a partire dalla Corte costituzionale) e la dottrina si sono rivolti per ritrovare organicità di contenuti e complessità di letture spesso nascoste dalla trascuratezza o dalla distonia legislative.
Quello che ancora Palazzo ha ben individuato come il riposizionamento dell’asse portante del principio di legalità ha fatto il resto: le fondamenta di esso sono sempre più collocate nei criteri universali di conoscibilità del precetto penale e di prevedibilità delle conseguenze della sua violazione e sempre meno nell’esaltazione fideistica della fonte legislativa, che, per questo, perde di centralità ed importanza nella ricostruzione della nuova legalità.
Ecco, dunque, che si compone la cornice entro la quale la crisi del modello di diritto penale classico conduce inesorabilmente ad adottare le forme più fluide e flessibili dell’ermeneutica dei diritti.
Ma quali sono i confini attuali entro i quali si muove questo fiume in piena rappresentato dal diritto giurisprudenziale e quali gli effetti, i rischi?
è possibile comporre le spinte disallineanti dell’interpretazione “diffusa”, tipica della giurisdizione di merito, utilizzando la propensione nomofilattica e razionalizzante del precedente giurisprudenziale, che è propria della Corte di cassazione?
L’obiettivo di questo dialogo, magari il primo di una serie di confronti a più voci sul tema, è quello di provare ad individuare alcune risposte agli interrogativi di fondo che animano questa nuova epoca della legalità, che oramai si muove in una fase avanzata e dalla quale non si può più prescindere.
Proviamo a farlo con due “esperti”, tra i primi a rendersi conto delle nuove potenzialità e, al tempo stesso, dei nuovi problemi che l’espansione della capacità di elaborazione del diritto vivente da parte della giurisprudenza determina: Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, che dei labirinti interpretativi creati dall’interazione delle molteplici fonti creatrici del moderno diritto penale è acuto osservatore (autore di una delle opere pionieristiche sul tema: V. Manes, Il giudice nel labirinto, ed. Dike, 2012), e Luca Pistorelli, magistrato, componente delle Sezioni Unite Penali e grande esperto di tecnica della massimazione (si richiama L. Pistorelli, Dalla massima al precedente, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017).
Le risposte, come vedremo, si spingono ben oltre la ricognizione dello stato attuale di quella che, secondo alcuni, rappresenta una nuova ermeneutica, risorta in tutte le sue potenzialità da secoli di illuministica fiducia nel principio di riserva di legge in materia penale, e ne centrano anche i punti deboli e le prospettive meno esplorate.
3. Le risposte
1. Diritto scritto e diritto giurisprudenziale: la questione del loro rapporto ricorre nella storia degli ordinamenti giuridici di ogni epoca e sembra oggi nuovamente riproporsi con più forza e più attuale. E’ possibile la “compatibilità” tra due prospettive che hanno dato vita a sistemi penali differenti eppure a volte paralleli e coesistenti?
2. Fino a che punto il principio di legalità che ancora fonda il nostro diritto penale interno è in grado di reggere un formante giurisprudenziale sempre più forte, di fronte a quelli che la dottrina ha definito i “tradimenti legislativi” alla legalità? Si sta irrimediabilmente affermando un principio di “legalità debole” e, se è così, si tratta di un processo irreversibile in cui il giudice ha in mano le sorti dell’illecito penale?
V.M. Dietro la dicotomia che vorrebbe contrapposti “diritto scritto” e “diritto giurisprudenziale” ci sono sempre stati elementi di con-fusione, ed il confine è stato sempre mobile, e labile.
La legge, per gli antichi, era mutus magistratus, e il giudice lex loquens, le cui sentenze erano viva vox iuris: e ciclicamente si è avvertita l’esigenza di accentuare il ruolo della lex scripta, o di sistematizzarla in complessi normativi ordinati ed ordinanti, anche per arginare il diritto pretorile o giurisprudenziale, o quello elaborato dagli iuris prduentes nei loro responsa o nelle glosse, che nel tempo – come ben si sa – ha visto riconoscere come vere e proprie fonti del diritto criminale “[…] una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iracondia suggerito da Farinaccio […]” (come rammentava la avvertenza al lettore di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 7° ed., 1999, 31).
Proprio per reagire a questa “cosa funesta quanto diffusa al di d’oggi”, l’illuminismo giuridico ha avuto non solo il merito di proiettare il problema nella dimensione dello Stato di diritto, evidenziando la centralità di quel valore che oggi comunemente viene definito – con le parole del Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – rule of law o prééminence du droit; ma soprattutto di evidenziare – nella precipua angolatura penalistica – la cifra politica della questione, invocando la primazia della legge e, parallelamente, limiti precipui e stringenti all’interpretazione in materia penale, emblematizzati proprio nel § 4 dell’aureo libretto di Beccaria, Dei delitti e delle pene, dove l’ingenuità dell’agognato “sillogismo giudiziale” – e l’idea di giudice come Subsumptionsautomat – o l’enfasi posta sul divieto di interpretazione non possono offuscare la primordiale istanza di legittimazione che appunto sta alla base del principio di legalità.
Se alcune tensioni sono dunque antiche e cicliche – e tanto note che non merita indugiare oltre – non vi è però dubbio che l’epoca contemporanea ha registrato una mutazione sostanziale nel rapporto tra legge e giudice, anche e soprattutto – lo diciamo con ovvia preoccupazione – in materia penale, dove è stato a più riprese evidenziato un “mutamento genetico del discorso penalistico” (M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 49 ss.): in molti, troppi casi la legge non riesce più a stabilire alcun confine affidabile per il cittadino e per l’interprete, perché la norma è frutto di una stratificazione di fonti policentriche e reticolari, spesso generate – a loro volta - dal metabolismo giurisprudenziale delle Corti europee; e l’interpretazione del giudice – liberata da ogni vincolo - ha conseguentemente espropriato il monopolio politico della penalità prima affidato alla centralità della lex parlametaria, tanto che la stessa categoria del “diritto vivente” è, ormai da tempo, paradossalmente diventata – nel lessico della stessa giustizia costituzionale - il parametro di riferimento dei principi di tassatività e determinatezza (v., per tutti, A. Cadoppi, voce Giurisprudenza e diritto penale, in Dig. disc. pen., Agg., Torino, 2017).
Ognuno vede che il rapporto di equilibrio si è dunque profondamente alterato, anche perché i criteri interpretativi – come generati in un inesauribile magic box - sono tanto variegati quanto privi di gerarchie che riescano ad ordinarli: nelle aule si invoca ora il criterio letterale (testualista, originalista, etc.), ora quello storico, o quello sistematico, o teleologico, ovvero, sempre più spesso, quello dell’interpretazione conforme (volta a volta orientata alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE..), etc., il tutto a seconda dei gusti e delle esigenze del caso concreto, e con la stessa pretesa di autorevolezza (per una critica argomentata, specie sul fronte dell’interpretazione conforme, v. di recente M. Luciani, voce Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Ann. IX, Milano, 2016).
E’ noto: il declino della tassatività e la dissoluzione della legalità nell’interpretazione – in uno con la proliferazione scomposta dei metodi interpretativi che contrassegna l’ermeneutica giuridica contemporanea anche ove si rifuggano derive decostruzionistiche – hanno messo in crisi il futuro del “tipo legale” come schema logico-concettuale chiuso (Begriff), sostituito la sua determinatezza con la prevedibilità del diritto giurisprudenziale e posto il problema della “calcolabilità giuridica” all’apice delle urgenze anche in materia penale (v., di recente, F. Consulich, Così è (se vi pare). Alla ricerca del volto dell'illecito penale, tra legge indeterminata e giurisprudenza imprevedibile, in Sistema penale, 10 aprile 2020; amplius, A. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020).
Denunce recenti, con la voce sommamente autorevole di un Maestro venuto a mancare troppo presto, hanno evidenziato in maniera vibrante, specie nella prospettiva delle garanzie dei cittadini, lo “stato impossibile" del quadro attuale, dove ormai si punisce “senza legge, senza verità, senza colpa” (F. Sgubbi, Il diritto penale totale, Bologna, 2019); e riforme altrettanto recenti testimoniano, del resto, le difficoltà del legislatore nel ristabilire l’ordine infranto, inseguendo più il tentativo di imporre argini all’interpretazione dei giudici che il fine di fissare norme di condotta chiare per i loro destinatari privilegiati, i cittadini (basti pensare alla recente riforma dell’abuso d’ufficio, che – a prescindere dalle scelte tecniche adottate, non prive di notevoli ambiguità – dimostra il fallimento della riforma del 1997, mossa dall’evidente finalità di elevare la cifra di tassatività del reato).
Si è riflettuto forse meno, peraltro, sulle conseguenze che questo crescente disequilibrio avrà – e forse sta già avendo, in sinergia con vari altri fattori e vicende contingenti – sulla giurisdizione, e – prima e più in alto – sulla stessa legittimazione della magistratura, specie giudicante, che si scopre sempre più libera dai vincoli di legge ma, al contempo, sempre più condizionata dalle aspettative dell’opinione pubblica e del circuito mediatico: mentre dovrebbe essere chiaro che legalità formale, tassatività e determinatezza, divieto di analogia, etc. sono non solo garanzie per l’individuo – che ha un preciso diritto alla conoscibilità del divieto cui corrisponde un dovere dello Stato di garantire l’irretroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole - ma al contempo presidi protettivi per il giudice e per la sua decisione, che viene messa gravemente a repentaglio quando “ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge” (così, ancora, F. Sgubbi, Il diritto penale totale, cit., 28).
Venendo alle domande, dunque, la compatibilità tra le due prospettive, in quella “singolarissima materia” che è il diritto penale, è possibile – a mio avviso - solo se si condividano una serie di regole di “deontologia ermeneutica”, ossia principi-guida che orientino e limitino l’interpretazione del giudice in materia penale: a partire da una “difesa del senso letterale” della disposizione incriminatrice, secondo quella che la Corte suprema americana definisce “narrow reading”; a seguire con l’adesione ad un approccio “antianalogico”, che nei casi dubbi conduca il giudice ad astenersi dal rischio di analogia in malam partem (in dubio pro analogia et abstine); ed operando la scelta tra le molteplici opzioni interpretative che la disposizione offre preferendo una lettura “tassativizzante e tipizzante” della norma penale, alla luce di direttrici imposte dai principi di offensività e proporzione, secondo una preziosa indicazione che la stessa Corte di Cassazione, in diverse importanti pronunce, ha offerto (volendo, sul punto, rinvio a quanto più diffusamente argomentato in Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, 2222 ss.).
Solo con questo preciso, rigoroso impegno ermeneutico sarà possibile avviarsi a ripristinare l’equilibrio perduto della legalità formale e le geometrie fondanti lo Stato di diritto, un “parallelogramma di forze” in cui convergono sia il potere di emanare le leggi che il potere di interpretarle e applicarle ai casi concreti, vettori opposti la cui convergenza – e la cui immanente tensione – genera la stessa spinta che garantisce l’equilibrio del sistema: come nell’architettura di una volta – si è detto con una felice metafora (R. Bin) – le cui linee d’arco, per sorreggerne il peso, devono innervarsi su basi saldamente fissate, e – soprattutto – ben distanziate tra loro.
L. P. La norma è inevitabilmente il risultato dell’interpretazione della disposizione astratta nella sua applicazione al caso concreto, posto che quello dell’applicazione meccanica della legge era e rimane una utopia illuministica.
Di conseguenza l’attività interpretativa del giudice diviene coessenziale all’attuazione della legge scritta e ne costituisce irrinunciabile complemento in funzione della sua concretizzazione giuridica. In tal senso il giudice “forma” il diritto o, se si preferisce, diviene fonte del diritto del caso concreto, produce, cioè, il diritto applicato. Il che non significa negare la supremazia della legge, ma più semplicemente riconoscere – ricorrendo ad una stucchevole, ancorchè efficace, espressione invalsa nei tempi correnti – che il giudice è il necessario veicolo per la “messa a terra” del dettato legislativo, consentendo così alla realtà fenomenica di riflettersi nella regola astratta.
Il rapporto tra la legge scritta e la sua applicazione al caso concreto è un equilibrio delicato, soprattutto in un ambito, come quello del diritto penale, governato dal principio di legalità. Equilibrio che i quesiti assumono oramai messo in crisi dalla erosione della centralità della prima in favore della sempre maggiore “invadenza” del formante giurisprudenziale nella definizione in via interpretativa del suo contenuto.
L’assunto non può essere negato, anche se il presunto scivolamento dalla legalità della legge verso una legalità “effettuale” mi sembra che, a volte, venga eccessivamente enfatizzato, ben oltre le reali dimensioni del fenomeno, mentre il dibattito sul punto risulta spesso inquinato da pregiudizi ideologici che finiscono per confondere cause ed effetti.
Sono dell’opinione che sia anzitutto doveroso confrontarsi in maniera obiettiva con la realtà della produzione legislativa allo stato attuale dell’evoluzione dei sistemi democratici e soprattutto di quelli caratterizzati dalla (formale o effettiva che si ritenga) centralità dell’istituzione parlamentare.
Confronto che non può che evidenziare come tale produzione sia per sua natura il frutto di articolate mediazioni indotte non solo (o non tanto) dalla frammentazione dei corpi legislativi, quanto, piuttosto, in ragione della necessità di coniugare le diverse e spesso confliggenti istanze provenienti da quelli sociali, in grado di riflettersi anche all’interno delle singole componenti rappresentative. Mediazioni che, anche in materia penale, inevitabilmente si riflettono sull’effettiva autosufficienza del prodotto legislativo. A ciò deve aggiungersi come l’impressionante accelerazione dei cambiamenti sociali e dell’evoluzione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno determinato una crescente domanda di adeguamento e innovazione degli ordinamenti positivi, i cui tempi – per le ragioni già ricordate – risultano però difficilmente compatibili con l’urgenza di soddisfare le aspettative e che inevitabilmente comporta nella sede applicativa uno sforzo di adattamento della legge “scritta” alle mutate esigenze.
Accanto a quella che appare in misura crescente come una crisi “strutturale” delle democrazie rappresentative (che non è certo questa la sede per approfondire), destinata a ripercuotersi inevitabilmente sulla tenuta della legalità formale, non è poi in dubbio che nel “caso” italiano si assiste altresì da tempo ad un progressivo deterioramento della tecnica legislativa e ad una degenerazione della mediazione democratica nel mero compromesso, nonchè al sempre più frequente tentativo di trasferire “a valle” la responsabilità politica di scelte controverse ricorrendo alla formulazione ambigua o generica delle singole disposizioni.
Ciò sempre più spesso si traduce nell’elaborazione di enunciati normativi caratterizzati da scelte terminologiche semanticamente poco impegnative sul piano definitorio e che irrimediabilmente si consegnano all’esperienza applicativa per acquisire certezza e stabilità di significato ovvero nella introduzione di incriminazioni finalizzate ad attrarre fattispecie tipologiche molto particolari, ma architettate in maniera assai sommaria e con scarsa ponderazione della loro attitudine espansiva.
A tutto questo deve infine aggiungersi la crescente complessità del sistema delle fonti, che sempre più spesso vede concorrere nella determinazione del contenuto del diritto penale quelle internazionali o sovranazionali con quelle nazionali, facendo insorgere l’esigenza di conciliarle in sede applicativa.
Limiti storici o strutturali e vizi patologici dell’esercizio della potestà legislativa sono dunque alla base di quella «dissoluzione della legalità nell’interpretazione» efficacemente fotografata da Vittorio Manes. Il principio di legalità costituisce, infatti, non solo il fondamento del monopolio del legislatore in materia penale, ma definisce altresì come questo potere debba essere esercitato. In questo senso il dogma illuministico dell’applicazione meccanica della legge può e deve essere recuperato nella tecnica legislativa, come tensione verso la formulazione di norme chiare e in grado di esprimere con certezza la volontà dell’artefice del diritto penale.
Le mancanze del legislatore non possono costituire però l’alibi per una sorta di eversione dell’ordine costituzionale, consentendo al formante giurisprudenziale di ricostruire il contenuto della legge travalicandone i limiti esegetici.
In definitiva, come è ben chiaro a tutti, perché la legalità della legge non sia percepita come una legalità “debole”, come suggerito dai quesiti, appare non più rinunciabile una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.
Sul punto mi limito a due brevi considerazioni.
Non posso, anzitutto, che concordare con Vittorio Manes sull’esigenza di formulare in proposito principi-guida fondati anzitutto sulla difesa del senso letterale della disposizione incriminatrice. Resta da intendersi sul come. Ed a mio avviso l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria sul punto (non priva di contraddizioni ed incertezze) richiede a questo punto di essere recepita ed ordinata dallo stesso legislatore, posto che l’unico reale vincolo normativo costituito dalle preleggi appare oramai inadeguato, quantomeno nella materia penale, a fronteggiare le molteplici sollecitazioni che convergono sul giudice al momento dell’applicazione del dato normativo al caso concreto di cui si è detto.
Una seconda annotazione riguarda invece la magistratura. Nel dibattito sulla “sopravvivenza” della legalità formale mi sembra che, con eccessiva disinvoltura, si tenda a non volersi confrontare con il principio della riserva di legge e, dunque, con il profilo della legittimazione democratica della fonte da cui promana il diritto penale.
Per conciliarsi nella materia penale con il principio di legalità che la domina, l’atto interpretativo può sì esitare nella individuazione di contenuti normativi apparentemente “inediti” rispetto alla lettera della disposizione (anche e soprattutto nell’ottica dell’adeguamento costituzionale o convenzionale di quest’ultima), purchè l’operazione avvenga per l’appunto nel rigoroso rispetto dei limiti esegetici della stessa e si traduca dunque nel riconoscimento della reale capacità espansiva della fattispecie astratta tipizzata e non già nella produzione di quella che di fatto si rivelerebbe essere una nuova disposizione. Condizione questa funzionale non solo al rispetto della matrice di garanzia del principio, ma anche (e, forse, soprattutto) di quella politico-ideologica: non si tratta dunque solo di rendere compatibile la “creatività” interpretativa con il principio di tassatività e determinatezza, ma anche con il significato che nell’assetto costituzionale assume l’attribuzione del monopolio normativo al legislatore.
Trascurare tale ultimo aspetto porta a non vedere a mio avviso i rischi ultimi dell’affermato scivolamento nella legalità “effettuale” e cioè, in prospettiva, l’insorgere dell’esigenza di modificare lo statuto costituzionale della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione democratica in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti e ciò in quanto l’interpretazione non è mai neutrale, contenendo in sé un insopprimibile margine di creatività e di soggettivismo, spesso condizionata dalle precomprensioni dell’interprete, tanto più “pericolose”, quanto non esplicitate od occultate dietro lo schermo dell’argomentazione tecnico-giuridica.
E’ dunque indubitabile che un valido antidoto a questo scenario - per il sottoscritto distopico, ancorchè non inedito nella storia dell’offerta politica nostrana - può essere rappresentato proprio dall’assunzione da parte del legislatore della responsabilità di elaborare una più stringente codificazione di quella “deontologia ermeneutica” cui ha fatto cenno il Prof. Manes.
3. L’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale ha introdotto un “vulnus” al concetto classico di legalità che induce a ritenere legittimo un “sistema del precedente”, quanto meno di quello “più forte” di matrice delle Sezioni Unite, oppure si pongono le basi per una “riorganizzazione della nomofilachia” che metta nuovamente al centro del lavoro della Corte di cassazione la sua funzione di garantire uniformità interpretativa?
V.M. La funzione nomofilattica della Cassazione, aggravata da un abnorme sovraccarico di ricorsi, è in crisi da tempo, e da tempo non riesce a controbilanciare il disequilibrio che via via si è determinato: casi di conflitti sincronici che apparivano, un tempo, esempi paradossali ”di scuola”, si verificano con frequenza crescente tra le varie sezioni (come nel caso del regime intertemporale relativo alle norme dell’ordinamento penitenziario, poi esitato nella nota decisione della Corte costituzionale n. 32 del 2020, su cui tornerò) o all’interno della stessa sezione (come nei casi della distinzione tra concussione, induzione indebita e corruzione, in seno alla sezione VI, della configurabilità del falso societario nelle valutazioni estimative, all’interno della sezione V, o dell’interpretazione della riforma in materia di responsabilità medica, all’interno della sezione IV), finanche nella forma di contrasti inconsapevoli (come nel caso delle pronunce Tarabori e Cavazza, depositate a pochi mesi di distanza dai giudici della IV sezione, in tema di responsabilità medica), e molti di questi hanno come esito – non sempre terminativo - la rimessione alle Sezioni Unite.
In questo quadro, l’aver introdotto un obbligo di rimessione come quello previsto all’art. 618, comma 1 bis, c.p.p., rappresenta un primo, apprezzabile strumento volto a temperare i conflitti giurisprudenziali, tanto più nocivi se generati al vertice del sistema, e manifesta la tendenza dell’ordinamento ad una stabilizzazione del precedente funzionale, anche, a garantire maggior conoscibilità della legge da parte dei consociati e, dunque, maggior certezza del diritto (ma v. di recente, sul punto, G. Amarelli, Dalla legolatria alla post-legalità: eclissi o rinnovamento di un principio, in RIDPP, 3, 2018, 1406 ss.; M. Lanzi, Error iuris e sistema penale. Attualità e prospettive, 213 s.; ampiamente, ora, A. Nappi, La prevedibilità nel diritto penale, Napoli, 2020); ed in questa prospettiva si comprende anche lo sforzo di chi ha proposto di rafforzare ulteriormente questo vincolo evocando un onere di motivazione rafforzata ove la sezione semplice voglia “convincere” le Sezioni Unite a rivedere il proprio orientamento (sul punto, G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra Sezioni unite e Sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione giustizia, 4, 2018).
Ben prima, tuttavia, la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva garantito un significativo e concreto riconoscimento di “valore” al precedente, sin dalle SS.UU., n. 18288/2010, Beschi (quando con riferimento al c.d. giudicato esecutivo ex art. 666, comma secondo, c.p.p., ha affermato il principio secondo cui “il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata”); decisione a cui hanno fatto seguito varie pronunce di tenore analogo.
Si era da tempo preso atto, dunque, della valenza paranormativa del “diritto vivente”: e proprio al fine di rafforzare il ruolo della Cassazione come Corte suprema o “del precedente” e di rivitalizzare la sua funzione nomofilattica la riforma Orlando ha introdotto un meccanismo volto ad assicurare maggior stabilità, quanto meno, alla decisione delle Sezioni Unite, in una prospettiva sempre più distante da una efficacia solo “persuasiva” e “vincolante”, al più, per il giudice del rinvio (artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, c.p.p.; art. 173, comma 2, disp. att.).
Tuttavia, il sistema resta ancora sideralmente lontano da un accettabile livello di nomofilachia, e da un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti. La stessa funzione nomofilattica, del resto, nell’attuale contesto di complessità non può essere affidata alla sola Cassazione, e men che meno alle sole Sezioni Unite, il ricorso alle quali, se troppo frequente, rischia peraltro di corroderne l’autorevolezza, con una sorta di volgarizzazione – o di “macdonaldizzazione” – delle relative pronunce.
Da questo punto di vista, un ausilio potrebbe e dovrebbe venire – in una sorta di “nomofilachia condivisa” - dalla Corte costituzionale, inducendola a riscoprire il tradizionale strumento delle “sentenze interpretative” che per molto tempo sono state limitate a sporadici casi di interpretazioni “innovative” o particolarmente “ardite” e “creative”, e che a partire dalla sentenza n. 356 del 1996 sono state largamente sostituite – come si sa - da decisioni di inammissibilità.
La recente giurisprudenza costituzionale che ha esteso il principio di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario offre un buon esempio di introduzione e stabilizzazione di “nuovo diritto” per il tramite di pronunce interpretative: di fronte ad un “diritto vivente” conflittuale, la Corte costituzionale ha prima “sfoderato” la sentenza interpretativa di accoglimento, con la storica pronuncia n. 32 del 2020; successivamente, visto che l’interpretazione accolta deve considerarsi diritto vivente, di fronte ad analoga questione prospettatale ha potuto limitarsi ad una sentenza interpretativa di rigetto, invitando il giudice rimettente a prenderne atto.
Un principio rivoluzionario che faticava ad imporsi nella ermeneutica della giurisprudenza di legittimità è stato così veicolato e stabilizzato per via interpretativa dalla Corte costituzionale, evidenziando che “nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020 […]” (sentenza n. 193 del 2020).
L.P. Il comma 1-bis è stato introdotto nell’art. 618 c.p.p. dalla riforma del 2017 al dichiarato fine di rafforzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità garantendo maggiore stabilità e certezza ai pronunziamenti adottati dalla sua massima espressione e cioè le Sezioni Unite.
Non si tratta di una novità assoluta, invero, atteso che una disposizione analoga già compariva nel testo del progetto definitivo del codice di procedura penale, ma venne poi accantonata in ragione delle obiezioni sollevate in sede parlamentare e che hanno portato nel corso degli anni a respingere anche ulteriori proposte di riforma dell'art. 618 c.p.p. nel senso indicato.
In estrema sintesi, i timori manifestati anche dalla dottrina contraria alla disciplina di cui si tratta sono legati al paventato rischio di una deriva verso la vincolatività del precedente e la progressiva atrofizzazione della spinta innovativa della produzione giurisprudenziale.
Si tratta, però, di timori cha affondano le radici in una visione astratta dei processi attraverso cui si affermano gli orientamenti giurisprudenziali nella sede di legittimità e che, in ultima analisi, finiscono per mettere in dubbio la stessa legittimazione della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione.
La realtà con la quale il legislatore ha invece ritenuto di fare in conti è però quella in cui l’organo che dovrebbe esprimere l’indirizzo nomofilattico non è (più) in grado di produrre orientamenti uniformi e stabili, gravata com’è dall’eccessivo numero dei ricorsi e dalla conseguente esigenza nel tempo di accrescere a dismisura il suo organico per farvi fronte. Ben più concreto è dunque il rischio (già divenuto per l’appunto opprimente realtà) di una crescente imprevedibilità delle decisioni di merito, sempre più in grado di trovare una base giustificativa all'interno dei numerosi contrasti interpretativi che caratterizzano la produzione della Suprema Corte. Imprevedibilità la cui inevitabile conseguenza è l’aumento del contenzioso, il quale a sua volta innesca un meccanismo perverso che genera ancora maggiore imprevedibilità ed instabilità.
La soluzione adottata dal legislatore appare come un ragionevole bilanciamento tra garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico in funzione dei cambiamenti sempre più rapidi della società e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione. Esigenze che invero non si contrappongono, risultando invece avvinte in un rapporto di reciproca implicazione. In tal senso, l'aver assegnato alle decisioni del supremo organo di nomofilachia una valenza più concreta, non significa aver reso sterile la Corte, atteso che l'estemporaneo scostamento da tali decisioni è spesso solo un “finto” sintomo della vitalità dell'elaborazione giurisprudenziale, mentre la spinta ad una rivisitazione dei principi affermati in passato altrettanto proficuamente può esprimersi attraverso l'autorevolezza delle argomentazioni dispiegate nell'ordinanza di remissione. Ed infatti la nuova disposizione non configura una sorta di “dittatura” delle Sezioni Unite, ma struttura il rapporto dialettico tra le stesse e le sezioni semplici, chiamate a rilevare le eventuali criticità dell'interpretazione consolidata.
Del resto la disposizione è stata mutuata da quella introdotta dal d. lgs. n. 40/2006 nell’art. 373 comma 3 c.p.c. per il giudizio civile di cassazione e la cui oramai più che decennale applicazione non ha visto concretizzarsi i rischi paventati.
Nel rispondere alla domanda, dunque, tenderei a non intravedere nella modifica dell’art. 618 c.p.p. l’attuazione di un surrettizio disegno finalizzato all’instaurazione di un “sistema del precedente”, ma più semplicemente un valido strumento di razionalizzazione della funzione assegnata dall’ordinamento alla Cassazione.
4. Vincolo del precedente, nuova ermeneutica e massimazione sembrano oramai costituire una galassia in via di espansione.
Quando è possibile, ed a quali condizioni, che un’affermazione giurisprudenziale si trasformi in “precedente” anche attraverso la massimazione? E il cd. diritto dottrinale può avere un ruolo in questa trasformazione?
V.M. Senza dubbio la stabilizzazione dei precedenti passa anche da una razionalizzazione del sistema di massimazione: del resto, non bisogna dimenticare che se “la forza e l’efficacia di un precedente è inversamente proporzionale alla quantità e al numero dei precedenti” (G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pen. cont., 6 febbraio 2017, 1), l’efficacia della massima è direttamente proporzionale alla sua precisione puntiforme, ed alla selettività con cui si scelgono le massime da “ufficializzare”.
Qualche anno fa si registravano, negli archivi di ItalgiureWeb, oltre 150.000 massime nella sola materia penale (E. Lupo, Cassazione e legalità penale. Relazione introduttiva, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 27 ss., 33 ss.): un profluvio al cospetto del quale la funzione di orientamento della massima risulta sostanzialmente annichilita, ed ogni sforzo di cernita del giudice di merito in sede di motivazione si riduce, sostanzialmente, ad un esperimento di cherry picking (dove si finisce con lo scegliere la ciliegina più gradita, non necessariamente rappresentativa di quelle contenute nel cestino).
In questa prospettiva, peraltro, si affaccia anche la necessità di definire l’autorità cui compete l’enunciazione della ratio decidendi “vincolante” per la giurisdizione, se debba trattarsi dello stesso organo decidente o, piuttosto, del secondo giudice chiamato a confrontarsi con fatti analoghi secondo l’insegnamento dell’esperienza del precedent di common law.
Alla dottrina, d’altro canto, spetta un compito fondamentale di sussidio all’evoluzione del diritto giurisprudenziale, declinabile in almeno tre attività (M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Quest. giust., 2018): a) la conoscenza della legge e la stessa ricerca del diritto applicabile (Rechtsfindung, Rechtsauslegung); b) l’applicazione del diritto ai casi (Rechtsanwendung); c) la ricostruzione del diritto dopo l’applicazione ai casi (Rechtsfortbildung).
In questo senso, è la dottrina che, a monte, può preparare il campo ad un mutamento giurisprudenziale, mettendone in luce le ragioni; a valle, evidenziare o criticare la autorevolezza del “precedente”; censire le “classi di casi” a cui quel precedente dovrebbe estendersi, o, all’opposto, evidenziare le ragioni del distinguishing; da diversa prospettiva, e soprattutto, mettere in guardia da criptoanalogie e sollecitare la doverosa attivazione delle garanzie di irretroattività che devono contrassegnare un overruling con effetti in malam partem.
L.P. L’archivio informatico delle massime di ItalgiureWeb costituisce da diverso tempo la principale – e in larga misura l’esclusiva – banca dati da cui i magistrati italiani attingono la loro informazione sugli orientamenti della Suprema Corte e le conseguenti indicazioni nomofilattiche, costituendo la fondamentale – e, come detto, spesso l’unica – fonte di conoscenza del diritto giurisprudenziale.
In ogni caso costituisce l’unico strumento istituzionale di divulgazione dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la tecnica della “massimazione” delle decisioni della Corte e come tale è diffusa la sua consultazione anche da parte degli altri operatori del diritto.
La conoscibilità del diritto vivente – e quindi della norma nella sua interpretazione concreta - non può ritenersi garantita soltanto dalla formale accessibilità delle sentenze, ma presuppone l’effettiva possibilità di ricostruire gli orientamenti giurisprudenziali e la loro eventuale stabilità nel tempo.
Già in altre occasioni ho avuto modo di denunziare come tale possibilità diventi nel tempo sempre meno effettiva.
Per un verso l’archivio delle massime si è sviluppato nel tempo sostanzialmente per accumulazione, limite appena attenuato dalla segnalazione delle connessioni tra le singole decisioni attraverso l’indicazione di quelle conformi o difformi ed il richiamo a quelle per altri motivi considerate di interesse per la contestualizzazione del principio massimato. L’ipertrofica produzione della Corte di legittimità, seppur filtrata dalla selezione compiuta dall’Ufficio del Massimario, ha dunque generato un accumulo di decine di migliaia di massime che, come già sottolineato da Vittorio Manes, rendono spesso solo teorica la possibilità di identificare la reale portata di una pronunzia ed il suo valore di “precedente”.
Per altro verso deve ricordarsi come le scelte e le tecniche di massimazione sono il frutto di una elaborazione pluridecennale compiuta esclusivamente all’interno della Corte. Potrebbe credersi che ciò vada imputato ad una scarsa attitudine da parte dell’istituzione suprema di giustizia al confronto, ma in realtà la sua autoreferenzialità è la inevitabile conseguenza del completo disinteresse da parte delle altre componenti del mondo giuridico per il tema (fatte salve meritorie eccezioni), dell’assenza, cioè, di un effettivo dibattito sulla reale funzione della massima, sul metodo di individuazione del principio di diritto che la stessa intende evidenziare, sui criteri di selezione delle decisioni da sottoporre a massimazione, sulla stessa determinazione dei criteri per l’assunzione di una decisione a “precedente”.
E’ dunque auspicabile una profonda revisione dell’attività di massimazione e di ristrutturazione dell’archivio informatico, anche attraverso il forse utopico, ma a mio avviso imprescindibile, coinvolgimento dell’Accademia e dell’Avvocatura.
5. Logica della fattispecie concreta e logica del principio di diritto generato dalla scelta di campo per una ermeneutica tassativizzante e tipizzante possono apparire come approcci opposti dell’attività di creazione del precedente e del processo di massimazione, ma sono realmente inconciliabili?
V.M. Non vedo, francamente, questa inconciliabilità: identificazione della regula iuris corretta e applicazione della regola al caso concreto sono due aspetti distinti, ma coessenziali, del fenomeno giuridico: coessenziali anche se non si giunga a condividere una opinione peraltro diffusa nell’ermeneutica contemporanea, per la quale nessuna regola potrebbe essere interpretata prima, e al di fuori, della sua applicazione ai casi (v. ad es. O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo della legge, Milano, 2006, 18 ss.; ma anche M. Vogliotti, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia in materia penale, Torino, 2011, 53 ss.; Id., Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I, 131 ss., 162 ss.; sul punto, in chiave critica, v. ancora M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 10 ss.).
Sono questi due momenti, dunque, che danno come risultato la norma del caso concreto, o meglio il “caso-norma” (Fallnorm), che è norma in quanto esprime la riconducibilità o la sussumibilità di quella condotta nel perimetro della disposizione interpretata, secondo criteri di ripetibilità, e che se è innovativo rispetto al passato – e percepito come un avanzamento originale rispetto allo stesso, e non solo come esempio applicativo generato dalla infinita casistica quotidiana - diventa appunto qualcosa di simile al “precedente”, “una volta che sia riconosciuto come tale non solo da chi lo ha giudicato ma, evidentemente, dalla…successiva giurisprudenza che, case by case, opera giudizi analogici particolareggiati tra i casi” (cfr., ancora, M. Donini, Fattispecie o case law?, cit., 12, anche per la non sovrapponibilità tra “caso-norma” e “precedent” di common law).
Dunque la giurisprudenza, al di là dei casi di ordinaria esemplificazione applicativa della norma agli infiniti casi della quotidianità, talvolta genera – anche con la guida della dottrina – una “sotto-fattispecie” che per la sua innovatività è riconosciuto come vero e proprio precedente: come nel caso recente – condivisibile o meno che esso sia – dell’applicazione dei reati di turbativa al di fuori dal perimetro economico-commerciale delle gare d’appalto estendendole alle valutazioni comparative riferibili ai concorsi pubblici.
La natura di precedente – è stato ancora evidenziato - “dipende dalla percezione o meno di uno strappo innovativo rispetto al passato […]; [e] il loro successivo “riconoscimento”, dipende dall’onestà intellettuale di ammettere quello strappo o il coinvolgimento della sfera di aspettative e dei diritti di terzi rispetto all’imprevedibilità del mutamento” (ancora M. Donini, op. ult. cit., 14).
Qui, dunque, si gioca la delicata questione delle garanzie intertemporali interpellate dall’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il quale - se davvero maturo e consapevole del ruolo ormai assunto - dovrebbe appunto improntarsi non solo (e non tanto) a quel self-restraint che gli impone di rispettare il perimetro di una interpretazione “tassativizzante e tipizzante”, ma anche, ed appunto, a quella onestà intellettuale che lo conduca a riconoscere le proprie spinte innovative imprevedibili, quanto meno in materia penale, incanalandole entro i corretti binari costituzionali.
L.P. Se il formante giurisprudenziale concorre all’identificazione del diritto applicato mi sembra perfino superfluo riconoscere l’intimo legame tra fattispecie concreta e principio di diritto. Nella formazione del “precedente”, però, ciò che assume rilievo non è la fattispecie concreta considerata in tutte le sue articolazioni, ma quella tipologica cui è riconducibile, giacchè solo in tal modo è possibile individuare una base omogenea funzionale al confronto dei principi affermato nelle diverse pronunzie ed all’apprezzamento del carattere eventualmente innovativo di quella più recente. Fermo restando che secondo i tradizionali criteri assunti dal giudice di legittimità una decisione innovativa diviene precedente solo qualora altra successiva la riconosca come tale aderendovi.
4. Le conclusioni
Le sirene del diritto giurisprudenziale “creativo” sono senz’altro affascinanti, ma il principio di legalità tuttora appare come un baluardo di garanzia del nostro sistema penale che ne assicura anche la sua tenuta democratica.
è questa la prospettiva che emerge dal confronto delle risposte di Vittorio Manes e Luca Pistorelli alle domande volutamente formulate con tono accentuatamente dialettico.
è, quindi, sì innegabile la forza propulsiva del formante giurisprudenziale nei moderni sistemi di diritto penale: e come potrebbe essere negata?.. essendo peraltro simbolo di modernità di approccio, dal momento che le improvvise fughe in avanti nella ricerca di tutela dei diritti imposte dal tessuto sociale sopraffanno spesso il legislatore.
E tuttavia, come ammonisce Manes, è necessario che tale forza sia orientata secondo un’auspicata serie di regole di “deontologia ermeneutica” condivise, che svolgano il ruolo di linee guida interpretative, oltre che tracciare confini di operatività delle scelte del giudice (sul tema, appunto, V. Manes, Dalla fattispecie al precedente: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. Pen., 2018, 2222 e s., nonché in Dir. Pen. Cont., 17 gennaio 2018), la cui attività dovrebbe sempre rimanere sostanzialmente, e non solo formalmente, distinguibile da quella del legislatore per rispettare gli equilibri del sistema ordinamentale democratico fondato sul principio di legalità penale classica (per una prospettiva generale e valoriale dell’attività di interpretazione nella materia penale, si rimanda a O. Di Giovine, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), in Questione Giustizia, n. 4/2018).
Una lettura meno enfatica delle magnifiche sorti progressive della legalità “effettuale” è quella proposta anche da Luca Pistorelli, che richiama ad un realismo d’analisi dell’entità del fenomeno, scevro da approcci eccessivamente ideologizzati.
Dividersi in due partiti contrapposti – quello dei fautori del potere salvifico della nuova ermeneutica e del formante giurisprudenziale, rispetto alle mancanze del legislatore, e quello di coloro i quali si richiamano al principio di legalità penale formale quale unico presidio valido di un diritto penale democratico e capace di preservare garanzie ed approntare tutele – è operazione artificiosa oltre che pericolosa.
L’esegetica, invece, deve sprigionare tutte le sue potenzialità migliorative della voce legislativa attraverso una maggiore definizione delle regole dell’interpretazione.
Pistorelli auspica che sia lo stesso legislatore a provvedere all’elaborazione di strumenti ermeneutici maggiormente dotati di efficacia ordinatrice dell’attività interpretativa giurisprudenziale, oggi affidata al criterio troppo generale dell’art. 12 delle Preleggi.
E tuttavia, sia consentito per certi aspetti dubitare di una tale capacità legislativa nel breve periodo, a meno di non immaginare una task force di intelletti delegati all’opera, che, unendo le forze migliori di dottrina, giurisprudenza ed avvocatura, sopperisca alla mancanza diffusa di qualsiasi consapevolezza dell’importanza della questione da parte di chi detiene il potere di incidere sulla legalità formale.
Non è in dubbio, d’altra parte, che un simile sforzo di riorganizzazione di alcune pre-regole interpretative dotate di carattere sistematico debba essere tentato, dovendo essere valutate con estrema prudenza prospettive che paiono troppo inclini a guardare con favore un formante giurisprudenziale slegato dalla legalità formale ed a sfuggire al confronto inevitabile con il principio della riserva di legge; principio che costituisce, in filigrana, la trama di quelli di autonomia ed indipendenza della magistratura così come concepiti dal nostro dettato costituzionale: caduta la forza di garanzia democratica della riserva di legge in materia penale, si rischia di aprire le porte anche all’esigenza di modificare lo statuto primario della magistratura, al fine di dotarla di quella legittimazione .. in grado di giustificare una eventuale assunzione del formante giurisprudenziale nel sistema delle fonti, come avverte acutamente Pistorelli.
E forse un primo tentativo di rispondere a questa esigenza di stabilizzazione e sistematizzazione del formante giurisprudenziale può ritrovarsi nella disposizione introdotta con la legge n. 103 del 2017 all’interno del dettato dell’art. 618 del codice di procedura penale.
Il nuovo comma 1-bis, pur non costruendo certo una regola di precedente vincolante “puro” nel sistema processuale penale, riscontra un’esigenza di ordine nomofilattico, che opera sia sul piano, interno alla Cassazione, della moral suasion e della motivazione – ogni Sezione penale che intenda discostarsi dall’autorevole affermazione delle Sezioni Unite dovrà d’ora in poi, anzitutto, farsi carico più profondamente, ed obbligatoriamente, del confronto con le ragioni di essa e, quindi, sentirsi portatrice di un’adeguata e convincente carica argomentativa e giustificativa della possibile scelta dissonante – sia su un orizzonte di orientamento esterno, inducendo gli interpreti e i destinatari del precetto penale a confrontarsi con un’ermeneusi maggiormente affidabile e dotata di più ampi margini di prevedibilità (per un approfondimento, si richiama ancora, per tutti, il contributo di G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in Dir. Pen. Cont., 29 gennaio 2018; nonché A. Caputo - G. Fidelbo, Appunti per una discussione su ruolo della Corte di cassazione e “nuova” legalità, in Sistemapenale, n. 3/2020).
Ed è proprio sul fronte della prevedibilità che si gioca la partita della tenuta convenzionale del formante giurisprudenziale, secondo gli orientamenti della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, legati a logiche di prospective overruling che stanno emergendo in tutta la loro problematica rilevanza anche nel nostro sistema penale (si vedano in proposito le illuminanti pagine di M. Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello Stato per la carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva a formazione giudiziaria, in Rivista italiana di diritto e processo penale, 2016, p.346 e ss.; nonché, dello stesso Autore, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in AA.VV., Cassazione e legalità penale, a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, 77 e ss).
Una regola del precedente soft ed a vincolatività relativa quale quella che viene fuori dall’art. 618, comma 1-bis (per tale definizione e approfondimenti, si richiama G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente?, op. cit.) può aiutare a riorganizzare la funzione nomofilattica, sotto stress per l’eccessivo carico di decisioni richieste alla Corte di cassazione.
E tale affermazione non è in discussione, per quanto sulla portata della nuova disposizione Manes e Pistorelli si dividono: a parere del primo, essa non consente di raggiungere l’obiettivo di un’apprezzabile stabilizzazione dei precedenti e rischia di inflazionare le pronunce delle Sezioni Unite, sicchè si invocano nuovi orizzonti nomofilattici che vedano coprotagonista la Corte costituzionale attraverso lo strumento delle “sentenze interpretative”; a giudizio del secondo, la norma, tutto sommato, merita una valutazione più benevola, quale strumento di razionalizzazione della funzione nomofilattica basato su un ragionevole bilanciamento tra garanzia dell'evoluzione del pensiero giuridico, capace di seguire i cambiamenti sempre più rapidi della società, e garanzia della certezza dell'interpretazione che di tali cambiamenti fornisce la Cassazione.
Sembra, in ogni caso, molto positiva l’efficacia dialogica della nuova procedura prevista per l’eventualità che una Sezione semplice intenda discostarsi da un orientamento già oggetto di scelte interpretative delle Sezioni Unite: si potrà instaurare un rapporto dialettico più proficuo, maturo e consapevole tra le sezioni semplici e il massimo collegio nomofilattico, tale da consentire l’emersione di eventuali criticità dell’orientamento “vincolante” e, d’altra parte, da evitare più possibile un confronto solo parziale o non adeguatamente meditato con il precedente più “autorevole” o, peggio ancora, fughe distoniche azzardate.
Tale ultimo effetto potrebbe consentire - certo non in tempi brevi, ma nel medio periodo - di arginare il moltiplicarsi eccessivo degli orientamenti in contrasto all’interno della giurisdizione di legittimità, che, oltre ad aumentare l’imprevedibilità delle decisione, agendo sulla percezione di instabilità del precedente dei giudici di merito, diventa esso stesso causa di ulteriori, collegati contrasti.
Un ruolo fondamentale nella ricostruzione del precedente, sia pur solo relativamente vincolante, e nella riorganizzazione della funzione nomofilattica di cui è interprete il giudice di legittimità deve essere riconosciuto, oggi più che mai, all’attività di massimazione e, dunque, all’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.
L’archivio delle massime gestito dal CED della Corte di cassazione (Italgiure Web) dovrebbe essere diretto a supportare l’attività nomofilattica della Suprema Corte e ad offrire un quadro prospettico dell’evoluzione del pensiero giurisprudenziale, fissandone i percorsi interpretativi più attuali e consentendo di orientarsi circa il “diritto vivente”.
Manes e Pistorelli hanno entrambi invocato fortemente una razionalizzazione dell’attività di massimazione, per sostenere i nuovi orizzonti dell’ermeneutica moderna e le sue nuove sfide: la mole sempre più ingente di massime contenute nella banca dati Italgiure Web è certamente un problema nella ricerca di precedenti stabili ed autorevoli che svolgano in pieno la loro funzione di “orientamento”.
Il lavoro incessante di selezione ed elaborazione delle massime da parte dell’Ufficio del Massimario non riesce a governare l’implementazione pletorica della banca dati, dovuta all’eccessiva produzione della Corte di legittimità, effetto, a sua volta, del carico di ricorsi a dir poco anomalo cui essa deve soggiacere.
Tuttavia, è necessario chiedersi se tali prospettive siano unanimemente condivise e quali siano oggi gli obiettivi della massimazione: in che misura essa debba, da un lato, rispondere alle aspettative nomofilattiche e, dall’altro, costituire lo specchio attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, seguendola “in tempo reale”.
Secondo ragioni in parte antitetiche a quelle appena proposte, infatti, la massima penale dovrebbe quanto più tendere a evidenziare il caso concreto di riferimento, per la forza creatrice del nesso interpretare-applicare: il significato di un testo normativo si comprende autenticamente e “si costituisce” solo in relazione al contesto applicativo, non vi è distinzione netta tra quaestio facti e quaestio iuris; nè separazione tra interpretazione in astratto e interpretazione in concreto: ogni nuovo “caso” aggiunge qualcosa alla comprensione della norma (per una ricostruzione del tema, si richiama M. Vogliotti, Lo scandalo dell’ermeneutica per la penalistica moderna, in Quaderni fiorentini, 2015, tomo I).
Dunque, ben vengano, in tale ottica, anche banche dati capillari e poderose: la banca dati non rischia nulla, infatti, dall’eccessiva implementazione, che anzi è funzionale all’obiettivo ultimo di “costruire il diritto”, seguendo i casi concreti che descrivono l’essenza della norma penale, strutturalmente “aperta” ai mutamenti sociali.
Ed invece, una visione di maggior razionalizzazione, più funzionale alle aspettative nomofilattiche, postula, probabilmente, un contenimento della massimazione per fattispecie, da limitarsi alle ipotesi realmente peculiari, utili da segnalare per frequenza e paradigmaticità: la massima penale deve fornire la percezione del diritto vivente e contenere un nucleo di astrazione necessaria del principio di diritto.
In tale prospettiva, la costruzione di un archivio troppo “sensibile” alle fattispecie concrete ostacola la ricostruzione dei principi di diritto astratti, leggibili come linea di tendenza interpretativa dall’insieme delle applicazioni normative svolte nelle decisioni giurisprudenziali.
Si tratta, come è evidente, di prospettive complesse e parzialmente antagoniste, delle quali solo negli ultimi anni si è compresa la reale importanza, individuando la posta in gioco: la tenuta stessa del principio di legalità nella sua dimensione “effettuale”, dinamica; dimensione essenziale a garantire la tutela dei diritti nell’esercizio della giurisdizione penale dei moderni sistemi democratici.
è giunto il tempo, però, di una crescita, di un’evoluzione culturale sulla questione del valore del precedente che travalichi i confini segnati dalla magistratura e dalla dottrina più attenta e colta, uscendo allo scoperto, impadronendosi del dibattito giuridico con nuova centralità: in questo ben si comprende il richiamo ad un moderno pluralismo nell’attività di elaborazione che ruota intorno alla formazione della massima giurisprudenziale.
Una consapevolezza deve guidarci: il diritto giurisprudenziale non può non rispondere all’esigenza di darsi regole interpretative quanto più possibile condivise e intellegibili, per scongiurare rischi di autoreferenzialità ed imprevedibilità che potrebbero minarne la legittimazione sociale ma soprattutto per collegare chiaramente e sempre di più i suoi obiettivi all’attuazione delle linee costituzionali.
* L'intervista prosegue il tema già trattato dalle rivista in Il giudice disobbediente nel terzo millennio e in Giudice o giudici nell’Italia post-moderna?
Decreto "antiscarcerazioni". Corte cost. n.245 del 2020: una declaratoria di infondatezza non sempre attenta alle argomentazioni dei giudici a quibus* di Franco Della Casa
La Corte costituzionale si è pronunciata negativamente sulle quaestiones sollevate da tre giudici rimettenti nei confronti dell’art. 2-bis d.l.28/2020 (convertito con l. 70/2020). Nel commento si concentra l’attenzione sulle eccezioni che assumono come parametro gli artt. 24, comma 2, 32 e 27, comma 3, Cost. Le riserve che vengono formulate riguardano soprattutto la motivazione della sentenza, che risulta non sempre adeguata rispetto alle articolate argomentazioni contenute nelle ordinanze di rimessione. Assume un valore paradigmatico quel passaggio della parte motiva in cui il giudice delle leggi esclude qualsiasi contrasto della normativa impugnata con l’art. 27, comma 3, Cost.: la risposta negativa è perentoria e non si fa carico delle molteplici sfaccettature di un problema inerente al principio del finalismo rieducativo della pena proclamato nell’art. 27, comma 3, Cost., vale a dire al principio cardine dell’esecuzione penitenziaria.
Sommario: 1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia - 2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost. - 2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio - 2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto? - 3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) – 4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.).
1. Il “dietro alle quinte” dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 (conv. l. 70/2020). La valorizzazione delle Procure antimafia
Nella sentenza 245 del 2020 la Corte cost. ha dichiarato, in parte, infondate e, in parte, manifestamente infondate talune questioni di legittimità costituzionale inerenti ad una disposizione del c. d. decreto “antiscarcerazioni”. Ad essere sottoposto al giudizio della Corte è stato, più precisamente, l’art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70)[1]. Articolo nel quale viene stabilita un’inedita procedura di periodica verifica circa la persistente sussistenza dei presupposti che hanno indotto il tribunale o il magistrato di sorveglianza a concedere – il secondo in via provvisoria - la detenzione domiciliare regolata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. o la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva prevista dall’art. 147, comma 1, n. 2 c.p. «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19». Va precisato che il legislatore ha circoscritto tale periodica revisione, dal punto di vista temporale, ai provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza dopo il 23 febbraio 2020 e, dal punto di vista soggettivo, a due “blocchi” soltanto di condannati[2]: da un lato, quelli puniti per taluni gravi delitti specificamente indicati (artt. 270, 270-bis e 416- bis c.p. e 74, comma 1, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309)[3], nonché i condannati per delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare associazioni di stampo mafioso; dall’altro, i condannati sottoposti al regime carcerario differenziato di cui all’art.41-bis, comma 2, ord. penit.[4].
Ai fini di un migliore inquadramento, può non essere inopportuno concentrarsi preliminarmente su un profilo della disposizione in esame esorbitante o, comunque, non al centro della quaestio de legitimitate: in particolare, sulla valorizzazione del ruolo delle Procure – nel nostro caso il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, se si tratta di condannati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis, comma 2, ord. penit., oppure il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna, con riferimento ai condannati per taluno dei delitti contestualmente indicati – i cui pareri, ovviamente non vincolanti, devono essere acquisiti anteriormente alla decisione della magistratura di sorveglianza (art. 2-bis, comma 1, d.l. 28/2020).
Rilevato che l’imprescindibile interlocuzione con questi organismi costituisce una costante del provvedimento appena citato, essendo stata prevista – sempre limitatamente ai responsabili di gravi delitti o ai sottoposti al regime di “carcere duro” – anche prima della decisione sulla concedibilità di un permesso c.d. di necessità (art. 2, comma 1, lett. a d.l. cit.)[5], nonché prima di quella su una richiesta di detenzione domiciliare c.d. surrogatoria o in deroga (art 2 comma 1° lett. b d.l. cit), vale forse la pena di soffermarsi sul significato dell’innovazione. Onde appurare se il coinvolgimento delle Procure persegue semplicemente un obiettivo di razionalizzazione, consistente nell’assicurare al giudice una più estesa disponibilità di conoscenze funzionali alla decisione, o se riveste, prevalentemente, un significato simbolico: quello di dimostrare a chi aveva denunciato il lassismo della magistratura di sorveglianza - accusata di avere fatto scarcerare con troppa leggerezza condannati di elevata pericolosità sociale - la sollecitudine del legislatore nel predisporre un meccanismo tale da favorire radicali ripensamenti e da accentuare, paradossalmente, la solitudine del giudice al momento della decisione. Come si è detto, ci si sta riferendo a quei condannati che, alla luce della loro pericolosità sociale, secondo una parte consistente dell’opinione pubblica – troppo spesso “colonizzata” da mezzi di informazione ignari della complessità della questione penitenziaria o/e ideologicamente prevenuti – non devono rientrare nel contesto sociale se non dopo avere espiato dentro le mura l’intera pena. In base a tale impostazione, l’internamento deve continuare pure nell’ipotesi in cui gravi (o plurime) patologie riguardino una cerchia di persone, la cui permanenza in strutture carcerarie del tutto inadeguate a scongiurare la propagazione di un’infezione virale potrebbe portare ad un loro fatalis exitus.
2. Il percorso della Corte costituzionale per conciliare il procedimento a contraddittorio posticipato di cui all’art. 2-bis d.l. 28/2020 con l’art. 24, comma 2, Cost.
Anche se non pare esserci spazio per asserire che l’obbligatoria acquisizione del parere delle Procure risulti in contrasto con un qualsiasi precetto della Costituzione, la breve perlustrazione effettuata non può essere considerata fine a sé stessa, in quanto aiuta a comprendere l’atmosfera in cui si è collocato il provvedimento normativo contenente, tra l’altro, la disposizione sospettata di illegittimità dai giudici a quibus.
Ad avviso della Corte, la censura «essenziale» dei rimettenti concerne il ritenuto contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. della previsione legislativa che prescrive un procedimento a contradditorio soltanto differito, da utilizzare ai fini di un’eventuale sospensione della misura extramuraria da parte dello stesso magistrato di sorveglianza che l’aveva concessa. Quest’ultimo, infatti, qualora precedentemente abbia disposto in via provvisoria (art.47-ter, comma 1-quater, ord penit. o art. 684, comma 2, c.p.p), per motivi connessi all’emergenza Covid[6], la detenzione domiciliare in surroga o il rinvio dell’esecuzione della pena a favore di un condannato affetto da gravi patologie, è tenuto a riesaminare ripetutamente e a brevi intervalli di tempo – la prima volta, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge, in un secondo tempo con cadenza mensile[7] – il provvedimento emesso, onde verificare se medio tempore sono venuti meno i «motivi legati all’emergenza sanitaria» che erano stati alla base dell’intervento diretto a neutralizzare il rischio di un contagio potenzialmente esiziale. Per effettuare il riesame, il magistrato procede inaudita altera parte, con un decreto motivato che – se sfavorevole al condannato - è immediatamente esecutivo: successivamente gli atti vengono trasmessi al tribunale di sorveglianza, il quale, adottando un rito rispettoso della regola del contraddittorio – il procedimento di sorveglianza (artt. 666 e 678 c.p.p.) – è tenuto a pronunciare l’ordinanza decisoria che si sostituisce al provvedimento provvisorio del giudice monocratico, e che, per impedire la sua perdita di efficacia, deve essere assunta entro trenta giorni dalla ricezione del decreto di revoca e degli atti che ne hanno giustificato l’emissione[8].
Secondo due dei giudici a quibus la normativa che introduce tale modello bifasico a contraddittorio differito contrasterebbe, come si è detto, con l’art. 24 comma 2 Cost. Per pervenire alla declaratoria di non fondatezza la Corte ha potuto contare su di un itinerario argomentativo collaudato, che infatti non esita a percorrere, ricorrendo tuttavia ad una motivazione non sempre impeccabile: sia perché caratterizzata da alcune forzature, sia perché non vengono tenuti in considerazione – o, per lo meno, in adeguata considerazione – argomenti non marginali sviluppati nelle ordinanze di rimessione.
È verosimile che al giudice costituzionale siano venute subito in mente le decisioni con cui sono state respinte, non certo da ieri, le eccezioni inerenti al contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost. del procedimento per decreto (artt.459-464 c.p.p.), caratterizzato per l’appunto da una struttura bifasica a contraddittorio posticipato[9]: fermo restando che, pur essendo palesi le analogie con quel clichè, non era possibile ignorare le peculiarità della procedura coniata dal legislatore del 2020. Per rendersene conto, basti ricordare che il primo segmento del procedimento monitorio sfocia in un decreto motivato che può infliggere esclusivamente una sanzione pecuniaria, mentre la revoca della detenzione domiciliare o del rinvio dell’esecuzione disposta dal magistrato di sorveglianza sulla base del citato art. 2-bis d.l. 28/2000 ha un’immediata incidenza sulla libertà personale del condannato, dal momento che comporta ex se il suo rientro in carcere. Non stupisce più di tanto, quindi, che nella motivazione non si accenni minimamente alla pregressa giurisprudenza che ha ripetutamente sancito la conformità a Costituzione del procedimento per decreto, anche se è lecito sostenere che in camera di consiglio, o, quanto meno, nei retropensieri dei giudici, quel consolidato filone giurisprudenziale non sia rimasto in un cono d’ombra e sia anzi servito a fornire loro un’importante indicazione circa la più agevole rotta da seguire.
Nel costruire la motivazione della declaratoria di infondatezza, incentrata sul paragone con altri procedimenti a contraddittorio soltanto differito, lo sguardo è rimasto, quindi, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario. È stato anzitutto richiamato l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., in virtù del quale, in caso di urgenza, il magistrato di sorveglianza, verificata l’assenza del pericolo di fuga in capo al condannato, può concedergli in via provvisoria, con ordinanza adottata de plano, la detenzione domiciliare[10], allorché ritenga fondata la richiesta dell’interessato la cui posizione sia riconducibile nel perimetro di una delle previsioni dei precedenti commi dell’art. 47-ter ord. penit. Il provvedimento provvisorio deve essere poi sottoposto alla valutazione del tribunale di sorveglianza, il quale, avvalendosi del procedimento di sorveglianza, potrà concedere o rigettare in via definitiva la richiesta di detenzione domiciliare. Il richiamo è evidentemente servito ai giudici della Consulta per sostenere che nell’ordinamento penitenziario sono rinvenibili altre ipotesi in cui il contraddittorio viene garantito solo a valle di una prima fase in cui esso non ha invece diritto di cittadinanza.
Per trasparenti ragioni di connessione, la Corte avrebbe potuto, in questo passaggio della motivazione, richiamare proficuamente anche il procedimento coniato dal legislatore penitenziario del 2002 per la concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis ord. penit.) [11]: procedimento bifasico, in cui ancora una volta il magistrato di sorveglianza, tenuto ad acquisire il parere del pubblico ministero, decide inaudita altera parte[12]. La successiva entrata in scena del tribunale di sorveglianza (art. 69-bis comma 4 ord. penit.), che provvede ai sensi dell’art. 678 c.p.p., è subordinata ad un reclamo dell’interessato o del pubblico ministero. Essendo stato previsto che il magistrato di sorveglianza raccolga preliminarmente soltanto il parere del pubblico ministero, il procedimento è ancora più simile a quello tratteggiato dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, e - particolare non trascurabile - è regolato da una previsione che ha superato indenne il vaglio del giudice delle leggi, il quale, con l’ordinanza 352/2003[13], ha riconosciuto tra l’altro «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito»[14].
Ci sono però delle importanti differenze tra le situazioni a cui si riferiscono sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., sia l’art. 69-bis ord. penit. e quella sottoposta in questa circostanza all’esame della Corte. Una è macroscopica: nelle prime si discute della eventuale concessione al condannato di un beneficio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi considerata nell’art. 2-bis d.l. 28/2020 inerente alla revoca, sia pure provvisoria ma con efficacia immediata, di una misura extracarceraria. Non solo: in entrambi i casi utilizzati come termine di raffronto, alla base della pronuncia del magistrato di sorveglianza si colloca un’iniziativa del condannato, posto in grado di interloquire, sia pure embrionalmente, col giudice attraverso la specificazione del petitum, nonché dei motivi sui quali è fondata la sua richiesta. Questa circostanza non è irrilevante ed è stata sottolineata dalla stessa Corte nella già citata ordinanza del 2003, nella quale, per avvalorare la sua declaratoria di manifesta infondatezza, ha affermato che il magistrato di sorveglianza viene chiamato a decidere su un’istanza «proposta dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute».
L’osservazione può essere ritenuta condivisibile: infatti, se si valorizza il dato relativo alla genesi del procedimento, sembra difficile negare che l’inconveniente dell’ignoranza da parte del condannato del contenuto della documentazione acquisita ex officio e della conseguente impossibilità di opporre calibrate controdeduzioni si attenui qualora sia lui stesso, con la sua iniziativa, a sollecitare il provvedimento giudiziale.
2.1. Le forzature della Consulta per illuminare la fase senza contraddittorio
La Corte costituzionale non si limita però ad affermare che l’art. 2-bis d.l. 28/2020 presenta delle analogie – come si è visto, imperfette – con l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit., ma invoca anche (e sopra tutto) l’art. 51-ter, comma 2, ord. penit., concernente la sospensione ex officio, sia pure provvisoria, di una misura alternativa da parte del magistrato di sorveglianza, che procedendo de plano interviene allorché il beneficiario di una di esse «pone in essere comportamenti suscettibili di determinare la revoca». Sospensione che in un secondo tempo, deve essere ratificata - entro il termine di trenta giorni dalla ricezione degli atti, a pena della perdita di efficacia del decreto sospensivo - dal tribunale di sorveglianza, tenuto a procedere con il rito di cui all’art. 678 c.p.p. Ad avviso del giudice costituzionale, in questo caso i connotati delle due entità sottoposte a confronto sono identici e quindi il discorso può ritenersi chiuso, anche in considerazione del fatto che l’art. 51-ter ord. penit. non è mai stato oggetto di alcun incidente di legittimità costituzionale.
Prima di esaminare più approfonditamente questa argomentazione, vale la pena di svolgere qualche osservazione sul suo ricorso ad alcune affermazioni che sembrano testimoniare un certo disagio nel ricalcare sic et simpliciter il tradizionale orientamento giurisprudenziale, propenso a ritenere che la previsione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio tra le parti è un dato sufficiente a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale. Si vuole alludere al tentativo di dimostrare che anche nella fase che ha come protagonista il magistrato di sorveglianza, sono rinvenibili garanzie idonee ad impedire una totale negazione del diritto di difesa del condannato.
In quest’ottica va letta, anzi tutto, la valorizzazione dell’art. 121 c.p.p., il quale consente all’imputato – ma la regola può essere pacificamente estesa al condannato, visto che in tale articolo si afferma la sua applicabilità «in ogni stato e grado del procedimento» - di presentare, senza alcuna limitazione, memorie al giudice. Affermazione, quest’ultima, ineccepibile, ma bisognevole di alcune precisazioni: dato che nel nostro caso il procedimento viene avviato ex officio, le eventuali memorie sono necessariamente redatte “al buio”, con scarse probabilità di essere ben calibrate rispetto agli elementi negativi risultanti dalla documentazione in possesso del giudice. Anzi, pur senza dimenticare che la procedura di verifica demandata al magistrato di sorveglianza deve avere luogo a scadenze prefissate (e, quindi, non difficili da prevedere), gli interessati – o, per lo meno, taluni di essi - potrebbero addirittura ignorare che il medesimo si sta attivando per un’eventuale revoca della misura di cui stanno usufruendo e non avvertire quindi l’esigenza di presentare memorie[15]. La fragilità del rimedio difensivo incarnato dalle memorie può essere, inoltre, desunta dal più recente orientamento della Corte di cassazione, secondo la quale l’omessa valutazione da parte del giudice di una memoria difensiva non determina alcuna nullità[16].
Che la Corte costituzionale indulga a forzature nel tentativo di dipingere il primo segmento della procedura tratteggiata dal legislatore del 2020 a tinte più rosee di quelle che sono nella realtà emerge, d’altronde, ancora più nitidamente da quella parte della motivazione nella quale viene contraddetta la denuncia – formulata dai giudici di sorveglianza di Sassari e di Avellino – di una “ipotutela” del diritto alla salute del condannato: ipotutela desumibile, secondo i rimettenti, dalla circostanza che, da un lato, è prescritta l’acquisizione di una pluralità di pareri e di informazioni (delle Procure, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Presidente della giunta regionale)[17], mentre, dall’altro, si glissa totalmente sull’acquisizione di una documentazione concernente lo stato di salute del condannato.
La Corte costituzionale obietta che nulla vieta al magistrato di sorveglianza di attivarsi per una acquisizione motu proprio, ma anziché limitarsi a questa sola constatazione si spinge più in là, aggiungendo che, in ogni caso, il giudice procedente può disporre, qualora lo ritenga necessario, anche una perizia sullo stato di salute del condannato, ai sensi dell’art. 185 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale: il quale stabilisce che nella «udienza» del procedimento di esecuzione possono essere assunte prove, tra cui la perizia, «senza particolari formalità». Se circa la possibilità di applicare questa disposizione nel procedimento di sorveglianza non ci possono essere dubbi[18], è invece un’affermazione molto azzardata, contraddetta dal dato normativo e dalla dottrina[19], sostenere che ad essa si possa ricorrere nella fase antecedente alla celebrazione dell’udienza caratterizzata dal contraddittorio delle parti. Tant’è vero che, nel commentare il suddetto art. 185, la dottrina affronta tematiche quali l’ipotetico ricorso all’esame incrociato, nonché, con riferimento alla testimonianza, l’obbligo di attenersi alla regola delle domande specifiche su singoli fatti, imposta dall’art. 499 comma 1 c.p.p.: tematiche, che presuppongono inequivocabilmente un contesto procedimentale caratterizzato dal contraddittorio.
2.2. L’evocazione del procedimento previsto dall’art. 51-ter ord penit.: un esempio di gemellaggio perfetto?
Le ombre che si sono evidenziate non sono certo idonee a riverberarsi sul dispositivo della sentenza 245 del 2020, ma si prestano – lo si è detto - ad essere lette come un indizio circa il disagio della Corte costituzionale nell’adeguarsi alla tesi secondo cui la semplice posticipazione di determinate garanzie di carattere processuale vale a compensare il deficit delle stesse in una precedente fase del procedimento.
Ma che dire dell’argomento principale della motivazione, cioè del sillogismo in base al quale, essendo il procedimento bifasico di cui all’art.2-bis d.l. 28/2020 strutturato in termini identici a quello disciplinato dall’art. 51-ter ord. penit., e non essendo quest’ultima disposizione mai stata sfiorata da dubbi di legittimità costituzionale, è logico concludere - relativamente a questo profilo - per l’infondatezza della quaestio de legitimitate sottoposta al suo esame?
Anche in questo caso sembra esserci spazio per alcuni rilievi critici, che possono essere in larga misura ricondotti agli argomenti sviluppati dal magistrato di sorveglianza di Spoleto nella sua ordinanza di rimessione
Anzitutto non si può non rilevare che il dettato dell’art.51-ter ord.penit. presenta talune significative diversità rispetto a quello dell’articolo sottoposto all’esame della Corte. Infatti è pur vero che prima di pronunciare il decreto motivato con cui sospende ex officio l’esecuzione della misura alternativa il magistrato di sorveglianza non entra - et pur cause[20] - in contatto col condannato, ma è altrettanto vero che non ha nessun tipo di interlocuzione neppure col pubblico ministero. Quindi la parità delle parti viene, sia pure al ribasso, garantita.
Inoltre, nel caso dell’art. 2-bis d.l. 28/2020, il magistrato di sorveglianza, se è orientato nel senso di ritenere non più sussistenti i motivi di concessione della misura riconducibili all’emergenza sanitaria, verso la revoca provvisoria della misura extramuraria, non ha di fronte a sé un’alternativa, essendo obbligato a disporre – in esito a quel procedimento larvale di cui si è detto – la revoca della medesima con un provvedimento che ha come effetto quello di fare rientrare subito in carcere il condannato. Invece nell’ipotesi prevista dall’ art.51-ter ord. penit. l’alternativa esiste, essendo consentito al giudice monocratico di trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza dopo avere sospeso l’esecuzione della misura extramuraria in corso oppure di farlo, prescindendo da tale sospensione. Il particolare non è di secondaria importanza specie se, con riferimento all’art.2-bis d.l. 28/2020, ci si concentra sull’ipotesi di una mancata ratifica del provvedimento provvisorio da parte del tribunale di sorveglianza. In tal caso il condannato si trova sottoposto ad una specie di doccia scozzese – traduzione e permanenza in carcere/successivo rientro nell’area esterna – che non può non avere negative ripercussioni sulla continuità-omogeneità del suo trattamento sanitario e, quindi, sulla sua salute. Al contrario, sulla base di una presunzione non azzardata, l’attentato ad un bene di tale importanza, cioè la salute, non concerne, nella normalità delle ipotesi, il condannato sottoposto ex art. 51-ter ord. penit. all’eventuale sospensione cautelativa. Eppure, nei suoi confronti, il legislatore detta una disciplina meno rigida.
Muovendo da questa premessa, viene da chiedersi se la Corte costituzionale non avrebbe potuto, quanto meno, rilevare l’irragionevolezza di una simile differenziazione e dichiarare l’incostituzionalità della disposizione devoluta al suo esame nella parte in cui non offre al magistrato di sorveglianza – privo di quel sapere non frammentato che solo il contraddittorio è in grado di fornire – la possibilità di optare per una subordinata meno draconiana rispetto all’immediata riconduzione in carcere del condannato.
Continuando a ragionare su eventuali violazioni dell’art. 3 Cost. ad opera della normativa del 2020, suscita invece talune perplessità l’opinione di uno dei rimettenti, propenso a ravvisare la violazione del principio di uguaglianza per effetto della regola che consente la devoluzione immediata del giudizio di revoca al tribunale di sorveglianza – anziché all’omonimo magistrato – nell’ipotesi in cui sia stato il primo ad emettere l’ordinanza concedente la misura extramuraria: tra i molti esempi possibili, ci si può rifare al caso in cui la richiesta del condannato, rigettata del giudice monocratico, venga successivamente accolta dal tribunale di sorveglianza. È pur vero che la competenza, in prima battuta, dell’uno o dell’altro giudice finisce per essere del tutto casuale, però non è semplice dimostrare che il diritto di difesa sia vulnerato in misura costituzionalmente rilevante a seconda che il giudice collegiale decida per primo oppure si pronunci solo dopo la pronuncia provvisoria del magistrato monocratico.
3. La negata violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.)
La seconda eccezione affrontata nella sentenza 245/2020 è quella riguardante la lamentata violazione del diritto alla salute del condannato (art. 32 Cost.). I principali argomenti dei giudici a quibus sono i seguenti: anzitutto, la normativa impugnata pone in primo piano, non già le esigenze della salute del condannato, ma quella della sicurezza collettiva, come è desumibile dalla prescritta reiterazione nel tempo delle frequenti verifiche da parte del magistrato sorveglianza, che testimoniano un favor - anzi un’implicita sollecitazione - del legislatore verso una pronuncia di revoca della misura extracarceraria. Si colloca in questo contesto, a mo’ di conferma, la già ricordata denuncia delle scarse garanzie offerte al condannato nel segmento processuale che si svolge dinanzi al giudice monocratico. In secondo luogo, la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, co. 1-quater, ord. penit. si esegue con modalità tali – ossia è caratterizzata da un così spiccato connotato contenitivo – da non porre in pericolo la sicurezza collettiva.
La Corte costituzionale replica a queste argomentazioni contestando che le periodiche revisioni imposte al magistrato di sorveglianza mirino ad indurre il giudice alla revoca di un provvedimento già concesso, perché esse, in realtà, sono dirette a verificare «la perdurante attualità del bilanciamento tra le imprescindibili esigenze di salvaguardia della salute del detenuto e le altrettanto pressanti ragioni di tutela della sicurezza pubblica»[21]. Non bisogna inoltre dimenticare – aggiunge la Corte – che, essendo stata la scarcerazione, a suo tempo, disposta per carenze di carattere oggettivo (riconducibili ad un’inidoneità dell’apparato carcerario a tutelare il condannato dagli effetti della pandemia), una volta che si siano realizzate le condizioni per ovviare a tale mancata tutela, viene meno l’unico elemento da prendere in considerazione ai fini della concessione della misura extramuraria. Non solo: secondo il giudice costituzionale il contrasto tra la disposizione sottoposta al suo esame e l’art. 32 Cost. sarebbe smentito dalla lettera della legge, la quale consente che venga disposto il rientro in carcere del condannato solo qualora sia documentata la «disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell’interessato».
Anche a questo proposito non manca lo spazio per qualche notazione a margine. Ci si riferisce, in particolare, all’affermazione della Corte relativa all’indiscussa necessità di un persistente bilanciamento tra esigenze della salute e quelle di sicurezza della collettività. In linea di massima tale affermazione può essere condivisa, fermo restando che l’eccessiva frequenza con cui la verifica di tale bilanciamento è stata stabilita dal legislatore del 2020 obbedisce in primis a ragioni diverse dalla sua volontà di mantenere in equilibrio i due piatti della bilancia a cui si riferisce il giudice costituzionale Infatti non si può dimenticare quello che è stato il vero connotato genetico della disposizione in esame, elaborata per placare l’allarme sociale di un’opinione pubblica spaventata per la scarcerazione di pericolosi boss mafiosi – così, secondo la vulgata – e pervasa da una forte animosità nei confronti non solo della “generosa” magistratura di sorveglianza, ma anche nei confronti di un legislatore ritenuto troppo permissivo[22]. Il quale si è prontamente adoperato affinché il j’accuse del “fuori tutti” potesse essere sostituito nell’immaginario collettivo da uno slogan di segno contrario.
Tenendo presente tutto ciò, sembra difficile negare che per il modo in cui è articolata la risposta della Corte costituzionale, nel punto in cui si limita ad affermare sic et simpliciter che le ripetute verifiche imposte al magistrato di sorveglianza mirano ad impedire uno sbilanciamento tra le esigenze della salute e quelle della sicurezza, non sia pienamente soddisfacente. Le sarebbe bastato un conciso riferimento al fatto che lo stabilire la frequenza delle verifiche rientra nella discrezionalità del legislatore per allontanare l’impressione di un suo acritico appiattimento su una regola trasparentemente anomala.
Qualche perplessità può suscitare anche il troppo meccanico ragionamento secondo cui non c’è niente da eccepire se il legislatore, in mancanza di un’idonea allocazione nella struttura penitenziaria del condannato seriamente malato, ha fatto prevalere, in un primo momento, le esigenze della sua salute sulla sicurezza collettiva e ha privilegiato, in un secondo tempo, queste ultime, una volta accertata la sopravvenuta disponibilità di un’adeguata allocazione del medesimo. Affermare, come fa il giudice delle leggi, che se così non fosse stato stabilito si sarebbe arrecato – per definizione – un ingiustificato vulnus alle esigenze della sicurezza collettiva significa escludere a priori qualsiasi rilevanza del periodo trascorso all’esterno del carcere dal condannato. La cui pericolosità sociale potrebbe essersi nel frattempo ridimensionata e risultare quindi tale da non richiedere limitazioni della sua libertà personale più intense di quelle che comporta la detenzione domiciliare surrogatoria (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Per quanto concerne il merito della risposta negativa che è stata fornita, la Corte costituzionale è rimasta nel solco della sua precedente giurisprudenza. Per rendersene conto, può essere sufficiente richiamare un paio di passaggi della sentenza n. 70 del 1994[23], in cui è stata scrutinata la normativa in tema di condannati affetti da infezione HIV[24], nei confronti dei quali il legislatore, per impedire la diffusione del virus all’interno delle carceri, aveva stabilito il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Nella motivazione di tale sentenza la Corte ha affermato che «l'alternativa tra immediata esecuzione della pena detentiva o la sua temporanea "inesigibilità" a causa di condizioni di salute [del condannato] non comporta soluzioni a "rime obbligate" sul piano costituzionale, dovendosi necessariamente ammettere spazi di valutazione normativa che ben possono contemperare l'obbligatorietà della pena con le specifiche situazioni di chi vi deve essere sottoposto»[25]. E ha successivamente aggiunto che il controllo del giudice costituzionale deve essere finalizzato soltanto a «verificare se la disposizione, che il legislatore ha ritenuto di dettare integri [….] una ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principii costituzionali che il giudice rimettente ritiene esser stati violati»[26]. È indubbio che le puntuali indicazioni desumibili da tale precedente abbiano costituito la premessa della conclusione a cui è pervenuta la Corte nella sentenza 245/2000, anche se a causa della stringatezza delle sue argomentazioni, di esse non si ritrova alcuna traccia.
4. La sbrigativa esclusione di un contrasto con il principio del finalismo rieducativo della pena (art. 27, comma 3, Cost.)
La parte più insoddisfacente della sentenza in esame è quella in cui viene liquidata in pochissime righe la quaestio de legitimitate concernente la normativa devoluta all’esame della Consulta con riferimento al principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Una censura ritenuta manifestamente infondata, in quanto – si afferma - basata su un parametro «inconferente», dato che la detenzione domiciliare in surroga (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.) e il differimento facoltativo della pena (art. 147 c. p.) non sono funzionali alla rieducazione del condannato, bensì in via esclusiva alla tutela della sua salute.
Anzitutto vale la pena di fare presente che mentre sin qui, come si è visto, le risposte fornite nella sentenza 245/2000 sono risultate in sintonia con i precedenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, in questo caso non è così. Si vuole alludere in particolare al passaggio di una precedente pronuncia in cui il giudice delle leggi ha espresso un orientamento contrario rispetto all’odierna presa di posizione in tema di art. 27, comma 3, Cost. Si tratta per l’esattezza della già citata sentenza 70/1994 – inerente, come si è detto, alla sospensione obbligatoria dell’esecuzione della pena a favore dei condannati colpiti da infezione da HIV – nella quale si è affermato che non bisogna assegnare, in via esclusiva, alla fase esecutiva funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, perché, così facendo, si oblitererebbe quella «eminente finalità rieducativa»[27] ad essa riconosciuta, in particolare, dalla sentenza 313/1990[28]. Ma non è tutto: infatti, contestualmente, non si è mancato di sottolineare che tale finalità sicuramente caratterizza anche l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena.
Che dire di questa impostazione? Nei termini in cui è espresso nella sentenza 70/1994, il ragionamento della Corte non è condivisibile, perché il rinvio dell’esecuzione della pena ex artt. 146 e 147 c.p. significa, com’è facile arguire, che non c’è più una fase esecutiva in corso – tant’è vero che la libertà personale del condannato non è in alcun modo compressa[29] – per cui, senza ombra di dubbio, ci si colloca fuori dal perimetro applicativo dell’art. 27, comma 3, Cost.
Trattandosi di detenzione domiciliare in surroga, il discorso deve invece assumere cadenze diverse: infatti, considerato che tale misura non interrompe l’iter esecutivo, qualora si interpreti latamente la sentenza costituzionale 313/90 e si coltivi, quindi, l’idea che il principio del finalismo rieducativo permei di sé capillarmente la fase esecutiva, si potrebbe in teoria sostenere che anche la detenzione in surroga non è estranea all’ambito di operatività dell’art. 27, comma 3, Cost. Senonché, sebbene suggestiva, la tesi di una pervasiva incidenza in executivis del fondamentale principio della rieducazione suscita fondati dubbi circa la sua compatibilità con talune disposizioni della legge penitenziaria: aderendo ad essa, si dovrebbe, per esempio, riconoscere una valenza rieducativa anche ai brevi ed eccezionali permessi di uscita di cui all’art.30 ord. penit. Il che pare difficilmente sostenibile.
Sempre con riferimento alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., va aggiunto però che il dubbio appena superato può riproporsi qualora si correli questa disposizione con l’art.54 comma, 1 ord. penit., il quale stabilisce – senza alcuna distinzione fra le diverse species di detenzione domiciliare – che le riduzioni di pena previste dall’articolo in questione, siano concesse, sussistendone i presupposti, anche al condannato che stia espiando la pena nella sua abitazione o in un altro dei luoghi indicati nell’art. 47-ter, comma 1, ord. penit. Ma allora, se si riflette sul fatto che il presupposto per la concessione della liberazione anticipata è quello della «partecipazione all’opera di rieducazione», bisogna riconoscere, con la consapevolezza della non risolutiva robustezza di questa argomentazione, che non è così pacifica - come mostra di ritenere la Corte costituzionale – la conclusione secondo cui la custodia domestica disciplinata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. e la categoria della rieducazione ruotino indiscutibilmente su orbite separate. La cautela della Consulta avrebbe dovuto essere maggiore anche in considerazione del fatto che la Suprema corte ha non occasionalmente asserito che la detenzione domiciliare di cui ci si sta occupando «al pari delle altre misure alternative alla detenzione, ha come finalità il reinserimento sociale del condannato»[30].
Tutto questo premesso, si deve però riconoscere fondata la tesi, sostenuta – pressoché unanimemente - dalla dottrina[31], che riconduce la ragion d’essere della detenzione domiciliare in surroga all’esigenza di non disumanizzare l’espiazione della pena, e che esclude qualsiasi interferenza dell’art. 27, comma 3, Cost. con tale misura..
Non si può tuttavia fare a meno di sottolineare che il quesito proposto dai giudici a quibus implicava non già una risposta che si limitasse ad una telegrafica ricognizione della natura giuridica delle due misure extramurarie in discussione, ma che considerasse l’interrogativo sulla denunciata lesione della finalità rieducativa della pena nel contesto del meccanismo messo a punto dal d.l. 28/2020. Un meccanismo che comporta il rientro del condannato in carcere, quando viene riscontrata in un istituto la disponibilità di posti sanitariamente idonei. Non già tuttavia – se non del tutto casualmente – nel carcere dove costui stava espiando la pena, il quale dovrebbe coincidere col carcere più vicino alla sua residenza o a quella della famiglia, in conformità ai criteri forniti dagli artt. 14 comma 1 e 42 comma 2 ord. penit., bensì in un carcere dovunque ubicato[32], purché in grado di soddisfare l’esigenza di una collocazione adeguata dal punto di vista della protezione dal virus.
Anche a volere ipotizzare che il carcere di “vecchia” assegnazione non fosse quello individuato sulla scorta dei criteri dettati dal legislatore penitenziario, è difficile sostenere che - a prescindere dai condannati sottoposti al regime di cui all’art.41-bis ord. penit., per i quali l’esecuzione della pena è governata da regole tutt’affatto particolari – il passaggio ad una diversa struttura carceraria, scelta esclusivamente sulla base del parametro fornito dall’art. 2-bis d.l. 28/2020, non incida negativamente sul percorso trattamentale del condannato e, quindi, sul suo processo di reinserimento sociale.
Pochi esempi, tra i molti disponibili, sono sufficienti ad avvalorare questo assunto. Si pensi al condannato che stava seguendo un corso scolastico o di addestramento professionale che non abbiano equivalenti nell’istituto di nuova destinazione; o al tempo che deve trascorrere prima che i componenti del gruppo di osservazione-trattamento acquisiscano una conoscenza non solo cartacea del nuovo arrivato, e siano quindi in grado di porre le premesse necessarie per l’avvio di un trattamento individualizzato, difficilmente coincidente, peraltro, con quello attuato nella precedente struttura. Quanto poi alla diversa ipotesi in cui il condannato fosse stato anteriormente ristretto in un carcere rispondente al criterio di territorializzazione della pena, che costituisce il caposaldo di ogni percorso trattamentale, le ripercussioni negative del ricominciamento sarebbero intuibilmente ancora più gravi.
Sembra quindi che sia concesso salire di tono rispetto alle critiche formulate relativamente ad altri profili della sentenza. Anche se la Corte – contrariamente a quanto qui si sostiene – avesse ritenuto di dovere escludere il contrasto della normativa impugnata con l’art.27, comma 3, Cost., non avrebbe dovuto essere tanto laconica. Più precisamente: non avrebbe dovuto dedicare al denunciato contrasto solo tre righe della motivazione.
* Ndr Sulla sentenza della Corte costituzionale in commento leggi anche La Consulta conferma la legittimità costituzionale della normativa emergenziale in materia penitenziaria (nota alla sentenza della Corte Cost. n. 245/20) di Stefano Tocci
[1] Nel testo ci si riferirà sempre all’art.2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 convertito con l. 25 giugno 2020, n.70. Vale la pena di precisare che una disposizione di analogo contenuto figurava nel d.l. 10 maggio 2020, n. 29 (art. 2). Tuttavia, in sede di conversione del d.l. 28/2020, il d.l.29/2020 è stato abrogato e il suo contenuto è transitato nella l. 70/200. Sull’art. 2 d.l. 29/2020, v., tra gli atri, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistemapenale.it, 5 giugno 2020; F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in Giustizia Insieme, 12 maggio 2020;
[2] Nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 si fa riferimento non solo ai condannati, ma anche agli internati. Si tratta di una delle ricorrenti sviste del legislatore, dal momento che l’internato non può beneficiare né del rinvio della esecuzione della pena detentiva, né della detenzione domiciliare in surroga.
[3] Gli articoli menzionati si riferiscono ai seguenti delitti: associazione sovversiva (art. 270 c.p.), associazione con finalità di terrorismo (art. 270-bis c.p.), associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), delitti commessi con metodo mafioso o per agevolare l’associazione mafiosa, delitti commessi con finalità di terrorismo, in base alla definizione di cui all’art. 270-sexies c.p..
[4] Vale a dire i condannati per un delitto di cui al primo periodo dell’art.4-bis, comma 1, ord. penit., nei confronti dei quali «vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva».
[5] Sul punto, cfr., volendo, F. Della Casa, L’intervento del d.l. 28/2020 sull’istruttoria dei permessi di necessità: un innesto sine causa e fuori asse rispetto al divieto di detenzione inumana, in sistema penale.it, 9 luglio 2020.
[6] Per quanto concerne la fonte che ha ricollegato la concessione delle misure extramurarie all’emergenza COVID, v. in particolare, il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (decreto “Cura Italia”), convertito con l. 24aprile 2020, n. 27; Per un’analisi di tale provvedimento, v., M. Ruaro, Le disposizioni relative all’esecuzione penale del d.l. “cura Italia”, in Cass. pen, 2020, p.2185 ss.; M. Peraldo, Licenze, permessi e detenzione domiciliare "straordinari": il decreto "ristori" (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137) e le misure eccezionali in materia di esecuzione penitenziaria, in sistemapenale.it,, 16 novembre 2020.
[7] Da non sottovalutare il fatto che i brevi intervalli temporali stabiliti nel comma 1 dell’art. 2-bis d.l. 28/2020 possono essere, in concreto, spazzati via grazie alla previsione, contenuta nel medesimo comma 1, in base alla quale la valutazione del magistrato di sorveglianza deve essere effettuata «immediatamente», nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture adeguate alle condizioni di salute del condannato.
[8] Il termine perentorio di trenta giorni è stato inserito in sede di conversione del d.l. 28/2020 e corrisponde ad un auspicio formulato dalla dottrina: v., in particolare, M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in sistema penale.it, 5 giugno 2020, p. 11.
[9] Con riferimento alle pronunce più recenti, cfr., per la declaratoria di manifesta infondatezza, Corte cost. (ord.), 18 luglio 2003, n.257; Corte cost. (ord.) 15 gennaio 2003, n. 8.
[10] È il comma 4 dell’art. 47 ord. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale, la norma “madre” che disciplina la concessione in via di urgenza delle misure alternative alla detenzione: ad essa si rifanno sia l’art. 47-ter, comma 1-quater, ord. penit. per quanto concerne la detenzione domiciliare, sia l’art. 50, comma 6 (ult. periodo), ord. penit., relativo alla semilibertà. Per quanto concerne invece il rinvio dell’esecuzione delle pene detentive (nonché delle sanzioni sostitutive) e il relativo intervento in via provvisoria del magistrato di sorveglianza, bisogna fare capo all’art. 684, comma 2, c.p.p. Circa l’affermazione che non è ricorribile per cassazione il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza rigetta la richiesta di concessione della detenzione domiciliare in via provvisoria, dato che si tratta di provvedimento interinale, cfr. Cass. 21 giugno 2007, Missarelli, in CED 236879-01.
[11] Si tratta della l. 19 dicembre 2002, n. 277. Anteriormente a tale provvedimento sia per la concessione, sia per la revoca della liberazione anticipata era competente il tribunale di sorveglianza, il quale procedeva col rito di cui agli artt.666 e 678 c.p.p.
[12] Per tale raffronto, cfr. Mag. sorv. Spoleto 18 agosto 2020, in sistemapenale.it, 23 settembre 2020.
[13] Vale la pena di evidenziare altresì che, mentre nel procedimento per decreto il giudizio caratterizzato dal contraddittorio è eventuale, nel caso della procedura coniata dal legislatore del 2020 la seconda fase si instaura automaticamente, così che si può parlare di un procedimento connotato da un contraddittorio necessario.
[14] Cfr. Corte cost. (ord.), 5 dicembre 2003, n. 352. Per un commento, cfr. E. Esposito, Ordinamento penitenziario e liberazione anticipata, in Giur. cost., 2003, p.3659; A. Pulvirenti, Dal “giusto” processo alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. 283 ss.
[15] Questo limite si accentua, ovviamente, nell’ipotesi in cui, ai fini della revoca provvisoria, il magistrato di sorveglianza si attivi «immediatamente». V. supra, nota 8.
[16] Cfr. Cass. 24 giugno 2020, Cilio, in CED 279578-01; Cass. 8 maggio 2019, Capezzuto, in CED 276199-03; Cass., 16 marzo 2018, Tropea e altri, in CED 272542.
[17] L’acquisizione del parere del Presidente della giunta regionale, che a prima vista potrebbe sembrare incongruente, va ricollegata all’esigenza di un chiarimento circa la situazione epidemiologica sussistente nel territorio in cui si trova il carcere da prendere in considerazione per la nuova allocazione.
[18] In proposito, cfr. M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009, p. 401.
[19] G. Rossetto, sub art.185 disp. att. e coord., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Normativa complementare, vol. I, Torino, 1992, p.692 ss.
[20] L’art. 51-ter ord.penit. prevede che il magistrato di sorveglianza emetta un decreto motivato che può comportare, in caso di periculum in mora, il rientro in carcere del condannato. Di qui l’esigenza di non compromettere l’effetto sorpresa, sacrificando il quale l’interessato sarebbe messo in condizione di sottrarsi all’esecuzione della pena detentiva.
[21] Cfr. § 9.2 del considerato in diritto.
[22] Sull’importante tematica, v., diffusamente, G. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in sistemapenale.it ,19 maggio 2020, spec. p. 2.
[23] Corte cost. 3 marzo 1994, n. 70. Relativamente a questa sentenza, v. C. Fiorio, Libertà personale e dritto alla salute, Padova, 2002, p.141 ss. nonché E. Fassone, Corte costituzionale e AIDS: una conclusione infelice ma inevitabile, in Legislazione pen., 1996, p. 282; A. Margara, Normativa per i detenuti malati di AIDS: è per morire o per vivere?, in Quest. giust., 1995, p. 135.
[24] Ci si riferisce al d.l. 14 maggio 1993, n. 139 (conv. l. 14 luglio 1993, n. 222) e, più precisamente, all’art. 4, grazie al quale è stata disciplinata nell’art. 146, comma 1, c.p. una nuova ipotesi di rinvio obbligatorio di esecuzione della pena, concernente la «persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'articolo 286- bis, comma 1, del codice di procedura penale».
[25] Corte cost n. 70/1994, § 4 del considerato in diritto.
[26] ibidem
[27] ibidem
[28] Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, nella quale si afferma che il principio della rieducazione di cui all’art. 27, comma 3, Cost. deve permeare la pena ed essere rispettato a partire da «quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (§ 4 del considerato in diritto).
[29] Nel senso che al tribunale di sorveglianza non è consentito disporre una qualsiasi prescrizione all’atto della concessione del rinvio dell’esecuzione della pena, cfr. Cass. 9 novembre 1992, Molé, in CED n.192410; Cass. 27 novembre 1991, Alanpiù, in CED n. 189030-01.
[30] Così, Cass. 27 maggio 2008, Nunnari, in CED n. 240867-01; conf. Cass. 12 giugno 2000, Sibio, in CED 216912-01.
[31] Cfr. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, IXa, ed,, Milano,2010, p. 320; C.E.Paliero, Commento all’art.4 l. 27 maggio 1998, n. 165, in Legislazione pen., 1998, 821; A. Pulvirenti, Le misure alternative alla detenzione, in P. Corso, Manuale della esecuzione penitenziaria, VIIa ed., Milano, 2019, p.324 conf. Cass.7 dicembre 1999, Saraco, in CED . 215203-01.
[32] Per un esempio, cfr. Cass. 20 novembre 2020, Furnari, massima n. 35772, dalla cui motivazione emerge che, in occasione del procedimento per la revoca della detenzione domiciliare nei confronti di un condannato precedentemente detenuto nella casa circondariale di Nuoro, è stata indicata dall’amministrazione penitenziaria, come carcere scelto per l’ulteriore fase di esecuzione della pena, la casa circondariale di Catanzaro.
La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump ed il caso di Lisa Montgomery
di Paolo Passaglia*
Sommario: 1. Sei mesi di esecuzioni - 2. Un caso forse più drammatico di altri - 3. «La più politica delle pene» - 4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
1. Sei mesi di esecuzioni
Il turbolento tramonto dell’era Trump, che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio ha fatto piombare direttamente nella notte fonda, sta portando con sé, insieme con una serie di forzature, tentate e sovente realizzate, alla Costituzione statunitense, anche un rigurgito relativo alla pena di morte. Un rigurgito che, preannunciato da tempo (tutto ebbe inizio con … un tweet presidenziale dell’agosto 2019: https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1158424951503884292?lang=en), ha assunto, come temuto, caratteri preoccupanti, per ampiezza e per crudeltà.
La pena di morte, nel diritto federale statunitense, non è mai stata abolita, tuttavia, per lungo tempo, non è stata applicata (ovviamente per gli ordinamenti degli Stati membri il discorso è ben diverso). Dopo il marzo 1963, per quasi mezzo secolo le esecuzioni si erano infatti fermate, prima che, durante la presidenza di George W. Bush riprendessero, con un bilancio di due condanne eseguite nel giugno 2001 e una nel marzo 2003. Da allora, si era avuto un nuovo accantonamento, fino, appunto, alla presidenza Trump, che negli ultimi sei mesi del 2020 ha condotto ben 10 esecuzioni.
Non si tratta soltanto di numeri, anche se il numero è di per sé allarmante, visto che l’anno appena trascorso, segnato dalle difficoltà che la pandemia ha opposto nei confronti delle esecuzioni, è stato comunque l’anno in cui il potere federale ha eseguito più condanne a morte di civili, almeno a far tempo dall’inizio del Novecento. È stato anche il primo anno nella storia degli Stati Uniti in cui le esecuzioni a livello federale hanno superato la somma delle esecuzioni a livello statale, bloccate, appunto, dalla pandemia, al punto da segnare, con 7, il valore minimo negli ultimi trentasette anni.
Non si tratta soltanto di numeri: la lettura del report annuale del Death Penalty Information Center (The Death Penalty in 2020: Year End Report. Death Penalty Hits Historic Lows Despite Federal Execution Spree, Dec. 16, 2020, https://deathpenaltyinfo.org/facts-and-research/dpic-reports/dpic-year-end-reports/the-death-penalty-in-2020-year-end-report) è, da questo punto di vista, inquietante: «L’ondata di esecuzioni è stata aberrante anche nella selezione dei detenuti da mettere a morte. I condannati hanno incuso il primo nativo americano mai giustiziato dal governo federale per l’omicidio di un membro della sua stessa tribù su terre tribali; le prime esecuzioni federali, in 68 anni, di delinquenti adolescenti ai tempi dei fatti; la prima esecuzione federale, in 57 anni, per un crimine commesso in uno Stato che aveva abolito la pena di morte; le esecuzioni programmate di due detenuti che le prove mediche avevano indicato come affetti disabilità intellettiva; le esecuzioni programmate di due detenuti con gravi malattie mentali, compreso uno che potrebbe essere stato incapace di intendere e di volere al momento della sua esecuzione; le esecuzioni programmate di due detenuti che non avevano ucciso nessuno e di tre condannati meno colpevoli dei coimputati che avevano ricevuto condanne minori; le prime esecuzioni, in oltre un secolo, nell’intervallo tra le elezioni politiche e l’entrata in funzione del nuovo Congresso; esecuzioni poste in essere contro la volontà dei familiari delle vittime, dei procuratori del processo di primo grado o d’appello nei relativi casi e di almeno uno dei giudici che avevano presieduto il processo».
Questa spirale è destinata, auspicabilmente, a interrompersi, stando almeno al programma del presidente eletto, Joe Biden, che si è impegnato a eliminare la pena di morte a livello federale (cfr. The Biden Plan for Strengthening America’s Commitment to Justice, https://joebiden.com/justice/). Il punto è che fino al 20 gennaio le funzioni presidenziali saranno (recte, dovrebbero essere) esercitate da Donald Trump. E se, già oggi, il presidente in carica può (s)fregiarsi del poco onorevole primato di essere stato il presidente che ha autorizzato più esecuzioni della storia degli Stati Uniti durante il periodo di passaggio da un presidente a un altro, è ben possibile che, negli ultimi giorni del suo mandato, cerchi, se ne avrà l’opportunità, di ritoccare le sue macabre statistiche. Sono, infatti, previste due esecuzioni ad opera del potere federale, il 12 e il 14 gennaio (una terza esecuzione, prevista per il 15, è stata per il momento sospesa in ragione di un vizio nel procedimento di notifica della data dell’esecuzione).
2. Un caso forse più drammatico di altri
Sul presupposto dell’intollerabilità di qualunque esecuzione, è quasi fisiologico che alcuni casi attirino più di altri l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra questi casi, evidentemente, rientra quello di Lisa Montgomery, la cui esecuzione, fissata per il 12 gennaio, ha dato luogo a diffuse richieste di clemenza, anche da parte di persone particolarmente qualificate in ambito forense e scientifico. A fondare queste richieste certo non è un fattore di genere: è vero che Lisa Montgomery è l’unica detenuta donna in un braccio della morte federale ed è vero che per trovare l’ultima donna di cui sia stata eseguita la condanna a morte da parte del potere federale si deve risalire al 1953, ma le ragioni che hanno spinto a un impegno contro questa esecuzione sono ben più profonde.
Difficile contestare l’efferatezza del fatto-reato commesso, del 16 dicembre 2004: strangolamento di una donna all’ottavo mese di gravidanza, taglio dell’addome con un coltello da cucina ed estrazione del bambino, sopravvissuto anche al rapimento da parte dell’omicida.
A rendere meno nitida l’esecrabilità della condotta si è fatto appello, in sede processuale, alla vita pregressa dell’imputata, fatta di abusi, anche sessuali, perpetrati dal patrigno e da almeno uno dei due uomini che aveva sposato in rapida successione, a 18 anni, per abbandonare l’abitazione materna; una vita fatta di abuso di alcol, asseritamente indotto dalla ricerca di una astrazione dalla cupezza della realtà; una vita segnata da una sterilizzazione, all’età di 22 anni, dopo aver messo al mondo quattro figli, che, presumibilmente, non doveva essere stata del tutto accettata, viste le ripetute false dichiarazioni di uno stato di gravidanza.
Nel corso del processo, non è stata accolta la linea di difesa basata sulla non imputabilità della Montgomery, che le avrebbe risparmiato la pena di morte in ragione della giurisprudenza della Corte suprema federale (cfr., in part., la sentenza sul caso Atkins v. Virginia, 536 U.S. 304, del 20 giugno 2002, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/536/304, in cui si è dichiarato che l’inflizione della pena di morte a persone affette da ritardo mentale era incompatibile con il divieto di pene crudeli e inusuali di cui all’Ottavo Emendamento alla Costituzione federale). La giuria ha quindi dichiarato colpevole l’imputata, raccomandando la condanna a morte, che il giudice ha pronunciato il 26 ottobre 2007. Solo successivamente si è venuti a conoscenza di ulteriori perizie relative allo stato mentale della Montgomery, che il suo avvocato non aveva ritenuto di produrre e che solo in appello sono stato presentate, peraltro senza successo.
Il caso della Montgomery è stato sottoposto anche alla Corte suprema federale, la quale – in data 19 marzo 2012 – ha tuttavia negato il certiorari, rifiutando discrezionalmente di trattare la causa (ciò che avviene, come noto, per la stragrande maggioranza dei ricorsi presentati alla Corte).
Dopo la condanna definitiva, e durante il suo soggiorno nel braccio della morte, la Montgomery è stata sottoposta a varie perizie psichiatriche richieste dal collegio difensivo, dalle quali sarebbe stata confermata la possibile incapacità al momento della commissione del fatto e dalle quali sarebbero emersi frequenti stati di dissociazione dalla realtà asseritamente derivati da danni cerebrali prodotti dalle percosse subite durante l’adolescenza. Se, dunque, per un verso potevano nutrirsi dubbi sulla legittimità della condanna, per l’altro poteva essere richiamata la giurisprudenza della Corte suprema federale (Ford v. Wainwright, 447 U.S. 399, del 26 giugno 1986, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/477/399; Panetti v. Quarterman, 551 U.S. 930, 28 giugno 2007, https://www.law.cornell.edu/supct/html/06-6407.ZS.html; Madison v. Alabama, 586 U.S., docket n. 17-7505, 27 febbraio 2019, https:// www.law.cornell.edu/supremecourt/text/17-7505) che ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di un condannato divenuto incapace nelle more dell’esecuzione.
Nonostante un insieme non proprio scarno di argomenti in favore di una qualche clemenza, l’esecuzione della Montgomery è stata fissata per l’8 dicembre, e solo la circostanza che i suoi legali avessero contratto il Covid-19 ha potuto portare a un rinvio. Rinvio che è stato, peraltro, piuttosto breve, visto che il 23 novembre è stata notificata alla Montgomery la nuova data del 12 gennaio. La Corte federale di primo grado per il District of Columbia, in data 24 dicembre, ha ritenuto illegittimo il nuovo provvedimento di fissazione, perché adottato quando era ancora in corso la sospensione della precedente esecuzione. La Corte d’appello, con ordinanza del 1° gennaio, ha annullato la decisione di primo grado, ripristinando così la validità della fissazione al 12 gennaio.
3. «La più politica delle pene»
Nel momento in cui queste righe sono scritte (il 7 gennaio) non è ancora certo che l’esecuzione avrà luogo. Non potrebbe essere altrimenti, visto che la storia della pena di morte negli Stati Uniti ha conosciuto sospensioni o atti di clemenza adottati anche a pochi minuti dall’inizio dell’esecuzione. L’ottusità dell’intransigenza dell’amministrazione Trump in materia di esecuzioni parrebbe rendere, nella specie, assai improbabile che potesse verificarsi una eventualità del genere. Una incognita enorme, tuttavia, pesa su qualunque previsione; un’incognita che non riguarda la detenuta, ma chi decide sull’esecuzione.
Dopo la sconvolgente vicenda dell’assalto al Campidoglio, infatti, si vanno moltiplicando, in queste ore, le voci che propugnano l’applicazione del Venticinquesimo Emendamento alla Costituzione, e cioè la rimozione per incapacità del Presidente in carica e la sua sostituzione, per gli ultimi giorni del mandato, con il Vicepresidente, Mike Pence. Qualora a ciò si addivenisse, non potrebbe escludersi che il nuovo presidente facente funzioni volesse evitare di caratterizzare i suoi dieci giorni di mandato con una esecuzione tanto contestata. D’altro canto, neppure può escludersi che, anche qualora a una rimozione non si dia luogo, il caos venutosi a creare e la larga delegittimazione che il Presidente Trump ha subito anche nel campo repubblicano suggeriscano di evitare ulteriori atti forieri di tensione: in quest’ottica, anche le programmate esecuzioni potrebbero essere sospese.
Queste considerazioni, nella loro superficialità e nella loro astrattezza, è probabile che nel volgere di qualche giorno o anche di qualche ora mostrino tutta la loro inattualità. La loro utilità risiede, però (almeno lo si spera), nel dimostrare quanto la pena di morte sia legata a considerazioni di ordine politico. Un bel libro di qualche anno fa la ha giustamente definita «la più politica delle pene» (D. Galliani, La più politica delle pene. La pena di morte, Assisi, Cittadella, 2012): l’utilizzo spregiudicato che ne ha fatto il Presidente Trump nei mesi antecedenti le elezioni sembra che possa leggersi come la ricerca di consenso in alcuni settori dell’elettorato; il ricorso parimenti spregiudicato alle esecuzioni che ha fatto seguito alle elezioni perse si inquadra perfettamente nel clima di crescente tensione e confusione che Trump ha voluto imprimere alla fase di transizione. In entrambe le fasi, i condannati che sono stati giustiziati non hanno avuto, evidentemente, alcun peso nel calcolo politico, potendo assumere tutt’al più il ruolo presto dimenticabile di «danni collaterali».
4. Il «dopo Trump»: un nuovo slancio per l’abolizionismo?
La nefasta parentesi Trump, domani, dopodomani o, al massimo, il 20 gennaio, avrà termine. Cosa ci si può attendere per il futuro della pena di morte negli Stati Uniti?
Lo scempio degli ultimi mesi, con la risonanza mediatica di alcune esecuzioni che hanno sollevato forti obiezioni e un diffuso senso di ingiustizia in settori della società statunitense più ampi del solito, dovrebbe agevolare il Presidente Biden nel concretizzare l’impegno assunto di abolire la pena di morte relativamente al diritto federale.
Salvo quanto avvenuto nel 2020 (e, forse, nei primi scampoli del 2021), la pena di morte negli Stati Uniti non è però una questione «federale», giacché le condanne e le esecuzioni connotano solitamente gli Stati membri, o meglio alcuni Stati. Negli ultimi decenni si è assistito a una crescita piuttosto significativa del fronte abolizionista, che ha circoscritto la pena capitale a un numero di Stati contenuto, soprattutto se si ha riguardo alle esecuzioni concretamente poste in essere. L’esistenza di un sistema federale, tuttavia, non consente di proporre alcun tipo di automatismo: l’eventuale abolizione della pena a livello federale non avrebbe che una valenza di esempio, forse di modello per i legislatori degli Stati membri retenzionisti.
Il riferimento ai «legislatori» non è casuale, essendo la presa d’atto che la storia statunitense sembra suggerire che l’abolizione della pena di morte debba passare attraverso una decisione dei rappresentati del popolo. Negli Stati Uniti, infatti, quando è stato il potere giudiziario ad abolire la pena di morte, l’effetto che si è avuto è stato quello di un rifiuto nell’opinione pubblica della posizione abolizionista.
Una analisi delle abolizioni giudiziarie negli States non può essere qui ripercorsa (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Firenze, Olschki, 2021, spec. 142 ss., 161 ss. e 207 ss.); la sentenza più famosa, però, merita almeno una menzione. Era il 1972, l’ultima esecuzione condotta negli Stati Uniti risaliva a cinque anni prima; la Corte suprema federale, con la sentenza sul caso Furman v. Georgia (408 U.S. 238, resa il 29 giugno 1972, https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/408/238), dichiarava l’incostituzionalità della disciplina della pena di morte della Georgia, censurando però elementi che si ritrovavano in tutte le legislazioni statali. Tutto sembrava far propendere, dunque, per la fine della pena capitale negli Stati Uniti, in parallelo con quanto era appena avvenuto o stata avvenendo nel Regno Unito o in Canada. E invece, la decisione veniva interpretata come una invasione ad opera del potere giudiziario di sfere di competenza del potere politico. Questo, in una fase storica in cui veniva percepito un tasso di criminalità in aumento, ha prodotto una sorta di «effetto rimbalzo» a beneficio dell’opzione favorevole alla pena di morte, che si è tradotto nella introduzione di nuove discipline in gran parte degli Stati e, a partire dal 1976, nel concreto recupero della pena di morte come sanzione «normale», pur nella sua gravità.
A prescindere dalla attuale composizione della Corte suprema federale, che rende ben poco probabili decisioni abolizioniste, la vicenda degli Anni Settanta è indicativa di quanto la pena capitale si presti a strumentalizzazioni sul piano politico. La sua abolizione, salvo casi relativamente eccezionali (come avvenuto, ad esempio, in alcuni Stati ex-socialisti o nel Sudafrica post-apartheid), deve essere il frutto di una decisione che venga da chi è legittimato democraticamente, perché solo così si ha una immunizzazione (mai completa, peraltro) da rischi di ritorni indietro. L’auspicio è dunque che la banalizzazione sconvolgente con cui la politica di messa a morte è stata condotta in questi ultimi mesi possa almeno dare lo slancio per un nuovo corso dell’abolizionismo statunitense.
*Paolo Passaglia è ordinario di Diritto comparato presso l’Università di Pisa e coordinatore scientifico pro tempore dell’Area di diritto comparato del Servizio Studi della Corte costituzionale.
Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra "verità" e "giustizia"
di Andrea Apollonio
Nessuna figura come quella del magistrato ha, nell'opera di Sciascia, un carattere più equivoco: trasformato in un modello letterario dal significato ambiguo - una trasfigurazione che nell'ideologia sciasciana trova fondamento storico sul fatto inoppugnabile e documentato che la storia della giustizia è in realtà una storia di ingiustizie - il magistrato è stato reso dal grande scrittore, in quarant'anni di intensa attività letteraria, eroe e anti-eroe al tempo stesso: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
La verità è un concetto che percorre tutta l'opera di Sciascia seppur diversamente declinato: che ritroviamo nel suo primo libro - il misconosciuto Favole della dittatura del 1950 - come nell'ultimo - Una storia semplice, pubblicato postumo nel 1989. Nel mezzo, quarant'anni di continua riflessione su di un tema che viene per la prima volta sistematicamente trattato, in maniera quasi escatologica, nel 1963 con Il Consiglio d'Egitto. In questo romanzo la verità sembra disciogliersi nella contingenza storico-politica, quindi nelle cose di ogni giorno: ne prende il posto la menzogna, che diviene caratteristica ontologica di una comunità: “La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell'essere, frondeggia al di là della vita”, dice l'avvocato Di Blasi, il quale appena prima - facendo riferimento alla sua professione, al suo confronto quotidiano con giudici ed inquisitori - si era lasciato andare ad una confidenza: “Ho visto tante volte la verità confusa e la menzogna assumere le apparenze della verità”. Lui stesso, da lì a poco avrebbe subìto un processo ingiusto, e poi la tortura e la decapitazione; ma nelle forme stabilite dalla legge.
Non esiste altra forma di verità da quella professata da chi è investito di un potere ed ha facoltà di esprimersi sui fatti; ed è il potere giudiziario ad accertare i fatti e a punire gli impostori, o a salvaguardarli per ragioni di convenienza. È così, appunto, nel Consiglio d'Egitto, in 1912+1, ne La strega e il capitano.
Una concezione tragica dell'accertamento dei fatti; in cui la verità esiste ma - essendo le cose del mondo ordinate sulla base di decisioni prese d'imperio e calate dall'alto, conformi alla legge e all'opportunità del momento - la verità non è possibile raggiungere: la si può solo prospettare, teorizzare e persino narrare (è questo lo spirito con cui vengono costruiti La scomparsa di Majorana e l'Affaire Moro). Il mondo sarebbe dunque una fittissima trama di verità impossibili, puntualmente soffocate dalle verità costituite. Quando Sciascia, in una delle sue frasi più celebri e ripetute (tratta appunto dall'Affaire), afferma: <
Ad una verità che sicuramente non coincide con la giustizia, che è un insieme di forme appannaggio dell'autorità e dei poteri costituiti. Ripercorrendo l'opera sciasciana, ci si renderebbe conto che in nessun caso la verità coincide con la giustizia (quella formalmente intesa: che è l'unico modo di intenderla). In alcune storie (A ciascuno il suo, Il giorno della civetta: i "gialli" senza soluzione, dunque senza verità) le risultanze giudiziarie non sono di concreta utilità; in altre (Il contesto, Porte aperte, Una storia semplice) gli organi giudiziari volutamente impediscono un pieno e genuino accertamento dei fatti; in altre ancora l'esercizio della giustizia si traduce in mero arbitrio, in mistificazione della verità (ne è un fulgido esempio Morte dell'Inquisitore). Ed una giustizia che non riesce a tradursi in verità merita di essere sovvertita: ne consegue che gran parte dei suoi romanzi sono apologhi alla sovversione dei poteri costituiti, perché arroganti, prevaricatori, mistificatori, anche se non individuabili perché abilmente nascosti in ogni piega della società: in questo senso poteri mafiosi. E' una sfida impari, quella stessa del protagonista di Todo modo innanzi al potere torbido e informe; quella stessa del Vice, ne Il cavaliere e la morte.
La verità che Sciascia ha in mente è piuttosto il frutto di un processo dettato dalla ragione. Non può tacersi la sua vocazione illuminista, né possiamo mai allontanarlo dal suo pantheon con Voltaire e Diderot, ma con anche i moralisti Montaigne e Pascal, del quale sembra - ma non se ne hanno evidenze bibliografiche - che Sciascia amasse citare la frase: “Non potendosi trovare la giustizia, si è trovata la forza”. La giustizia come brutale esercizio di potenza e prevaricazione; la verità come frutto impossibile della ragione: nel mezzo, l'utopia del diritto, che pure, da settant'anni a questa parte, con l'avvento della Costituzione repubblicana, ha una chiara matrice liberale ed illuminista.
Invero, neppure l'avvento dell'illuminismo giuridico sembra, agli occhi di Sciascia, aver permeato di ragione la procedura giudiziaria, che appare sempre troppo inquisitoria, sempre troppo asservita a logiche di prevaricazione. Egli ripercorre - fonti alla mano - la storia giudiziaria della Sicilia, metafora italiana, che affonda (forse ancora profondamente) le proprie radici nell'Inquisizione, e racconta di giudici e condannati, mistificazioni, imposture e impunità nei romanzi (Sciascia direbbe: "racconti") già citati, con l'aggiunta di tanti altri cammei letterari: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, oppure la Nota a margine della "Storia della colonna infame", del "suo" Alessandro Manzoni, con graffianti accenni all'attualità. Attualità che viene pienamente investita dalla critica sciasciana nelle raccolte Nero su Nero e sopratutto in A futura memoria.”
Nell'ultimo suo libro, Una storia semplice, fatalmente uscito il giorno della sua morte, la frase che fa da esergo è tratta da "Giustizia", di Durrenmatt: “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Egli davvero non aveva mai smesso di ricercare la giustizia, in un (impossibile?) accoppiamento alla verità ed alla ragione. Ma è pur sempre - quella a cui lui tendeva - una giustizia che scaturisce dalla ragione: “Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono”. E si torna così, inutilmente, al punto di partenza: alla sconfitta della ragione, una sconfitta che Sciascia ha sempre - personalmente - preventivato. Dichiarava ad un giornale francese: “Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O, più dimessamente, di delusioni. Da ciò lo scetticismo; che non è, in effetti, l'accettazione della sconfitta - preventivata e ragionata - ma il margine di sicurezza, di elasticità per cui la sconfitta non diventa definitiva e mortale”.
In pochi sanno che nel piccolo studiolo di casa Sciascia, in contrada Noce, nell'immaginifica Racalmuto, è - ancora - appeso alla parete un quadretto dalla minuscola didascalia: "Muriò la Verdad". È la riproduzione dell'acquaforte di Francisco Goya custodita al Museo del Prado, che raffigura una donna esanime circondata da una moltitudine confusa di persone che la compiangono: riesce appena a cogliersi la figura di un prete che impartisce una impietosa benedizione, un monaco e altri visi occhialuti appartenenti a sagome distinte. Fa una certa impressione l'idea che Leonardo Sciascia abbia avuto alle sue spalle, una volta al tavolo di lavoro, la "Verità è morta".
Attraversare il corpus sciasciano vuol dire allora supporre, con cognizione di causa, che tra gli uomini che fanno da contorno alla donna che incarna la Verità di Goya - tra i quali se ne scorgono alcuni occhialuti e distinti - figurano gli inquisitori e i giudici: i magistrati. Questa immagine è senz'altro armonica nel suo sistema di opere, con l'insieme dei suoi personaggi: in cui il magistrato - narrato in chiave storica o moderno investigatore - è non raramente l'anti-eroe, che fronteggia ed infine soverchia un proprio subordinato: un semplice brigadiere in Una storia semplice, un semplice ispettore ne Il contesto; oppure, anche, un semplice giudice rispetto ad un superiore collega, come nel più intenso dei suoi libri: Porte aperte. Anche nell'alveo della giustizia si replica quindi lo scontro del forte con il debole, di chi ricerca inutilmente la verità (dentro o fuori le forme della giustizia stessa) al cospetto dell'organo di giustizia. Si replica quindi, per dirla sempre con le parole di Sciascia, ”la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”
Rimane la "sicilitudine", ovvero la particolare dimora letteraria di Leonardo Sciascia, ove il modo di sentire, di essere, di vivere dei siciliani si evidenziano. E' la "sicilitudine" il nucleo incandescente della sua opera: “Tutti i miei libri ne fanno uno sulla Sicilia”; come tutti i suoi personaggi emergono dalla "metafora" siciliana. E per tutto quanto si è detto il magistrato siciliano può essere considerato, sotto l'aspetto prettamente letterario, l'eroe e al tempo stesso l'anti-eroe sciasciano: in cerca della verità, fautore dell'impostura.
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