ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Forme di tutela dell’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile 2021, n. 4597)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie- 2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990 - 2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare; 2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990 - 3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione - 4. Osservazioni conclusive.
1. La fattispecie
Gli eredi di un noto artista, le cui spoglie erano state inizialmente seppellite presso il Comune di Ardea, richiedevano a quest’ultimo, il 23 maggio del 2019, l’autorizzazione all’estumulazione della salma e al trasporto della stessa presso il cimitero di San Benedetto del Tronto, per potere lì provvedere alla sua cremazione. Con la stessa istanza veniva richiesta l’autorizzazione al successivo trasferimento delle ceneri presso il Comune di Aprilia, dove l’urna avrebbe dovuto essere custodita per il futuro, insieme a quella contenente le ceneri della moglie dell’artista, in ossequio alla volontà testamentaria espressa dai coniugi[1].
L’amministrazione ardeatina non concludeva il procedimento nel termine allo stesso applicabile: gli eredi agivano così innanzi al Tar del Lazio che, accertato l’obbligo di provvedere in capo al Comune, condannava quest’ultimo all’adempimento, nominava un commissario ad acta per l’ipotesi del protrarsi dell’inerzia e disponeva il mutamento del rito in ordinario al fine dell’esame della domanda di risarcimento del danno da ritardo e di quella volta al pagamento dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990[2].
Con la sentenza qui annotata il Tar ha definito tali azioni consequenziali, respingendole.
Merita alcune brevi riflessioni, in particolare, il capo della pronuncia in cui, negando il diritto dei ricorrenti all’indennizzo, il Tribunale ha dato di tale istituto un inquadramento non conforme alle posizioni più diffuse in giurisprudenza (sebbene, alla stregua di queste, idoneo a limitarne sensibilmente l’ambito di applicazione).
2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990
La motivazione della sentenza illustra i fatti successivi alla pubblicazione della prima pronuncia, con la quale il Comune resistente è stato condannato a provvedere: l’adozione, da parte del sindaco, di un atto elusivo della decisione emessa ex art. 117, c. 2, c.p.a.; il conseguente insediamento del commissario ad acta e l’accoglimento, da parte di quest’ultimo, dell’istanza dei ricorrenti (26 novembre 2020); la reiterazione della medesima autorizzazione a fronte della perdurante inottemperanza degli uffici comunali (4 gennaio 2021); l’ulteriore ritardo dell’ente nel consentire il concreto svolgimento delle operazioni di estumulazione. A fronte di un termine di trenta giorni previsto per la conclusione del procedimento, in sintesi, l’istanza veniva definitivamente accolta dopo poco meno di seicento giorni.
L’omessa allegazione e prova, da parte dei ricorrenti, dei danni dai medesimi patiti a causa del ritardo dell’amministrazione costituisce l’unico argomento posto espressamente dalla decisione a fondamento della (più che succinta) statuizione di rigetto della domanda risarcitoria[3].
La medesima ragione è, tuttavia, anche il primo pilastro della più articolata motivazione relativa al mancato riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il risarcimento del danno e l’indennizzo, contemplati rispettivamente dai commi 1 e 1 bis dell’art. 2 bis l. proc., secondo il Tar, «dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa»[4].
Il primo aspetto – che, cioè, i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit. derivino entrambi dal medesimo fatto illecito[5] – è centrale nell’argomentazione del Tar.
Tale rilievo impedirebbe, infatti, l’assimilazione dell’indennizzo a omonimi istituti aventi il fine di riequilibrare «interessi meritevoli di tutela in conflitto fra loro»: non costituendo, al contrario di questi, un «meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime […] per motivi di equità sostanziale»[6], l’indennizzo (come il risarcimento) non potrebbe considerarsi un mero automatismo attivabile a fronte dell’inerzia provvedimentale, ma rappresenterebbe piuttosto una forma di riparazione del sacrificio imposto a «un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento»[7].
In altri termini: l’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento non si distinguerebbe, in sé, dall’interesse alla conclusione (senza aggettivi) del procedimento. Esso dovrebbe pertanto ritenersi pienamente soddisfatto dall’emanazione del provvedimento: poco importa che tale risultato sia conseguito dall’istante a distanza di molto tempo dalla scadenza del termine (magari con defatigante e superfluo aggravio degli oneri di partecipazione procedimentale e solo a seguito del vittorioso esperimento di un giudizio avverso il silenzio), salvo che sia data prova dell’esistenza di specifici danni subiti in ragione delle lungaggini procedimentali[8].
La validità di questa interpretazione dell’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. viene dimostrata in sentenza mediante il ricorso a due distinzioni: da una parte quella tra l’istituto in parola e l’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013[9], dall’altra quella tra i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit.. La novità di questo approccio ne consiglia una più dettagliata descrizione.
2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare»
Il comma 1 bis è stato aggiunto all’art. 2 bis della legge sul procedimento dall’art. 28, c. 9, d.l. n. 69/2013. La norma dispone che, fatto salvo il diritto al risarcimento del danno «e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento».
È noto che il comma 1 dell’art. 28 cit. ha altresì disposto, con previsione in parte analoga, che le pubbliche amministrazioni, «in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro». A tal fine l’istante ha l’onere di attivare, entro venti giorni dalla scadenza del termine procedimentale, la procedura contemplata dal comma 9 ter dell’art. 2 l. n. 241/1990, chiedendo all’organo titolare del potere sostitutivo anche il pagamento dell’indennizzo (art. 28, c. 2, d.l. n. 69/2013). Tanto nell’ipotesi di perdurante inerzia provvedimentale, quanto nel caso di mancata liquidazione dell’indennizzo dovuto, può essere proposta domanda giudiziale nelle forme dei riti speciali ex art. 117 o 118 c.p.a. (art. 28 cit., cc. 3 e 4). Le informazioni relative all’indennizzo, alle modalità per ottenerlo, al titolare del potere sostitutivo e ai termini a questi assegnati per la conclusione del procedimento devono essere fornite con la comunicazione di avvio del procedimento e pubblicate in conformità all’art. 35 d.lgs. n. 33 del 2013.
Comprendere quale sia il rapporto tra le disposizioni dettate dai commi 1 e 9 del citato art. 28 – se cioè essi contemplino due diversi diritti all’indennizzo, oppure si riferiscano al medesimo istituto – rileva, ad avviso del Tar, sotto due principali aspetti.
In primo luogo perché, considerando l’indennizzo introdotto dalla novella alla legge sul procedimento distinto da quello di cui all’art. 28 c. 1 cit., la disciplina per quest’ultimo specificamente dettata dovrebbe ritenersi non estensibile al primo: la predeterminazione ex lege dell’ammontare, l’onere di previa attivazione della competenza sostitutiva (nonché, potrebbe aggiungersi, l’espresso assoggettamento della domanda al rito camerale e gli obblighi di comunicazione e di pubblicazione imposti all’amministrazione) riguarderebbero, insomma, soltanto il secondo istituto.
Inoltre (e soprattutto), se si trattasse di due istituti distinti, potrebbe ritenersi riferito soltanto all’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 il successivo comma 10, ai sensi del quale «le disposizioni del presente articolo si applicano, in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore». Il comma 12 dell’art. 28 prevede inoltre che, al termine del periodo «sperimentale» (della durata minima di diciotto mesi) con regolamento di delegificazione si possano confermare o modificare le condizioni e le modalità stabilite ai commi 1 ss. dell’art. 28, nonché l’ambito di applicazione definito dal citato comma 10: anche questa previsione, secondo il Tar, non sarebbe riferibile all’indennizzo ex art. 2 bis l. proc., qualora quest’ultimo si ritenesse distinto da quello di cui al citato art. 28, c. 1[10].
Per il Tribunale è indubbio che le due norme con cui, nel d.l. del 2013, è stata introdotta una tutela indennitaria per le ipotesi di inerzia provvedimentale non siano tra loro in alcun modo sovrapponibili: questa conclusione è raggiunta attraverso un’analisi sistematica delle disposizioni di cui all’art. 28 cit., dalla quale la sentenza trae una precisa interpretazione della volontà del legislatore.
Quest’ultimo avrebbe inteso apprestare una tutela indennitaria, limitata e uniforme nell’ammontare, in favore delle imprese, «per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela» e rispetto alle quali il «bene tempo» non rappresenterebbe «un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[11].
Tale forfettizzazione, ad una con il suo massimale, non sarebbe invece applicabile all’indennizzo previsto dall’art. 2 bisdella legge n. 241/1990: quest’ultimo potrebbe essere dunque liquidato equitativamente e senza necessità di attivare la procedura di cui all’art. 2, c. 9 ter, della legge sul procedimento.
La distinzione che ha più rilievo ai fini del rigetto della domanda, tuttavia, riguarda il profilo dell’automaticità: pacifica con riferimento alla misura indennitaria di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69/2013, da escludersi in relazione a quella contemplata dall’art. 2 bis l. proc., che esige invece l’allegazione e la prova del danno subito dall’amministrato.
Ricostruendo a contrario gli argomenti impiegati in motivazione, sembrerebbe dunque che nei confronti delle imprese, a differenza che per ogni altro amministrato, il legislatore attribuisca rilievo giuridico autonomo all’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento, distinguendolo da quello all’adozione (in sé) del provvedimento[12].
Benché il Tar non lo dica espressamente, peraltro, è la stessa predeterminazione legale dell’importo a neutralizzare, limitatamente all’indennizzo ex art. 28, c. 1, cit., un altro argomento che la sentenza impiega per escludere che il diritto ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sorga automaticamente, a fronte del mero spirare del termine procedimentale. Benché, infatti, l’art. 28 c. 1 cit. imponga la liquidazione dell’indennizzo anche in assenza di un effettivo danno subito dall’impresa istante – circostanza che, secondo uno dei motivi che sorreggono la decisione qui annotata, ne dovrebbe attestare la «natura sostanzialmente sanzionatoria» – la norma non solleverebbe dubbi di legittimità costituzionale, poiché la determinazione della «sanzione [non] risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice»[13].
Non v’è dubbio, in sintesi, che l’indennizzo di cui all’art. 2 bis l. n. 241/1990 abbia, secondo il Tar, natura risarcitoria: se esso non funge da corrispettivo per il trasferimento forzoso di un diritto o per la costituzione di un nuovo diritto in capo ad altri, non esprime la corrispettività tra il «prezzo» di un rischio diffuso e il «prezzo» del pregiudizio subito dal titolare del diritto in cui danno quel rischio si è concretato, non mira a mitigare, per ragioni di equità, la responsabilità dell’obbligato, non è soggetto a criteri di liquidazione forfettari, o comunque svincolati dall’entità del danno, allora è evidente come tale misura debba necessariamente ritenersi (puramente e semplicemente) strumentale a reintegrare il patrimonio dell’amministrato a fonte della lesione materiale di un suo bene o interesse. E, così configurato, l’indennizzo da ritardo contemplato dalla legge sul procedimento non potrebbe qualificarsi se non come un risarcimento del danno in senso stretto[14].
2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990
Veniamo allora alla seconda distinzione, per comprendere in cosa, a opinione del Tar Lazio, il risarcimento del danno previsto dal comma 1 bis dell’art. 2 bis l. n. 241/1990, che il legislatore qualifica «indennizzo», si differenzi dal risarcimento contemplato dal comma 1.
Tale distinzione, si afferma, risiederebbe, da un lato, nella natura dei danni risarcibili e, dall’altro, nella «liquidazione semplificata» ammessa dal legislatore per i pregiudizi alla cui riparazione è destinata la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc., rispetto a quella (non «semplificata») imposta dal comma 1.
Sotto il primo aspetto, il Tribunale amministrativo ritiene che la misura indennitaria sia volta alla compensazione di pregiudizi a carattere non patrimoniale, mentre il risarcimento ex art. 2 bis, c. 1, mirerebbe alla riparazione di danni patrimoniali[15].
Questa interpretazione dell’art. 2 bis cit. è strettamente collegata al secondo elemento distintivo individuato dal Tar tra le due misure: è, infatti, la natura non patrimoniale dell’interesse leso a spiegare (e a giustificare) la semplificazione prevista dal legislatore con riferimento all’indennizzo, «strumento più agevole e di pronta liquidazione»[16].
Ma in cosa consiste questa semplificazione?
Stando alla motivazione della sentenza – in conformità alla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, la cui tesi ha di recente ricevuto un nuovo avallo dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[17] – la conformazione della responsabilità da ritardo di cui all’art. 2 bis, c. 1, corrisponde in toto allo schema aquiliano: chi pretenda di essere risarcito dovrà dunque dare prova «sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti».
Per ottenere l’indennizzo, invece «il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso»[18].
In realtà, tale astratta e suggestiva contrapposizione tra gli oneri imposti per l’accesso all’una o all’altra tutela risulta molto mitigata se si guarda al quadro complessivo della motivazione, che indica ulteriori profili di concreta sovrapposizione tra la disciplina del risarcimento e quella dell’indennizzo.
Innanzitutto, quanto all’allegazione e alla prova del danno, abbiamo già visto che, a opinione del Tar, esse sono imprescindibili tanto ai sensi del comma 1, quanto per il comma 1 bis dell’art. 2 bis cit..
Né, pare, avrebbe senso sostenere che, mentre ai sensi del primo comma il danneggiato è onerato della quantificazione del pregiudizio subito, ai sensi del comma successivo l’ammontare del danno non debba essere specificamente provato: proprio adottando la prospettiva sposata dalla sentenza, infatti, lungi dall’essere una conseguenza della «semplificazione» apprestata dal legislatore, la cennata differenza deriverebbe piuttosto dal fatto che solo il danno risarcibile è «patrimonialmente valutabile», mentre quello indennizzabile, di natura non patrimoniale, non potrà che essere quantificato per mezzo di una valutazione equitativa[19].
Quanto alla prova del nesso di causalità, sebbene non espressamente richiesta dal c. 1 bis cit., non sembra che, onerato dell’allegazione e della prova del danno, il ricorrente possa prescindere da una dimostrazione (nei limiti fisiologici alla natura non patrimoniale del danno) della riferibilità di quest’ultimo all’inerzia provvedimentale della P.A.: a meno che non si ritenga che qualsiasi stato di afflizione morale, di disagio psicologico e comportamentale patito dall’istante nel periodo di tempo che intercorre tra la scadenza del termine procedimentale e l’effettiva emanazione del provvedimento debba presumersi essere conseguenza dell’inerzia dell’amministrazione, onerando quest’ultima di fornire l’eventuale prova contraria.
Qualche notazione in più richiede, infine, il profilo di distinzione tra risarcimento e indennizzo formalmente ancorato al fatto che solo per il primo è richiesta la prova dell’elemento soggettivo, quando invece, chi domandi una tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, non è tenuto a dimostrare la natura dolosa o colposa del ritardo della P.A..
Analizzando il materiale atteggiarsi di questa astratta distinzione, come tratteggiato dalla motivazione, ci si imbatte infatti nel secondo pilastro su cui si fonda la decisione, pilastro idoneo a sorreggerne le conclusioni «anche a ritenere in re ipsa»[20] il danno in ogni ipotesi di violazione dei termini procedimentali, «anche laddove» (la pronuncia lo ribadisce più d’una volta) «si ritenga che nel ritardo sia insita una lesione intrinseca dell’interesse dei ricorrenti e dunque il provvedimento tardivo non sia stato completamente satisfattivo»[21].
Dalla premessa secondo cui, per ottenere l’indennizzo da ritardo, non è richiesta la prova del dolo o della colpa, a detta del Tar, non può trarsi infatti la conclusione che l’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione sia comunque irrilevante.
Al contrario, qualora il ritardo sia passibile di una «ragionevole “giustificabilità”», esso non può «ricondursi ad una ordinaria forma di cattiva amministrazione o inerzia»: la «giustificabilità» è, pertanto, sufficiente «ad escludere una responsabilità [tanto] risarcitoria [quanto] indennitaria»[22].
Anche sotto questo profilo, di conseguenza, il discrimine tra risarcimento e indennizzo fissato dal Tar è più sfumato di quanto possa sembrare a un primo esame: l’enfatizzata inversione dell’onere della prova, infatti, si rivela in concreto ben poca cosa.
Se è vero che l’assunzione di dolo e colpa a presupposti dell’azione risarcitoria si traduce, nei fatti, nel mero onere del danneggiato di far menzione di circostanze la cui esistenza è attestata dagli stessi atti del procedimento (indici del lassismo o – all’opposto – dell’iperattività endoprocedimentale della P.A.) e se, per escludere il rilievo giuridico di tali circostanze, l’amministrazione deve invocare, anche nell’ambito della responsabilità risarcitoria, la «giustificabilità» del proprio comportamento[23], non è facile comprendere, anche sotto questo aspetto, quale sia la «semplificazione» che la legge appresta, secondo il Tar, per l’accesso alla tutela indennitaria.
3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione
La motivazione della sentenza in commento presenta diversi profili di contraddittorietà, sia interna, sia esterna.
Sotto quest’ultimo aspetto, è evidente la distonia della pronuncia con gli argomenti che lo stesso giudice aveva posto a fondamento della prima decisione, con cui era stato accolto il ricorso avverso il silenzio.
In quest’ultima si afferma a chiare lettere che gli interessi di cui il Comune aveva inteso farsi portatore (e la cui complessa valutazione aveva costituito la ragione materiale del ritardo procedimentale) non potessero assumere alcun giuridico rilievo ai fini dell’adozione del provvedimento (né, quindi, giustificare l’inerzia provvedimentale): l’accoglimento dell’istanza di traslazione della salma, oggetto di causa, dipendeva infatti «esclusivamente dalla sussistenza delle condizioni previste […] dal Regolamento di Polizia Mortuaria e non anche da valutazioni di opportunità e di merito amministrativo legate alla tutela degli interessi locali, che dunque non possono essere presi in considerazione dall’Amministrazione ai fini del diniego della istanza o per ritardarne l’esito»[24].
In altri termini, quanto all’accertamento dei presupposti, il potere autorizzatorio del Comune doveva ritenersi vincolato e, in ogni caso, pur ammessone un qualche margine di discrezionalità, nessuno spazio avrebbe potuto assumere al suo interno la considerazione dell’interesse della collettività cittadina a mantenere presso il proprio cimitero la sepoltura del noto artista.
La sentenza qui annotata, al contrario, qualifica la valutazione di tale interesse, da parte della P.A., indice della «giustificabilità» del ritardo: la «particolare forma di “pietas” collettiva» che il Comune di Ardea aveva inteso tutelare quale ente esponenziale della collettività locale, non può considerarsi «prevalente sul diritto dei congiunti, ma di certo neppure priva di un proprio rilievo»[25].
Per non rilevare una stridente contraddizione tra i due pronunciamenti, insomma, il «rilievo» della «pietas» della collettività locale, privo di giuridica consistenza, dovrebbe ritenersi di carattere morale, di mero fatto, comunque pre-giuridico: può un tale rilievo giustificare il sacrificio del diritto (al risarcimento e all’indennizzo) dei ricorrenti? Così non pare: sembra anzi che, a fronte di una così palese deviazione dell’agire amministrativo dal suo paradigma normativo (un agire che il Tar qualifica clementemente «solo sviato nei presupposti di fatto»[26]) sarebbe difficile non ritenere pienamente dimostrata la colpa grave della P.A., in un grado tanto elevato da non ammettere «giustificazione» alcuna.
Quanto ai profili di incoerenza interna, deve evidenziarsi, innanzitutto, l’irregolare tracciato della linea di confine posta dalla decisione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013, da un lato, e i rimedi contemplati dai due commi dell’art. 2 bis l. proc., dall’altro.
Il Tar sostiene infatti che, con riferimento alla prima tutela (limitata all’ambito di applicazione transitoriamente definito dallo stesso art. 28, c. 10, cit.), la previsione di un onere procedimentale che condiziona l’accesso all’indennizzo (l’attivazione della procedura sostitutiva ex art. 2, c. 9 ter, l. proc.) abbia la funzione di bilanciare l’automaticità di tale rimedio[27]. Tuttavia, poche righe dopo, nella stessa decisione si afferma che, anche per l’accesso alla tutela risarcitoria o indennitaria di cui all’art. 2 bis cit., si impone all’istante insoddisfatto l’esperimento di «una procedura sostitutiva (laddove quest’ultima sia esperibile), o comunque un diverso rimedio sollecitatorio (ma non in applicazione diretta del comma 2 dell’art. 28 del DL 69/2013, che, come indicato, riguarda altra fattispecie, bensì del più generale principio di cui all’art. 1227 cod.civ.)»[28].
Quanto alla mancata prova in giudizio del danno oggetto dell’indennizzo, poi, è la stessa qualificazione «non patrimoniale» a far dubitare della consequenzialità delle conclusioni raggiunte rispetto agli argomenti impiegati in motivazione dal Tar.
Al riguardo, non è peregrino scorgere un parallelo tra il criterio distintivo individuato in sentenza (sia tra le tutele fruibili ex art. 2 bis l. n. 241/1990, sia tra quella contemplata dal comma 1bis di tale norma e l’indennizzo ex art. 28, c. 1 cit.) e il discrimine che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha posto tra i rimedi offerti alle parti di un processo di cui venga accertata l’irragionevole durata, per ottenere l’equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2001: anche in questa materia, infatti, la natura del danno (patrimoniale o non patrimoniale) determina l’applicazione di un differente riparto dell’onere di allegazione e prova. E tuttavia, proprio in materia di equa riparazione, nella giurisprudenza della Suprema Corte è ormai consolidato l’orientamento secondo il quale «il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione […] viene normalmente liquidato […] senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza»[29]. La natura non patrimoniale del danno, insomma, dovrebbe condurre a conclusioni diametralmente opposte a quelle raggiunte dal Tar Lazio, che al contrario sottolinea una inversa distinzione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 96/2013 (automatico e avente funzione di riparazione patrimoniale) e l’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, della legge sul procedimento (volto alla compensazione di danni non patrimoniali, la cui sussistenza sarebbe onere del ricorrente provare).
Sotto altro profilo – e prescindendo dall’analogia suggerita dagli argomenti della sentenza in commento con le tutele ex legge Pinto – l’idea che la violazione di un precipuo obbligo di legge (a fronte della quale la legge stessa prevede espressamente un diritto alla riparazione) non possa dar luogo a una presunzione in ordine all’esistenza del danno sembra anch’essa, in radice, smentita dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che, ove tali presupposti ricorrano, ben può il giudice procedere a una liquidazione equitativa, pur in difetto di un’allegazione di parte in ordine all’entità del pregiudizio patito. Contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, non osta a questa conclusione – e, anzi, ne corrobora la correttezza – il rilievo secondo cui, in questo modo, la norma che dalla violazione dell’obbligo fa derivare una specifica (e diretta) tutela configurerebbe una «misura di natura sanzionatoria»[30].
«Sanzionatoria» è del resto, secondo la ricostruzione di certa dottrina, la funzione di una classe di rimedi che la decisione qui annotata non menziona tra gli esempi di «indennizzo» messi a raffronto con quello previsto dall’art. 2 bis, c. 1 bis, cit., e che tuttavia sembrano assai simili a quest’ultimo sul piano strutturale e su quello teleologico: ci si riferisce agli indennizzi automatici forfettari che, a far data dal 1994, è imposto di prevedere agli erogatori di servizi pubblici per le ipotesi di violazione degli obblighi assunti, nei confronti dell’utenza, mediante le carte del servizio[31]. La novella alla legge sul procedimento è stata, peraltro, apportata da uno dei (sempre più numerosi) provvedimenti normativi orientati a qualificare l’attività amministrativa alla stregua di un servizio al pubblico, passibile di valutazione secondo standard di qualità che non descrivono il grado di soddisfazione dell’utenza sul piano dell’oggetto della prestazione, ma sul metro delle modalità impiegate per l’adempimento di quest’ultima: ciò sembra suggerire che, almeno nelle intenzioni, il legislatore abbia modellato l’indennizzo da ritardata conclusione del procedimento sul topos dell’indennizzo da disservizio[32].
Proprio dando per buona la prima distinzione assunta a fondamento della motivazione (quella tra indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 e indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc), insomma, le conclusioni della decisione non sarebbero condivisibili.
I ricorrenti avevano infatti provato, nei limiti del materialmente possibile, sia la patente illegittimità del ritardo (peraltro già accertata dalla precedente sentenza), sia gli indici della colpa ravvisabile nel comportamento del Comune; la fattispecie escludeva inoltre, ipso facto, la possibilità di attivare un intervento sostitutivo o altri rimedi stragiudiziali avverso l’inerzia, poiché il rilascio dell’autorizzazione richiesta all’amministrazione rientrava fra le competenze del suo organo di vertice; che, infine, il tempo di definizione del procedimento avesse assunto, per i ricorrenti, un valore autonomo e distinto dall’interesse all’adozione del provvedimento non sarebbe stato di certo «arbitrario» presumere, sulla scorta delle stesse risultanze istruttorie: il giudice – proprio sulla base del (non condivisibile) inquadramento giuridico offerto alla res litigiosa – avrebbe dunque dovuto riconoscere il diritto all’indennizzo, liquidandone equitativamente l’ammontare.
4. Osservazioni conclusive
Se però, come appena rilevato, il rigetto della domanda di indennizzo appare errato alla luce delle premesse descritte in motivazione, la stessa statuizione sembra, al contrario, corretta ove tali premesse siano sottoposte a critica.
Al riguardo, sembra doversi rilevare come gli argomenti a cui fa ricorso il Collegio, prima ancora che non condivisibili, siano decisamente superflui ai fini del rigetto di una domanda di indennizzo che, in forza della legge vigente, non avrebbe potuto avere altra sorte.
Il Tar, infatti, avrebbe potuto raggiungere la stessa conclusione attraverso un percorso assai più breve e lineare, se solo avesse dato una diversa impostazione al problema relativo al rapporto tra il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013. È dall’erronea interpretazione di tale rapporto che derivano per necessità, a cascata, le altre criticità argomentative supra segnalate.
È evidente, al riguardo, quanto la pessima formulazione della norma del 2013 abbia giocato un ruolo determinante nell’errore in cui è incorso il Tar; ma non v’è dubbio, d’altro canto, che l’esegesi accolta da quest’ultimo finisca col complicare la definizione della portata precettiva dell’art. 28 cit. più di quanto possa fare una interpretazione letterale del suo (scadente) dato testuale.
Prendiamo le mosse da un rilievo elementare, a cui si è già accennato.
L’art. 28, c. 10, del d.l. n. 69/2013 dispone una limitazione transitoria dell’ambito di applicazione per (id est: per tutte) le «disposizioni del presente articolo».
In difetto di un indice letterale o sistematico che impedisca l’inclusione in tale limitazione della novella alla legge sul procedimento introdotta dallo stesso art. 28 (comma 9), anche quest’ultima norma dovrebbe pertanto trovare applicazione, in costanza del periodo «sperimentale», esclusivamente con riferimento ai «procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore».
Di siffatti indici, ostativi all’accoglimento di un’interpretazione letterale, la sentenza in commento non fa menzione: si limita a negare – in ciò allineandosi all’opposto indirizzo che considera «fungibili» le due previsioni riferite all’indennizzo da ritardo procedimentale – che l’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sia interessato dalla predetta limitazione «sperimentale» e afferma che, di conseguenza, esso debba trovare applicazione generale e immediata, «anche in assenza del regolamento di cui al comma 12»[33].
Tuttavia, pur ammessa (per assurdo) la validità di questa (immotivata) interpretazione del citato comma 10, non potrebbe ignorarsi che la necessità di definire per legge o con un regolamento di delegificazione le «condizioni» e le «modalità» di esercizio del diritto all’indennizzo da ritardo ex l. n. 241/1990 non deriva tanto dal comma 12 dell’art. 28 cit., quanto, piuttosto, direttamente dallo stesso comma 9: anche se l’indennizzo contemplato da tale norma fosse altra cosa rispetto a quello previsto dal comma 1, dunque, la pretesa alla sua corresponsione non sarebbe comunque azionabile, perché mancherebbe a monte una legge che fissi «condizioni» e «modalità» per l’accesso alla tutela[34].
Il Tar Lazio, che non si confronta con questa condizione posta dall’art. 2 bis, c. 1 bis, ritiene necessario valorizzare la suggestiva circostanza che il comma 9 dell’art. 28 cit. abbia innestato la previsione dell’indennizzo in un testo «ben differente». Se, insomma, tra i tanti ‘rattoppi’ del «decreto del fare», una norma esprime la vocazione a integrare stabilmente lo statuto generale dell’amministrato, novellando la legge sul procedimento, allora, per il Tar, occorre dare un senso a tale specialità: «diversamente, l’art. 2 bis della l. 241/90 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, del DL n. 69/2013»[35].
In realtà, è solo considerando unitaria la tutela indennitaria introdotta dall’art. 28 cit. che si perviene a una interpretazione della disciplina priva di sovrapposizioni e più aderente al dato letterale.
Il cuore dell’art. 28 cit., in questa diversa prospettiva, deve identificarsi nel disposto del comma 9 e nella modifica che esso apporta alla legge sul procedimento: alle tutele (di adempimento e risarcitoria) già contemplate in precedenza, la norma del 2013 ha aggiunto una tutela indennitaria. Il concreto funzionamento di questa tutela («modalità» e «condizioni») deve essere tuttavia definito, almeno in prima battuta, «dalla legge»: e l’unica legge che ha assolto (e a tutt’oggi assolve) a tale funzione non può che essere lo stesso d.l. n. 69/2013, che mediante le altre disposizioni contenute all’art. 28 non fa che delineare, appunto, «condizioni» e «modalità» (l’ammontare dell’indennizzo, gli oneri procedimentali che devono assolversi per farne richiesta, le modalità di proposizione e trattazione della domanda giudiziale, l’ambito di applicazione etc.).
In altri termini, allorché il Tar, nel sostenere che il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 siano fonti di due differenti diritti, afferma che «non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo»[36], trascura una differenza di rilievo tra le due disposizioni: una differenza che l’interpretazione letterale non consente, invece, di ignorare e che impedisce di considerare l’una previsione «identica» all’altra. Senza, tuttavia, alcuna necessità di ritenere i citati commi 1 e 9 quali fonti di due differenti diritti all’indennizzo.
Infatti, mentre il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 ha quale referente il cittadino («[…] l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo […]), la formulazione del comma 1 è strutturalmente differente, poiché essa è rivolta alle amministrazioni («[…] corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo […]): definendo i contenuti dell’obbligazione indennitaria, tale ultima previsione ha, appunto, lo scopo di dettare (alcune tra le) «condizioni» e «modalità» che permettono la soddisfazione del diritto sancito dall’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990.
Se le «condizioni» e le «modalità» stabilite dalla «legge» (a cui rinvia l’art. 2 bis, c. 1 bis, cit.) non fossero quelle fissate dall’art. 28, c. 1 ss., d.l. n. 68/2013, del resto, sarebbe impossibile comprendere perché mai il comma 1bis cit. prefiguri, per la sua applicazione, l’adozione di un regolamento di delegificazione ex art. 27, c. 2, l. n. 400/1988 (analogamente al comma 12 dell’art. 28 cit.), anziché di un regolamento di esecuzione, di attuazione o integrazione, ovvero indipendente (art. 27, c. 1, lett. a, b, e c l. n. 400/1988).
Gli indennizzi a cui si riferiscono, da prospettive differenti, il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 96/2013 sono, insomma, nient’altro che lo stesso istituto. Mentre il comma 9 sancisce il diritto alla tutela, gli altri commi ne definiscono, in conformità a ciò che il comma 9 esige, le «condizioni» e le «modalità» di soddisfazione[37].
Tra queste «condizioni» e «modalità» rientra, si ripete, anche quella individuata dal comma 10: di modo che, a tutt’oggi, l’accesso all’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. deve ritenersi limitato esclusivamente «ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa».
La fonte «ben differente» rappresentata, per il Tar, dalla legge sul procedimento non funge, insomma, che da manifesto per la proclamazione di un diritto dei cittadini che, ormai da otto anni è, in realtà, solo un diritto delle imprese[38].
Può certo dubitarsi della ragionevolezza di questa discriminazione operata dal legislatore: non sembra così scontato, come invece pare ritenere il Tar, che il «bene tempo» costituisca oggetto di un interesse autonomo per un’impresa più di quanto non lo sia per un lavoratore subordinato costretto a richiedere un permesso non retribuito per recarsi presso un ufficio comunale (o per un cittadino privo di impiego, che quel tempo potrebbe destinare alla ricerca di un’occupazione). Né convince l’idea che il «bene tempo» sia per il cittadino comune un valore «fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[39], o almeno che sia più «soggettivo» di quanto possa esserlo per una pizzeria o un’industria petrolchimica. Se questa irragionevolezza abbia rilievo in punto di legittimità costituzionale dell’art. 28, c. 10, d.l. n. 69 del 2013 è però un problema differente, che esula dall’oggetto di queste brevi notazioni.
Piuttosto, è opportuno evidenziare che la conclusione qui raggiunta (secondo la quale, semplicemente, non esiste a tutt’oggi una tutela indennitaria fruibile dal quisve de populo a fronte del ritardo provvedimentale) non deve portare a un eccessivo sconforto, a ritenere insomma preferibile, malgrado la sua dubbia coerenza, la tesi sostenuta in sentenza: le modalità di accesso all’indennizzo descritte da quest’ultima, infatti, non sembrano più onerose – né sul piano sostanziale (allegazione e prova del danno), né sul piano processuale (soggezione della domanda al rito ordinario) – rispetto a quelle richieste dalla legge vigente per il risarcimento del danno ex art. 2 bis, c. 1, l. proc.. E non è azzardato ritenere che, correttamente ricostruitane la disciplina, la pronuncia in commento avrebbe potuto accordare ai ricorrenti l’altra tutela richiesta. Almeno stando alla descrizione dei fatti di causa contenuta in motivazione, infatti, sembrerebbero ricorrere nella fattispecie tutti gli elementi della responsabilità della P.A.: elementi a fronte dei quali il giudice avrebbe potuto ben procedere a una liquidazione equitativa (non dell’indennizzo, ma) del danno risarcibile.
[1] È doveroso segnalare che il dispositivo della pronuncia in commento «manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i ricorrenti ed i loro genitori». Nella copia consultabile della decisione risultano tuttavia oscurati anche il nome del Comune resistente e quelli degli altri enti e luoghi a vario titolo coinvolti nella vicenda che ha dato origine al giudizio. Tale modalità di oscuramento renderebbe, in alcuni passi, pressoché incomprensibile la motivazione. Basti dire che i nomi dei tre Comuni sono, come di consueto accade, tutti sostituiti dallo stesso « -OMISSIS-»: di modo che, dove in motivazione si fa riferimento a uno dei tre enti, talora non si riesce a comprendere quale tra essi sia il Comune richiamato (quello di sepoltura, quello in cui provvedere alla cremazione o quello destinato a custodire in futuro le ceneri?). Non è stata – fortunatamente – oscurata l’indicazione del numero e dell’anno della precedente sentenza pronunciata inter partes (infra, nota 2), per la cui pubblicazione la Segreteria, pur avendo ricevuto dal Tar identico mandato, ha quantomeno sottratto all’oscuramento i dati relativi alle amministrazioni coinvolte: con l’ausilio di tale decisione, quella qui annotata diviene (non chiara ma almeno) comprensibile. Il paradosso è che se taluno, per mera curiosità, volesse indagare sull’identità del personaggio celebre (alle cui vicende post mortem si riferiscono i fatti narrati dalla motivazione della pronuncia in commento) o su quella dei suoi eredi, potrebbe agevolmente risalirvi, senza essere dotato di particolari abilità di detection, limitandosi (anche senza l’ausilio della pronuncia richiamata) a digitare su un motore di ricerca qualche lemma identificativo del caso («cremazione», «estumulazione», «artista celebre») e soffermandosi sui risultati relativi a notizie della stampa locale (di cui la competenza per territorio del Tar dà un’indicazione univoca). È un paradosso perché la tecnica dell’oscuramento per ragioni di privacy, così applicata, mentre non impedisce l’accesso al fatto che ‘appartiene solo alle parti’ (il dato, appunto, personale), è spesso in grado di celare quella parte del fatto che ‘appartiene a tutti’ e che è la ragione che giustifica la qualità pubblica di ogni pronuncia giurisdizionale (per una chiara distinzione tra «aspetto individuale» e «aspetto collettivo» del «fatto» nel processo, v. F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 2003, 83 ss.). Sull’«improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali» (dal quale troppo spesso le sentenze restano intaccate), v. in questa Rivista le osservazioni di F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866),
[2] Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 30 luglio 2020, n. 8895.
[3] V. il par. II) della decisione.
[4] Così la motivazione, al punto III).
[5] In giurisprudenza, per la qualificazione della responsabilità ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. come responsabilità da attività lecita v. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 16 aprile 2021, n. 1201.
[6] Così la sentenza annotata al par. III). Le fattispecie di indennizzo richiamate in motivazione sono quella di cui all’art. 2045 c.c., relativa al danno causato in stato di necessità, la revoca del provvedimento ex art. 21 quinquies l. proc., l’equo indennizzo per invalidità o decesso derivanti da causa di servizio, l’indennità da espropriazione per pubblica utilità e la promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.).
[7] Ibidem, par. III.3).
[8] Difficile ritenere compatibile un siffatto approccio con l’idea (pure, in astratto, spesso condivisa dal giudice amministrativo) che con la previsione del risarcimento del danno per il ritardo o il mancato esercizio del potere, «e poi di un indennizzo forfettario per il “mero ritardo”, il tempo procedimentale è stato qualificato alla stregua di un bene della vita, costituendo il ritardo un costo sia “economico”, poiché si traduce in un rischio amministrativo in caso di “investimenti”; sia in termini di violazione dell’affidamento degli interessati, che costituisce il versante soggettivo, psicologico, del valore oggettivo del principio di certezza del diritto (Cons. St. sez. V, n. 675/2015)»: per questa formulazione v. CGARS, sez. giur., 10 settembre 2018, n. 490.
[9] Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98.
[10] Ai sensi dell’art. 28, c. 12, d.l. n. 69 del 2013 cit., «Decorsi diciotto mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e sulla base del monitoraggio relativo alla sua applicazione, con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sono stabiliti la conferma, la rimodulazione, anche con riguardo ai procedimenti amministrativi esclusi, o la cessazione delle disposizioni del presente articolo, nonché eventualmente il termine a decorrere dal quale le disposizioni ivi contenute sono applicate, anche gradualmente, ai procedimenti amministrativi diversi da quelli individuati al comma 10 del presente articolo».
[11] Così la motivazione al par. III.6).
[12] La sentenza, al par. III.4.), riconosce a chiare lettere che, fuori dall’ipotesi del danno ulteriore di cui sia offerta prova, il provvedimento «tardivo», sia «pienamente satisfattivo».
[13] Ibid: «laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa)».
[14] R. Scognamiglio, Indennità, in Novissimo Digesto Italiano, VIII, 1962, ad vocem, 595 ss.
[15] Cfr. il par. III.7) della motivazione.
[16] Ibid.
[17] Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7. Sull’originale (e discutibile) tesi proposta dall’ordinanza di rimessione (CGARS, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), disattesa dall’Adunanza plenaria, v. in questa Rivista M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria.
[18] Così la motivazione, al par. III.7, dal quale è tratta anche la precedente citazione nel testo.
[19] Ibid., par. III.6).
[20] Ibid., par. VI).
[21] Ibid., par. IV).
[22] Ibid. par. V).
[23] V. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2019, n. 5219: « La sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell'amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell'Amministrazione, dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali deve essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione, e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l'imperizia degli uffici o degli organi dell'amministrazione, ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all'ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto. In sostanza, quella configurata dall'art. 2-bis, comma 1, l. n. 241/1990 viene ricondotta ad una responsabilità per un comportamento scorretto dell'Amministrazione e contrastante con i canoni del buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa». Per l’esclusione del danno risarcibile a fronte della complessità oggettiva del procedimento cfr., fra tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712.
[24] Così Tar Lazio, Roma, n. 8895/2020 cit.
[25] Cfr. la sentenza in commento al par. V).
[26] Ibid.
[27] Ibid., par. III.6).
[28] Ibid., par. IV). Il concorso colposo del creditore nella causazione del danno sembrerebbe dunque assumere a mente del Tar, anche nell’ambito della tutela indennitaria, l’ampio ruolo a esso consuetamente riconosciuto in giurisprudenza con riferimento alla tutela risarcitoria: in questo senso cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16 dicembre 2016, n. 5339 (par. 4.1., lett. b), con particolare riferimento alla mancata cooperazione dell’istante in sede istruttoria. Lascia intendere la necessità dell’attivazione dei poteri sostitutivi ex art. 2, c. 9 ter l. proc. anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo Consiglio di Stato, sez. V, 2 aprile 2020, n. 2210 (par. 3.3.1).
[29] Questo l’indirizzo costante, intrapreso a partire da Cassazione civile, sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339 e n. 1340.
[30] Cfr. ad esempio Cassazione civile, sez. lav., 4 maggio 2015, n. 8882.
[31] Al di là della dottrina che ne ha assimilato la natura a quella di una sanzione amministrativa sui generis (G. Tulumello, Privatizzazione dei servizi pubblici e problemi di tutela giurisdizionale, in Contratto e impresa. Europa, 1999, 386 ss.), è generalmente accolta l’opinione che gli indennizzi automatici forfettari (alla stregua degli obblighi dalla cui violazione sorge il diritto alla loro corresponsione) si pongano su un piano del rapporto di utenza distinto e parallelo al principale sinallagma contrattuale. Sugli indennizzi automatici forfettari (e, più in generale, sulle carte dei servizi, competenti alla loro definizione, v. G. Napolitano, Gli indennizzi automatici agli utenti di servizi pubblici, in Danno e resp., 1996, 15 ss.; G. Sbisà, Natura e funzione delle «carte dei servizi». La carta del servizio elettrico, in Rass. giur. en. el., 2/1997, 346 ss.; P. Schlesinger, La pluralità delle fonti nella somministrazione di energia elettrica, ibid., 307 ss.; M. Ramajoli, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 3-4/2000, 383 ss.. Per una illustrazione dei profili di inefficienza di tali strumenti v. più di recente M. Calabrò, Carta dei servizi, rapporto di utenza e qualità della vita, Ibid., 1-2/2014, 373 ss.
[32] La previsione di «forme di indennizzo automatico e forfettario» a fronte «di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione» era stata prefigurata dall’art. 17, c. 1, lett. f) della legge Bassanini (l. 15 marzo 1997, n. 59), mediante una delega, però, mai attuata dal Governo. La circostanza è ricordata da Consiglio di Stato, sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2108, per dare supporto, con un argomento a contrario, alla tesi secondo cui l’accesso alla tutela risarcitoria presuppone un giudizio prognostico sulla fausta conclusione del procedimento (posizione assunta dal Consiglio di Stato – Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7 – già anteriormente all’introduzione dell’art. 2 bis l. proc ad opera dell’articolo 7, c. 1, lettera c), l. 18 giugno 2009, n. 69; da ultimo cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1448, ove però, ribadita la necessità di un giudizio sulla fondatezza dell’istanza con riguardo al risarcimento del danno da ritardo, la si esclude con riferimento all’indennizzo). Sulla rilevanza della fondatezza dell’istanza anche si fini della liquidazione dell’indennizzo ex art. 2 bis l. proc. v. Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22 marzo 2021, n. 277.
[33] Così la motivazione, al par. III.5). Nel senso della non necessità di una disciplina attuativa anche le pronunce ivi richiamate (Tar Lazio, Roma, 3 ottobre 2019, n. 11517 e Tar Campania, Napoli, sez. V, 12 aprile 2021, n. 2346) che tuttavia non ritengono i commi 1 e 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 come fonti di due autonomi diritti all’indennizzo. In entrambe le pronunce il diritto all’indennizzo è escluso non risultando prova del previo esperimento della procedura sostitutiva ai sensi del comma 2 dell’art. 28 cit., a cui anche la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. è ritenuta subordinata.
[34] In questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5541. V. anche Tar Puglia, Bari, sez. II, 24 marzo 2021, n. 499.
[35] Così la sentenza in commento, par. III.5).
[36] Ibid., loc. cit.
[37] Questa, del resto, è l’interpretazione offerta dalla Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 gennaio 2014, n. 73817 – Linee guida per l’applicazione «dell’indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte» (in Gazz. Uff. 12 marzo 2014, n. 59).
[38] Non è dunque, forse, un mero lapsus calami quello contenuto nella motivazione di CGARS 24 marzo 2021, n. 243, che in un obiter dictum afferma che il legislatore avrebbe proceduto alla «abrogazione» dell’art. 2 bis, c. 1 bis l. proc., avendone ritenuto «impraticabile» l’applicazione.
[39] Così la sentenza al già citato par. III.6).
Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c.
di Giovanna Chiappetta
Sommario: 1. Premessa - 2. La “nuova categoria” di figli non riconoscibili al vaglio delle Corti europee - 3. Lo statuto unico di figlio ex art. 30, co. 1, Cost. e l’interpretazione dell’art. 279 c.c. - 4. Natura meramente processuale delle sentenze nn. 32 e 33 del 2021 e la c.d. interpretazione adeguatrice dei giudici di merito per colmare il vuoto normativo.
1. Premessa
I nati in Italia mediante il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa (d’ora in avanti PMA) da parte di coppie di donne, o a seguito della surrogazione di maternità, per i quali non sia possibile il ricorso all’adozione in casi particolari del genitore d'intenzione, costituiscono la “nuova categoria” di bambini non riconoscibili[1]. Pur se sia accertato giudizialmente il loro interesse alla continuità affettiva con il genitore di intenzione (non anche biologico) che abbia in concreto svolto la funzione genitoriale[2], non possono far valere la relativa responsabilità (ex art. 30, co.1, Cost.).
La Consulta ed i giudici di legittimità[3] hanno ritenuto non potersi applicare gli artt. 8 e 9 l. 40/2004 sullo status filiationis dei nati da PMA, trattandosi di pratiche vietate (ex art. 5 e/o 12, comma 6, l. 40/2004, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Pertanto, i diritti al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e i diritti successori spettano ai nati nei confronti del genitore d’intenzione/biologico e non anche nei confronti del genitore intenzionale e di cura.
In siffatto scenario si collocano le sentenze nn. 32 e 33 del 2021 nelle quali la Consulta ha esaminato questioni che riguardano il diritto alla continuazione della relazione genitoriale di fatto dei figli “irriconoscibili" nati mediante il ricorso alle procedure di PMA vietate[4].
La “nuova categoria” di figli irriconoscibili si trova “in una condizione diversa e deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati (compresi i nati da rapporto incestuoso)”[5]. La disciplina del rapporto di filiazione del codice civile, ritenuta saldamente ancorata al rapporto biologico tra il nato ed i genitori, ammette in ogni caso il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità o, l’attribuzione dei diritti al mantenimento, all’istruzione e all’educazione senza l’attribuzione formale dello status filiationis[6]. Anche il nato da relazioni incestuose può acquisire lo status previa autorizzazione giudiziale (artt. 251 e 278 c.c.)[7]. In astratto, quindi, la disciplina codicistica rende sempre possibile l’acquisizione dello status filiationis. La privazione di esso può rendersi necessaria “in concreto” per garantire il migliore interesse del minore. Nelle ipotesi di irriconoscibilità, i bambini sono tutelati nei confronti del genitore biologico mediante gli artt. 279, 580 e 594 c.c.
Diversamente, la nuova categoria di irriconoscibili è privata dello status nei confronti del genitore d'intenzione e di cura (non applicandosi gli artt. 8 e 9, l. 40 del 2004) e non godrebbe di altra tutela congrua. Tali relazioni di genitorialità di fatto svincolate dal rapporto biologico sarebbero prive di riconoscimento giuridico con lesione dei diritti fondamentali alla vita privata e familiare dei nati.
Giova ricordare che per giurisprudenza costante della Consulta l'oggetto del giudizio di legittimità in via incidentale è circoscritto alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione[8]. Di conseguenza non essendo indicato l'art. 279 c.c. (e le altre che la richiamano artt. 580 e 594 c.c.) non è stato preso in considerazione. La Consulta quindi non ha potuto esprimersi sull'utilizzabilità delle azioni esistenti per tutelare l'interesse dei minori non riconoscibili.
I bambini privati dello status filiationis nei confronti del genitore effettivo potrebbero trovare tutela nell'art. 279 c.c. (e negli artt. 580 e 594 c.c. che ne completano la disciplina con disposizioni successorie) del quale si propone una lettura conforme alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali che ne permette l'applicazione al di là della filiazione biologica[9]. La disposizione, superando la tradizionale impostazione restrittiva limitata alla filiazione biologica, potrebbe garantire anche alla nuova generazione di figli "irriconoscibili" e "non dichiarabili" il diritto alla vita familiare affettiva ed effettiva con il genitore di intenzione e di cura.
2. La “nuova categoria” di figli non riconoscibili al vaglio delle Corti europee.
La tutela dello status di cittadino europeo e delle situazioni ad esso connesse sono oggetto di valutazione della Corte di giustizia, così come le misure interne in violazione dei diritti umani fondamentali sono state vagliate dalla Corte di Strasburgo.
In ragione della mobilità dilagante delle famiglie da un Paese all’altro, nuove problematiche sorgono nell’ambito della filiazione. Si parla di «internazionalizzazione fittizia» di status familiari mediante il ricorso alle soluzioni offerte da ordinamenti giuridici stranieri al fine di legittimare la genitorialità creata da una coppia o da un single in violazione di disposizioni di diritto nazionale.
La cittadinanza europea e i diritti ad essi connessi hanno favorito il fenomeno di internazionalizzazione di situazioni in Paesi dell'UE. Infatti, i diritti di libera circolazione e di libero soggiorno nel territorio degli Stati membri hanno consentito la scelta della legge applicabile allo status filiationis ed il meccanismo del riconoscimento di atti di nascita formati all'estero, amplificando il fenomeno del forum o system shopping anche ai cittadini europei ‘statici’ coniugati, uniti, conviventi o single. La condizione del cross border element, un tempo considerata un dogma, con l’interpretazione giurisprudenziale della cittadinanza europea è assimilata alla purely internal situation[10]. L’approccio dell’UE valorizza l’autonomia internazionalprivatistica ammettendo una limitata opzione fra più leggi potenzialmente applicabili ad una situazione familiare ed ai relativi status[11]. Conseguentemente si hanno manifestazioni di volontà che non concernono una situazione giuridica che presenta ab origine legami e implicazioni in più Stati (o in più ordinamenti giuridici), ma situazioni costituite volontariamente in un ordinamento ‘terzo’. La scelta del luogo di nascita di un bambino[12] diviene elemento ‘di estraneità’ che internazionalizza[13] una situazione familiare puramente interna. Il fenomeno ha incentivato il turismo normativo per ottenere la trascrizione della dichiarazione di nascita di bambini all’estero in violazione di leggi nazionali[14]. Di qui i noti fenomeni di birth shopping verso quegli Stati che riconoscono la genitorialità ‘d’intenzione’ (in Spagna) anche in assenza di legami biologici con il figlio. Così, i nati all'estero da PMA di tipo eterologo da due donne (anche italiane) possono ottenere entrambe il riconoscimento del rapporto di filiazione mediante la trascrizione nei registri di stato civile italiano dell'atto di nascita validamente formato in un altro Paese[15].
La Corte di Strasburgo e quella del Lussemburgo sono state investite di questioni riguardanti la “nuova categoria” di figli irriconoscibili. Come nelle sentenze della Consulta summenzionate, i giudici europei si trovano ad esaminare casi di nati mediante il ricorso alla PMA eterologa da parte di due donne o a seguito di surrogazione di maternità. In particolare, è stata posta loro la domanda se sia consentito il rifiuto di uno Stato membro di riconoscere il rapporto di filiazione di fatto tra il nato ed il genitore (o i genitori) d'intenzione, risultante dall'atto di nascita redatto all'estero. Non sussistendo consenso europeo sulle pratiche di PMA, taluni Stati vietano per contrarietà all'ordine pubblico nazionale l'omogenitorialità e la surrogazione di maternità. L'identità costituzionale degli Stati membri e l'ampio margine di apprezzamento di cui essi dispongono nella materia familiare e nell'accertamento della filiazione possono giustificare il rifiuto del rapporto genitoriale di fatto.
La Corte di Strasburgo non ha ravvisato la violazione dell'art. 8 della CEDU per il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita stranieri nelle ipotesi di surrogazione di maternità nelle quali nessuno dei genitori di intenzione era al contempo genitore biologico[16]. La Grande Camera ha altresì emanato il primo parere consultivo non vincolante su richiesta della Cassazione francese[17] sulle questioni di principio relative all'interpretazione e all'applicazione dell'art. 8 CEDU (come sancito dall'art. 1, par. 1 del Protocollo n. 16). Come richiesto dall'art. 1, par. 2, del Protocollo n. 16 addizionale alla CEDU, le questioni interpretative poste dalla Cassazione francese si inseriscono nel contesto della procedura pendente riguardante i coniugi Mennesson[18]. In questo caso di surrogazione di maternità il padre di intenzione era anche padre biologico. I quesiti hanno riguardato il rifiuto del riconoscimento del legame di filiazione di fatto tra il nato da surrogazione di maternità e la sig.ra Mennesson, designata nell'atto di nascita straniero come madre "legale", e la sua compatibilità con l'art. 8 CEDU a tutela del diritto al rispetto della vita privata del bambino[19]. La Corte si è espressa considerando l'interesse superiore in concreto del bambino nell'affaire Mennesson e l'estensione del margine di apprezzamento degli Stati membri.
Relativamente al primo aspetto, ha affermato che l'art. 8 della Convenzione non impone un'obbligazione generale per gli Stati di riconoscere ab initio un legame di filiazione tra il bambino ed il genitore d'intenzione. L'interesse superiore del bambino deve essere apprezzato in concreto e sulla base del legame affettivo ed effettivo che si è instaurato. Le autorità nazionali devono, quindi, valutare, alla luce delle circostanze particolari del caso "si et quand ce lien s’est concrétisé"[20]. È pertanto necessario esaminare la qualità dei legami, il ruolo rivestito dai genitori nei confronti del minore e la durata della convivenza tra loro ed il minore. I giudici di Strasburgo non definiscono una durata minima della convivenza necessaria per costituire una vita familiare de facto, visto che la valutazione di ogni situazione deve tenere conto della “qualità” del legame e delle circostanze di ciascun caso[21].
In breve, gli Stati sono obbligati ad offrire una possibilità "d'un lien de filiation"[22] qualora, come nell'affaire Mennesson, si configuri un rapporto effettivo che richieda un riconoscimento nell'interesse del bambino. Sempre nell'interesse del bambino e stante il margine di apprezzamento in questa materia "sensibile" e sulla quale manca il consenso europeo[23], lo Stato può scegliere lo strumento adeguato. Sarà il governo ad individuarlo e potrà essere la trascrizione dell'atto di nascita, l'adozione da parte del genitore d'intenzione o altra misura prevista dal diritto interno idonea a garantire l'interesse concreto del bambino con efficacia e rapidità di attuazione. La Corte di Strasburgo ha, quindi, riconosciuto le relazioni «familiari» de facto tra uno o più adulti ed un minore in assenza di legami biologici (ex art. 8 CEDU).
Anche la Corte di Giustizia è stata investita di domande pregiudiziali aventi ad oggetto l'atto di nascita rilasciato da uno Stato membro che designa due donne quali madri del minore[24]. I giudici del rinvio hanno chiesto se le autorità statali possano rifiutare di trascrivere l'atto di nascita spagnolo, invocando il rispetto dell'identità nazionale ex art. 4, par. 2, TUE[25]. Il rifiuto di trascrizione è motivato dalla non previsione nel diritto bulgaro e polacco della genitorialità di coppie dello stesso sesso. I casi sono ancora pendenti, ma nelle conclusioni dell'Avvocato Generale nella causa proposta dalla Bulgaria[26], si è sostenuto che la definizione in senso giuridico di famiglia o di uno dei suoi componenti rientra nell'identità nazionale e spetta a ciascuno degli Stati membri. Pertanto, il rifiuto del riconoscimento del rapporto di filiazione, pur di ostacolo ai diritti del cittadino europeo (artt. 20 e 21 TFUE e artt. 7, 24 e 45 della CDFUE), può essere giustificato dal diritto al rispetto all'identità costituzionale degli Stati membri garantito dall'art. 4, par. 2, TUE. L'avvocato Generale Kokott nelle conclusioni nella Causa C-490/20 dopo aver messo in luce che "è pacifico che le due donne non solo hanno validamente acquisito lo status di genitori in forza del diritto spagnolo, ma conducono anche una vita familiare effettiva con la loro figlia in Spagna" (par. 113), conclude: "La Repubblica di Bulgaria non può rifiutare il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la minore da un lato, e la ricorrente e sua moglie, dall'altro, ai soli fini dell'applicazione del diritto derivato dell'Unione relativo alla libera circolazione dei cittadini per il motivo che il diritto bulgaro non prevede né l’istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso, né la maternità della moglie della madre biologica di una minore" (par. 115). Nel punto 3 delle conclusioni, l'Avvocato Generale chiarisce che: "L’invocazione dell’identità nazionale ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE può giustificare il rifiuto di riconoscere il rapporto di filiazione tra un minore e una coppia sposata formata da due donne, quale stabilito nell’atto di nascita rilasciato dallo Stato membro di residenza del minore, ai fini della redazione di un atto di nascita del suo Stato membro d’origine o di quello di una delle due donne, che determina la filiazione di tale minore ai sensi del diritto di famiglia di quest’ultimo Stato membro". Se la Corte di giustizia condividerà le conclusioni suindicate, la legittimità del rifiuto del riconoscimento del rapporto di vita familiare effettiva non potrà limitare i diritti connessi alla cittadinanza europea.
La giurisprudenza delle Corti europee, invocando ragioni differenti, precisa i contorni del diritto alla continuità transfrontaliera delle situazioni familiari costituite all’estero[27].
L'interpretazione convenzionale indica quale momento imprescindibile del riconoscimento di una relazione a tutela dei bambini, l'instaurazione della vita familiare effettiva. Lo strumento nazionale dovrà garantire al bambino il diritto alla cittadinanza della madre, i diritti successori e tutti gli altri "contre un refus ou une renonciation de la mère d'intention de le prende en charge"[28].
Le questioni giuridiche sottese ai fatti esaminati dalla Consulta e dalle Corti europee sono ancora aperte.
Nella sentenza n. 32 del 2021 non hanno trovato soluzioni negli strumenti di tutela indicati nell'ordinanza di rimessione gli interessi delle due bambine accertati giudizialmente alla continuità affettiva con la madre d'intenzione e a un riconoscimento del rapporto effettivo con la medesima. Analogamente, nella sentenza n. 33 del 2021 la Consulta ha evidenziato che lo strumento dell'adozione in casi particolari ex art. 44, co. 2, lett. d), l. 184 del 1983 ritenuto esperibile a garanzia del l'interesse in concreto del bambino al riconoscimento di giuridicità di un legame di genitorialità intenzionale e di cura è una forma di tutela significativa ma non ancora del tutto adeguata. Esigenza di tutela del minore nato da maternità surrogata che è da bilanciare con gli altri contrapposti interessi.
In questa riflessione e per quanto messo in luce appare possibile o meglio necessario, per prevenire o limitare i danni derivanti dalla negata tutela delle relazioni genitoriali di fatto effettive, cambiare la prospettiva tradizionale di analisi e muovere dai fatti che vedono coinvolti minori particolarmente vulnerabili anche per la loro tenera età[29]. La concreta situazione di tutela dei minori ha fatto emergere la necessità di un riconoscimento giuridico del loro rapporto con il genitore intenzionale effettivo. In attesa dell'auspicato intervento del legislatore ci si propone di esaminare le analoghe esigenze di figli "naturali" non riconoscibili e gli strumenti giuridici a loro tutela non ancora vagliati.
La disciplina codicistica dettata dall'art. 279 c.c. (e le altre disposizioni che lo richiamano) per i figli irriconoscibili è adeguata a garantire i parametri costituzionali e convenzionali alla nuova categoria di fanciulli irriconoscibili?
La soluzione all'interrogativo richiede, in primis, l’esame dell’art. 279 c.c. alla luce dei principi costituzionali.
3. Lo statuto unico di figlio ex art. 30, co. 1, Cost. e l’interpretazione dell’art. 279 c.c.
L’attuale formulazione dell’art. 279 c.c., in attuazione dell'art. 30, co. 1, Cost., riconosce, nell’impossibilità dell’accertamento formale dello status filiationis, ai minori i diritti al mantenimento, all’istruzione e all’educazione (fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica) o, se maggiorenni ed in stato di bisogno, gli alimenti (art. 279, primo comma, del codice civile). Ai figli irriconoscibili la tutela successoria è garantita dagli artt. 580 e 594 c.c.
L'art. 279 c.c. contempla l'azione per l'accertamento in via incidentale del rapporto di filiazione finalizzata ad attribuire la responsabilità genitoriale senza la costituzione formale del relativo status[30]. Non è richiesto il consenso del genitore giuridico per la promozione o la prosecuzione dell'azione. Pertanto, l'attribuzione della genitorialità "sostanziale" ex art. 279 c.c. non può essere impedita dalla volontà contraria del genitore giuridico (diversamente dall'art. 46, l. 184 del 1983 per l'adozione in casi particolari). Legittimato attivo è il figlio o, nel suo interesse se minore, il genitore che esercita la responsabilità genitoriale o un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero. La disciplina si applica "In ogni caso" di impossibilità di proporre l'azione per la dichiarazione di paternità o di maternità e richiede l'autorizzazione giudiziale al fine di verificare l'interesse del figlio[31]. La richiesta autorizzazione è collegata al sorgere in capo al genitore della responsabilità non soltanto patrimoniale ma anche di natura esistenziale[32]. I diritti all'istruzione e all'educazione non sono necessariamente riducibili alla prestazione dei corrispondenti mezzi economici. Il giudice, previa autorizzazione ed ascolto del minore ex art. 315-bis, co. 3, c.c. adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento al loro interesse che valuta caso per caso. Si applica la disciplina sancita dall'art. 337-bis e ss. c.c., che regolamenta altresì i procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio (art. 337-bis c.c.). Relativamente alla conservazione dei rapporti del figlio con la famiglia del genitore d'intenzione e di cura, l'art. 337-ter, co. 1, c.c. sancisce la continuità dei rapporti "significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale". Le modalità dell'esercizio della responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. contemplate nel provvedimento per la prole (ex art. 337-ter c.c.) sono garantite anche dall'art. 709-ter c.p.c. contro le controversie insorte tra i genitori nell'esercizio della responsabilità genitoriale e in tutte le inadempienze o atti che rechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento[33]. Il trattamento successorio, confermato dal legislatore della riforma della filiazione avviata nel 2012 con la l. 219, era già ritenuto “differenziato” rispetto a quello spettante agli altri figli dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 494 del 2002[34]. L'intervento auspicato dalla Consulta potrà intervenire su tale aspetto della disciplina a tutela del principio di non discriminazione dei figli in base alla condizione di nascita[35].
L’interpretazione evolutiva del testo normativo in esame non conforta quella restrittiva tradizionalmente limitata alla filiazione "naturale". L'art. 279 c.c. novellato dalla Riforma del 1975, indicava quale beneficiario della tutela il figlio "naturale" sulla base di un accertamento incidenter tantum della procreazione[36].
La formulazione dell’articolo 279 c.c. è stata successivamente modificata dal decreto lg. 28 dicembre 2013 n. 154 attuativo della Riforma del diritto della filiazione avviata dalla l. 219 del 2012. Il testo in vigore indica quali beneficiari i figli nati "fuori del matrimonio" e si apre con una locuzione che può qualificarsi come clausola generale poiché dotata di un peculiare coefficiente di vaghezza o indeterminatezza "In ogni caso" di impossibilità di proporre l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità. Il modo per impostare il problema dell'attuale portata applicativa della clausola generale in esame consiste nel ricondurla alla sua dimensione costituzionalistica e, in particolare, ai parametri dettati dagli artt. 2, 30 e 31 cost.[37].
L'attuale interpretazione dell'art. 30, co. 1, cost. quale parametro fondamentale dello statuto unico di figlio ha portato al riconoscimento della concezione funzionale della “filiazione” che ha messo in luce che i diritti del figlio possono fondarsi anche sulla solidarietà e sull’affetto consolidato con il genitore di fatto[38].
Già in epoca antecedente alla introduzione della l. 40 del 2004 in relazione alla tutela dello status filiationis del concepito mediante PMA eterologa ancora non disciplinata, la Consulta[39] ha riconosciuto al nato nei confronti "di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità" "non solo i diritti e doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima - in base all'art. 2 della Costituzione...".
Nelle sentenze successive, la Consulta segna l'evoluzione dell'ordinamento dando rilevanza giuridica alla genitorialità d'intenzione anche ove non coincidente con quella biologica poiché "il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa" (così sentenza n. 162 del 2014[40] che ha dichiarato l'illegittimità delle disposizioni sul divieto di PMA eterologa).
I giudici delle leggi affermano ancora la tutela "in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l'interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito"[41].
La responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. al mantenimento, all’educazione e all’istruzione della prole, grava su tutti genitori siano essi biologici o d'intenzione e di cura.
L’art. 279 c.c., mediante l’interpretazione evolutiva degli artt. 2, 30 e 31 Cost., consente di superare il vulnus di tutela dell’interesse dei bambini a conservare il rapporto di genitorialità intenzionale ed effettiva[42]. Impossibilità della conservazione del legame di filiazione de facto confermata dalla Consulta con le sentenze di inammissibilità della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021. Le sentenze di inammissibilità hanno altresì messo in luce l'insufficienza del ricorso all'adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1, lett. d), l. 184 del 1983 per supplire alla mancanza di tutela del preminente interesse del minore alla continuità affettiva (rectius rapporto di filiazione de facto).
Infatti, tale genitorialità adottiva può essere impedita dalla contraria volontà del genitore biologico/legale (art. 46, l. 184 del 1983) e parrebbe non conferire al minore uno status "pieno" in quanto si considera incerta la creazione di un rapporto di parentela tra l'adottato e la famiglia dell'adottante pur non interrompendo i rapporti con la famiglia d'origine.
I nati in Italia da PMA eterologa praticata da due donne e quelli da surrogazione di maternità possono acquisire il rapporto di responsabilità legale con il solo genitore biologico genetico.
Diversamente, i nati all'estero da PMA di tipo eterologo da due donne anche di cittadinanza italiana possono ottenere entrambe il riconoscimento del rapporto di filiazione mediante la trascrizione nei registri di stato civile italiano dell'atto di nascita validamente formato in un altro Paese[43].
Non vi è dubbio, che anche per i figli nati dalle tecniche di PMA vietate dalla l. 40 del 2004 sussiste la necessità di riconoscere i diritti sanciti dall'art. 30, co. 1, cost. che gli derivano dalla genitorialità d'intenzione e di cura come nelle suindicate sentenze di inammissibilità nn. 32 e 33 del 2021. Diritti, questi ultimi, che risultano garantiti dall’applicazione delle azioni dell’art. 279 c.c. che non richiedono il consenso del genitore biologico e garantiscono la conservazione dei rapporti affettivi nei confronti del genitore affettivo e di cura e degli ascendenti e parenti del medesimo.
4. Natura meramente processuale delle sentenze nn. 32 e 33 del 2021 e la c.d. interpretazione adeguatrice dei giudici di merito per colmare il vuoto normativo.
Sulla base della natura meramente processuale della sentenza di inammissibilità[44] n. 32/2021, taluni giudici di merito, discostandosi dal monito della Consulta, hanno proceduto ad una lettura costituzionalmente orientata della normativa vigente[45] ed alla loro applicazione per il riconoscimento giuridico della genitorialità di intenzione.
I giudici di merito hanno affermato la scissione tra l'illiceità della tecnica di PMA di tipo eterologo praticata da due donne e la tutela del nato. Tale illiceità, non contrastando con l'ordine pubblico interno[46], ha consentito il riconoscimento al nato della tutela di cui agli artt. 8 e 9, l. 40/2004[47].
Nella sentenza n. 32/2021 la Corte costituzionale dà atto dell'esistenza della divergenza di interpretazione tra i giudici di merito, pur non potendo prendere posizione sulla loro correttezza. In tal modo ed in relazione a casi analoghi, viene violata la fondamentale esigenza di eguaglianza che impone di mettere tutti i figli nella medesima condizione.
A contrario, nel caso esaminato dalla pronuncia di inammissibilità n. 33/2021 avente ad oggetto la tutela dei nati mediante il ricorso alla surrogazione di maternità, la scissione tra i due aspetti, illegittimità della pratica e la tutela del nato, non consente l'applicazione degli artt. 8 e 9 l. 40/2004. Il "diritto vivente" risultante dalla sentenza delle SS. UU. della Cassazione n. 12193 del 2019[48] ha escluso il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento giurisdizionale straniero con il quale era stato dichiarato il rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” cittadino italiano. Esclusione di tale riconoscimento per il divieto penale di surrogazione di maternità stabilito dall'art. 12, comma 6, l. 40/2004 e, quindi, qualificabile secondo le Sezioni unite come principio di ordine pubblico.
Come nella precedente sentenza n. 32 del 2021, la Consulta ritiene indifferibile l’individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.
La Corte costituzionale focalizza le questioni sugli interessi dei bambini che devono essere valuti caso per caso[49]. Non sempre e necessariamente l’interesse del minore coincide con il riconoscimento del legame con il genitore “d’intenzione” o con i genitori d'intenzione in quelle ipotesi nelle quali non sussiste alcun legame genetico tra il minore ed i genitori d'intenzione. Nel noto caso Paradiso Campanelli c. Italia, la Grande camera della Corte di Strasburgo, non ha ritenuto lesiva dell'art. 8 CEDU la irriconoscibilità del rapporto di filiazione del nato da surrogazione di maternità con i genitori d'intenzione, nessuno dei due biologici. La Corte europea dei diritti dell’uomo è ritornata di recente sulla nascita da maternità surrogata nell'ipotesi di insussistenza di legame biologico tra i genitori d'intenzione ed il nato[50]. Non condannando l'operato delle autorità islandesi che hanno rifiutato il riconoscimento a una coppia di sue cittadine, della genitorialità sul bambino nato in California con la maternità surrogata senza alcun legame genetico con la coppia. Le due donne, rientrate in Islanda con il neonato, tre settimane dopo la nascita, avevano chiesto la cittadinanza islandese per il minore e il riconoscimento del rapporto di filiazione della coppia. Il bambino, essendo nato da madre americana e vigendo in Islanda il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, è stato considerato minore non accompagnato e dato in affidamento alle due donne. Il bambino è cresciuto con le due donne, che nel frattempo avevano entrambe un nuovo legame. Secondo la Corte europea, la sentenza della Corte suprema islandese, avendo riconosciuto l’affidamento del minore alla coppia, ha adottato le misure necessarie “per salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti”. Secondo la Corte, lo Stato quindi ha “agito a sua discrezione in questa materia, con l’obiettivo di proteggere il suo divieto di maternità surrogata”.
La Consulta nella sentenza n. 33 del 2021 mette in luce nel caso di surrogazione di maternità che l'interesse del bambino "non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro contro interesse in gioco". Interesse che, in ogni caso, non può essere sacrificato per condannare il comportamento dei genitori. L'interesse del minore va valutato in concreto e può attuarsi in diversi modi, con la riconoscibilità del rapporto di filiazione d'intenzione, o, con l'irriconoscibilità di tale rapporto e la conseguente dichiarazione dello stato di abbandono e l'apertura della procedura di adozione. L'interesse del bambino potrà altresì essere tutelato con la responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. In ogni caso dovrà essere al bambino garantito il diritto a conoscere le proprie origini genetiche[51].
La soluzione adeguata a ciascun caso concreto richiede la valutazione del rapporto genitoriale di fatto, la condizione di ciascun bambino e degli altri interessi contrapposti.
È quanto la Consulta ha accertato nella sentenza n. 32 del 2021: "2.4.1.3. –... La condizione di nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente, dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure. La circostanza che ha indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, ha reso affatto evidente un vuoto di tutela." e ha rilevato che pur "in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con la medesima madre intenzionale, nessuno strumento [di quelli indicati nell’ordinanza di remissione] può essere utilmente adoperato per far valere i diritti delle minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise".
Analogamente, nella sentenza n. 33 del 2021, la Consulta ha rilevato l'esistenza del rapporto affettivo consolidato del bambino con la persona del genitore d'intenzione: "...che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita", e ha affermato che è necessario "far valere i diritti delle minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise".
Le condizioni di applicabilità dell'art. 279 c.c. sussistono nei fatti oggetto di esame della Consulta, così come i diritti da garantire ai minori coinvolti nelle vicende di incostituzionalità sono quelli sanciti dall’art. 279 c.c. (e dagli artt. 580 e 594 c.c.). Infatti, ricorre sia il requisito della nascita fuori del matrimonio, sia quello della non esperibilità dell'azione giudiziale per la dichiarazione giudiziale di genitorialità. La previsione in esame richiede l’impossibilità per il figlio di ottenere il riconoscimento o di agire per l'accertamento giudiziale della genitorialità. Impossibilità messa in luce dalla Consulta nelle sentenze nn. 32 e 33 del 2021.
Il ricorso ai diritti ex art. 30 cost. sanciti nell'art. 279 c.c. senza l'attribuzione dello status filiationis può ritenersi adeguato a tutelare l'interesse concreto dei bambini e a garantire l'effettività e la celerità della sua messa in opera, in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con il genitore intenzionale. Essa potrebbe garantire il diritto alla continuità affettiva, anche in attesa di una disciplina organica della materia dell'attribuzione dello status filiationis formale e/o sostanziale.
I diritti indicati dalla Consulta da garantire ai minori coinvolti nelle vicende di incostituzionalità sono, infatti, il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise.
L’azione ex art. 279 c.c. e le altre connesse per la garanzia dei diritti successori (artt. 580 e 594 c.c.) potrebbero realizzare nei casi in esame l’interesse dei minori. Tuttavia, in sede dell’auspicato intervento legislativo della Consulta, si potrà estendere la disciplina successoria applicabile ai figli che abbiano lo status formale anche ai figli che non hanno acquisito tale status, superando il “regime differenziato” previsto dagli artt. 580 e 594 c.c.[52].
Non rileva in alcun modo distinguere in base al diverso dato dell’impossibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di genitorialità o in base alla ratio della irriconoscibilità o della non dichiarabilità del rapporto di filiazione.
La responsabilità ex art. 279 c.c. attua i parametri costituzionali (art. 30 cost.). L’autorizzazione giudiziale (ex art. 251 c.c.) e, in taluni casi, anche il consenso del figlio, esprimono la necessità della valutazione del migliore interesse concreto del minore in base alle circostanze particolari non solo per quanto concerne l’accertamento diretto della filiazione, ma anche per promuovere l’azione incidentale per la responsabilità senza genitorialità giuridica e per i provvedimenti relativi alla prole.
L'art. 279 c.c. mediante la lettura sistematica, evolutiva ed assiologica proposta, da rimedio puramente succedaneo, può rappresentare l'attuale strumento applicabile alle ipotesi di non riconoscibilità o di non dichiarabilità esaminate e garantire a tutti i figli le tutele dall'art. 30, co. 1, Cost.
[1] La "nuova categoria di nati non riconoscibili" così definita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 9 marzo 2021 ed oggetto di esame anche nella pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 10 marzo 2021.
[2] Definita "vita familiare di fatto" dalla Corte di Strasburgo a far data dalla sentenza del 27 aprile 2010, nel caso Moretti e Benedetti c. Italia, Ricorso n. 16318/07. La Corte accoglie il ricorso presentato da due cittadini italiani per la tutela del legame instaurato con una bambina a seguito di un affidamento temporaneo. La Corte, considerando il forte legame stabilitosi tra i ricorrenti e la bambina, ha statuito, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, che esso potesse rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell'articolo 8 CEDU. Nel caso di specie i giudici rilevano in concreto la stabilità dei legami, tenendo conto del tempo vissuto dai ricorrenti con il bambino, la qualità delle relazioni affettive instaurate ed il ruolo da loro assunto nei confronti del minore.
[3] Così, sull'inapplicabilità degli artt. 8 e 9 l. 40 del 2004 ai nati in Italia da PMA praticata da una coppia di donne: Corte cost. 2017 n. 272, id. 23 ottobre 2019 n. 221, 4 novembre 2020, n. 230; 9 marzo 2021, n. 32; e Cass. 3 aprile 2020, n. 7668, Id. 22 aprile 2020, n. 8029. Sull'inapplicabilità degli artt. 8 e 9 l. 40 del 2004 ai nati da surrogazione di maternità, Corte cost. 10 marzo 2021 n. 33., Cass. sez. un. 8 maggio 2019 n. 12193.
[4] Sulla ricostruzione dei casi e dei problemi sollevati si rinvia a G. Ferrando, Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021, in Giustizia Insieme, 2021; A. M. Pinelli, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33, in Giustizia Insieme, 2021.
[5] Corte cost. n. 32 del 2021, cit.
[6] Sul mantenimento del microsistema della fecondazione eterologa dopo la riforma della filiazione del codice civile del 2012/2013, M. Bianca, L'unicità dello stato di figlio, in La riforma della filiazione, a cura di C. M. Bianca, Padova, 2015, p. 18 e ss. Sul rapporto di specialità ed alternatività sull'attribuzione dello status filiationis tra disciplina codicistisca e l. 40 del 2004, Cass. 15 maggio 2019 n. 13000, nella sentenza avente ad oggetto la nascita in Italia di un bambino mediante inseminazione post mortem praticata in Spagna dalla madre con il seme del marito premorto. La Cass. ha affrontato il problema interpretativo dei rapporti tra la normativa del codice civile e quella contenuta nella l. 40 del 2004 sullo status di figlio. Il giudice di legittimità nell'ipotesi esaminata preferisce l'interpretazione "secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configura un sistema alternativo, speciale, e non possono applicarsi i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale" (punto 7.8.7 delle ragioni della decisione).
[7] Per i figli nati da relazione incestuosa, è stata introdotta l'autorizzazione giudiziale per il riconoscimento e per la promozione dell'azione giudiziale di maternità e paternità a tutela del concreto interesse del bambino (artt. 251 e 278 c.c.) e l'art. 273, co. 2, c.c. richiede, altresì, il consenso del figlio di 14 anni per la proposizione o la prosecuzione dell'azione per la dichiarazione giudiziale. Nell'ipotesi di negato consenso o mancata autorizzazione giudiziale si può applicare la responsabilità per il mantenimento e l'educazione ex art. 279 c.c., sempre previa autorizzazione giudiziale nell'interesse del minore e del suo consenso se quattordicenne e capace di discernimento. Vi è chi reputi che la previa autorizzazione giudiziale limiti e rendere incerta, pur nella certezza del dato biologico, per il figlio la possibilità di vedere riconosciuti i diritti a lui attribuiti dall'art. 30 Cost. cfr., L. Bardaro, La filiazione non riconoscibile tra istanze di tutela e valori giuridici, Napoli, 2015, pp. 158 e ss. In precedenza, l’azione per la dichiarazione giudiziale di maternità o di paternità naturale era ammessa previa autorizzazione giudiziale ex art. 274 c.c. infine dichiarato totalmente incostituzionale dalla Consulta con la sentenza del 10 febbraio 2006, n. 50. In ragione dell’abrogazione di tale disposizione, il vigente art. 279 c.c., al secondo comma, richiede l’autorizzazione giudiziale prevista dall’art. 251 c.c. per l’ammissione dell’azione.
[8] V. tra le tante, Corte cost. 23 ottobre 2019 n. 221 e le altre in essa richiamate e 9 aprile del 2014.
[9] Sulla necessità di un’interpretazione sistematica ed assiologica della disciplina della filiazione, alla luce della Costituzione e delle convenzioni internazionali, sia essa contemplata nel codice civile o nella legislazione speciale che ha condotto all'applicazione dell'art. 279 c.c. alla filiazione adottiva e da PMA, sia consentito il rinvio a G. Chiappetta, La filiazione del figlio nato nel matrimonio, in La riforma della filiazione, a cura di C. M. Bianca, cit. p. 450 e ss.
[10] La Corte di giustizia ha esaminato il rigetto di domande di soggiorno presentate da genitori per il ricongiungimento familiare con i propri figli cittadini europei ‘statici’. Corte giust. 5 maggio 2011, C-434/09, MC’ Carthy; Cort. giust. 15 novembre 2011, C-256/11, Dereci; Corte giust 8 novembre 2012, C-40/11, Iida; Corte giust. 6 dicembre 2012, C-356/11 e 357/11, O. e S.; Corte giust. 8 maggio 2013, C-87/12, Ymeraga; Corte giust. 8 ottobre 2013, C-86/12, Alokpa; Corte giust. 13 settembre 2016 rispettivamente causa C-165/14, Redòn Marìn, punto 81, causa C-304/14, caso CS, punto 36.
[11] S. Marino, Il diritto all’identità personale, in Riv dir. internazionale, 2016, p. 816.
[12] Cass. sez. un., 8 maggio 2019, n. 12193 cit. sul divieto di surrogazione di maternità quale principio di ordine pubblico che impedisce la trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero dal quale risultavano due padri in virtù della pratica di surrogazione effettuata in base alla lex loci. V. contra, Corte appello sez. III, Venezia, ordinanza 16 luglio 2018, in Banca dati De Jure, i ricorrenti cittadini italiani, coniugati in Canada, residenti in Italia con matrimonio trascritto in Italia nel registro delle unioni civili, hanno ottenuto il riconoscimento ex art. 67 della legge 218/1995 della sentenza dell’autorità giurisdizionale canadese dalla quale risultava il rapporto di filiazione con il bambino nato con modalità gestazionali di maternità surrogata. La Corte non ritiene sussistente il limite dell’ordine pubblico: «Né può ricondursi all’ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione di sesso con gli effetti di cui all’art. 4 della legge 164 del 1982. …diversa infatti è la valutazione del best interest del minore concepito con tali tecniche, che non può essere privato della continuità dello status filiatonis legittimamente acquisito all’estero in base alla legge nazionale».
[13] S. Clavel, La place de la fraude en droit international privé contemporain, Travaux comité fr. DIP, 2010-2012, p. 255 e 262.
[14] La registrazione dell’evento nascita pone nuovamente la questione dell’autorità competente e, di conseguenza, della legge applicabile per l’attribuzione del nome, della cittadinanza. Sul punto si v. Corte giust. 14 ottobre 2008 C353/06, caso Grunkil-Paul. Corte giust. 19 ottobre 2014, C-200/02, caso Zhu Chen.
[15] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599; id. 15 giugno 2017 n. 14878.
[16] Corte Strasburgo Valdis Fjölnisdottir e altri c. Islanda, sentenza del 18 maggio 2021. Sentenza (Grande Camera) del 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli c. Italia, n. 25358/12, § 215. Si tratta del noto caso esaminato dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo avente ad oggetto il mancato riconoscimento, in Italia, del legame di filiazione certificato nell'atto di nascita redatto all'estero tra il minore nato da surrogazione di maternità e i genitori di intenzione, in assenza di legame biologico tra la coppia di nazionalità italiana ed il bambino. La Corte europea dei diritti dell’uomo, proteggendo l’autorità della legge n. 40/2004 sul divieto di surrogazione di maternità, ha ritenuto in linea con l'art. 8 CEDU il provvedimento giurisdizionale italiano che ha negato la genitorialità risultante dall'atto di nascita perfezionato all'estero.
[17] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif demandé par la Cour de cassation françaises (Demande n. P16-2018-001).
[18] La questione dei coniugi Mennesson era già stata oggetto di esame da parte della Corte di Strasburgo con la sentenza del 26 giugno 2014, Mennesson c. Francia, ricorso n. 65192/11.
[19] V. giurisprudenza citata nelle note nn. 14 e 15.
[20] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 52.
[21] La Corte E.D.U. (Grande Camera) nella sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017 ha, difatti, affermato che: «140. […] Il concetto di “famiglia” di cui all’articolo 8 riguarda le relazioni basate sul matrimonio ed anche altri legami “familiari” de facto […]. 148. La Corte deve accertare se, nelle circostanze di causa, la relazione tra i ricorrenti ed il minore rientri nella sfera della vita familiare ai sensi dell’articolo 8. La Corte accetta, in determinate situazioni, l’esistenza di una vita familiare de facto tra un adulto o degli adulti ed un minore in assenza di legami biologici o di un legame riconosciuto giuridicamente, a condizione che vi siano legami personali effettivi. .151. È pertanto necessario, nel caso di specie, esaminare la qualità dei legami, il ruolo rivestito dai ricorrenti nei confronti del minore e la durata della convivenza tra loro ed il minore […]. 153. Sarebbe certamente poco opportuno definire una durata minima della convivenza necessaria per costituire una vita familiare de facto, visto che la valutazione di ogni situazione deve tenere conto della “qualità” del legame e delle circostanze di ciascun caso. […]». V. anche giurisprudenza citata nella nota n. 2.
[22] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 46.
[23] V. G. Chiappetta, Il principio di proporzionalità strumento per ‘misurare’ il margine di apprezzamento statale nelle interferenze al rispetto della vita familiare, in G. Perlingieri e A. Fachechi (a cura di), Ragionevolezza e proporzionalità nel diritto contemporaneo, t. I, Napoli, 2017, pp. 201 e ss.
[24] Domanda di pronuncia pregiudiziale del 2 ottobre 2020, Causa C‑490/20, proposta dall’Administrativen sad Sofia‑grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria - V.М.А.) contro Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo» (Comune di Sofia, distretto di Pancharevo, Bulgaria); Domanda di pronuncia pregiudiziale del 4 gennaio 2021, causa C‑2/21, Rzecznik Praw Obywatelskich.
[25] S. Gambino, Metodo comparativo e tradizioni costituzionali comuni, in questa rivista.
[26] Conclusione dell’Avvocato Generale Juliane Kokott il 15 aprile 2021 Causa C‑490/20 V.М.А. contro Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo» (Comune di Sofia, distretto di Pancharevo, Bulgaria).
[27] Per una sintesi delle decisioni si rinvia a, C. Bidaud-Garon e A. Panet, Les domaines orphelins de l’autonomie de la volonté : quels ersatz, in L’autonomie, cit., p. 100. Il riconoscimento dello statuto giuridico ottenuto all’estero si fonda per la Corte di Strasburgo sulla necessità di tutelare i diritti garantiti dalla Convenzione. Diversamente, centrale nel diritto UE e nella giurisprudenza della Corte di giustizia è l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione. Il fondamento ultimo della giurisprudenza della Corte del Lussemburgo è la libertà degli individui di scegliere, tra leggi di differenti Stati, il loro statuto giuridico. Parla di «emancipation’s last stage would bring about the personne sans loi», T. Marzal Yetano, The costitutionalisation of party in European private international law, in J. PrivInt’l, vol. 6, 2010, p. 191, citato da P. Kinsch, Les fondaments, cit., p. 28 nota 45. Spiega l’estraneità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nella discussione sull’autonomia negoziale in materia di diritto internazionale privato della famiglia, P. Kinsch, Les fondaments, cit., p. 28 e s. L’A. esamina la giurisprudenza dei diritti dell’uomo mettendo in luce che il riconoscimento ‘imposto’ di situazioni non è animato dal ruolo attribuito all’autodeterminazione dell’individuo. Nella valutazione della Corte di Strasburgo vi è un elemento supplementare. Ad esempio, nei casi di maternità surrogata è il preminente interesse del bambino (sentenze Mennesson e Labassée c. Francia del 26 giugno 2014 n. 65192/11 e 65041/11).
[28] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 40.
[29] Prospettiva di analisi indicata nel saggio di A. Gorassini, Cambio vita …. con morte, in corso di pubblicazione nella rivista La nuova giurisprudenza commentata che ho avuto il grande privilegio di leggere.
[30] Sulla qualificazione in termini di azioni di stato quelle contemplate negli att. 279 e 580 c.c., A. Palazzo, La filiazione fuori del matrimonio, Milano, 1965, p. 355; S. Stefanelli, Attribuzione di status e diritti del figlio non riconosciuto nell’ordinamento italiano, in Diritto e giustizia (Annuario giuridico dell’Università di Perugia), 2013, p. 375.
[31] Il secondo comma dell'art. 279 c.c. richiama l'autorizzazione prevista dall'art. 251 c.c. per il riconoscimento dei figli nati da relazioni parentali.
[32] Così, G. Lisella, "I diritti dei figli privi di stato": a proposito di un recente contributo, in Rass dir. civ., 1993, p. 376; F. Ruscello, La potestà dei genitori. Rapporti personali, in Comm. cc. Schlesinger, 2° ed., Milano, 2006, p, 278 e ss.
[33] F. Scia, Responsabilità civile e doveri genitoriali: le persistenti problematiche dell’art. 709-ter c.p.c., in Persona e Mercato, 4, 2020, p. 414 e ss. che esamina la Sentenza della Corte costituzionale 10 luglio 2020, n. 145.
[34] Punto 4 della più volte citata sentenza della Consulta n. 494 del 2002: “I figli nati fuori del matrimonio indicati nell’art. 251, primo comma, del codice civile, salvi i limitati casi ora menzionati, sono perciò privati della possibilità di assumere uno status filiationis. Essi non mancano totalmente di una tutela, essendo loro riconosciuta l’azione nei confronti dei genitori naturali per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione o, se maggiorenni in stato di bisogno, per ottenere gli alimenti (art. 279, primo comma, del codice civile). In conseguenza del divieto di riconoscimento e di dichiarazione, però, nei loro confronti non possono operare infine le disposizioni relative alla successione dei figli naturali, che si applicano loro solo quando la filiazione sia stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata (art. 573 del codice civile), essendo previsto invece che ai figli naturali aventi diritto al mantenimento, all’istruzione e alla educazione, a norma del ricordato art. 279 del codice civile, spetti un assegno vitalizio (artt. 580 e 594 cod. civ.)”.
[35] Sul punto si rinvia a V. Barba, La successione mortis causa, cit., p. 667.
[36] La disposizione accertava il fatto della procreazione quale mero presupposto dell’attribuzione di diritti di natura patrimoniale ed esistenziale del figlio nei confronti dei genitori, Cass. 24 gennaio 1986 n. 467 ed anche Cass. 2004 n. 6365, cit., nella quale ha sostenuto: "Il fatto materiale della procreazione naturale (accettabile anche incidenter tantum e svincolato dal riconoscimento formale del relativo status) costituisce l'antecedente giuridico immediato delle azioni attribuite al figlio naturale dall'art. 279 c.c., primo comma, e se questo dato è direttamente collegabile con l'art. 30 Cost., primo comma".
[37] La S.c. ha affermato che l'art. 279 c.c. va interpretato in base all'art. 30 Cost.: "Considerata ammissibile l'azione ex art. 279 c.c. anche nei casi in cui la paternità o la maternità del figlio fossero giudizialmente dichiarabili ma, in concreto, non dichiarate... in coerenza con la c.d. responsabilità da procreazione, sussistente verso ogni figlio in base all'art. 30 Cost., alla stregua del quale lo stesso art. 279 c.c. andrebbe interpretato". Così, Cass. 1° aprile 2004, n. 6365, cit.
[38] Sull’evoluzione che muove dalla famiglia-istituzione (atto-status-effetti) alle famiglie funzionali (affetto-rapporti-effetti), v. G. Chiappetta, La “semplificazione” della crisi familiare: dall’autorità all’autonomia, in P. Perlingieri e S. Giova (a cura di), Comunioni di vita e familiari tra libertà sussidiarietà e inderogabilità. Atti del 13° Convegno nazionale, Napoli, 2019. V. anche note nn. 2, 19 e 21.
[39] Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347. Si tratta di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita eterologa, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali: “[…] è interesse del minore non vedersi privato del nome, dell'identità personale e della stessa possibilità di avere un padre; risponde a fondamentali principi costituzionali che ogni figlio abbia diritto ad essere mantenuto, istruito ed educato dai propri genitori, tali dovendosi considerare quelli che hanno preso la decisione della sua procreazione (di intenzione); mentre nessun rapporto di paternità potrebbe essere instaurato col padre biologico”.
[40] Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162.
[41] Corte cost. 25 giugno 2020, n. 127. La corrispondenza tra lo stato di figlio e la verità biologica, pur auspicabile, non è elemento indispensabile dello status filiationis: “Sul rilievo che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l’assoluta preminenza del favor veritatis e ad affermare la necessità della sua ragionevole comparazione con altri valori costituzionali. In più occasioni, infatti, il legislatore, cui l’art. 30, quarto comma, Cost. demanda il potere di fissare limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica nei confronti di quella legale, ha attribuito prevalenza al consenso alla genitorialità e all’assunzione della conseguente responsabilità rispetto al favor veritatis”. Nell’apprezzamento giudiziale rientra il diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia.
[42] Cass. 3 aprile 2020, n. 7668, id. 22 aprile 2020, n. 8029; sulla surrogazione di maternità sul rifiuto di trascrizione dell'atto di nascita all'estero per il co-padre d'intenzione, Cass. SS.UU. 8 maggio 2019, n. 12193.
[43] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599; id. 15 giugno 2017 n. 14878.
[44] Sentenza di inammissibilità che "non ha natura obbligante per il Giudice ordinario, offrendo solo una proposta metodologica", Cass. 17 maggio 2018 n. 12108.
[45] App. Cagliari, sez. prima, decreto di rigetto del 28 aprile 2021, inedita; Trib. Genova, decreto 4 novembre 2020. Sono richiamate nella sentenza della Consulta n. 32 del 2021, al punto 2.3.1, tra gli altri, Trib. di Brescia, decreto 11 novembre 2020, Trib. di Cagliari, sentenza n. 1146 del 28 aprile 2020, App. di Roma, decreto 27 aprile 2020.
[46] Sulla distinzione tra ordine pubblico interno ed internazionale, v. per tutti G. Perlingieri e G. Zarra, Ordine pubblico interno e internazionale tra caso concreto e sistema ordinamentale, Napoli, 2019. Sul punto v. anche M. C. Baruffi, Gli effetti della maternità surrogata al vaglio della Corte di cassazione italiana e di altre corti, in Riv. dir. intern. priv. e proc., 2, 2020, pp. 290 e ss., in particolare p. 294 e ivi ulteriore bibliografia.
[47] In totale contrasto con quanto affermato dalla Consulta che ritiene impraticabile la possibilità di applicazione degli artt. 8 e 9 l. 40/2004 per violazione dell’art. 5 della l. 40/2004 che tra i requisiti soggettivi ritiene l’eterosessualità dei genitori. Corte cost. n. 32 del 2021 punto n. 2.3.1. V. anche Cass. 22 aprile 2020 n. 8029 e Cass. 3 aprile 2020, n. 7668 che confermano tale interpretazione.
[48] Tra i tantissimi commenti, si v. per tutti M. C. Baruffi, Gli effetti della maternità surrogata, cit., passim; V. Barba, Ordine pubblico e gestazione per sostituzione. Nota a Cass. Sez. Un. 12193/2019, in GenIUS, 2019-2, p. 15 e ss.
[49] Corte cost. del 23 gennaio 2013 n. 7, sentenza del 23 febbraio 2012 n. 31 e sentenza del 28 novembre 2002 n. 494.
[50] Corte Strasburgo Valdis Fjölnisdottir e altri c. Islanda, sentenza del 18 maggio 2021, cit.
[51] Corte cost. del 22 novembre 2013 n. 278 e del 10 giugno 2014 n. 162. Sia consentito il rinvio a G. Chiappetta, I rapporti familiari nel dibattito costituzionale e nel pensiero di Fausto Gullo, in Fausto Gullo fra costituente e governo, Napoli, 1997, pp. 47 e ss.; Id, Anonimato e procreazione medicalmente assistita, in M. Comporti e S. Monticelli (a cura di), Studi in onore di Ugo Mejello, vol. I, 2005, pp. 383 e ss.; Id., Diritto a conoscere le origini, in E. Sgreccia e A. Tarantino (direzione di), Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, vol. IX, 2015; Id., Favor veritatis ed attribuzione dello status filiationis, Actualidad Jurica Ibroamericana, num. 4 ter, 2016.
[52] Regime differenziato messo in luce nel punto 4 della sentenza n. 494 del 2002 della Consulta.
L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006)
di Stefania Stefanelli
Sommario: 1.Fatti di causa - 2. Precedenti e ragioni della decisione - 3.Il convitato di pietra: la nascita attraverso gestazione per altri o altre.
1. Fatti di causa
Due uomini, cittadini statunitensi e residenti da oltre dieci anni negli USA, ottengono dalla Surrogate’s Court dello Stato di New York l’adozione piena di un bambino di pochi mesi, a seguito di indagine sull’idoneità degli adottanti ed avendo acquisito il consenso dei genitori biologici.
Uno degli adottanti è altresì cittadino italiano, e si vede negata dall’ufficiale dello stato civile di una cittadina milanese la trascrizione dell’atto di nascita del bambino. Il rifiuto è motivato dalla ritenuta competenza del Tribunale per i minorenni, trattandosi di adozione internazionale, ex art. 36, comma 4, l. adozione. Adita la Corte d’Appello di Milano ex art. 67 l. n. 218/1995, ritenendo che si trattasse invece di riconoscere il provvedimento straniero, in quanto produttivo di effetti non incompatibili con l’ordine pubblico, la Corte meneghina conferma la propria competenza ex art. 41, comma 1, l. 218/1995, rispetto al provvedimento di adozione di minore straniero, pronunciato in favore di cittadini stranieri, stabilmente residenti all’estero. Nel merito, verificate l’integrità del contraddittorio con i genitori biologici e la pronuncia nell’interesse del minore, la Corte ritiene che l’adozione non confligga coi principi di ordine pubblico internazionale, desumibili dalla Costituzione, dai Trattati fondativi dell’UE, dalla Convenzione Europea dei diritti umani e dalle altre Convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito. Desunta da tali fonti la clausola generale di preminente interesse del minore, ne disegna il contenuto nell’interesse a conservare in Italia lo status acquisito negli USA, in relazione al diritto alla continuità di cui agli artt. 13, comma 3, e 33, commi 1 e 2, l. 218/1995, ma anche al diritto alla vita privata e familiare, all’acquisto della cittadinanza italiana e delle tutele in cui si sostanzia la responsabilità genitoriale. A tanto non osta l’identità di sesso degli adottanti, né il difetto di un vincolo coniugale tra gli stessi.
Ricorre per cassazione il Sindaco, quale ufficiale di Governo, e la prima sezione civile rimette alle S.U., come questioni di massima importanza, due quesiti, attinenti: 1) alla esatta definizione, in materia di adozione legittimante, del limite di ordine pubblico, con riguardo al disfavore all’accesso per le coppie omosessuali, espresso dalle disposizioni che lo limitano alle coppie eterosessuali coniugate (art. 6 l. 184/1983 e art. 1, comma 20, l. 76/2016) e dalla giurisprudenza che limita la genitorialità sociale della coppia maschile alla sola adozione in casi particolari (Cass. S.U. 12193/2019, in fattispecie di nascita attraverso surrogazione materna); 2) alla necessità di sottoporre a vaglio, secondo il criterio di ordine pubblico, la valutazione estera di adottabilità del minore, con particolare riguardo al consenso espresso dai genitori biologici.
2.Precedenti e ragioni della decisione
Decidendo sull’eccezione di incompetenza, le S.U. aderiscono all’orientamento della Consulta (Corte Cost. n. 76/2016), escludendo la competenza del Tribunale per i minorenni quando il provvedimento straniero di adozione non venga richiesto da cittadini italiani che, trasferendo fittiziamente la residenza all’estero, mirano ad eludere la disciplina nazionale sull’adozione di minori in stato di abbandono. Per tale ragione, il riconoscimento in Italia degli effetti della pronunciata adozione è regolato dall’art. 41, comma 1, della l. d.i.p. (e non dal secondo comma, sull’applicazione della l. adozione) che rinvia agli artt. 64, 65 e 66 della stessa l., in materia di efficacia di sentenze e provvedimenti stranieri, imponendo il controllo del rispetto delle garanzie processuali del contraddittorio, della conformità alla lex loci, e del limite di ordine pubblico.
Tornando di conseguenza sulla nozione di ordine pubblico internazionale dopo appena due anni, sollecitate dal Procuratore generale a riflettere se ne costituisca parte il modello di unione matrimoniale disegnato dall’art. 29 Cost., esattamente delimitando l’ambito della valutazione agli effetti del provvedimento da riconoscere (rimanendo esterna al sindacato la conformità della legge straniera a quella nazionale, cfr. art. 18 D.P.R. 396/2000 e art. 64, lett. g, l. 218/1995, come avevano statuito con sent. 11601/2017), le S.U. ne definiscono «i limiti non oltrepassabili, costituiti dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (…); dal principio del preminente interesse del minore (…); dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che è alla base della genitorialità sociale» (par. 17.3).
È, dunque, rispetto a tale cornice che la decisione in commento afferma la compatibilità degli effetti del provvedimento straniero di adozione parentale, id est la costituzione dello stato di figlio degli adottanti, nella sua pienezza e non, invece, nella forma più limitata che deriverebbe – secondo l’opinione prevalente[1] – da una adozione in casi particolari, che abbiamo già definito genitoriale[2], in ragione del richiamo contenuto nell’art. 55 l. 184/1983 all’art. 330 c.c., e dell’equivoco testo del novellato art. 74 c.c.
Ancora una volta l’ordine pubblico è inteso come limite all’applicazione della legge straniera, ma anche nella sua funzione di promozione e tutela dei diritti fondamentali della persona attraverso i principi di diritto dell’UE, delle Convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito, come interpretati dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, da sintetizzarsi con il quadro assiologico dettato dalla Costituzione e innervato dalla legislazione nazionale.
Al pari del caso deciso da Cass. 14007/2018 – adozione incrociata pronunciata in Francia dei figli di due cittadine francesi residenti in Italia – l’adozione non consegue a un contratto di surrogacy, e quindi la realizzazione dell’interesse del minore a vedersi riconosciuto lo status filiationis, che realizza il suo diritto all’identità, alla continuità delle relazioni familiari e alla protezione dell’affettività consolidata, non trova ostacolo alcuno.
3.Il convitato di pietra: la nascita attraverso gestazione per altri o altre
Aderendo esplicitamente a S.U. 12193/2019, la pronuncia in commento ribadisce dunque che «il limite, dovuto alla contrarietà ai principi di ordine pubblico internazionale, al riconoscimento di status genitoriali contenuti in provvedimenti esteri, richiesti da componenti di coppie omoaffettive, è stato individuato esclusivamente nel ricorso alla gestazione per altri, limite peraltro comune anche alle coppie eterosessuali» (par. 17.3), «pur essendo espressamente previsto che il preminente interesse del minore possa essere garantito, anche in questa ipotesi, mediante l’adozione in casi particolari. Ma il modello adottivo gradato è esclusivamente conseguenza del grave disvalore ricondotto, dalle S.U., alla scelta della gestazione per altri e alla necessità di trovare un bilanciamento che tenga conto di questa valutazione» (par. 17).
In ragione di questo orientamento, può essere trascritto l’atto di nascita formato all’estero nei confronti del genitore che abbia un legame genetico col bambino nato da gestazione per altri, mentre all’altro o all’altra componente della coppia, che a pari titolo ha aggirato all’estero il divieto di surrogazione di maternità sanzionato dall’art. 12, comma 6, l. 40/2004, scelta che l’ordinamento intende disincentivare proprio impedendo agli adulti di ottenere, attraverso la trascrizione immediata, la realizzazione del proprio progetto di genitorialità.
Del «difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori» … «al riconoscimento giuridico del rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale» la Consulta ha recentemente fatto carico «in prima battuta» al legislatore, perché individui una soluzione «nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore»[3].
L’adozione in casi particolari, infatti, costituisce uno status sui generis, non solo per il dubbio se sia idonea o meno a costituire legami di parentela, ma soprattutto in quanto richiede l’impulso di parte e l’assenso del genitore con cui esiste un legame biologico (e che, perciò, è anche genitore legale), dipende dall’apprezzamento giudiziale della realizzazione degli interessi del minore e dunque soggiace ai tempi del processo, ed in ogni caso è revocabile per gravi motivi (art. 51 l. 184/1983).
Nella prospettiva paidocentrica presa in considerazione dalla Corte costituzionale (quella del minore, estraneo e in alcun modo responsabile del comportamento degli adulti grazie al quale ha visto la luce), è indiscutibile l’interesse a che sia affermata la titolarità giuridica dei doveri di cui agli art. 30 Cost. e 24 Carta di Nizza in capo a coloro che, con la propria libera decisione, si sono impegnati ad accoglierlo, assumendone le relative responsabilità (cfr. Corte Cost. n. 347/1998, in cui si legge l’antecedente logico degli artt 7 e 8 l. 40/2004).
Se, dunque, la novella auspicata dovesse incidere sull’adozione, non è dubbio che «essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame», a partire dalla previsione di uno strumento alternativo al ricorso di parte, che consenta al curatore del minore di legare il genitore di intenzione alle proprie responsabilità.
Lo nota anche l’opinione concorrente del giudice Lemmens rispetto alla decisione con cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo, esaminando il rifiuto islandese di trascrivere l’atto di nascita da gestazione per altri in difetto di legame genetico con entrambe le madri intenzionali, ha ritenuto che la decisione rientrasse nella discrezionalità riconosciuta agli Stati dall’art. 8, rispetto alle limitazioni del diritto alla vita familiare che realizzano, secondo i criteri di necessità e proporzionalità, un concorrente scopo legittimamente perseguito dal legislatore, come quello di disincentivare il ricorso alla g.p.a., vietata anche in Islanda[4].
Sussisteva, nel caso di specie e a differenza del caso Paradiso e Campanelli c. Italia[5], una vita familiare in atto, ma non era stata lesa la posizione del bambino in quanto, attraverso dei provvedimenti sull’affidamento, era stata assicurata la stabilità delle relazioni sociali con le sue madri intenzionali, sebbene non fosse stato riconosciuto il suo legame di filiazione con loro, a dispetto dell’atto di nascita californiano.
La Corte di Strasburgo liquida in poche battute la censura riguardante il distinto diritto del bambino alla vita privata, affermandone la coincidenza con quanto lamentato rispetto alla lesione della vita familiare, ma si tratta di pretese diverse, in accordo con l’opinione ricordata, sebbene trovino entrambe garanzia nell’art. 8 CEDU, ed è il rispetto della vita privata ad imporre il riconoscimento di un legame giuridico con i genitori intenzionali.
Il rispetto della vita privata del bambino impone infatti, come statuiva l’Avis consultatif reso dalla Grande Chambre il 10 aprile 2019 a definizione del caso Mennesson c. Francia, ma anche nel caso D. contro Francia[6], di ripensare il limite del legame biologico quale discrimine rispetto alla trascrivibilità dell’atto di nascita da g.p.a. formato all’estero.
Non vi è chi non veda, con il giudice Lemmens, che «l’impatto sulla posizione del bambino o della bambina è il medesimo, a prescindere dal fatto che uno o entrambi i genitori intenzionali abbiano o meno un legame biologico con lui o con lei»[7].
Ed è altrettanto evidente, alla luce dei fatti esaminati dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte costituzionale, che «l’adozione non è sempre una soluzione per tutte le difficoltà che il bambino o la bambina possono sperimentare».
Per altro verso, è difficile comprendere come l’esclusione della trascrizione dell’atto di nascita verso il genitore che non sia anche genetico possa tutelare la gestante, o almeno avere effetti disincentivanti rispetto al ricorso alla gestazione per altri, quando si osserva che la costituzione di uno status di genitore può essere raggiunta comunque attraverso la sentenza di adozione in casi particolari, a meno di ammettere – in contrasto con l’art. 3 Cost. – che attivarsi in questo senso richiede anche significative disponibilità finanziarie.
Infine, si consideri che un atto di nascita da surrogazione di maternità della cui trascrizione si potrebbe in futuro discutere potrebbe in ipotesi essere formato nei Paesi dell’Unione Europea nei quali la pratica è ammessa, come il Belgio, e che in tal caso rileverebbe non solo l’art. 8 della Convenzione di New York rispetto al diritto del fanciullo a vedere preservate le proprie relazioni familiari, ma anche il principio di circolazione dei provvedimenti nell’Unione Europea. Non sarebbe esclusa, dunque, la scelta di chiamare a pronunciarsi, per interpello, la Corte di Giustizia.
[1] Cfr. anche Corte Cost. n. 32/2021, che definisce quantomeno controversa l’applicazione dell’art. 74 c.c., sulla parentela adottiva.
[2] A. Sassi, F. Scaglione, S. Stefanelli, La filiazione e i minori, in Tratt. dir. div. Sacco, II ed., 2018, 21 ss.; 279 ss., cui si rinvia per approfondimenti, anche bibliografici.
[3] Corte Cost. 9 marzo 2021, n. 33, in Famiglia e diritto, 2021, 684 ss., con note di M. Dogliotti e G. Ferrando; in questa Rivista, con note di A. Morace Pinelli https://www.giustiziainsieme.it/it/news/129-main/minori-e-famiglia/1703-la-corte-costituzionale-interviene-sui-diritti-del-minore-nato-attraverso-una-pratica-di-maternita-surrogata-brevi-note-a-corte-cost-9-marzo-2021-n-33 e G. Ferrando https://www.giustiziainsieme.it/it/news/129-main/minori-e-famiglia/1667-il-diritto-dei-figli-di-due-mamme-o-di-due-papa-ad-avere-due-genitori-un-primo-commento-alle-sentenze-della-corte-costituzionale-n-32-e-33-del-2021.
[4] Corte EDU, 18 maggio 2021, Valdís Fjölnisdóttir and others V. Iceland, Application no. 71552/1.
[5] Corte EDU, Grande Chambre, 24 gennaio 2017, Application no. 25358/12.
[6] Corte EDU, 16 luglio 2020, Application no. 11288/18, § 54: «lorsqu’un enfant est né à l’étranger par gestation pour autrui et est issu des gamètes du père d’intention, le droit au respect de la vie privée de l’enfant requiert que le droit interne offre une possibilité de reconnaissance d’un lien de filiation entre l’enfant et le père d’intention et entre l’enfant et la mère d’intention, qu’elle soit ou non sa mère génétique».
[7] In continuità con B.G.H., 12ª Sez. civ., 10 dicembre 2014, in personaedanno.it, su cui M. MASI, Coppie omosessuali e ricorso alla surrogacy in uno stato estero: apertura dalla Germania, in GenIus, 2015, 2, 214 ss.; cfr. anche S. Stefanelli, Procreazione medicalmente assistita e maternità surrogata, Milano, 2021, 155 ss.
Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi
di Mario Serio
Sommario: 1. Premessa espositiva - 2. La nozione di ordine giuridico pluralistico nel suo nesso con la giurisprudenza - 3. Il filo conduttore del volume e la sua diretta riconducibilità alla Costituzione - 4. Il pensiero dei maggiori civilisti italiani tra XIX e XXI secolo - 5. Una breve nota finale.
1. Premessa espositiva
La coerenza scientifica e la passione intellettuale nel difenderla e propugnarla in costanza di occasioni culturalmente stimolanti nonché il vigore argomentativo, mai trasmodante nella polemica o nella ruvidezza di accenti, contraddistinguono, anche dal punto di vista esteriore, il volume di Paolo Grossi di cui qui si scrive.
La recentissima opera, pur circoscritta nell'intitolazione alla riflessione sulla vicenda intellettuale e storica della civilistica italiana degli ultimi due secoli fino alle odierne propaggini, ben dà vita ad una rappresentazione colta, sapiente e persuasiva dell'itinerario del pensiero del suo Autore attorno al fenomeno giuridico in genere, stabilmente colto nella sua dimensione esperienziale, quella verso la quale sono sempre rivolte con fiducia e speranza le sue pagine. Ben può dirsi che l'ennesimo dispiegamento del vasto sapere dell'Autore ed il connesso desiderio di utilizzarlo ad un fine fondativo dell'intera concezione del diritto attende al compito di innervare un alto messaggio sociale dagli ampi riflessi solidaristici nel corpo, nella carne viva (per dirla con le Sue parole), nel terreno delle relazioni umane interindividuali.
In fondo, la scelta del campo civilistico quale momento probante della Sua visione del diritto nella sua globalità ne rende spendibili gli importanti risultati in termini ed in prospettiva globali.
L'ariosa concezione applicata in questo libro al diritto civile, e forse in misura maggiore ai suoi cultori, esibisce l'ampiezza del proprio respiro nella esatta misura nella quale essa mostra di sapere creare un ponte incrollabile tra la vita e le azioni dell'essere umano e la sua traduzione in termini di valutazione e disciplina giuridica, rendendo così servente la seconda alle esigenze, alle aspirazioni, alle concrete declinazioni dell'altra.
Questa presentazione deve preliminarmente misurarsi con una scelta espositiva di fondo: la rassegna analitica di ciascuno dei ragionati passaggi di cui si compone il lavoro del giurista fiorentino che ha presieduto con saggezza e lungimiranza nel recente passato la Corte Costituzionale, seppur mezzo necessario per consegnare ai lettori il prezioso messaggio donatoci da Paolo Grossi, potrebbe lasciar correre il rischio della frammentazione del solido filo conduttore dell'indagine, che, nella sua esemplare unitarietà, va viceversa ricostruito con quanta più fedeltà possibile.
Per siffatta ragione la presente occasione è destinata ad essere utilizzata per fornire un'immagine di insieme di uno studio tanto ricco e fertile, dovendosi rinviare ad altre sedi l'approfondimento di ciascuno dei capitoli di cui si compone, a loro volta dedicati ad aspetti e figure accademiche determinati.
2. La nozione di ordine giuridico pluralistico nel suo nesso con la giurisprudenza
Prima di far ingresso nella scena concettuale del volume, affascinante per rigore e fecondità di orizzonti, può valer la pena far precedere questa operazione dalla testuale citazione di alcuni passi sparsi nei quali rapsodicamente si riassume la grandezza del disegno culturale e la sua calibrata inerenza al mondo del diritto nella duplice accezione di ente regolatore e disciplinatore di condotte e fatti umani e di ospitante la correlata scienza. Tra pagina 145 e la seguente si legge la appropriata sintesi del concorso della doppia dimensione, normativa ed epistemologica, del fenomeno qui considerato. Si reputa, infatti, in esito ad un lungo percorso illustrativo compiuto nelle parti precedenti, che la scienza giuridica sia l'unica tra le fonti “capace di ricomporre ad unità (spirituale e culturale) l'attuale pluralismo”. Di talchè “si impone anche un risveglio delle prassi giudiziali e notarili e del loro ruolo attivo nella dinamica dell'ordine giuridico”. In questo senso “la giurisprudenza si impone attualmente come presenza di straordinario rilievo” e con essa si esalta la profonda e colta descrizione del “mestiere del giudice”, alludendosi al promettentissimo progetto culturale racchiuso nell'omonima raccolta curata da Roberto Giovanni Conti per la collana “Dialoghi” di Giustizia Insieme, egregiamente diretta con Paola Filippi.
La base teorica su cui poggia questa saldatura tra pluralismo quale epifania dei molteplici moti interni che conformano il fenomeno giuridico e pluralismo dedotto dal riconoscimento scientifico della loro costituente vitalità è individuata nelle pagine immediatamente precedenti (in particolare pag.143) laddove, al fine di fugare i timori (con grande autorevolezza espressi, nella nota 10 della medesima pagina dalla Giudice costituzionale di recente nomina Emanuela Navarretta) circa la “società che si autoregola”, il Presidente emerito della Corte Costituzionale replica elogiando una struttura sociale, fondata secondo criteri giuridici non puramente legalistici, la quale sappia organizzarsi auto-ordinarsi, perché ciò “ significa che la società opera una filtrazione isolando tra la folla dei fatti ed interessi solo quelli meritevoli di essere tutelati e promossi, ossia solo quelli che si propongono come valori della Comunità”.
Un primo esito ricostruttivo sul filo della concatenazione tra i concetti appena riportati, tutti centrali nell'architettura dell'opera, può dirsi guadagnato, rovesciando l'ordine espositivo seguìto, ossia muovendo dalla premessa descrittiva in senso storico dell'ordine giuridico percettibile in date circostanze spaziali e temporali.
Esso vive di una molteplicità di segni ed accadimenti esteriori, di realizzazioni ed aspirazioni individuali, di organizzazioni collettive fondate su tradizioni e consuetudini mai rinnegate o abbandonate, di criteri di disciplina della vita sociale entrati a far parte del patrimonio interiore per la loro rispondenza ad un sentire comune elevato a valore diffuso, non meno che di atti formali di origine istituzionale.
Vengono così, almeno parzialmente, espunte dal discorso giuridico del civilista “posmoderno” (almeno da quello, discorso e civilista, idealmente tratteggiato da Grossi ) le secche e le morte gore del formalismo, del positivismo, del normativismo, del legalismo codicistico. O meglio, e più precisamente, vengono combinate, così perdendo o attenuando l'originario carattere antistorico loro addebitato dalla larga visione dell'Autore, con le manifestazioni pulsanti dell'ordine giuridico, condensabili e confluenti nell'esperienza quale elevata da Capograssi ad oggetto e scopo della scienza giuridica.
Ma l'idea di Grossi è tutt'altro che proiettata verso il caos, né lo incoraggia; al contrario essa ha il pregio della selettività razionale e di intrinseco merito. È il metodo della meritevolezza, lo stesso rinvenibile nel capoverso dell'art.1322 c.c. per conferire liceità all'atipicità contrattuale ed al correlato esercizio dell'autonomia privata, che determina l'ammissione nell'universo del giuridicamente rilevante di quei soli dati esperienziali capaci di consonanza con il sistema valoriale di una comunità. Fatti ed interessi umani riversati nel crogiolo dei valori sociali: il passo è rapido in direzione della configurazione di un ordine giuridico declinato al plurale in cui anche essi partecipano, insieme al livello normativo. Un ordine giuridico che deliberatamente o per insensibilità culturale dei suoi “conditores”, studiosi ed esegeti trascurasse l'apporto pluralistico così formato verrebbe amputato della sua componente umana, fattuale, storica, unica ed irripetibile perchè sgorgante dalla “carne viva” della società, inammissibile privazione che subirebbe l'apparato normativo senza vedersi riconosciuta l'ambizione di concorrere alla sua etero-integrazione. La mancanza di questa intima, basilare percezione antidommatica in parte della civilistica italiana condanna per Grossi studi e riflessioni ad una sorte di inidoneità alla incisione e rappresentazione dello stesso ordine giuridico e, peggio ancora, allo stigma della contrarietà all'andamento necessariamente storico della ricerca giuridica. Ma il libro sa individuare gli antidoti a questo non isolato male ed assegna a ciascuno di essi un ruolo effettuale preciso. In primo luogo, ed a completamento della rivisitazione dei passaggi testuali prima menzionati, in questo itinerario si colloca la giurisprudenza, la cui produzione viene introiettata nel “mestiere del giudice” e la cui somma rilevanza viene celebrata. In questa articolazione si rende manifesta la geometrica chiarezza del disegno ideale che anima il testo e l'assenza di qualsiasi tentazione di arbitrarietà concettuale, combattuta, al contrario, dallo schema sillogistico che vi fa corona. Ed infatti, una volta edificata nella sua poliedricità la nozione e la concreta raffigurazione dell'ordine giuridico, anche auto-prodottosi, ed accordato al suo interno il debito posto alla viva esperienzialità, è nella disciplina di essa che si sublima l'attività giurisprudenziale, che, così, ben viene remunerata attraverso la ricognizione della sua presenza come di “straordinario rilievo”.
La sequenza logica che assiste l'operazione culturale cui ci si accosta con grande rispetto non sembra esibire scalfiture nel proprio ordito, tanto stringente è la correlazione tra il ritratto di un ordine giuridico pluralistico e la notevole influenza che al suo interno inevitabilmente è chiamato ad esercitare l'organo giurisdizionale, il quale, pertanto, proprio per la sua naturale attitudine ad intervenire sui “fatti ed interessi “ meritevoli di attrazione nell'orbita dell'ordine giuridico per la loro corrispondenza al sistema di “valori “ comunitari, finisce per innervarsi concorrenzialmente nel circuito ordinamentale, e non certo in funzione marginale o sottomessa.
3. Il filo conduttore del volume e la sua diretta riconducibilità alla Costituzione
Il diretto e preliminare esame di uno dei nuclei formativi del volume non può certo valere ad esimere dal compito di illustrarne la complessa struttura seguendo lo stesso filo del discorso del Maestro fiorentino anche nella sua successione grafica: il compito è notevolmente agevolato dall'unità dello sviluppo e dal costante richiamo ai principii attraverso i quali il discorso stesso prende corpo e si svolge. Già la Prefazione (pag.IX) lascia intendere senza esitazioni quale indirizzo venga dato al lavoro ed in quale corso vada incanalato. Il tema binario vede contrapposti, come traspare anche dal sottotitolo (“Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico”), i due poli del globo del diritto: monismo e pluralismo. E qui l'Autore non si sottrae al benefico impegno di analitica descrizione di ciascuno di essi, che fungerà da stella che rischiara l'intero orizzonte della ricerca. Il primo vien fatto consistere “nella pretesa dell'assoluta monopolizzazione da parte dello Stato dell'intera dimensione giuridica”; del secondo si predica la “riscoperta del nesso inscindibile tra il diritto e la società, con la conseguenza che il piano per rispecchiare fedelmente la seconda deve articolarsi in una pluralità di assetti ordinativi”. È facile osservare la circolarità dell'impianto argomentativo del lavoro, solo considerando la totale simmetria del ragionamento prefato rispetto a quello ,già esposto, condotto nei brevi capitoli seguenti. Ancor più significativa la professata tendenza ad avvolgere attorno a questa radicale bipolarità il racconto ed i giudizi di valore sugli appartenenti alla civilistica italiana di circa 150 anni. Essi vengono, infatti, sistematicamente inquadrati secondo la logica dell'alternativa, senza, tuttavia e per fortuna, cedere mai e per nessuna ragione alla tentazione del manicheismo classificatorio: rischio sapientemente evitato grazie alla basilare onestà intellettuale dell'Autore che sa dar atto di ibridazioni di pensiero nello stesso studioso ed evoluzioni dottrinarie di ampio significato. Alla radice della competizione bipolare va posto il crescente abbandono, culminato nell'esperimento codicistico degli albori del XIX secolo, della struttura extrastatuale dell'ordinamento giuridico quale il periodo medievale ha saputo trasmettere, sin da organizzazioni proprietarie a base collettiva.
Fu proprio l'avvento sulla scena di una prospettiva normativo-positivistica, con l'egemonia del legislatore, ad indebolire l'assetto naturalistico del fenomeno giuridico, in special modo nell'area del diritto civile, sempre più sfaldato nella sua essenza di “ratio scripta”.
L'analisi di Grossi circa connotazioni ed effetti della rivoluzione ottocentesca generata dal Code Civil indirizza ad una prospettiva astrattizzante, quella che vede il diritto civile come osservatorio dei rapporti umani considerati nella loro cifra assoluta, avulsa sia dal mondo della quotidianità interrelazionale sia dal riferimento al singolo soggetto umano nel suo concreto agire.
E la consustanziazione tra diritto civile, inteso come disciplina teorica rientrante con funzione dominante nel vasto universo della scienza giuridica, e codice civile, visto nel suo ruolo disciplinante il rapporto giuridico interpersonale astratto, lo stesso studiato dalla corrispondente branca, diviene completa lungo l'intero corso del secolo in cui si tenne a battesimo l'idea napoleonica di codice.
Ciò comportò ad avviso di Grossi il pesante costo di un generale appiattimento manifestatosi nella cancellazione, da parte del neonato monismo giuridico, delle visibili tracce dell'opposto pluralismo e nella formazione di un ordine giuridico interamente affidato alle mani dello Stato.
Questa riscrittura dell'ordine giuridico in chiave concettuale e con riflessi di normativismo sospinto dalla soffocante visione statalista non poté che conquistare alla propria corte anche la dottrina civilistica europea, con rare eccezioni ,tutte appieno valorizzate dall’Autore.
4. Il pensiero dei maggiori civilisti italiani tra XIX e XXI secolo
Inizia così la vibrante parabola ideal-descrittiva che attraversa, in un pregevole connubio che conquista il lettore, con passione e rigore il volume nella sua interezza.
La parabola viene esposta dall'Autore, in perfetto accostamento allo spirito animatore delle Sue riflessioni, attraverso una corsia preferenziale: quella diretta a far risaltare le produzioni scientifiche e le espressioni didattiche meglio votate ad anticonformistiche prese di posizione, ai Suoi occhi qualificate in termini di dovuta attenzione alla concretezza dell'esperienza giuridica, alla sua necessitata lontananza dai modelli relazionali ed esistenziali astratti, all' immancabile accostamento ai fenomeni sociali, economici, industriali, politici che lo spirito del tempo dona agli studiosi.
Come già introduttivamente premesso la presente sede previene la possibilità di gettare lo scandaglio su ognuno degli apporti individuali, su cui cade l'attenta illustrazione di Grossi, più meritevoli di menzione in questo contesto: di certo seguiranno altre, più pertinenti circostanze.
Può riuscire utile ad esemplificare la congerie di un risorgente tentativo di concepire in senso pluralistico l'ordine giuridico venuto ad esistenza per effetto dell'opzione codicistica il richiamo all'esempio intellettuale costituito dalla cosiddetta civilistica “neoterica” italiana di fin di secolo diciannovesimo, improntata alla concentrazione su concezioni materialistiche ed evoluzionistiche.
Scorrono, quindi, in una rapidità espositiva mai disgiunta da tocchi sapienti di pennello sul cuore del loro pensiero, i nomi di Cimbali, Venezian, Gianturco, tutti intenti, per ragioni diverse ma effettualmente coincidenti, alla reviviscenza della complessità dell'universo giuridico, alla difesa dell'idea del compito sociale dello Stato. Altri grandi giuristi, versati anche nella sfera del diritto processuale (Redenti, Carnelutti) ed affiancati a grandi civilisti-sostanzialisti, (Ferrara senior,Vassalli) vengono portati a dimostrazione dell'insopprimibile esigenza di arricchire il compendio dei fatti costitutivi del diritto e dell'ordinamento giuridico, a partire dalla promozione al rango di fonte in senso formale della “natura dei fatti”, come fece Vivante nel suo Trattato di diritto commerciale.
Proprio di Filippo Vassalli vien fatta risaltare l'anima extrastatalista, resa vivida nella prolusione romana del 1930 che richiama quella genovese di un dodicennio anteriore nel corso della quale fu reso chiaro il suo pensiero mediante la dirimente affermazione che “il diritto privato, quale ereditammo dai romani, è indipendente dall'organizzazione statuale”.
Non può non suscitare persuasa ammirazione per il modernissimo calibro culturale teso al raffronto tra ordinamenti diversi per tradizione e formazione la rievocazione che l'Autore compie a pag.33 dell'apprezzamento mostrato da Vassalli per l'ideal-tipo del giurista di common law, cui assegna la lungimirante missione di accrescere tra i giuristi la consapevolezza della propria opera in mezzo ad ostilità ed indifferenza: parole presaghe delle sciagure, frutto di rozzezza intellettuale e di sprezzante e violenta chiusura mentale, che la fine degli anni ’30 del secolo scorso addussero.
Quel secolo appena trascorso vide, tuttavia, nel suo tormentato e drammatico svolgimento, mutamenti ed innovazioni di mentalità tra i civilisti italiani, nessuno dei quali è sfuggito al minuzioso ed acutissimo microscopio del nostro Autore.
Beninteso, osservazione ed analisi incanalate lungo i rami del collegamento tra realtà, collettiva ed individuale, e configurazione normativa, che si vuole largamente influenzata e modellata con la creta dell'esperienza, meglio capace di plasmare l'ordinamento di quanto sarebbe in grado di fare l'astratta, teorica considerazione delle relazioni umane giuridicamente rilevanti.
È così che l'impresa, rappresentativa, vivace e fedele della “fattualità economica che irruppe nella dimensione collettiva già nel cavaliere tra primo e secondo decennio del XX secolo, diviene centrale negli studi civilistici, in quanto, come si legge a pag.39, capace di determinare il “superamento di individualità e rapporti individuali”.
Di essa, con maestria e profondità di pensiero, si occuparono Santoro Passarelli e Nicolò, rispettivamente nella prolusione napoletana del 1942 ed in quella romana del 1956, sebbene, secondo Grossi, le loro alte riflessioni (in particolare quella di Nicolò, che, pur volendo sottrarre la figura e la funzione dell'impresa alle schematizzazioni pandettistiche, la racchiude nella categoria del diritto soggettivo: sulla prolusione romana di Nicolò intitolata “Riflessioni sul tema dell'impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile”, restano indimenticabili le memori e grate parole rivolte al Maestro da Stefano Rodotà in Diritto civile del novecento. Scuole, luoghi, giuristi, a cura di Alpa e Macario, Milano 2019, pag.12) non riescono a liberare la loro potente energia (soprattutto quella palesata da Santoro Passarelli che aveva individuato nell'impresa e nel suo studio il criterio facilitatore del “distacco dagli schemi concettuali, dalle categorie giuridiche astratte”: L'impresa nel diritto civile del 1961) nell'auspicata direzione pluralistica ordinamentale.
Direzione che, piuttosto, Grossi accredita, a pag.43 ss., a Tullio Ascarelli per aver saputo percorrere grazie alla sua percezione dell'unità e complessità dell'universo giuridico ed alla dialettica che seppe instaurare tra diritto legale e diritto effettivo, quest'ultimo raffigurato, in uno scritto del 1953, come “frutto di uno sforzo collettivo”.
Un sintomo rivelatore della strenua sopravvivenza delle dottrine “monistiche” Grossi trae, con riguardo anche all'opera di Santoro Passarelli, dalle parole di Irti del 1989 dedicate alla dottrina civilistica italiana nel periodo immediatamente post-costituzionale secondo cui essa “esprimeva il rifiuto della Costituzione.
L'unità del sistema era garantita dal codice civile. In questa gravissima, prolungata frattura tra codice e Costituzione così platealmente ostentata negli anni 1950 da parte non esigua della civilistica italiana Grossi ravvisa nell'intero itinerario del libro motivo di rammarico e di allarme per una certa ipotrofia che connotò la produzione scientifica e l'apparato ideologico di quegli anni ed il corrispondente difetto di slancio.
Ma altre autorevolissime figure si stagliarono, a fianco di quelle eminenti appena ricordate, agli occhi di Grossi come rasserenanti esempi di capacità assertiva del nesso infrazionabile tra fenomeno/dimensione sociale e fenomeno giuridico: particolare conto viene, a tal proposito, dato al pensiero ed agli scritti di Finzi, Betti e Gorla.
Del primo viene ricordata a pag.52 la felice dote di essere stato un fautore delle “pluralità collegate”, particolarmente fertili nel settore del diritto di proprietà, per il cui studio viene reputato importante un'analisi che proceda non dalla persona del titolare ma dalla cosa che ne è oggetto, in quanto fenomenicamente e concretamente individuabile. Di Emilio Betti, nelle pagine 54 ss., Grossi tiene a sottolineare ,smentendo diffusi luoghi comuni, come la sua non fosse una posizione ispirata al dommatismo.
A fondamento di questa netta definizione il Presidente Emerito cita la forte inclinazione a non tollerare che venga cancellato il nesso tra società e diritto e la altrettanto decisa propugnazione che respinge ogni tentativo di ridurre la scienza giuridica a scienza pura, con disconoscimento del suo ruolo ordinativo perseguito in virtù di un'attività speculativa.
In questo senso si dice a pag.55 al riguardo della vasta opera del giurista marchigiano che i suoi concetti, le sue categorie non galleggiano mai sopra o contro i fatti, ricordando la teoria Bettiana, riesumatrice del conflitto tra “voluntas” e “verba”, secondo cui “il negozio giuridico è fenomeno sociale e non proiezione esterna di un atteggiamento psicologico”.
In inoppugnabile sintonia con questa attrazione verso un magistero civilistico epistemologicamente orientato verso il dominio dell'esperienza vengono riportate a pag.56 le parole della prolusione romana del 1948 allorché così si espresse: “la conoscenza non consiste in una recezione meramente passiva dell'oggetto da parte del soggetto”, occorrendo riconoscere la “storicità del soggetto”. Richiamando l'alto magistero scientifico di Gino Gorla, a pag.57 ss., l'Autore compie una duplice, salutare operazione culturale.
Da un canto, rinverdisce la prolusione pavese del 1946, nella quale, da civilista, si sente chiamato al compito di insegnare che vi sono altri modi di intendere e praticare la legge e di sentire e praticare il diritto soggettivo: e questa sottolineatura giova ad allineare l'allora giovane studioso alla schiera di altri desiderosi di rompere le barriere erette a protezione di posizioni soggettive esclusivamente concepite in relazione alla loro statica previsione codicistica senza rideterminarne la portata alla luce dell'esperienza sociale. D'altro canto, la figura che di Gorla affiora in queste pagine è di un civilista che, per affrancarsi dai rigidi vincoli di un positivismo ad elevato rischio di insterilimento applicativo, vira verso le accoglienti e promettenti rive della comparazione giuridica, di cui divenne indimenticato caposcuola per essere seguito dopo circa un decennio da Sacco (pag.59), nella quale riscontra quell'afflato storico che dovette sembrargli esile o latitante nel diritto interno e che ne rafforza le fondazioni culturali (nel testo viene giustamente riportato un fondamentale passo della prefazione al Contratto gorliano del 1954 in cui si insegna la lezione tramandata alle generazioni future che “la comparazione come metodo non è che storia”). Particolarmente felice e generoso è l'apprezzamento che uno Studioso come Grossi, poliedrico e naturalmente attratto dalla febbrile espansione dei propri orizzonti di ricerca, tributa al diritto comparato, in special modo nell'implicita attestazione che le novità offerte da questa scienza sono anche intervenute in funzione suppletiva o alternativa a radicate visioni della scienza civilistica.
A tal proposito, appare congruente estendere il discorso interattivo tra le due branche della scienza giuridica per ricordare l'opera di un finissimo giurista scozzese, Alan Watson (1933-2018), che da romanista e privatista, saggiò proficuamente le acque comparatistiche con l'intramontabile Legal Transplants e, nel successivo volume del 1977 Society and Legal Change (tradotto in italiano da Smorto e Riccardi in Evoluzione sociale e mutamenti del diritto, con la mia presentazione, Milano 2006), fissò alcune conclusioni proprio appuntate sul corpo del diritto privato (universalmente inteso). Tra queste vanno segnalate quella che nega la riferibilità all'ordinamento giuridico in senso formal-positivistico della capacità di rappresentare lo spirito di un popolo o le sembianze dell'etica o del sentimento sociale: al contrario, Watson addebita alla lentezza con cui il diritto privato nella sua accezione puramente normativa risponde alle novità costituite dalla modernizzazione la sua incapacità a tenervi il passo, concludendo che sarebbe illusorio immaginare che i codici civili in genere possano servire a riavvicinare l'ordinamento giuridico alla società (si veda la mia presentazione, pagg. XXI-XXIV).
Questa breve digressione offre convincente prova di quanto largo e condiviso sia il raggio di pensiero di Paolo Grossi attinente all'esigenza di ridefinire i confini ideali e pratici del diritto civile.
La trattazione che segue si manterrà nel tracciato descrittivo di molte (sarebbe sommamente difficile allungare lo sguardo verso tutte ed abbracciare nello studio anche prestigiosi studiosi di altre discipline quali Gino Giugni) delle figure dei civilisti italiano del XX secolo che più fedelmente hanno saputo interpretare la linea concettuale del pluralismo giuridico imbevuto della linfa vitale dell'esperienza sociale ed individuale. Si inizia questa fugace rassegna, del tutto inidonea a rappresentare altro che un semplice rinvio alla valutazione dell'opera dei giuristi di seguito menzionati che Grossi ne effettua nella cornice propria del volume, ricordando la grandezza del pensiero di Salvatore Pugliatti di cui viene lapidariamente riassunta, a pag.61, la concezione alla cui stregua la nozione di ordinamento giuridico è radicata nel sociale e si estende oltre il normativismo, proprio per recuperare complessità e pluralismo.
È, pertanto, del tutto naturale la citazione de “La giurisprudenza come scienza pratica “ del 1950 nella quale il Maestro messinese qualifica “l'esperienza giuridica come vita e storia degli uomini”, qualificando l'ordinamento giuridico “più che come un complesso sciolto di prescrizioni” “alla stregua di un sistema di istituzioni” in cui confluiscono logica e storia. Insistendo sulla rilevanza fondamentale dell'esperienza giuridica Pugliatti ne parla come insieme inscindibile di fatto e diritto, pervenendo alla conclusione che appaia difficile sostenere che “l'ordinamento giuridico si risolva senza residui nel sistema normativo”, in quanto esso “costituisce una realtà assai complessa, e concreta, quindi originaria: quella realtà oggettiva nella quale si danno inscindibilmente fatto e valore” (il nostro Autore, per contrappunto, a nota 20 di pag.67, inscrive l'altrettanto valente allievo di Pugliatti, Angelo Falzea che definisce “Il civilista più contraddistinto da una forte, quasi esasperata, dimensione teoretica”.
Ma, come si vedrà in seguito, all'Allievo di Falzea cui è dedicato il volume oggetto delle presenti riflessioni, Vincenzo Scalisi, viene accreditato il pregio di essere stato assertore convinto di un pluralismo giuridico dalle robuste basi ermeneutiche).
A Pietro Rescigno viene corrisposto il doveroso tributo rivolto a riconoscergli la capacità di inviare, nella sua lunga militanza accademica, robusti messaggi pluralisti e di riscoperta della dimensione, anche collettiva, del diritto civile. Testimone di quest'ultimo atteggiamento culturale viene giudicata, sin dal titolo, la prolusione maceratese del 1954 dedicata a “Sindacati e partiti nel diritto privato” e precorritrice della costante ricerca in tema di formazioni sociali. Ed ancora, in Rescigno viene identificato il lungimirante interprete delle vaste potenzialità applicative possedute dall'art.2 della Costituzione, di cui viene scolpito il contenuto garantistico per la persona, giacché il complesso delle formazioni sociali è impostato in rapporto frontale alla persona: teoria ben condensata nella proposizione secondo cui “la materia dei corpi sociali...appartiene per tradizione e per vocazione alla ricerca ed all'insegnamento dei civilisti”.
Nell'opera di Rescigno l'insegnamento istituzionistico di Santi Romano, giustamente e ripetutamente celebrato da Grossi in più occasioni, viene additato non già come una suggestiva architettura teorica inerente alla pluralità degli ordinamenti giuridici quanto, piuttosto, uno schema attuabile e da attuare perché è la nervatura stessa della Costituzione.
In questa continuità metodologica scandita lungo i decenni centrali del secolo scorso Grossi rivendica la conferma della solidità dell'impianto pluralistico dell'ordinamento giuridico. Alberto Trabucchi, giurista dai poliedrici interessi, è ricondotto nell'orbita dei civilisti più disponibili ad ascoltare il linguaggio pluralistico: il suo itinerario scientifico viene a pag.77 ss. ripercorso come dominato dal disagio per un diritto civile limitato entro le anguste muraglie dello Stato e delle sue leggi. Molto impressivo è il richiamo ad uno scritto del 1963 in cui Trabucchi si pronunciò nel senso di ritenere ormai tramontato il dogma della statualità come caratteristica essenziale del diritto, così come quattro anni prima aveva rilevato quanto avessero pesato, con la proprio ingombrante presenza, per oltre un secolo le aride dogmatiche costruite sul codice civile. Nello speciale tempio dei civilisti italiani partecipi dei due secoli che Grossi ha edificato all'insegna della molteplicità dei fattori, legali, sociali ed esperienziali, costitutivi del corpo vivo di quella branca della scienza giuridica non era pensabile, per più ragioni, che mancasse Stefano Rodotà. Egli, nel suo generoso, vibrante, incessante impegno culturale, accademico in senso stretto, socio-politico indirizzato a fare del fenomeno giuridico strumento di umanizzazione, eguaglianza e progresso delle vite delle donne e degli uomini che popolano la nostra collettività, ha sempre avvertito come tra le missioni del civilista andasse annoverata quella, nobilissima, della tensione al raggiungimento di nuove frontiere, non potendoglisi addire l'appagamento statico. Ed il più potente e formidabile alleato dello studioso teorico nel perseguimento di questa (“salvante” la chiama Grossi) missione va, come già annunciato in uno scritto del 1964,visto nella Costituzione e nelle sue norme “le quali hanno anche un significato positivo, quello cioè di riconoscere, nel quadro della nostra organizzazione sociale e politica, e di assumere a elementi fondamentali di questa, i principii e gli istituti essenziali che attengono ai rapporti interprivati e più in generale alla dignità e alla personalità umana”. E ciò perché, secondo il profondo studioso della responsabilità civile sussunta nella clausola generale della “ingiustizia del danno”, il diritto civile, nella sua efficienza vitale, non si esaurisce nei codici e nelle leggi che lo integrano”. Idea con fermezza ribadita nella prolusione maceratese del 1966 che si risolse nella reiezione della “chiusura formalistica pressocché totale” e nella riaffermazione del nucleo della sua ispirata visione che vuole che le norme costituzionali siano “direttive interne del sistema privatistico” che rivelano l'attitudine, come ad esempio nel caso di quelle racchiuse negli artt.2 e 42, a dar vita a clausole generali direttamente operative nelle relazioni interpersonali.
Due giuristi cattolici viventi, Nicolò Lipari e Pietro Perlingieri, si ascrivono da sé, in virtù delle loro lineari e saldissime posizioni, al gruppo scelto da Grossi di civilisti con chiare ed evolute propensioni pluralistiche nel senso più volte illustrato.
Del primo viene dato risalto alla prolusione barese del 1968 “Il diritto civile tra sociologia e dogmatica (riflessioni sul metodo)” nella quale traspare la sollecitazione al giurista posmoderno alla ricerca ed individuazione dei valori che si sviluppano nella società, implicitamente ma inequivocamente attraendo in tale cerchia quelli di derivazione costituzionale, destinati ad integrare in misura elevata il tessuto ordinamentale. La prolusione camerte del 1969 tenuta da Perlingieri (studioso che non ha mai dismesso la ricerca sulla conversione in senso costituzionale del diritto civile) su “Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare” ne fa emergere l'idea ruotante attorno alla percezione del diritto come esperienza e l'aspirazione ad evitarne l'allontanamento dal diritto vivente. Cospira a questa tendenza la ricchezza che possono offrire la comparazione e la storia.
Luigi Mengoni è un altro civilista (con precedenti esperienze didattiche anche in altre discipline in senso lato affluenti nell'universo privatistico) dalla coriacea caratterizzazione in termini di ancoraggio a principii fondativi fondamentali, poi felicemente fatti risaltare nel suo fruttuoso novennio di Giudice costituzionale, alla cui figura il testo che qui si presenta dedica accurata riflessione. È in Diritto e valori del 1985 che il giurista trentino riassume la propria consapevole ripulsa per l'unilateralità del metodo dogmatico tramandato dalla scuola pandettistica e denuncia l'inadeguatezza delle sintesi valutative cristallizzate nella struttura concettuale del sistema classico del diritto privato (come si dice a pag.100).
Ed invero, secondo questo pensiero, l'elaborazione del metodo, in quanto legata da un nesso stabile all'attività applicativa riferita al proprio oggetto, non è più soltanto delegabile al filosofo del diritto ma va riportata alla sfera di competenze del giuscivilista. Riflette l'dea appena riportata il dichiarato primato del problema sul sistema, in piena fedeltà alla nozione di metodo, e dei suoi riverberi attuativi, di cui si dice. Da tale complessa visione Grossi deduce lucidamente e persuasivamente la conseguenza che l'impostazione storicistica di Mengoni (su cui è indubbia l'impronta del pensiero di Giuseppe Capograssi rivolto al valore dell'esperienza giuridica) ha portato come esito un “vistoso pluralismo”, che a propria volta ha permesso di riscoprire la complessità del diritto e di affermare “l'esigenza di una legittimazione metalegislativa dell'ordine giuridico “ (pag.103) .
Scolpiscono l'intera vita scientifica ed il suo empito morale le parole scritte nel 1996 da Mengoni (e riportate a pag.105), al termine del suo novennio al Palazzo della Consulta calibrato sulla necessità di organizzare la ricerca civilistica in senso costituzional-centripeto: “La Costituzione rifiuta la riduzione positivistica della legittimità (ossia della giustizia) alla legalità, ma converte il problema della fondazione etica della legittimità in un problema giuridico”. Fulminata come una fiammata effimera, prodotto di fermenti ed inquietudini di fine secolo, la stagione del diritto alternativo, “cioè diritto politicizzato al servizio di interessi di classe” (pag.107 nota 3 ), l'Autore si dedica a più riprese, assecondando una illustrazione dalle scansioni ambivalenti (oscillante, cioè tra l'ammirazione per la lucentezza delle idee e la loro dislocazione remota rispetto ai fermi capisaldi pluralistico-esperienziali rischiarati dal tripode costituzionale) ai riferimenti alla dottrina, ed alle sue sequenze nel tempo, di Natalino Irti.
Squillo sonoro e fecondo viene, infatti, qualificato il messaggio della fine degli anni 1970 inerente all'età della decodificazione, intesa come “breccia aperta dalle leggi speciali nel sistema delle fonti “nonché quale “quotidiana e penetrante conquista di territori da parte delle leggi speciali”.
Per quanto promettente, il messaggio non intendeva decretare, ad avviso di Grossi, alcuna variazione nel paesaggio monistico, ossia statalistico e legalistico. Né l'approccio “neoesegetico” del 1982 viene interpretato come apertura verso un futuro pluralistico di riflessione tra i civilisti, scovandosi ancora nelle pieghe del discorso Irtiano l'esautorazione di ogni approccio autenticamente interpretativo del giurisperito e la lode da lui tributata, in occasione della nascita de Le nuove leggi civili commentate, dell'”esercizio del commentare” (pag.111).
L'irruzione nel bacino della tradizione civilistica delle figure nuove del mercato e del consumatore concorre alla configurazione di un mercato sempre più europeo e globale che si propone come un microcosmo di cui la comunità scientifica non tarda ad occuparsi.
Nel 2009 viene tenuta a battesimo, ad opera di Giuseppe Vettori, la rivista Persona e mercato, con il dichiarato intento di non legittimare il predominio del secondo sulla dignità del primo. Non è casuale questa insistita dichiarazione di principio. Ed infatti, nel 1998 Irti proponeva di “elaborare...un concetto giuridico del mercato e porlo al centro del nuovo diritto privato”, nel presupposto che “il dovere di solidarietà come enunciato nell’art.2 è insuscettibile di adempimento in quanto “la Costituzione ha bisogno della legge ordinaria”. Presupposto, fieramente contestato da altre correnti dottrinarie cui Grossi non fa mancare l'implicita adesione: vengono citate ancora una volta le posizioni di Mengoni e Perlingieri. Di quest'ultimo viene ricordata la eloquente e simbolica locuzione secondo cui va registrata la prevalenza delle situazioni esistenziali su quelle patrimoniali”, mentre al secondo va accreditata la nobile frase “lo stato sociale è un principio costituzionale” (democrazia pluralistica e stato sociale formano un binomio inseparabile: v. pag. 123 nota 11 del volume di Grossi). Grande è l'importanza annessa al convegno messinese del 2002 organizzato in onore di Angelo Falzea che segnò un risveglio culturale di fronte alle nuove sfide di inizio millennio poste, in particolare, dal progresso tecnologico. Lo stesso onorato, come viene ricordato a pag.125, mostrando la duttile capacità del proprio pensiero di adattarsi ai tempi nuovi ed alle relative esigenze, fu spinto a chiedersi “se l'ingresso delle nuove tecnologie e della nuova economia....nella realtà sociale e giuridica consente di utilizzare ancora le categorie dogmatiche del pensiero giuridico e gli istituti che si sono andati formando nel tempo”, constatando la “complessità del diritto”.
Paolo Grossi – nel segnalare l'effetto ricostitutivo sui modelli culturali dei giuristi esercitato dall”eurodiritto “ celebrato anche da Lipari – si addentra poi, a pag.135 ss., nel sentiero della globalizzazione giuridica, rilevandone l'essenza in un “ insieme di regole ed istituti che il capitalismo maturo ha inventato per disciplinare aspetti della prassi economica ignoti a codici, leggi, etc: disciplina osservata spontaneamente nel mercato globale sulla base di consuetudini, lodi arbitrali, etc.”
Nel soffermarsi sull'importante volume del 2017 della Giudice costituzionale di scuola pisana Emanuela Navarretta e sul tema (o forse dello “spettro”) di una società che “si autoregola”, lo Studioso fiorentino vede, come già testualmente riportato all'inizio, nel fenomeno l'aspetto fondamentalmente positivo consistente nella circostanza che l'auto-ordinarsi implica che la società operi una meditata cernita dei fatti e degli interessi solo meritevoli di essere tutelati e promossi, tenuto conto del fatto che si candidano e si presentano come valori della comunità. L'attualità perdurante della lezione di Capograssi (che, come notato inizialmente, giudica la scienza giuridica l'unica tra le fonti capace di ricomporre ad unità – spirituale e culturale – l'attuale pluralismo) viene da Grossi ritratta come espressione anticipatrice dell'analisi che affida alla Costituzione il ruolo di testo recante il sostrato valoriale che ha permesso di ritrovare più estesi confini dell'universo giuridico. Essa ben serve la causa di sterilizzare, o almeno mitigare, la portata del nichilismo giuridico che l'Autore vede come carattere distintivo del pensiero, manifestato in questo primo ventennio del XXI secolo, di Irti, laddove ritiene che tutto il diritto si risolva nella correttezza dei meccanismi procedurali, mentre le leggi sarebbero vasi vuoti suscettibili di ogni contenuto (pag. 151).
Grossi contrasta anche la teoria di Castronovo, espressa nello stimolantissimo volume intitolato Eclissi del diritto civile del 2015, che attraverso un meditato ed analitico passo, trascritto a pag. 156, avente ad oggetto il tema dell'introiezione nel “corpus iuris civilis” contemporaneo delle norme costituzionali, si limita ad assegnare ad esse la funzione di essere “regolative di poteri, non conformative di atti e rapporti come invece quelle di diritto privato”.
Lavori relativamente recenti di Lipari e dei compianti Vincenzo Scalisi e Giuseppe Benedetti, recentemente scomparsi, e del brillante allievo di quest'ultimo, Giuseppe Vettori (di cui Grossi riporta, nelle due ultime pagine finali, questa esplicativa frase: del volume del 2020 “non è dubbio che il diritto ha oggi una flessibilità sconosciuta in passato. In questo contesto occorre prestare molta attenzione al valore della certezza e della prevedibilità....ma questi fondamenti essenziali vanno storicizzati e non sono più assicurati solo dalla legge”) continuano a svilupparsi lungo itinerari pluralistici nei quali, tra l'altro, viene ancora una volta ad affiorare la rassicurante immagine dello “Stato sociale di diritto”.
5. Una breve nota finale
Il libro di Grossi si chiude mediante il sigillo circolare della continuità ideale che lo ha percorso dal prologo all'epilogo. Il diritto civile inteso sia come disciplina speculativa sia come ordine normativo non può concepirsi né vivere separato dal suo collegamento con i plurimi fattori che ne influenzano lo sviluppo che, per questo, vanno tenuti costantemente presenti in qualsiasi elaborazione dottrinaria al pari delle decisioni giudiziarie. Queste, in particolare, non possono non recepire gli influssi, i complementi, gli stimoli che hanno origine nella composita realtà sociale, nelle sue forme organizzative, nel sistema di valori e principii che sgorgano dalla Costituzione e sono ormai entrati a far parte del tessuto costitutivo della nostra comunità. La loro esclusione preconcetta o il loro relegamento nella sfera dell'irrilevanza giuridica si risolverebbe, traendo le conclusioni, nel prolungamento di quella stagione asfittica che, secondo Grossi, ha attraversato la civilistica italiana e che, oggi sempre più sovente, trova riscatto nella sublimazione giurisprudenziale delle norme costituzionali e nell'irrobustimento dell'attività ermeneutica svolta beneficamente ad ogni livello, ed in special modo onorando “il mestiere del Giudice”.
In conclusione, il lettore sarà rinfrancato dal contatto con un libro denso, corposo, vivace che rinvigorisce il senso dell'immersione del fenomeno giuridico “in the books” negli sconfinati ed affascinanti abissi dell'esperienza sociale “in action”.
Ed allora, sembra voler dire l'Autore, una nuova civilistica dalla espansa cornice di riferimento, dal rinnovato apparato storicistico, dall'elevamento della persona umana al ruolo primario nel teatro degli accadimenti giuridicamente rilevanti e dal più ampio numero di suoi cultori con inclinazioni pluralistiche, è possibile e benvenuta.
La Corte edu interviene sull’assetto del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nell’ordinamento turco. Alcune riflessioni a margine per un confronto con l’attuale panorama italiano. Nota a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Eminağaoğlu c. Turchia, 9 marzo 2021, ric. n. 76521/12
di Viviana Di Nuzzo*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia. – 2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale. – 3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento. 3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia. – 3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM. – 4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia
Nella sentenza in esame la Corte europea dei diritti dell’uomo affronta il delicato tema del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nel contesto dell’ordinamento turco, fornendo un’utile occasione per riflettere sul livello di tutela delle garanzie di indipendenza e imparzialità dei rappresentanti del potere giudiziario negli Stati contraenti. La Corte, difatti, riconosce la violazione di tre norme convenzionali da parte della Turchia: in particolare, l’art. 6, § 1, in riferimento al mancato riconoscimento della possibilità di accedere ad un tribunale a seguito di sanzione disciplinare; l’art. 8 per l’illegittima utilizzazione ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni disposte invece nell’ambito di un procedimento giurisdizionale di natura penale; infine, l’art. 10 in relazione alla carenza di adeguate garanzie processuali nella limitazione delle libertà di espressione a tutela del ricorrente. Invero quest’ultimo, in qualità di giudice ad Istanbul e di chair di un’associazione di magistrati, Yarsav, era stato sottoposto alla sanzione del trasferimento, una delle più gravi tra quelle previste dall’ordinamento giudiziario interno in queste ipotesi, al termine di un procedimento disciplinare instaurato dal Consiglio Superiore dei Giudici e dei Procuratori (High Council of Judges and Prosecutors, ossia HSYK, dalle iniziali del nome dell’organo in lingua turca) a seguito di alcune dichiarazioni che lo stesso aveva rilasciato sia alla stampa sia nell’ambito di conversazioni telefoniche private soggette ad intercettazione.
La pronuncia appare di grande rilevanza non solo perché consente di analizzare diversi e interessanti profili in merito alle violazioni riscontrate dai giudici di Strasburgo ma anche perché costituisce una proficua occasione per una riflessione da una diversa prospettiva sull’attuale configurazione del potere giudiziario italiano, scosso di recente da alcune vicende di particolare interesse giuridico, che hanno ricevuto un considerevole impatto mediatico, nate proprio dalla captazione di conversazioni tra esponenti della magistratura e parzialmente riconducibili agli argomenti affrontati nel caso in esame.
Peraltro, a distanza di un mese dalla decisione della Corte edu contro la Turchia, le Sezioni Unite Civili hanno depositato le motivazioni di una rilevante pronuncia, in cui veniva riconosciuta nei confronti dei magistrati la piena utilizzabilità per finalità disciplinari delle risultanze di intercettazioni legittimamente disposte ed effettuate nell’ambito di un procedimento penale[1].
Già da ora pare indispensabile sottolineare un significativo punto di divergenza tra l’impostazione della Corte di Cassazione e quella approntata dai giudici europei: mentre la prima ha riconosciuto piena natura giurisdizionale al procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti della magistratura[2], la Corte di Strasburgo nel caso Eminağaoğlu ha escluso la giurisdizionalità dell’organo che ha emesso la sanzione disciplinare, rilevando al contempo la mancata previsione della facoltà di ricorrere ad un organo giurisdizionale per ottenere la revisione della decisione di trasferire l’interessato, qualificata dal diritto nazionale come di natura amministrativa.
Per meglio comprendere tanto quest’ultima considerazione relativa alla natura dell’HYSK quanto il ragionamento della Corte e le soluzioni decisorie cui essa perviene, pare comunque indispensabile ripercorrere rapidamente la vicenda da cui è scaturito il ricorso a Strasburgo, con qualche riferimento all’ordinamento giudiziario turco.
Nell’ambito di un procedimento penale vòlto ad accertare l’identità degli associati di una presunta organizzazione criminale, conosciuta con il nome di “Ergenekon”, la Corte d’Assise di Istanbul autorizzava la captazione telefonica del giudice Eminağaoğlu per un periodo limitato di tre mesi, ai sensi della Legge n. 2802 sui magistrati[3]. A seguito di tale attività investigativa, che non comportava alcuna conseguenza penale per il ricorrente, il 30 ottobre 2009 il Ministro della Giustizia dava avvio al procedimento disciplinare nei suoi confronti per il fatto di aver compromesso con alcune sue dichiarazioni il decoro e l’onore della professione e di aver dismesso la propria dignità e il rispetto. Gli veniva contestato, in particolare, di aver esercitato una certa influenza, attraverso asserzioni di natura politica e avvalendosi della propria posizione, sullo svolgimento del processo in corso relativo al caso “Ergenekon”. Poiché veniva irrogata la sanzione disciplinare del trasferimento, il giudice si rivolgeva in sede d’appello all’Assemblea Plenaria, che però non modificava la misura sanzionatoria, pur ammettendo che alcune delle intercettazioni su cui si basava la decisione della Seconda Sezione dell’HYSK non erano caratterizzate da una serietà tale da determinare una pronuncia sfavorevole all’interessato.
A questo punto, la decisione impositiva del trasferimento divenne definitiva; tuttavia, nel 2015 l’Assemblea Plenaria procedette ad una revisione della sanzione imposta, sulla scorta di una novella legislativa che era intervenuta l’anno precedente e che consentiva la possibilità di richiedere una rivalutazione delle sanzioni emesse in un arco di tempo comprendente anche il periodo in cui si era svolto il procedimento a carico di Eminağaoğlu, il quale riuscì quindi a beneficiare di una modifica della sanzione, ricevendo un richiamo formale.
La Corte europea peraltro non ha escluso la lesione dei diritti facenti capo al ricorrente per il solo fatto che fosse intervenuta una sostituzione della misura sanzionatoria, dal momento che il trasferimento prescritto inizialmente aveva certamente leso rilevanti interessi del soggetto coinvolto.
Il ragionamento della Corte ha messo in evidenza la sostanziale carenza di garanzie di indipendenza e imparzialità dei giudici e dei procuratori in Turchia: difatti, non è prevista nei loro confronti alcuna possibilità di ricorrere ad un tribunale, tanto in senso formale quanto sostanziale, in caso di sanzioni disciplinari imposte a seguito di esternazioni che, seppur ricadenti sotto la copertura del diritto ad esprimere liberamente il proprio pensiero, certamente potevano avere delle ripercussioni sull’intero sistema giudiziario, data la posizione rivestita dal ricorrente. Quest’ultimo, invero, aveva manifestato opinioni forti e dal contenuto compromettente nei confronti di alcuni colleghi che, nell’ambito dell’indagine “Ergenekon”, avevano, a suo dire, esercitato i propri poteri in maniera non del tutto conforme al diritto interno, insinuando il dubbio che si fossero verificate violazioni dei diritti fondamentali di chi aveva subíto misure cautelari o atti investigativi[4].
L’apparato motivazionale della sentenza richiama frequentemente il ruolo preminente che la magistratura riveste in una società democratica e il legame speciale di fiducia e lealtà (“special bond of trust and loyalty”) che sussiste tra i funzionari pubblici e lo Stato; proprio per tale ragione e anche in virtù dell’esigenza di garantire l’indipendenza del sistema giudiziario, la Corte ricorda che rientra tra le sue prerogative il dovere di prestare particolare attenzione alla protezione dei magistrati quando si trova ad esaminare l’adeguatezza convenzionale dei procedimenti disciplinari che li riguardano (par. 76). E tale protezione non può non tener conto dell’incidenza che l’uso sempre più diffuso di strumenti captativi comporta anche a detrimento della libertà di comunicazioni di soggetti che ricoprono tale ruolo istituzionale. Proprio questo profilo merita una scrupolosa analisi e soprattutto fornisce l’occasione per una comparazione con l’ordinamento italiano, nel quale la citata sentenza delle Sezioni Unite Civili ha considerato utilizzabili a fini disciplinari le risultanze dell’attività captativa disposta in sede penale, non operando in tale ipotesi il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. I rinvii della Cassazione alla sentenza Eminağaoğlu, d’altronde, consentono di apprezzare un chiaro esempio di dialogo transgiudiziale, offrendo all’interprete la possibilità di verificare se esso costituisca un avanzamento della tutela dei diritti e delle garanzie fondamentali[5].
Queste considerazioni introduttive tracciano dunque la direzione del presente commento, il quale mira ad analizzare le ragioni sottese alle violazioni riscontrate, sollecitando una riflessione sull’importanza rivestita dalle garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione anche nel nostro ordinamento, seppur tenendo conto delle peculiarità proprie di due sistemi di giustizia penale profondamente diversi tra loro.
2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale
Un proficuo punto di partenza per procedere ad una siffatta analisi si rinviene nella violazione della disposizione di cui all’art. 6, § 1, Cedu, nella parte concernente il diritto di accesso ad un tribunale, anche alla luce del fatto che è a tale profilo che la sentenza in esame ha dedicato maggior spazio.
La Corte sin da subito riconosce di aver sviluppato nel corso degli anni una giurisprudenza caratterizzata da un ampio approccio a questa fondamentale garanzia, così da far rientrare sotto la copertura di tale previsione convenzionale tutti quei casi nei quali, sebbene all’apparenza non siano in gioco diritti civili, sussista comunque una significativa ripercussione su un diritto privato di natura pecuniaria o meno. Questa impostazione ha permesso ai giudici di Strasburgo di estendere l’applicazione del diritto ad un equo processo dall’ambito delle sole controversie civili a questioni che gli Stati contraenti possono inquadrare come controversie pubbliche (par. 60)[6].
Applicando il test elaborato nella sentenza Vilho Eskelinen, necessario per determinare se una questione sorta tra lo Stato e i suoi dipendenti pubblici ricada sotto la lente dell’art. 6, la Corte esamina il ricorso alla luce dei principi espressi in tale previsione[7]. Essa prende così in considerazione il fatto che la Turchia ha categoricamente escluso l’accesso ad un tribunale per tutte le tipologie di misure disciplinari contro giudici e procuratori; in particolare, il Governo turco non ha dimostrato che l’esclusione fosse giustificata da un rilevante interesse nazionale, non essendo peraltro sufficiente a legittimare tale mancanza il rapporto tra Stato e funzionari giudiziarî (par. 80).
A tal proposito, i giudici europei evidenziano che la sanzione disciplinare emessa nei confronti del giudice turco non è stata sottoposta al vaglio di alcun organo giurisdizionale, il che ha causato dunque una evidente lesione del suo diritto a ricorrere ad un tribunale. Infatti, l’HSYK nel sistema giuridico domestico non è considerato un “tribunale”, bensì un organo costituzionale che esercita i propri poteri nel rispetto del principio di indipendenza (par. 94). Ma anche volendo provare a superare la qualificazione formale e privilegiando invece una prospettiva che guardi alla sostanza delle sue funzioni, la Corte esclude la giurisdizionalità sia della Seconda Sezione dell’HSYK sia dell’Assemblea Plenaria, dal momento che i procedimenti disciplinari davanti a tali organi non godono delle garanzie che la Convenzione europea richiede per qualsiasi procedimento di fronte ad una corte ordinaria.
A differenza di quelle ipotesi in cui segue ad una sanzione amministrativa il controllo giurisdizionale assistito dalle garanzie previste dall’art. 6 Cedu, nella fattispecie i giudici di Strasburgo non hanno dunque riscontrato alcuna verifica da parte di un organo con funzione di giudice[8].
A ben diversa conclusione sarebbe probabilmente giunta la Corte con riferimento all’ordinamento italiano, dove, come già notato, è stato ampiamente riconosciuto che il procedimento disciplinare dei magistrati ha natura giurisdizionale ed è connotato da un carattere di specialità derivante dalla particolare funzione cui esso assolve, che consiste nel dovere di vigilare sulla corretta condotta dei magistrati per alimentare nei consociati la massima fiducia nell’ordinamento giudiziario[9]. Da qui discende anche la necessità di rispettare durante l’intero procedimento il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, egualmente tutelati dalla Carta Costituzionale e dalla Convenzione europea.
Sulla configurazione del giudizio disciplinare italiano, d’altronde, la Corte di Strasburgo si era pronunciata, tra l’altro, nel caso Di Giovanni, in occasione del quale, applicando il citato “Vilho Eskelinen test”, aveva affermato che il ricorso rilevava sotto il profilo civilistico dell’art. 6[10]; essa, inoltre, aveva confermato la piena giurisdizionalità dell’organo decidente, la cui pronuncia era stata oggetto di censure anche dinanzi alla Corte di Cassazione.
Emerge subito la differenza di approccio ad un simile tema dei due ordinamenti nazionali considerati, profondamente dissimili tra loro, soprattutto quando vi sia in gioco l’operazione di bilanciamento tra rilevanti interessi statali e diritti fondamentali dei cittadini. Se infatti il sistema turco, valorizzando quello special bond che intercorre tra lo Stato e i funzionari pubblici, consente l’irrogazione di una sanzione disciplinare anche in assenza di un controllo giurisdizionale, l’ordinamento giudiziario italiano riesce ad assicurare la piena indipendenza e imparzialità dell’organo deputato al procedimento disciplinare dei magistrati. Si spiega così perché la stessa Corte europea - nel giudicare il ricorso Di Giovanni in merito all’indipendenza e imparzialità, quest’ultima esaminata sia sotto un profilo soggettivo sia sotto un profilo oggettivo, dei giudici del Consiglio Superiore della Magistratura - non avesse riscontrato la possibilità di sollevare alcun dubbio in merito[11].
Del resto, proprio la rilevanza del potere giudiziario per la tenuta di uno Stato democratico e improntato al principio di separazione dei poteri richiede che la disciplina del procedimento a carico dei magistrati costituisca il risultato del bilanciamento effettuato tra l’esigenza, per un verso, di accertare e sanzionare la responsabilità disciplinare e, per altro verso, il rispetto del diritto di difesa del magistrato e di parità delle armi anche in tale contesto. L’impossibilità, in Turchia, di richiedere e ottenere che a pronunciarsi su provvedimenti disciplinari sia un organo giurisdizionale solleva seri dubbi in merito all’effettività della tutela spettante al soggetto interessato e, soprattutto, circa il pieno rispetto di tutte le garanzie proprie di un processo equo.
3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento
La Corte ha poi esaminato un ulteriore profilo di non minore impatto sistematico, concernente la legittimità dell’uso ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni che erano state disposte nell’ambito di un procedimento penale. Nel caso di specie, l’indagine penale relativa all’organizzazione criminale “Ergenekon”, durante la quale erano state intercettate le conversazioni telefoniche del giudice Eminağaoğlu, si era conclusa con un’archiviazione in favore del ricorrente, al quale poi venne solamente notificata, al termine delle operazioni, una nota informativa con riguardo alla distruzione dei risultati ottenuti attraverso l’attività captativa disposta sull’utenza telefonica a lui intestata.
Tuttavia, una copia dei files era stata inviata all’organo disciplinare e aveva permesso l’avvio del procedimento sfociato nella sanzione del trasferimento.
La rilevanza di tale questione sollecita un’attenta riflessione anche in ragione all’attualità del tema nel panorama italiano, dove la giurisprudenza ha più volte affrontato il problema relativo all’utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso da quello in cui venivano autorizzate, imponendo da ultimo l’intervento delle Sezioni Unite Civili proprio rispetto al loro impiego a fini disciplinari avverso giudici e pubblici ministeri.
3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia
Nell’affrontare la lesione dell’art. 8 Cedu, la Corte europea richiama la giurisprudenza del caso Karabeyoğlu, in occasione del quale i giudici di Strasburgo avevano rilevato un’illegittima ingerenza da parte dell’autorità pubblica turca nei confronti del ricorrente. Quest’ultimo, analogamente alla vicenda in esame, aveva subíto un procedimento disciplinare dove erano state prese in considerazioni alcune intercettazioni, originariamente autorizzate in sede penale[12].
Riprendendo le considerazioni svolte nel 2016, la pronuncia in esame sottolinea che l’inosservanza della norma convenzionale discende dall’uso delle intercettazioni in maniera non conforme al diritto interno, in quanto le risultanze dell’attività di captazione erano state utilizzate al di fuori dello scopo per cui erano state acquisite (par. 161). Il ricorrente, peraltro, aveva ricevuto una lettera in cui veniva informato della distruzione dei files, ma, come evidenzia la Corte, indubbiamente una copia era rimasta a disposizione delle autorità inquirenti che la trasmettevano all’organo disciplinare.
In un’epoca in cui il progresso tecnologico comporta un utilizzo esponenziale di mezzi investigativi sempre più sofisticati, i quali hanno assunto un’estensione tale da sollevare non poche preoccupazioni, la decisione della Corte si pone nel solco della giurisprudenza europea che mira ad un progressivo rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali degli individui, consentendone restrizioni, in una società democratica, solo in presenza di rilevanti interessi generali e in linea con i principi di proporzionalità e legalità[13].
È evidente che la circolazione del materiale probatorio accentua i rischi connessi all’uso di informazioni ottenute mediante tale mezzo di ricerca della prova nei confronti delle persone indagate e, ancor più di soggetti terzi, quand’anche questi non siano destinatari in via diretta della captazione; difatti, individui formalmente estranei all’indagine penale rischiano di dover subire forti restrizioni nell’esercizio dei propri diritti fondamentali, primo tra tutti la libertà e la segretezza delle comunicazioni, i quali risulterebbero fortemente compromessi da un simile potenziale invasivo per la sola circostanza che i terzi abbiano intrattenuto conversazioni con la persona sottoposta all’atto acquisitivo[14].
Si consideri inoltre che, qualora l’intercettazione si rivolga nei confronti di esponenti della magistratura, verosimilmente la diffusione di comunicazioni private rischia di diventare ingestibile e incontrollata, dato il rilievo mediatico che assumono le vicende riguardanti i rappresentanti del potere giudiziario.
Dal ragionamento adottato dalla Corte emerge dunque la pericolosità dell’attività intercettativa nei confronti di soggetti che ricoprono un ruolo di rilevanza preminente all’interno di uno Stato democratico e che svolgono una funzione statale imprescindibile, la quale dovrebbe essere sorretta da garanzie tali da salvaguardare l’imparzialità e l’indipendenza del magistrato sottoposto al procedimento disciplinare.
Potremmo dunque ipotizzare che la sanzione disciplinare nel procedimento turco non sia stata emessa, come dichiarato dal Governo domestico, perché il ricorrente aveva causato un pregiudizio alla dignità della categoria professionale cui apparteneva, bensì per il contenuto effettivo delle sue dichiarazioni, che denunciavano alcune irregolarità nella conduzione del procedimento penale “Ergenekon”, avente ad oggetto un’organizzazione criminale accusata di aver ordito un piano per compiere un colpo di Stato.
Peraltro, l’ordinamento giuridico interno non ammette, in linea di principio, la trasmigrazione dei brogliacci dal procedimento penale a quello disciplinare, il quale risulta sfornito delle garanze tipiche della funzione giurisdizionale. Alla lue di ciò, la declaratoria dell’avvenuta violazione dell’art. 8 risulta perfettamente coerente, se si pensa che il giudice turco, oltre ad aver subíto inconsapevolmente l’acquisizione dei dati relativi al suo traffico telefonico, non aveva avuto modo di ricorrere ad un tribunale ordinario o comunque ad un organo giurisdizionale per poter censurare l’uso illegittimo di tali prove, che non erano state effettivamente distrutte, come invece gli era stato comunicato.
3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana e sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM
Questioni analoghe a quelle poste all’attenzione della Corte europea hanno affrontato anche le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione italiana nell’analizzare il problema dell’utilizzo nel procedimento disciplinare di risultati di attività captative eseguite in sede penale. Per tale ragione, giudicando il ricorso di un magistrato che aveva subíto la sospensione cautelare dalla funzione e dallo stipendio sulla base di risultati captativi provenienti da altra sede, la sentenza non poteva esimersi dal citare la decisione resa in merito al caso Eminağaoğlu, unitamente ad altri rilevanti precedenti giurisprudenziali provenienti da Strasburgo[15]. I giudici della Cassazione si avvalgono delle argomentazioni formulate a Strasburgo per avvalorare la tesi dell’utilizzabilità nel procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte in sede penale, escludendo che in tali ipotesi sussista un contrasto degli artt. 16 e 18 del d.lgs. 109 del 2006 con l’art. 8 Cedu e contestualmente affermando la manifesta infondatezza della questione di legittimità rispetto all’art. 117 Cost. (par. 38); alla stessa conclusione giungono anche rispetto alla valutazione concernente il supposto contrasto tra le stesse norme e gli artt. 15 e 24 Cost.
In effetti tali previsioni contengono una clausola di compatibilità, in quanto operano un richiamo alle norme del codice di procedura penale concernenti sia le attività di indagine sia lo svolgimento del dibattimento. La ratio di tali previsioni risiede nella necessità di salvaguardare le specificità del giudizio disciplinare che, sempre nel rispetto del diritto di difesa della persona incolpata, deve garantire «l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati demandata dall’art. 105 Cost. al Consiglio Superiore della Magistratura»[16].
Proprio tali disposizioni costituiscono, secondo l’impostazione della sentenza, la via d’ingresso nel procedimento disciplinare dei risultati di intercettazioni effettuate in sede penale, compatibilmente con quanto disposto dall’art. 270 c.p.p. e in virtù di un bilanciamento tra la necessità di preservare l’inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni e la specialità del giudizio sulla responsabilità dei magistrati.
Ed è proprio tale ultimo punto che fa sorgere alcune perplessità. Le attività intercettative devono essere eseguite nel rispetto dei diritti fondamentali, i quali potrebbero essere limitati solo compatibilmente con la riserva di legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ci si chiede dunque se e in che misura le disposizioni contenute negli artt. 16 e 18 possano comportare in modo costituzionalmente orientato l’utilizzo delle intercettazioni in sede disciplinare.
Autorevole dottrina dubita della possibilità che la compressione di diritti fondamentali possa discendere da clausole di compatibilità, lasciando intendere che il rinvio alle norme del codice di rito potrebbe non pienamente soddisfare la riserva di legge, trattandosi di una estensione in malam partem del dettato codicistico che richiederebbe invece l’intervento del legislatore[17].
Si potrebbe obiettare che nell’ambito del procedimento penale la limitazione del diritto alla libertà e riservatezza delle comunicazioni della persona intercettata, in linea di principio, può avvenire solo nel rispetto delle garanzie costituzionali, visto che le previsioni codicistiche in materia richiedono comunque un intervento (di regola previo o, eccezionalmente, successivo) del giudice. Dunque, in quella sede l’interessato - e anche qui potrebbe aprirsi un amplissimo dibattito sul soggetto titolare della legittimazione attiva e sui diritti a lui spettanti - avrebbe la possibilità di eccepire eventuali invalidità nell’attività di ricerca della prova, dal momento che egli è assistito dalle tutele approntate dal legislatore in riferimento alla disciplina in questione.
Sennonché una simile impostazione appare eccessivamente restrittiva perché l’utilizzazione nell’ambito di un diverso procedimento, avente carattere extrapenale, dei risultati investigativi amplifica i rischi di restrizione di libertà costituzionalmente garantite, anche e soprattutto laddove l’uso sia diretto nei confronti di soggetti estranei al procedimento penale che non abbiano avuto alcuna possibilità di contestare vizi dell’attività di captazione.
In altre parole, vero è che la limitazione si verificherebbe in presenza dei presupposti richiesti dal dettato costituzionale, ma è altrettanto vero che i dati così acquisiti avrebbero delle ripercussioni all’interno di un procedimento sfornito delle stesse garanzie, quale quello concernente la responsabilità dei magistrati.
Al fine di rendere compatibili tali disposizioni con l’assetto costituzionale, le Sezioni Unite, richiamando la propria giurisprudenza[18] e raffrontandola con le indicazioni provenienti in materia dalla Corte europea, hanno ribadito la non operatività del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati, facendola derivare dal carattere di specialità proprio di questa tipologia di accertamento. La Corte nel suo massimo consesso ha, nell’ultimo decennio, radicalmente escluso l’esistenza di preclusioni vòlte all’uso nel procedimento disciplinare delle risultanze di intercettazioni svolte aliunde, sulla scorta della considerazione che il pubblico ministero gode di un ampio potere di indagine finalizzato a svolgere un controllo penetrante sulla correttezza dei comportamenti tenuti dai rappresentanti del potere giudiziario.
Un così consistente potere investigativo non può tuttavia sfociare in lesioni ingiustificate di diritti fondamentali, dovendo sempre garantirsi quel bilanciamento tra l’interesse generale ad accertare e reprimere gli illeciti disciplinari dei magistrati e l’interesse del singolo a veder rispettati i propri diritti e a poter ricorrere ad un giudice per censurare profili di illegittimità.
Su quest’ultimo punto, la Cassazione ha sancito la facoltà in capo all’interessato di eccepire nel procedimento ad quem la mancanza o l’illegalità del provvedimento autorizzativo disposto nel procedimento a quo, «in ragione dei richiami al codice di procedura penale contenuti negli articoli 16 e 18 del decreto legislativo n. 109/2006» (par. 26)[19].
È chiaro che la soluzione delle Sezioni Unite fosse finalizzata a recuperare un controllo di legalità del dato probatorio così acquisito e dal cui utilizzo potrebbero discendere sanzioni disciplinari, anche abbastanza gravi, per l’incolpato. La supervisione del giudice disciplinare in questo modo funge da garanzia per assicurare che tale procedimento si svolga in modo giusto ed equo e sia improntato al rispetto del diritto di difesa del soggetto interessato.
In merito a questo profilo si coglie la differenza di soluzioni tra le Sezioni Unite Civili italiane e la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Eminağaoğlu: i giudici di Strasburgo, invero, hanno riconosciuto la violazione dell’art. 8 Cedu perché innanzitutto la legislazione turca non prevede la possibilità di far circolare le prove acquisite tramite intercettazione dal procedimento penale a quello disciplinare. Si consideri, inoltre, che l’accertamento relativo alla responsabilità disciplinare dei magistrati, in quell’ordinamento, non ha natura giurisdizionale, come sopra chiarito, per cui le garanzie poste a tutela della persona risulterebbero limitate in misura eccessiva. D’altra parte, neppure l’asserita distruzione dei files era stata sufficiente a tutelare la posizione del giudice interessato, dal momento che comunque una copia era giunta all’attenzione dell’organo disciplinare.
Al di là delle differenze sostanziali tra le due decisioni, dovute non solo alle peculiarità degli ordinamenti giuridici considerati ma anche alle tipologie di giudizio che le due Corti sono chiamate a rendere, il profilo maggiormente problematico attiene alla circolazione al di fuori dell’ambito penale dei risultati dell’attività intercettativa che, seppur disposta nel rispetto delle garanzie costituzionali e nei limiti previsti dalla legge, finisce comunque col produrre una non trascurabile ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata dei cittadini, determinata dall’utilizzazione in diversa sede processuale delle informazioni captate nell’ambito del procedimento penale.
L’art. 270 c.p.p., per la delicatezza della questione che disciplina, necessiterebbe forse di un intervento del legislatore che dovrebbe specificare con maggior precisione sia in quali procedimenti possano confluire le risultanze investigative derivanti dalla captazione sia i limiti soggettivi e oggettivi di acquisizione ed utilizzabilità ultra fines degli esiti della circolazione probatoria[20].
Il tema in esame, comportando un indebolimento del diritto alla riservatezza delle comunicazioni, costituzionalmente tutelato, impone che il provvedimento autorizzativo dell’intercettazioni venga emesso solo qualora sia strettamente necessario e comunque nel rispetto del canone di proporzionalità[21]. E, forse, un risultato positivo nella direzione di una tutela maggiormente effettiva si potrebbe ottenere introducendo un obbligo in capo alle autorità procedenti di rispettare analoghi requisiti anche ai fini dell’acquisizione dei dati così ottenuti in procedimenti diversi da quello a quo, affinché ne risultino rafforzati i presidi di salvaguardia dei diritti fondamentali coinvolti da tali strumenti probatori.
4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione
Rimane da accennare al punto della decisione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo relativo alla dedotta violazione dell’art. 10 Cedu. La pronuncia riconosce infatti che la Turchia non ha garantito al magistrato Eminağaoğlu adeguati ed effettivi strumenti di salvaguardia da abusi connessi alle restrizioni del diritto a manifestare le proprie opinioni, imponendo a suo carico la sanzione del trasferimento per delle dichiarazioni pubbliche che egli aveva rilasciato in diverse sedi in merito alla conduzione dell’indagine “Ergekenon” da parte di altri giudici.
La Corte ricorda che i rappresentanti del potere giudiziario incontrano dei limiti nell’esercizio del diritto ad esprimere liberamente la propria opinione in tutti quei casi in cui entrino in gioco l’autorità e l’imparzialità dell’ordinamento giudiziario (par. 121).
Nella fattispecie - notano i giudici - la sanzione disciplinare imposta al ricorrente derivava dal fatto che lui avesse rilasciato dichiarazioni pubbliche, non essendo connessa all’esercizio della funzione; quindi è sicuramente configurabile un’interferenza con il godimento dei diritti discendenti dall’art. 10 della Convenzione. Resta dunque da verificare se tale interferenza sia giustificabile ai sensi della previsione di cui al § 2 dello stesso articolo. A tal proposito, la valutazione che emerge dalla pronuncia accerta che la restrizione del diritto fondamentale coinvolto era disciplinata dalla legge (la n. 2802) e perseguiva l’obiettivo di mantenere l’autorità e l’imparzialità dei giudici.
Bisogna però considerare che le dichiarazioni del ricorrente riguardavano questioni oggetto di un dibattito di interesse generale, legato alle modalità con cui si stava svolgendo un procedimento penale e ad un asserito collegamento tra i magistrati procedenti e il Governo. Tuttavia, agli occhi della Corte la decisione dell’organo disciplinare risultava carente di un’adeguata motivazione in ordine al profilo relativo al pregiudizio causato dalle dichiarazioni del magistrato alla dignità e all’onore della professione. Non solo; perché unitamente a tale omissione i giudici di Strasburgo hanno tenuto conto della non giurisdizionalità dell’HSYK, per cui il ricorrente non ha avuto modo di essere sentito da un giudice con le garanzie del contraddittorio. Dunque, non è stata correttamente compiuta la necessaria operazione di bilanciamento richiesta dalla Convenzione per compensare la limitazione del diritto ad esprimere il proprio pensiero nella vicenda de qua.
La Corte ha colto l’occasione fornita dalla fattispecie in esame per reiterare la necessità che ogni ordinamento democratico trovi quel punto di equilibrio imprescindibile tra le garanzie di terzietà e imparzialità dei magistrati e il diritto di questi ad esprimere le loro opinioni, senza in alcun modo pregiudicare la categoria professionale di cui fanno parte. Un esempio in tal senso è proprio il noto caso Palamara, che nell’ultimo anno ha interessato l’ordinamento giudiziario italiano a seguito delle intercettazioni di comunicazioni del dottore Luca Palamara, membro del CSM, e delle dichiarazioni che lo stesso aveva reso in merito all’esistenza di un presunto “sistema” che gestiva le nomine dei magistrati a incarichi direttivi.
5. Considerazioni conclusive
La disamina delle complesse questioni affrontate dalla Corte europea consente di formulare alcune osservazioni conclusive.
La dedotta violazione dell’art. 6, §1, Cedu sul mancato riconoscimento del carattere giurisdizionale in capo all’organo di autogoverno della magistratura turca ha avuto un effetto dirimente sulle declaratorie relative alle violazioni delle altre due disposizioni convenzionali, l’art. 8 e l’art. 10. Difatti, la limitazione dei diritti fondamentali tutelati da tali ultime previsioni può avvenire solamente nel rispetto dei requisiti richiesti dal sistema convenzionale e assicurando al singolo la possibilità di poter partecipare effettivamente ad un processo dotati di carattere giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, proprio l’assenza di un giudizio dinanzi ad un tribunale con tutte le garanzie tipiche di un procedimento giurisdizionale ha condotto la Corte a riconoscere le violazioni delle disposizioni convenzionali.
Nella particolare ipotesi della trasmigrazione, da un procedimento ad altro di diversa natura, dei dati probatori intercettati è impensabile che non sia riconosciuta al magistrato, nella sedes ad quem, la possibilità di realizzare una difesa piena e completa davanti ad un giudice, come richiesto dalla Corte europea. La rilevanza dei diritti in gioco non ammette deroghe in violazione del dettato convenzionale, perché anche il giudizio disciplinare deve rispettare i canoni del fair trial.
Ancora, come sostenuto dalla Corte di Cassazione italiana, è di preminente rilevanza che l’incolpato abbia la facoltà di eccepire eventuali vizi nel procedimento acquisitivo e di richiedere la distruzione dei brani e dei brogliacci non rilevanti. Rimane peraltro insoluto il problema relativo ai limiti d’ingresso nel procedimento disciplinare di intercettazioni che coinvolgano anche soggetti estranei all’accertamento penale ma che, inconsapevoli, abbiano intrattenuto conversazioni telefoniche con il destinatario della captazione. Non è da escludere l’ipotesi di prevedere anche per tali soggetti la costruzione di uno strumento giuridico che permetta loro di ottenere l’esclusione di informazioni che li riguardino, captate mediante un’attività intercettativa, e che non appaiano necessarie ai fini del giudizio disciplinare.
Chiaramente la delicatezza della materia impone che sia il legislatore a disciplinare in modo dettagliato e specifico requisiti e limiti di ammissibilità del trasferimento e dell’uso delle risultanze di intercettazioni in altre sedi procedimentali, quale il giudizio disciplinare. Solo così le autorità procedenti potranno pienamente assolvere ai propri obblighi di controllo. Ma non basta; occorre che esse compiano un accurato scrutinio di necessità e proporzionalità dell’acquisizione dei risultati dell’attività intercettativa realizzata in sede penale, affinché anche la circolazione delle prove ottenute mediante tale attività, dato il suo elevatissimo potenziale intrusivo nei confronti di libertà costituzionalmente e convenzionalmente garantite, si realizzi in linea con la configurazione legislativa di questo peculiare mezzo di ricerca, che si staglia quale extrema ratio all’interno degli strumenti investigativi nell’odierno assetto del diritto probatorio penale.
*Dottoranda di ricerca in Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Messina
[1] Cass., sez. un., n. 9390, 8 aprile 2021, in Ced. Cass., rv. 660918, che richiama anche la sentenza della Corte europea in esame. Per un primo autorevole commento alla decisione della Cassazione, v. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021, in Giustizia Insieme, 26 aprile 2021.
[2] Per un’analisi sull’impianto del procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti del potere giudiziario nell’ordinamento italiano, cfr. S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, Milano, 2013; M. Fantacchiotti – M. Fresa – V. Tenore – S. Vitello, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, in Id., La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali. Magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, onorari, Avvocati dello Stato, Milano, 2010, pp. 347 ss; L. Caso, I. Magistrati e Avvocati dello Stato, in F. Carinci – V. Tenore, Il pubblico impiego non privatizzato, Milano, 2007.
[3] Per approfondire brevemente la vicenda che fa da sfondo al ricorso in esame, v. Le condanne per Ergenekon in Turchia, su www.ilpost.it, 5 agosto 2013; Che cos’è Ergenekon?, ibid., 22 febbraio 2011.
[4] La sentenza in commento dà atto di alcune di queste dichiarazioni e delle circostanze in cui esse sono state espresse sia nella parte relativa al fatto (parr. 13 ss.) sia in quella dove affronta la violazione dell’art. 10 Cedu (parr. 136 ss.).
[5] Sul dialogo tra Corti, che coinvolge anche le Corti costituzionali, v., ex multis, P. Gaeta, La scala di Wittgenstein: dialogo tra Corti, giudice comune e primauté della Corte Costituzionale, in Giustizia Insieme, 17 ottobre 2019; A. Ridolfi, Giurisdizione costituzionale, Corti sovranazionali e giudici comuni: considerazioni a proposito del dialogo tra Corti, in Rivista AIC, 2016, n. 3, p. 61 ss.; M.P. Iadicicco, La diagnosi genetica preimpianto nella giurisprudenza italiana ed europea. L’insufficienza del dialogo tra le Corti, in Quaderni costituzionali, 2015, n. 2, p. 325 ss.; M. Carducci, “Imitazioni” e “dialoghi” come «amministrazione» del linguaggio?, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe de Vergottini, in L. Melica - L. Mezzetti - V. Piergigli, Padova, 2015, I, p. 381 ss.; A. Ruggeri, “L’intensità” del vincolo espresso dai precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo al piano dei rapporti tra CEDU e diritto interno e in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, in https://www.giurcost.org/studi/ruggeri24.pdf, 5 febbraio 2013, p. 1 ss.; R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2014; G. Tesauro, Ancora sul dialogo tra giudice italiano e corti europee, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, Napoli, 2013, IV, p. 2397 ss.; P. Ridola, Il “dialogo tra le Corti”: comunicazione o interazione?, in Percorsi costituzionali, 2012, n. 3, p. 273 ss.; G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010; G. Zagrebelsky, Corti costituzionali e diritti universali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2006, n. 2, p. 297 ss; A.M. Slaughter, A Global Community of Courts, in Harv. Int’l L.J., 2003, 44, p. 191 ss.
[6] Cfr. ex plurimis, Corte eur. dir. uomo Savitskyy c. Ucraina, 26 luglio 2012, ric. n. 38773/05; Enea c. Italia, GC, 17 settembre 2009, ric. n. 74912/01; Taşkın e altri c. Turchia, 10 novembre 2004, ric. n. 46117/99; Ganci c. Italia, 30 ottobre 2003, ric. n. 41576/98; Philis c. Grecia (n. 2), 27 giugno 1997, Reports 1997-IV; Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgium, 23 giugno 1981, ric. n. 6878/75 e 7238/75. La Corte europea in materia di procedimenti disciplinari riguardanti il diritto a proseguire l’esercizio di una professione aveva già invocato la copertura del § 1 dell’art. 6 Cedu in una sentenza che aveva visto protagonista l’ordinamento italiano: Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06.
[7] Corte eur. dir. uomo, Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia, GC, 19 aprile 2007, ric. n. 63235/00. Il test elaborato dai giudici di Strasburgo in questa pronuncia prevede che le controversie tra Stato e dipendenti pubblici siano di natura civile ai sensi dell’art. 6, a meno che non vengano soddisfatti congiuntamente due requisiti: primo, lo Stato deve aver espressamente escluso l’accesso ad un tribunale per determinate categorie di professioni pubbliche; secondo, tale esclusione deve essere giustificata sulla base concreta di un interesse generale dello Stato (par. 62).
[8] Cfr. ad esempio Corte eur. dir. uomo, Ramos Nunes de Carvalho e Sá v. Portogallo, GC, 6 novembre 2018, ric. n. 55391/13 e altri; Tsfayo c. Regno Unito, 14 novembre 2006, ric. n. 60860/00.
[9] V, fra tutte, Cass., sez. un., 25 gennaio 2013, n. 1771, in Foro it., Rep. 2013, voce Ordinamento giudiziario, n. 134. Anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla rilevanza dell’interesse pubblico sotteso all’esigenza di accertare l’eventuale responsabilità disciplinare dei rappresentanti della magistratura, dovendo il relativo procedimento assicurare il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, la quale gode di speciali garanzie di indipendenza e imparzialità, tutelate dal dettato costituzionale. V. Corte cost., 13 aprile 1995, n. 119, in Foro it, 1995, I, 1401; id., 22 giugno 1992, n. 289, in Foro it, 1994, I, 3276.
[10] Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06, parr. 37 – 38.
[11] Sul profilo funzionale dell’indipendenza dei giudici assicurati dall’organo di autogoverno della magistratura, v., per tutti, S. Bartole, Il potere giudiziario, II ed., Bologna, 2012, p. 63 ss.
[12] Corte eur. dir. uomo, Karabeyoğlu c. Turchia, 7 giugno 2016, ric. n. 30083/10.
[13] Sull’incidenza del canone di proporzionalità con riferimento all’uso delle nuove tecniche di sorveglianza occulta, v., ad es., F. Nicolicchia, Il principio di proporzionalità nell’era del controllo tecnologico e le sue implicazioni processuali rispetto ai nuovi mezzi di ricerca della prova, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org., 8 gennaio 2018; M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Dir. pen. cont., 2014, 3-4, p. 143 ss. Cfr. Corte eur. dir. uomo, GC, S. e Marper c. Regno Unito, 4 dicembre 2008, ric. n. 30562/04 e n. 30566/04, § 112, ove si afferma che la tutela discendente dall’art. 8 Cedu risulterebbe eccessivamente indebolita qualora l’autorità procedente non si preoccupasse di effettuare un’accurata valutazione sia dei vantaggi derivanti dalla forza estensiva che connota tali strumenti sia degli interessi fondamentali in gioco. V. ancora Corte eur. dir. uomo, GC, Roman Zakharov c. Russia, 4 dicembre 2015, ric. n. 47143/06, che precisa quali garanzie minime debba rispettare il provvedimento limitativo del diritto al rispetto della vita privata e familiare (ad es., durata e modalità di svolgimento delle operazioni, conservazione dei dati soggetti destinatari della captazione); ancora, Corte eur. dir. uomo, Kennedy c. Regno Unito, 18 maggio 2010, ric. n. 26839/05; Marchiani c. Franci, 27 maggio 2008, ric. n. 30392/03; Vetter c. Francia, 31 maggio 2005, ric. n. 59842/00; Lambert c. Francia, 24 agosto 1998, ric. n. 23618/94; Malone c. Regno Unito, 2 agosto 1984, ric. n. 8691/79.
[14] Cfr. F. Resta, La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi, in Giustizia Insieme, 15 dicembre 2020; G. Santalucia, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni. Note a margine del decreto legge n. 161 del 2009, in Sistema Penale, 2020, 1, p. 47 ss.; sull’assenza di una specifica tutela per soggetti terzi v. C. Conti, La riserva delle intercettazioni nella “delega Orlando”. Una tutela paternalistica della privacy che può andare a discapito del diritto alla prova, in Diritto penale contemporaneo, 2017. n. 3, pp. 92 – 93.
[15] Si noti tuttavia che la Cassazione si preoccupa di specificare che la sentenza dei giudici europei è successiva alla camera di consiglio in cui è stata decisa la sentenza (v. par. 37.2).
[16] Cass., sez. un., n. 9390, cit., par. 20.
[17] V. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale, cit., p. 3, il quale spiega che «il riferimento alla “compatibilità” servirebbe a modulare l’operatività delle norme processuali in relazione alla ricordata specialità dell’oggetto della procedura disciplinare nei confronti dei magistrati».
[18] V. Cass., sez. un., n. 741, 15 gennaio 2020, in Ced. Cass., rv. 656792, che ammette addirittura la trasmissione dalla sede penale a quella disciplinare delle sole trascrizioni in forme riassuntiva; allo stesso modo, Cass., sez. un., n. 14552, 12 giugno 2017, in Ced. Cass., rv. 644570-02; Cass., sez. un., n. 3020, 16 febbraio 2015; Cass., sez. un., n. 3271, 12 febbraio 2013, in Ced. Cass., rv. 625433; Cass., sez. un., n. 15314 del 24 giugno 2010, in Ced. Cass., rv. 613973; Cass., sez. un., n. 27292, 23 dicembre 2009, in Ced. Cass., rv. 616804; Cass., sez. un., 12717 del 29 maggio 2009, in cui la Corte afferma che «l’art. 270 c.p.p., comma 1, - non trovando in particolare applicazione al giudizio di prevenzione che pure ha una connotazione “penalistica” a differenza del procedimento disciplinare di magistrati - riguarda specificamente il processo penale deputato all'accertamento di responsabilità penali che pongono in gioco la libertà personale dell'indagato o dell'imputato sicché possono giustificarsi limitazioni più stringenti all'acquisizione della prova».
[19] Cfr. Cass., sez. un., n. 13426, 25 marzo 2010, in Ced. Cass., rv. 246271, in cui viene affermato il principio di diritto per cui «l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti in qualsiasi tipo di giudizio». Sempre sul presupposto del rinvio alle norme codicistiche, la Corte ha anche affermato che il sottoposto al giudizio cautelare ha il diritto di chiedere al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione copia dei supporti materiali delle intercettazioni su cui si fonda la richiesta cautelare di sospensione dalla funzione e dallo stipendio (par. 32).
[20] Sulla problematicità delle disposizioni di cui all’art. 270 c.p.p. e dell’interpretazione che ne dà la giurisprudenza, v. J. Della Torre, La nuova disciplina della circolazione del captato: un nodo arduo da sciogliere, in M. Gialuz, Le nuove intercettazioni. Legge 28 febbraio 2020, n. 7, in Diritto di Internet, 2020, suppl. al n. 3, p. 90 ss.
[21] F. Nicolicchia, op. loc. cit.; M. Caianiello, op. loc. cit.
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