ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ritiro doveroso della proposta di aggiudicazione e responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione (nota a Tar Lombardia – Milano, sez. II, 3 giugno 2025, n. 1917)
Sommario: 1.- Fatti di causa e oggetto di indagine; 2.-Revoca e ritiro del provvedimento amministrativo. Cenni; 2.1-(segue)concetto di doverosità del ritiro; 3.-Resposabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica; 3.1.-(segue) l’aggiudicazione provvisoria e il requisito dell’affidamento incolpevole del privato. 4.-Il punto del Tar sui requisiti per ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale.
1. Fatti di causa e oggetto di indagine.
Nella pronuncia in commento il Tar Milano offre una ricostruzione dell’istituto di revoca della proposta di aggiudicazione, ponendola a confronto con la diversa ipotesi del mero ritiro. Evidenzia le conseguenze della individuazione di una piuttosto che dell’altra, in relazione alla responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, nonché al risarcimento del danno del privato presuntivamente danneggiato dalla mancata aggiudicazione.
Il caso oggetto di delibazione verte su una procedura aperta per l’affidamento di una fornitura di prodotti, indetta da un’Azienda Socio Sanitaria Territoriale, da espletare in forma aggregata con un’altra. Oggetto della fornitura sono biberon e tettarelle monouso, per le quali l’art. 3 della lex specialis dispone che siano dotate di marcatura CE.
La graduatoria provvisoria, stilata a conclusione della procedura, vede la ricorrente quale prima classificata. Tuttavia alle proposte di aggiudicazione per i lotti interessati non è seguita alcuna aggiudicazione defintiva, di tal che la ricorrente – in prima battuta – ha instaurato un giudizio avverso il silenzio. Nelle more, la stazione appaltante ha “revocato” l’intera procedura di gara, ritenendo erronea la propria indicazione della marcature CE come requisito essenziale, in quanto questa avrebbe creato un restringimento del mercato degli operatori economici potenzialmente interessati a prendere parte alla procedura.
Il provvedimento di “revoca” è stato impugnato dalla ricorrente con ricorso per motivi aggiunti, in seno al quale è stata anche formulata domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti a titolo di: a) responsabilità precontrattuale; b) ritardo nel provvedere; c) illegittimità del provvedimento di revoca.
Il Tar, dopo aver dichiarato, con sentenza non definitiva, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso introduttivo, ha rigettato nel merito il ricorso per motivi aggiunti, ritenendolo infondato. Sulla scorta del quadro normativo e guirisprudenziale afferente alle distinte figure di revoca e ritiro del provvedimento amministrativo, il Collegio ha concluso che nel caso di specie la stazione appaltante avesse posto in essere un atto di mero ritiro (stante la irrilevanza del nomen juris assegnato dalle parti) peraltro congruamente motivato. È stata rigettata anche la domanda di risarcimento del danno da ritardo e da provvedimento illegittimo, in ragione dell’accertata legittimità dell’atto di ritiro, ritenuto addirittura “doveroso”. Quanto alla responsabilità precontrattuale, questa è stata esclusa per assenza dei requisiti necessari, per come anche individuati dalla giurisprudenza precedente dell’Adunanza Plenaria.
Nel presente scritto ci si occuperà di richiamare per sommi capi la disciplina della revoca ex art. 21 quienques della L. n. 241/1990, al fine di confrontarla – e dunque distinguerla – dalle ipotesi di mero ritiro di un provvedimento, analizzando i casi in cui questo possa definirsi doveroso. Lo scopo è quello di delineare le ricadute di detta qualificazione sul regime di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, con particolare riguardo al requisito dell’affidamento ingenerato in capo all’operatore economico danneggiato.
2.-Revoca e ritiro del provvedimento amministrativo. Cenni.
La legge sul procedimento prevede che la pubblica amministrazione possa esercitare il suo potere di autotutela attraverso le due forme di revoca e annullamento d’ufficio [1].
Come opportunamente richiamato dal Tar nella pronuncia in commento, la revoca – di cui all’art. 21 quinquies – è un provvedimento amministrativo di secondo grado, che postula l’esercizio di un potere discrezionale di autotutela dell’amministrazione, per ragioni di inopportunità sopravvenuta, rispetto a un atto precedentemente emanato e ad efficacia durevole [2].
L’annullamento ai sensi dell’art. 21 nonies L. n. 241/1990 può essere disposto, sussistendone ragioni di interesse pubblico ed entro il termine temporale indicato, nel caso di illegittimità originaria del provvedimento di primo grado.
Tale potere non è contestabile nelle procedure ad evidenza pubblica, anche quando oggetto del provvedimento di secondo grado sia l’aggiudicazione definitiva, ove – chiaramente – ci si trovi in presenza di una illegittimità significativa [3]. Tuttavia, è ben possibile che la pubblica amministrazione si limiti a rimuovere atti che non abbiano ancora determinato l’emanazione di un provvedimento definitivo.
In particolare, afferma il Collegio che “laddove la pubblica amministrazione si limiti a rimuovere successivamente uno o più atti illegittimi che non abbiano ancora avuto esito in un provvedimento finale, «si è in presenza di un mero ritiro doveroso, ben diverso dai discrezionali consueti provvedimenti di secondo grado come la revoca e l’annullamento d’ufficio, contemplati dagli artt. 21- quinquies e 21- nonies, L. 7 agosto1990, n. 241»” [4]. Dalla qualificazione di un provvedimento come revoca e/o annullamento ovvero come mero ritiro discendono delle conseguenze tutt’altro che trascurabili.
Come evidenziato dal Tar Milano, in coerenza con la giurisprudenza precedente [5], l’atto di mero ritiro non è subordinato alla previa verifica della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non necessita della valutazione delle posizioni soggettive eventualmente coinvolte nella vicenda e non richiede il previo avviso di inizio del procedimento.
Anche l’onere motivazionale deve essere calibrato in funzione della fase procedimentale in cui la stessa interviene. L’esplicitazione delle ragioni circa l’interesse pubblico al ritiro varia di intensità – ad esempio – a seconda della circostanza che sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva (o addirittura la stipula del contratto) ovvero che il procedimento di valutazione comparativa concorrenziale non sia ancora completamente giunto a termine [6].
2.1-(segue) concetto di doverosità del ritiro.
Il richiamo che il Tar Milano fa al concetto di doverosità, qualificando tale il ritiro della proposta di aggiudicazione operato dalla stazione appaltante, ne impone una – seppur succinta – analisi.
La giurisprudenza [7] ha, nel tempo, associato il termine “doveroso” al potere di autotutela della pubblica amministrazione in determinati casi, pur nella consapevolezza che la caratteristica principale di tale potere sia la discrezionalità.
L’autotutela doverosa è stata definita come il potere esercitato in tutte quelle ipotesi, tassativamente individuate dal legislatore ovvero definite chiaramente in via giurisprudenziale [8], in cui il potere di riesame dei propri atti da parte delle Amministrazioni è dovuto.
La dottrina [9] si è occupata di analizzarne i contorni e di interrogarsi sulla compatibilità del concetto di annullamento doveroso con i principi dell’ordinamento.
Del resto, si è detto, l’amministrazione non può essere considerata come titolare di un potere semplicemente “esecutivo” rispetto alla legge [10], poiché così ragionando si finirebbe per eliminare gli elementi che differenziano l’annullamento che l’amministrazione pronuncia al termine di un procedimento di riesame, dall’annullamento contenzioso e dall’annullamento giurisdizionale [11]. Difatti, l’esercizio del potere di annullamento ex art. 21 nonies non è legittimato solo ed esclusivamente dall’illegittimità del provvedimento, ma anche – ad esempio – dalle ragioni di interesse pubblico che devono essere ricercate nel caso concreto dopo l’acquisizione dei fatti e la valutazione degli interessi, e non limitate al solo rispristino della legalità [12].
Nel caso di specie il Collegio ritiene che il ritiro degli atti di gara fosse “doveroso” in ragione della riscontrata illegittimità di una previsione del bando che avrebbe ristretto ingiustificatamente la platea dei partecipanti (in specie l’art. 3 che, si rammenta, indicava come requisito essenziale dei prodotti la marcatura CE). In ragione, dunque, dell’indiscussa illegittimità di una propria disposizione, l’amministrazione non avrebbe avuto altra scelta se non quella di ritirare gli atti di gara.
Si stima utile sottolineare che l’ipotesi al vaglio del Tar Milano non può essere associata al concetto di annullamento doveroso, analizzato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, poiché – come si è detto e come si dirà meglio infra – il potere viene esercitato su un atto non definitivo e dunque definito di “mero ritiro”, il che comporta la non necessaria ricorrenza di tutti gli elementi che sottendono l’emanazione di un provvedimento di secondo grado.
3.-Resposabilità precotrattuale dell’amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione deve rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico, anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza [13]. Del resto, la violazione di queste ultime può dar luogo ad una responsabilità da comportamento scorretto, tale da incidere sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali.
Nello specifico caso delle procedure di gara, i doveri di correttezza e buona fede sussistono anche prima (e a prescindere) dell’aggiudicazione, nell’ambito di tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica: da ciò deriva che la responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto è configurabile quand'anche i singoli provvedimenti nei quali si articola il procedimento siano legittimi [14].
Il principio della buona fede, è stato oggi sancito anche nel nuovo Codice dei Contratti, all’art. 5 del D. Lgs. n. 36/2023, a riprova del rango di principio generale cui assurge nella regolazione di qualunque rapporto contrattuale.
Sulla scorta dei principi elaborati dai Giudici di Palazzo Spada, il Tar Milano evidenzia che il privato che intenda far valere la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione deve provare: a) la propria buona fede soggettiva, intesa come affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere attività economicamente onerose; b) la lesione dell’affidamento incolpevole per una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà e soggettivamente imputabile all’amministrazione in termini di colpa o dolo; c) il danno-evento, che si concretizza nella lesione della libertà di autodeterminazione negoziale); d) il danno-conseguenza, ovvero le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate; infine, il rapporto di causalità fra tali danni e il comportamento scorretto.
In particolare, nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici, sempre il Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, ha ulteriormente chiarito che, la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede che sia alla stessa imputabile a titolo di colpa, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa [15].
Per quanto riguarda la misura del risarcimento, il Collegio, sulla scorta di precedenti pronuncie del Consiglio di Stato, specifica che il danno risarcibile in caso di responsabilità precontrattuale è costituito dal “c.d. interesse contrattuale negativo”, che copre sia il danno emergente (spese documentate per la partecipazione alla gara) che il lucro cessante, essendo astrattamente ammesso anche il ristoro della perdita di chance per le sole occasioni di guadagno alternative cui l’operatore economico avrebbe potuto attingere in assenza del contegno colposo dell’amministrazione [16].
3.1.-(segue) l’aggiudicazione provvisoria e il requisito dell’affidamento incolpevole del privato.
L’elemento dell’affidamento incolpevole viene considerato dalla giurisprudenza recente essenziale ai fini dell’individuazione di una responsabilità precontrattuale della stazione appaltante [17].
A riprova dell’essenzialità di questo elemento, sia sufficiente notare che la giurisprudenza ha spesso ritenuto di calibrare la quantificazione del danno in ragione della eventuale conoscenza o anche conoscibilità, da parte della medesima, della contrarietà del provvedimento revocato all’interesse pubblico e dell’eventuale concorso, della società o di altri soggetti, all’erronea valutazione della compatibilità dell’atto con l’interesse pubblico, ritenendo in rapporto a tale elemento rilevanti le sole spese sopportate per la partecipazione alla gara [18].
Nel caso delle procedure ad evidenza pubblica, può essere utile capire se un’aggiudicazione provvisoria – poi ritirata e/o revocata – possa legittimamente ingenerare un affidamento nell’operatore economico, tale da fondare una successiva domanda di risarcimento per responsabilità precontrattuale dell’amministrazione.
Invero, anche ove ad essere ritirata sia un’aggiudicazione definitiva è comunque necessario provare la formazione di un ragionevole affidamento sulla conclusione della procedura.
Nel caso di specie, la ricorrente fonda la domanda di risarcimento su un affidamento che sarebbe stato generato da un’aggiudicazione provvisoria.
In proposito il Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario. Con la conseguenza che la possibilità che ad una aggiudicazione provvisoria (proposta di aggiudicazione) non segua quella definitiva costituisce evento del tutto fisiologico, inidoneo di per sé a ingenerare forme di affidamento tutelabili e dunque un qualsivoglia obbligo risarcitorio [19].
Del resto, la natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, che è tipica dell’aggiudicazione provvisoria, non è pienamente compatibile con la disciplina dettata dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990, in quanto non può qualificarsi atto conclusivo del procedimento.
Va da sé che il passaggio dall’aggiudicazione provvisoria a quella definitiva non è certamente un obbligo della P.A. appaltante, né – di converso – un diritto dell’aggiudicatario provvisorio [20].
Quindi, se è vero che l’affidamento incolpevole deve essere ingenerato nell’operatore economico da comportamenti (atti) dell’amministrazione che siano ragionevolmente indirizzati in tal senso, ed è vero anche che l’aggiudicazione provvisoria – per sua stessa natura – non può considerarsi provvedimento definitivo, non può che concludersi che questa non sia adatta a determinare nel privato quel livello di affidamento, necessario a fondare a domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale.
4.-Il punto del Tar sui requisiti per ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale.
Nel caso di specie, il tar Milano non ha ritenuto ricorrenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di risarcimento come spiegata dalla ricorrente.
Innanzitutto, secondo il Collegio, a difettare è l’illegittimo esercizio del potere di autotutela. O meglio in radice l’esercizio (legittimo o illegittimo) ti tale potere, ritenendo il provvedimento di mero ritiro.
A difettare sarebbe, poi, l’essenziale elemento dell’affidamento incolpevole. In particolare, il Tar esclude che la società avesse potuto riporre un incolpevole affidamento sulla conclusione della gara e sull’aggiudicazione in suo favore, in ragione di una dirimente circostanza fattuale riportata in giudizio: già prima della presentazione della domanda di gara, la ricorrente aveva chiesto alla stazione appaltante di interpretare autenticamente il bando di gara in modo difforme dal dato letterale – proprio in merito al possesso del requisito CE stabilito dal più volte citato art.3 – poiché riteneva che potesse produrre un effetto “irragionevolmente restrittivo della massima partecipazione alla procedura”. Non avendo ottenuto risposta, decideva comunque di partecipare al bando di gara, “pur essendo perfettamente consapevole di dover, a rigore, essere esclusa”, come testualmente ritenuto dal Collegio.
In merito alla qualificazione dell’atto, il Tar Milano conclude che “la rimozione di un atto di gara precedente al provvedimento formale di aggiudicazione – quale è il bando – non può essere qualificata come espressione di un potere di autotutela, da valutarsi ai sensi degli artt. 21- quinquies e 21- nonies l. n. 241/1990”, piuttosto essa costituisce “un mero atto di ritiro, che può appunto intervenire laddove ancora non vi sia stata un’aggiudicazione definitiva” [21].
In ragione di ciò, non ritine che l’amministrazione fosse tenuta a motivare l’atto alla stregua dei requisiti richiesti dall’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, vale a dire indicando i sopravvenuti motivi di interesse pubblico o altre ragioni giustificative, né valutando l’interesse dell’amministrazione in comparazione a quello della società, né financo era tenuta a rispettare i limiti temporali posti dall’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio.
A ciò si aggiunga che il Collegio ritiene il provvedimento di ritiro emanato dalla stazione appaltante congruamente motivato con riferimento alla rilevata invalidità dell’art. 3 del Capitolato speciale d’appalto. Nella motivazione, infatti, spiega che prevedere a pena di esclusione il requisito della marcatura CE per i beni offerti avrebbe, riporta testualmente il Collegio, «comportato un involontario restringimento del mercato degli operatori economici potenzialmente interessati apprendere parte alla procedura». Ciò sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 68, comma 4, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (applicabile ratione temporis al caso di specie) a tenore del quale le specifiche tecniche dei prodotti devono garantire pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione e non devono comportare direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati alla concorrenza.
In proposito, pare doveroso rammentare che – in ogni caso – le ragioni di interesse pubblico sottese all’atto di ritiro della gara, ove effettivamente addotte dall’Amministrazione ed ove plausibili e non affetti da macroscopici vizi logici, sfuggono dal sindacato giurisdizionale [22].
In conclusione, nel caso di specie, il Tar ha ritenuto che venendo meno la configurabilità di un affidamento incolpevole della ricorrente sul provvedimento di aggiudicazione provvisoria, anche in virtù della presupposta conoscibilità della motivazione del ritiro, non potesse configurarsi una responsabilità precontrattuale della stazione appaltante.
In particolare, ha ritenuto che le decisioni prese circa l’emanazione di un nuovo bando di gara e la fornitura tramite proroga tecnica fossero da considerare aspetti del tutto estranei alla fattispecie risarcitoria da responsabilità precontrattuale, poiché nulla hanno avrebbero a che vedere con l’affidamento riposto dalla società offerente circa la conclusione della procedura di gara e la stipulazione del contratto.
Ha, dunque, rigettato la domanda, in linea con la giurisprudenza precedente richiamata in sentenza (e citata nel presente contributo), che dimostra di ritenere tale requisito essenziale ai fini dell’ottenimento del ristoro per il danno eventualmente subito nelle ipotesi in cui l’Amministrazione decida di ritornare sui suoi passi, sia prima che dopo l’aggiudicazione definitiva di una procedura.
[1] Sull’autotutela amministrativa si veda: M.A. SANDULLI, Autotutela, in Libro dell'anno del Diritto, Treccani, 2016; A. CONTIERI, Procedimenti e provvedimenti di secondo grado, in S. COGNETTI, A CONTIERI, S. LICCIARDELLO, F. MANGANARO, S. PERONGINI, F. SAITTA (a cura di), Percorsi di diritto amministrativo, Torino, G. Giappichelli Editore, 2014, p. 445 ss.; F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, in G. CASSANDRO, V. CRISAFULLI, A.M. SANDULLI (a cura di), Diritto e società, Padova, Cedam, 2009; F. FRANCARIO, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 19.04.2017 n.8. F. FRANCARIO, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, 21 ottobre 2015 n. 5; M. TRIMARCHI, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017, p. 189 ss; L. BENVENUTI, L’autotutela amministrativa. Una parabola del concetto, in Diritto e processo amministrativo, 2020, p. 638 ss.
[2] In questo senso si veda anche Cons. Stato, Sez. III, 4 dicembre 2024, n.9701, richiamato in sentenza.
[3] In questi termini Consiglio di Stato, Sez. V n 4349/2024.
[4] Il richiamo testuale è alla pronuncia del Tar Veneto, Sez. II, 6 luglio 2023, n. 10032.
[5] Tar Veneto n. 1003/2023 cit.; in termini, cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 24 ottobre 2024, n. 5632; id., 7 marzo 2024, n. 1537.
[6] cfr. Consiglio di Stato 12/09/2023, n. 8273.
[7] cfr ex multis di recente: Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415; Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207; Id, 31 dicembre 2019, n. 8920; Id, 29 maggio 2019, n. 3576; Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8
[8] Per una interessante analisi della casistica si veda G. MANFREDI, Annullamento doveroso?, op. cit.
[9] In chiave anche critica si veda: N. POSTERARO, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), in Federalismi.it, 25 ottobre 2017, p. 22; N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, in Federalismi.it, 8 marzo 2017, p. 2. Per l’analisi dell’istituto si veda anche: F. CAMPOLO, Alcuni chiarimenti in merito all’autotutela doverosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241 del 1990 (nota a Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415), Giustizia Insieme, 2024; G. MANFREDI, Annullamento doveroso?, in P.A. Persone e Amministrazione, 2017, p. 383 ss.; F. GAFFURI, Note in merito alla doverosità dell’annullamento d’ufficio, in Giurisprudenza Italiana, 2020, p. 751; F.V. VIRZI’, La doverosità del potere di annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 4 luglio 2018, n. 16;
[10] Così G. ZANOBINI, L'attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl., 1924, I, 281 ss., ora anche in Scritti vari di diritto pubblico, Milano, 1955, 203 ss.
[11] G. MANFREDI, Doverosità dell’annullamento vs. annullamento doveroso, in Dir. proc. amm., 2011, 316. Come rilevato da M.A. SANDULLI, Il codice dell’azione amministrativa. Il valore dei suoi principi e l’evoluzione delle sue regole, in ID. (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017.
[12] In merito si veda: E. ZAMPETTI, Motivazione in re ipsa e autotutela decisoria, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2015); A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, 1987, 284,
[13] M.A. SANDULLI, Il risarcimento del danno nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, 06.04.2011 n.7; si veda anche: E. ZAMPETTI, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021, in Giustizia Insieme, 2021.
[14] Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 5 del 4 maggio 2018.
[15] Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 21 del 29 novembre 2021; si veda anche Cons. Stato, Sez.V, 28/11/2023, n. 10221.
[16] In questi termini anche Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5274/2021; Consiglio di Stato, Sez. VII, 10 maggio 2022, n. 3661.
[17] Sul rapporto tra affidamento e autotutela si veda: F. CARINGELLA, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2008, p. 425; V. DETOMASO, L’autotutela amministrativa tra interesse pubblico e legittimo affidamento, in Il Diritto Amministrativo, Anno XVII - n. 09 - Settembre 2025; M. PERRELLI, Autotutela e affidamento, in Rassegna monotematica di giurisprudenza, Ufficio del massimario della Giustizia Amministrativa, 31 dicembre 2022, p. 5; G. TULUMELLO, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in giustamm.it, 9 maggio 2022.
[18] cfr. T.A.R. Roma, sez. V, 7/5/2024, n. 9012; T.A.R. Napoli, sez. I, 01/12/2021, n.7714; T.A.R. Napoli, sez. I, 05/01/2021, n.69.
[19] C. Stato 12/09/2023, n. 8273.
[20] cfr. sul punto C. Stato n. 8273/2023 cit.
[21] In questi termini anche Cons. Stato, sez. III, 11 dicembre 2024, n. 10008.
[22] Consiglio di Stato Sez. V n 4349/2024; sull’ampiezza del potere di revoca si veda, da ultimo anche TAR Campania- Napoli 01/09/2025, n. 6002.
Sommario: 1. Il rinvio pregiudiziale interpretativo - 2. Qualche dato statistico - 3. L’interpretazione della Corte di cassazione dei requisiti di ammissibilità - 4. … segue: la previa instaurazione del contraddittorio tra le parti - 5. … segue: la rilevanza della questione - 6. … segue: la natura esclusivamente di diritto della questione - 7. … segue: le gravi difficoltà interpretative - 8. … segue: la novità della questione - 9. … segue: la numerosità della questione - 10. Il dialogo tra le Corti in seno al rinvio pregiudiziale interpretativo - 11. Epilogo.
1. Il rinvio pregiudiziale interpretativo
Com’è noto, il d.lgs. 149 del 2022 ha introdotto nel tessuto del codice di rito civile l’art. 363-bis c.p.c., il quale ha disciplinato - con effetto dal 1° marzo 2023 - il rinvio pregiudiziale interpretativo[1], così definito:
«Art. 363-bis. (Rinvio pregiudiziale).
Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni:
1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione;
2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;
3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è motivata, e con riferimento alla condizione di cui al numero 2) del primo comma reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili. Essa è immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione ed è comunicata alle parti. Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto, o dichiara con decreto l’inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare brevi memorie, nei termini di cui all’articolo 378.
Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti.».
È noto che, per affrontare l’innovazione costituita dal rinvio pregiudiziale interpretativo, la Prima Presidenza della Corte si è dotata di un Ufficio questioni pregiudiziali fin dal decreto n. 16 in data 8 febbraio 2023 del Primo Presidente. Attualmente, esso è regolato dalle Tabelle di organizzazione per il quadriennio 2026-2029 della Corte di cassazione, nel seguente testuale tenore:
«PARTE UNDICESIMA
UFFICIO QUESTIONI PREGIUDIZIALI
§ 97. - Compiti dell’Ufficio Questioni Pregiudiziali.
L’Ufficio questioni pregiudiziali (UQP) ha funzioni di istruttoria e supporto alla Prima Presidente per l’esame delle ordinanze di rinvio pregiudiziale dei giudici di merito alla Corte di cassazione ex art. 363-bis c.p.c. e 137-ter, n. 1, disp. att. c.p.c.
§ 98. - Composizione dell’Ufficio.
Sono componenti dell’Ufficio il Direttore dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario, il Coordinatore delle Sezioni Unite civili, il Direttore del CED, ciascuno con facoltà di delega.
L’Ufficio si avvale della cancelleria e dei funzionari dell’Ufficio per il processo delle Sezioni Unite civili.
§ 99. - Attività e procedimento.
99.1. Il fascicolo, recante l’ordinanza di rimessione alla Corte è iscritto alla Cancelleria centrale, con apposizione del codice-materia ed è trasmesso all’UQP con assegnazione al Primo Presidente.
99.2. L’Ufficio provvede, entro il termine di 30 giorni dal momento della trasmissione, alla verifica dei requisiti di ammissibilità richiesti dall’art. 363-bis, nn. 1, 2 e 3, c.p.c. acquisendo il parere del presidente titolare della sezione competente per materia, che deve esprimersi entro cinque giorni dalla ricezione della richiesta.
In esito all’istruttoria, l’Ufficio redige sintetica relazione con cui propone alla Prima Presidente l’adozione di decreto di inammissibilità o di assegnazione alla sezione semplice ovvero alle Sezioni Unite per la decisione.
99.3. Il decreto della Prima Presidente di inammissibilità o di assegnazione alla sezione per la decisione è pubblicato sul sito della Corte di cassazione a cura del CED.
99.4. Il decreto di inammissibilità definisce il procedimento e prende un numero di pubblicazione.
In caso di assegnazione alla sezione, le Sezioni Unite o la sezione semplice, investite della questione, fissano il ricorso in pubblica udienza, con requisitoria scritta del Procuratore Generale e possibilità, per le parti, di depositare memorie nei termini di cui all’art. 378 c.p.c.
99.5. Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice che ha disposto il rinvio.».
2. Qualche dato statistico
Grazie alla preziosa collaborazione dei tre componenti di diritto dell’Ufficio Questioni Pregiudiziali (come visto: del Direttore dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, del Coordinatore delle Sezioni Unite civili e del Direttore del CED della Corte di cassazione; ed a ciascuno dei quali va il sentito ringraziamento di chi scrive) e nell’ambito di una cooperazione istituzionale per la predisposizione di un intervento ad un prossimo corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura anche su questo specifico tema, sono stati acquisiti alcuni dati assai significativi sull’effettiva implementazione del rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363-bis c.p.c..
A tutto il 19/11/2025 (e, quindi, nei primi due anni e otto mesi di vigenza della norma che lo ha introdotto) sono pervenute alla Corte 85 ordinanze di rinvio pregiudiziale interpretativo: 28 nel 2023, 31 nel 2024 e 26 nel 2025; di queste sono pendenti 12, di cui 2 sospese per rimessione alla Corte costituzionale e quattro alle Sezioni Unite (di cui 3 a udienza già fissata entro dicembre del corrente anno e 1 ancora da assegnare). Fino alla stessa data sono stati pronunciati 47 decreti di inammissibilità e 33 di ammissibilità con contestuale assegnazione a Sezione; dei rinvii pregiudiziali interpretativi reputati ammissibili[2], sette sono stati assegnati alla Sezione Prima, due alla Sezione Seconda, quattro alla Sezione Terza, due alla Sezione Lavoro, quattro alla Sezione Tributaria e quattordici alle Sezioni Unite.
I tempi di definizione, in caso di assegnazione alle sezioni, hanno visto uno dei primi rinvii pregiudiziali definito con sentenza in soli 114 giorni dal deposito dell’ordinanza di rinvio nella cancelleria della Corte; ma bisogna anche ammettere che la complessità degli adempimenti da espletare ha condotto ad una notevole dilatazione dell’intervallo, comunque - almeno finora - pari a 259 giorni in valore medio. In un caso, come si avrà modo di vedere, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale delle norme coinvolte dalla questione oggetto di rinvio pregiudiziale, per cui i tempi di definizione saranno ulteriormente dilatati per la durata dell’incidente di costituzionalità.
I tempi di definizione, in caso di inammissibilità, sono stati invece davvero contenuti: la media è stata, infatti, di 47 giorni, con punte minime fulminee (di soli 8 giorni) e massime di 76: in ogni caso, di gran lunga inferiore ai 90 giorni fissati - peraltro, con termine di evidente natura ordinatoria - al primo presidente per la reiezione in rito del rinvio.
Tutti i provvedimenti - sia quelli di inammissibilità che quelli, non numerati e non altrimenti rinvenibili nelle ordinarie banche dati, di ammissibilità ed assegnazione alle sezioni (unite o semplici), ma pure i provvedimenti adottati a definizione del procedimento di rinvio pregiudiziale interpretativo - sono pubblicati sul sito istituzionale della Corte e sono, pertanto, liberamente accessibili a chiunque.
3. L’interpretazione della Corte di cassazione dei requisiti di ammissibilità
L’attribuzione di un inedito e autentico potere giurisdizionale proprio ed autonomo a quello che è configurato quale unico organo monocratico della Corte di cassazione - e, cioè, al suo primo presidente - implica che le sue pronunce, rese tutte de plano e senza previo contraddittorio nella forma di decreto, integrano il formante giurisprudenziale dell’istituto, dal punto di vista strettamente processuale. Il dato è confermato dalla pressoché totale conferma, da parte dei Collegi investiti dei rinvii pregiudiziali che avevano superato il vaglio preliminare di ammissibilità da parte della Prima Presidenza, della sussistenza dei relativi requisiti: pertanto, eccettuato il solo caso di inammissibilità sopravvenuta e quello di inammissibilità da rilievo del difetto di legittimazione passiva dell’unico convenuto, può dirsi che l’elaborazione dei requisiti di ammissibilità si è avuta in forza dei decreti del Primo Presidente, sia di quelli che quei requisiti hanno escluso, sia di quelli che gli stessi requisiti hanno riconosciuto sussistenti.
La peculiarità dell’istituto in esame può allora cogliersi, con ogni evidenza, in un inedito dialogo tra il giudice del merito e la Prima Presidenza della Corte di cassazione, individuandosi all’interno della Corte stessa una solo potenziale dialettica tra la Prima Presidenza e singole Sezioni (Unite o semplici) investite della trattazione del ricorso.
Riferita, ad ogni modo, l’interlocuzione con la Corte alla medesima nel suo complesso (e, cioè, prescindendo dall’articolazione tra Prima Presidenza e singole Sezioni), proprio questa interazione connota l’istituto quale espressione di una cooperazione tra giudici (c.d. Richterklage). La sua peculiarità sta nel fatto che il giudice di merito, anziché decidere la controversia liberamente in punto di diritto, altrettanto liberamente sceglie di rimettere un quesito di diritto alla Corte di legittimità ponendosi con quest’ultima in dialogo, dopo aver preventivamente instaurato il contraddittorio sul punto con le parti costituite. Il ruolo di queste è, comunque, quello di somministrare al decidente ulteriori elementi da valutare, ma non assurge mai a condizione della rimessione, sicché il loro dissenso non è vincolante per il giudice, né gli impedisce la rimessione. Tuttavia, in tal caso la conseguenza peculiare per le parti è che, se il giudice decide di avviare il dialogo tra corti e di effettuare la rimessione pregiudiziale e la Corte di legittimità la risolve, limitatamente a tale questione decisa ex art. 363-bis c.p.c., la parte interessata - pur non potendo fare nulla per evitare la Richterklage - perderà la possibilità di ottenere una pronuncia della Cassazione in sede di impugnazione[3].
È, quindi, un dialogo tra i soggetti investiti del potere giurisdizionale: il cui esercizio, normalmente, si sviluppa in senso diacronico, prevedendo l’intervento di quello investito di funzioni nomofilattiche solo in tempo successivo (sovente anche di molto) e, comunque, ad iniziativa delle parti che risultassero insoddisfatte delle scelte dei giudici del merito o che, ad ogni buon conto, non preferiscano comporre autonomamente la loro controversia, dando un assetto diverso ai loro rispettivi e contrapposti interessi.
Si tratta, però, di una facoltà e non di una potestà (normalmente connotata da profili di doverosità), rimanendo appunto discrezionale la scelta del singolo giudice di merito: e diventa importante circoscrivere con attenzione i limiti di tale facoltà ed i presupposti del rinvio pregiudiziale, al fine di impostare correttamente l’istituto e prevenirne un impiego scorretto o non funzionale allo scopo per il quale è stato introdotto. Al contempo, la connotazione che all’istituto imprime la Corte di cassazione lo erige a nuovo strumento di diretto coinvolgimento del giudice di merito nella formazione del precedente e, quindi, di un inedito suo contributo alla certezza del diritto.
4. … segue: la previa instaurazione del contraddittorio tra le parti
Nonostante le serie perplessità della dottrina, la previa instaurazione del contraddittorio sul rinvio pregiudiziale è stata, finora, reputata non indispensabile ai fini della ritualità della sua proposizione[4]: e tanto in considerazione del fatto che il contraddittorio preventivo può essere recuperato nella fase dinanzi alla Suprema Corte con le memorie anteriori alla pubblica udienza e con la discussione orale. La conclusione è stata confermata nel caso in cui nemmeno sia prospettato dalle parti uno specifico pregiudizio quale conseguenza di tale omissione procedurale: l’inosservanza della regola procedurale della previa audizione delle parti può dirsi priva di conseguenze se non altro nel caso in cui, in relazione alle peculiarità della fattispecie, le parti sono state poste in grado di espletare pienamente le proprie difese anche sul punto (della sussistenza dei requisiti di ammissibilità del rinvio, oltre che sul merito della relativa questione) in sede di preparazione della - e partecipazione alla - pubblica udienza di discussione; e tale circostanza consente di dar corso al procedimento di rinvio pregiudiziale, caratterizzato dalla pregnanza dell’interesse pubblico all’utile estrinsecazione della nomofilachia in forma preventiva[5].
5. … segue: la rilevanza della questione
Indispensabile requisito del rinvio pregiudiziale è la rilevanza, cioè l’idoneità della questione, con esso sottoposta alla Corte, a definire (anche solo parzialmente) la domanda: riguardo alla quale può, descrittivamente, concludersi che può applicarsi l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale quanto alle questioni di legittimità sottoposte al Giudice delle Leggi.
A tal fine, è indispensabile, come da subito rimarcato, che la motivazione dia conto in modo adeguato dei termini della controversia, in modo da apprezzare l’idoneità della questione a definirla in tutto o in parte[6]: non potendo superare il vaglio di ammissibilità una motivazione che si articoli su di una ricostruzione della vicenda, sostanziale e processuale, oggetto di cognizione da parte del giudice rimettente che sia scarna e, complessivamente, inidonea a formulare il riscontro del nesso di necessaria implicazione tra il dubbio interpretativo e la decisione anche parziale del giudizio[7]. Questo consente di valutare immediatamente se, in relazione allo sviluppo del singolo giudizio ed alle difese ancora esperibili dalle parti, la questione oggetto del rinvio sia concretamente in grado di definire la domanda[8].
Sul punto, si segnala come, di recente, è stata negata l’ammissibilità del rinvio, formulato quanto ad una questione di diritto certamente idonea a definire la domanda subordinata proposta nell’ambito del giudizio di merito, ma prospettata senza un esame, sia pure condotto in base ad un’indagine prima facie (o, comunque, allo stato degli atti), delle domande principali: infatti, l’esame della domanda subordinata potrebbe restare assorbito e, quindi, il quesito pregiudiziale finirebbe con il risultare teorico e privo di concreta incidenza, se una delle domande poste in via principale dovesse essere accolta[9].
6. … segue: la natura esclusivamente di diritto della questione
Il requisito circoscrive il rinvio pregiudiziale interpretativo alle sole questioni giuridiche, risultandone, pertanto, escluse quelle di fatto e quelle miste, di fatto e di diritto.
Al riguardo, può giovare un mero richiamo all’elaborazione dei principi relativi alla delimitazione dell’ambito di rilievo ufficioso di questioni senza previa loro sottoposizione al contraddittorio delle parti[10]; in estrema sintesi, può dirsi poi che esula dall’ambito di una questione di diritto una sussunzione della fattispecie concreta entro quella astratta.
In concreto, è stato considerato inammissibile un rinvio fondato sulla richiesta di dipanare il dubbio relativo alla natura dell’intervento dispiegato da una compagnia di assicurazioni, ossia se questo, in base alle deduzioni delle parti e ai fatti allegati, potesse essere qualificato come autonomo o adesivo dipendente. In tal caso, la Prima Presidente ha ritenuto carente il requisito della questione giuridica, poiché quello che veniva richiesto era di risolvere in concreto un preliminare problema processuale attraverso l’apprezzamento dei fatti di causa e la sussunzione degli stessi nella disciplina da ritenersi coerentemente applicabile[11].
In quest’ottica, si è reputato inammissibile un rinvio che si basava sulla richiesta di individuare, dal punto di vista meramente astratto, quale fosse la norma applicabile nel dubbio esistente tra due disposizioni riguardanti la disciplina della prescrizione del diritto relativa ai contratti in materia di forniture idriche[12] (41).
E altrettanto estranea ad una questione di diritto è stata valutata l’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, la cui analisi è preliminare rispetto a quella della disciplina normativa da applicare: tale operazione richiede un procedimento bifasico condotto, da un lato, in punto di diritto, per quanto riguarda l’individuazione e l’applicazione dei criteri di ermeneutica legale e, dall’altro, in punto di fatto in merito alla selezione degli argomenti ed all’accertamento in concreto della volontà delle parti[13].
In definitiva, ogniqualvolta il rinvio pregiudiziale implichi sostanzialmente la risoluzione di una questione di fatto, esso è inammissibile[14].
7. … segue: le gravi difficoltà interpretative
È questo, probabilmente, il requisito su cui maggiormente si è concentrata l’attenzione della Prima Presidenza.
Il presupposto di ammissibilità del rinvio pregiudiziale in esame è integrato dalla gravità interpretativa e dalla diffusività del contrasto, che sono elementi di primario rilievo, in quanto direttamente incidenti sull’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile: questa finalità, tuttavia, non si attaglia ad un ogni dubbio interpretativo. Questo, invece, deve assurgere a un livello di serietà idoneo a impedire un arretramento del potere-dovere decisorio del giudice: non possono darsi rinvii pregiudiziali puramente esplorativi o ipotetici[15].
Il rinvio pregiudiziale è inammissibile se il giudice a quo si è limitato a prospettare una perplessità esegetica che, sebbene non esaminata in precedenti di legittimità, non ha riscontro in un contrasto generatosi nella giurisprudenza di merito o nell’esistenza effettiva di un dibattito dottrinale sul punto, esistendo, peraltro, pronunce sul tema del rapporto tra termini processuali e l’ipotesi di differimento d’ufficio da cui poter trarre argomenti per ricostruire il quadro entro il quale far maturare la scelta di interpretazione della legge, che è dovere indeclinabile del giudice. Il rinvio pregiudiziale non può essere utilizzato per ottenere un avallo interpretativo della Corte di legittimità al fine di evitare una revisione della decisione in sede di impugnazione, così da inaridire il compito di interpretare la legge che è dovere indeclinabile del giudice. L’assoggettamento del rinvio pregiudiziale a determinate condizioni e, in particolare, a quella della grave difficoltà interpretativa della questione si giustifica proprio per evitare il rischio di appiattimento dell’esercizio ermeneutico da parte dei giudici remittenti e salvaguardare l’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile[16].
Neppure sussiste una complessità esegetica, idonea a giustificare il rinvio pregiudiziale, nell’ipotesi in cui sia necessario operare una scelta tra due soluzioni opposte e astrattamente configurabili, ma che non hanno generato un dibattito giurisprudenziale[17], poiché la grave difficoltà nell’interpretazione non può derivare dalla - e risiedere nella - mera possibilità di scelta tra due soluzioni contrapposte. Pertanto, non può il giudice rimettente limitarsi a prospettare una perplessità interpretativa che - sebbene non rinvenga precedenti di legittimità - non trova riscontro neppure in un contrasto generatosi nella giurisprudenza di merito o nell’esistenza effettiva di un dibattito dottrinale sul punto[18].
Ed è sicuramente esclusa l’ammissibilità del rinvio che sia vòlto ad ottenere un avallo interpretativo della Corte al fine di richiedere una rivalutazione di un orientamento accolto dal giudice di legittimità[19]. Con un’autentica statuizione ex professo sul punto, la Prima Presidenza ha costantemente ribadito che una tale declinazione dell’istituto di nuovo conio finirebbe con l’inaridire il compito di interpretare la legge che è dovere indeclinabile del giudice e con il limitare, ingiustificatamente, la formazione progressiva e dialettica del procedimento interpretativo mediante il contributo della giurisdizione nei suoi diversi gradi e della dottrina[20]. L’assoggettamento del rinvio pregiudiziale a determinate condizioni e, in particolare, a quella della grave difficoltà interpretativa della questione si giustifica proprio per evitare il rischio di appiattimento dell’esercizio ermeneutico da parte dei giudici remittenti e salvaguardare l’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile. Insomma, va evitato che il nuovo strumento di nomofilachia preventiva si risolva in un disimpegno del giudice del merito dal proprio dovere di decidere la causa e di conoscere e applicare la legge e il diritto[21].
Allo stesso modo, il rinvio pregiudiziale non può essere impiegato per sollecitare da parte della Corte di cassazione un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia[22]: in sostanza, per devolvere scientemente - e, in sostanza, appunto inammissibilmente delegare - alla Corte l’esercizio di una potestà già spettante istituzionalmente al giudice rimettente. Analogo discorso è a farsi per la questione di legittimità costituzionale.
A questo riguardo, tuttavia, si vedrà come, nell’esercizio della sua potestà di pronunciare sul rinvio, di certo non sia precluso alla Corte di cassazione di risolversi nell’uno o nell’altro senso: ma, appunto, tanto può discendere soltanto dalla valutazione della Corte stessa dei termini della questione e, ovviamente, dal suo apprezzamento dell’indispensabilità di una scelta di tale contenuto ai fini della pronuncia sul rinvio pregiudiziale[23].
Infine, la centralità del requisito è sottolineata da quei decreti di inammissibilità che esaltano l’impegno motivazionale richiesto a tal fine dal testo normativo per l’illustrazione delle diverse opzioni interpretative in gioco, quale test della serietà del dubbio ermeneutico, che deve assurgere a un livello di serietà idoneo a impedire un arretramento del potere-dovere decisorio del giudice[24].
8. … segue: la novità della questione
Il concetto di novità della questione e di carenza di una sua risoluzione, poi, ha avuto una sensibile elaborazione, che ha, tuttavia, visto consolidarsi alcuni punti fermi.
In primo luogo, il giudice di merito non può considerare la questione come nuova o non risolta per il solo fatto che manca un precedente esattamente in termini, e massimato, rispetto alla specifica ipotesi che fa sorgere il dubbio interpretativo. Non si dà, cioè, novità della questione quando il giudice del merito sia nella condizione di applicare il principio già affermato dalle Sezioni Unite, e rinvenibile nelle pieghe della motivazione, a situazioni di fatto che presentano caratteri riconducibili al medesimo principio[25].
In altri termini[26], la “novità” non può desumersi dalla mera mancanza di precedenti di rilievo nomofilattico riguardanti fattispecie identiche, consistendo l’impegno interpretativo, proprio nella capacità di conformare i principi già affermati a situazioni di fatto che presentano caratteri riconducibili a tali principi così da consentirne, mediante la mediazione ermeneutica, l’applicazione diretta, parziale o per contrasto.
Ora, ad integrare la non novità o la carenza di risoluzione della questione è sufficiente anche una latente divergenza tra le decisioni delle diverse sezioni della Suprema Corte, poiché si deve valorizzare il riferimento testuale della predetta norma codicistica rispetto a quello della legge delega, che, nei suoi principi e criteri direttivi, richiedeva che la questione non fosse stata ancora “affrontata” dalla Corte di legittimità[27].
Vi è solo da precisare che, se l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale è consentita in presenza di un contrasto - latente o meno - di carattere sincronico, rispetto al quale un’esigenza di chiarezza definitiva può porsi, diversamente è da reputarsi allorquando (come nella specie) una evoluzione diacronica degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità abbia superato una propria precedente ed isolata affermazione di diritto, anche a prescindere dall’intervento delle Sezioni Unite, che, comunque, nella materia in esame si sono pure certamente espresse[28].
E, ai fini dell’individuazione della novità o meno della questione, possono giovare pure le conclusioni della giurisprudenza di legittimità in punto di individuazione di quel peculiare “orientamento”, da preservarsi ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.: potendo a tal fine bastare anche un solo precedente, se univoco, chiaro e condivisibile[29].
Merita molta attenzione la configurazione del rinvio pregiudiziale interpretativo quale strumento per porre rimedio, nell’ambito di una questione in apparenza “risolta” (e, per di più, con l’intervento del Supremo Collegio nella sua massima espressione nomofilattica), ai disallineamenti che si siano verificati nella giurisprudenza a sezioni semplici in uno o più profili applicativi: è, appunto, il caso preso di recente a presupposto per l’ammissione del rinvio[30], con l’icastica precisazione della ratio (e, verrebbe da dire, della stessa funzione) del procedimento incidentale in esame, intesa nella predisposizione di un efficace strumento di prevedibilità dell'interpretazione delle norme e di prevenibilità dei conflitti, così da invocare l’intervento nomofilattico in funzione dell’uniforme interpretazione delle norme, anche ove non possa affermarsi che la giurisprudenza non abbia già intercettato la questione. A stretto rigore, del resto, non può definirsi “risolta” una questione che, benché affrontata dalle Sezioni Unite, continui a dar luogo ad applicazioni diversificate - quando non dissonanti - dei principi da quelle affermati. Starà, ora, alla giurisprudenza presidenziale in sede di delibazione dell’ammissibilità e, se del caso, a quella delle sezioni investite dei rinvii così ammessi, verificare sulla portata e sull’ampiezza del riconoscimento di un tale ruolo, idoneo a comporre perfino i contrasti interni alla giurisprudenza di legittimità.
Infine, trattandosi di un requisito del rinvio pregiudiziale interpretativo, la non novità deve persistere al momento della sua disamina, vuoi da parte della Prima Presidenza[31], vuoi da parte del Collegio che ne sia comunque investito[32]: e sia nel caso in cui nel frattempo la questione stessa è stata “risolta” dalla Corte di cassazione (in tali casi equivalendo la pronuncia di inammissibilità, benché sopravvenuta, ad una restituzione degli atti al giudice a quo: il quale, beninteso, potrà riproporre la questione, ove, fattosi carico di riesaminarla alla stregua delle sopravvenienze, la ritenga ancora dotata dei requisiti per sollecitarvi il rinvio pregiudiziale interpretativo), sia in quello in cui sia sopravvenuta una modifica normativa[33].
9. … segue: la numerosità della questione
Per quanto riguarda il requisito relativo alla possibilità che la questione possa porsi in numerosi giudizi, da un lato, è stato affermato che detto elemento non può realizzarsi con riguardo all’interpretazione di una disciplina emergenziale stante la sua limitata applicazione temporale[34] e, dall’altro lato, che tale profilo si deve reputare carente anche nell’ipotesi di una questione emersa nella giurisprudenza territoriale solo in quattro occasioni nel corso degli ultimi sedici anni e che, al pari, non sono numerose le controversie pendenti[35].
Ora, il requisito della suscettibilità “di porsi in numerosi giudizi” è stato descritto in termini di “numerosità” o di “serialità”: ma deve convenirsi con chi ritiene più aderente alla ratio dell’istituto la prima di tali espressioni, nel senso di rappresentare una questione suscettibile di ripetersi in una svariata quantità di casi; invece, poiché la “serialità” è oggi generalmente intesa come riferita alle cause massive, intorno a cui sono costruite le azioni collettive, l’effetto sarebbe quello di un’interpretazione ingiustificatamente restrittiva dell’ambito di applicazione del rinvio pregiudiziale interpretativo[36].
Si tratta, tuttavia, di una valutazione eminentemente discrezionale e, al contempo, affidata pure a nozioni di comune esperienza, perfino generalizzabile per intere categorie di contenzioso[37]: per cui, al di fuori di questa, diviene necessario almeno menzionare la pendenza di ulteriori contenziosi aventi ad oggetto la medesima questione, se non pure menzionare precedenti di merito, o comunque altri elementi in base ai quali suppore l’esistenza di un interesse generale allo svolgimento in anticipo, da parte della Corte di cassazione, del compito di indirizzo della giurisprudenza[38].
È, in definitiva, questo l’elemento in cui maggiormente si estrinseca la discrezionalità della Corte, nella valutazione - cioè - dell’effettiva rilevanza nomofilattica o meno della questione. Sulla serialità, quindi, la Corte può sostanzialmente decidere se decidere.
10. Il dialogo tra le Corti in seno al rinvio pregiudiziale interpretativo
Al fine della pronuncia del principio di diritto, poi, la Corte di cassazione potrebbe imbattersi in una o più questioni a loro volta pregiudiziali, in quanto in grado di condizionare il responso che a quella viene sollecitato dal giudice rimettente e che sia reputato, anche dal Collegio decidente, idoneo a risolvere una questione non ancora risolta, di mero diritto, connotata da gravi difficoltà ermeneutiche e, infine, (potenzialmente o effettivamente) seriale.
Tanto implica che, ove la Corte, affrontando tale questione, per risolverla ritenga di non avere alternativa all’applicazione di norme di cui però ipotizzi la non conformità alla Carta fondamentale o al diritto eurounitario, sarà necessario attivare l’incidente istituzionalmente previsto in ordine alla relativa questione: o sollevando, appunto, la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale, oppure disponendo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
La Corte di cassazione si è interrogata espressamente sull’ammissibilità dell’incidente di costituzionalità nel corso del procedimento sul rinvio pregiudiziale interpretativo, per risolverla in senso affermativo[39]. A tal fine, si è reputata estensibile l’ampia argomentazione sviluppata dalla Corte costituzionale per giungere ad analoga conclusione di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità in sede di pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c.[40]: «così com’è indubitabile che la Corte di cassazione sia organicamente inserita nell’ordine giudiziario, altrettanto indubitabile è l’inerenza alla funzione giurisdizionale dell’enunciazione del principio di diritto da parte del giudice di legittimità, quale massima espressione della funzione nomofilattica che la stessa Corte di cassazione è istituzionalmente chiamata a svolgere. Va del resto esclusa la necessità che il procedimento a quo si concluda con una decisione che abbia tutti gli effetti usualmente ricondotti agli atti giurisdizionali. La funzione nomofilattica svolta dalla Corte di cassazione con l’enunciazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, c.p.c., costituisce, infatti, espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo, in quanto volta a realizzare l’interesse generale dell’ordinamento all’affermazione del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto. L’accesso al sindacato di costituzionalità attraverso il giudizio di cui all’art. 363, terzo comma, c.p.c., se non determina quindi alcun superamento del carattere pregiudiziale della questione, neppure modifica il modello incidentale del controllo di legittimità. L’incidentalità, infatti, discende dal compito della Corte di cassazione di enunciare il principio di diritto sulla base della norma che potrà risultare dalla pronuncia di illegittimità costituzionale e che sarà, in ogni caso, “altro” rispetto ad essa. È in tal modo che si realizza l’interesse generale dell’ordinamento alla legalità costituzionale attraverso l’incontro ed il dialogo di due giurisdizioni che concorrono sempre - e ancor più in questo caso - alla definizione del diritto oggettivo. Ed è un dialogo che si rivela particolarmente proficuo, specie laddove sia in gioco l’estensione della tutela di un diritto fondamentale.». Ed è parso agevole concludere per l’estensione di tale conclusione, visto che il procedimento ex art. 363-bis c.p.c. «esalta il ruolo nomofilattico che è proprio della Corte di cassazione» almeno nella stessa misura dell’enunciazione del principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c.
L’indubbia protrazione dei tempi di definizione del rinvio pregiudiziale interpretativo è, tuttavia, una conseguenza necessitata del riconoscimento della pregnanza della questione, evidentemente esaminata fino a giungere all’unica conclusione possibile (in ossequio al principio di doveroso tentativo di previa interpretazione conforme, sia alla Costituzione che al diritto eurounitario): ciò che avrà, per contropartita, l’indubbio vantaggio di una decisione suscettibile perfino dell’efficacia erga omnes - che travalica, quindi, di gran lunga l’ambito di quella del principio di diritto, benché pronunciato ex professo - propria delle pronunce della Corte di Lussemburgo o, se di accoglimento, della Corte costituzionale, ad evidente vantaggio dell’ordinamento nel suo complesso e, quindi, in piena estrinsecazione della funzione nomofilattica.
11. Epilogo
Il quadro che se ne ritrae è, al momento, quello di un accorto impiego di uno strumento processuale che si rivela, complessivamente e con cautela, all’altezza del compito titanico di contribuire effettivamente a deflazionare il contenzioso esistente. Ne risulta smentito, almeno ad oggi, ogni timore di deriva autoritaria della Corte di cassazione o anche solo di aggravamento del suo carico.
Si tratta, invece, di uno strumento che si inserisce in un dialogo nuovo tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità, una inedita cooperazione reciprocamente propulsiva o perfino proattiva e, comunque, virtuosa: con esso, per la prima volta, il giudice del merito è chiamato a concorrere, ma con consapevolezza e senza remissività, con quello di legittimità ad individuare gli interventi di nomofilachia.
Può definirsi un intervento che si inserisce in un costante - e ormai ventennale - processo di riscoperta della nomofilachia e, con essa, della forza del precedente, in un evidente sforzo di ammodernamento ed efficientamento della risposta alla sempre crescente domanda di giustizia: del resto, l’esigenza della prevedibilità della giurisprudenza (quale elemento di un più complessivo quadro di prevedibilità del diritto, prima di ogni altra cosa a garanzia della parità di trattamento e a protezione dall’arbitrio di ogni genere) sta reclamando sempre più attenzione.
Una maggiore o anche solo adeguata prevedibilità della risposta di giustizia potrebbe consentire di respingere le tentazioni di uniformazione intollerabili e pericolose, soprattutto in tempi in cui strumenti tecnologici prima impensabili possono offrire potenzialità inesplorate e facili scappatoie di abdicazione e rinuncia all’insopprimibile umanità delle attività di decisione e risoluzione delle controversie.
Occorre, quindi, una giurisprudenza in grado di autorganizzarsi in modo razionale, riconosciuto un ruolo propulsivo alla nomofilachia intesa in senso laico e plurale, ma pur sempre effettivo; in grado, allora, di offrire ai Cittadini una risposta, adeguata ai tempi odierni, a quella loro sempre crescente domanda di giustizia: in definitiva, una risposta di giustizia che sia tempestiva, prevedibile, consapevole e - al contempo - flessibile e sensibile alle esigenze freneticamente dinamiche di una moderna società democratica.
[1] La letteratura è già molto ampia e si rinuncia a fornire indicazioni bibliografiche approfondite.
Nell’immediatezza dell’entrata in vigore del d.lgs. 149/22 si possono segnalare, tra i molti (e in ordine alfabetico): M. Acierno- R. Sanlorenzo, La Cassazione tra realtà e desiderio. Riforma processuale e ufficio del processo: cambia il volto della Cassazione?, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 96; A. Briguglio, Esperienze applicative del rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363 bis c.p.c., in Il processo, 2023, pp. 483 ss. e 965 ss.; B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, www.giustiziainsieme.it, 2021; F. De Stefano, Le modifiche al giudizio di legittimità, in Commentario sistematico al nuovo processo civile, a cura di R. Masoni, Milano, 2023, pp. 268 ss.; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in www.giustiziainsieme.it, 2021; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, ibidem; E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 105.
[2] Secondo i dati statistici cortesemente forniti nell’ambito della su richiamata cooperazione istituzionale:
1. Rg. 6534/23 (Corte d’appello Napoli) - Seconda Sezione civile - Cass. n. 21876/23
2. Rg. 6803/23 (Corte d’appello Napoli) - Seconda Sezione civile - Cass. n. 21874/23
3. Rg. 7201/23 (CGT I grado Agrigento) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 34851/23
4. Rg. 10072/23 (Tribunale Taranto) - Sezione Lavoro - Cass. n. 29961/23
5. Rg. 11906/23 (Tribunale Treviso) - Prima Sezione civile - Cass. n. 28727/23
6. Rg. 12668/23 (Tribunale Roma) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 3452/24
7. Rg. 13777/23 (Tribunale Bologna) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 11399/24
8. Rg. 15340/23 (Tribunale Salerno) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 15130/24
9. Rg. 16260/23 (Tribunale Milano) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 12449/24
10. Rg. 16885/23 (Tribunale Parma) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 12974/24
11. Rg. 16910/23 (CGT I grado Piacenza) - Sezione Tributaria - Cass. n. 21883/24
12. Rg. 16915/23 (CGT I grado Piacenza) - Sezione Tributaria - Cass. n. 21883/24
13. Rg. 19606/23 (Tribunale Brescia) - Prima Sezione civile - Cass. n. 22914/24
14. Rg. 19676/23 (Tribunale minorenni Lecce) - Prima Sezione civile - Cass. n. 11688/24
15. Rg. 1200/24 (Tribunale Napoli) - Terza Sezione civile - Cass. n. 29253/24
16. Rg. 1648/24 (Tribunale Bologna) - Prima Sezione civile - Cass. n. 18773/24
17. Rg. 2098/24 (Tribunale L’Aquila) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 23093/25
18. Rg. 11382/24 (Tribunale Venezia) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 23093/25
19. Rg. 14335/24 (CGT I grado Napoli) - Sezione Tributaria - Cass. n. 7495/25
20. Rg. 14533/24 (Tribunale Roma) - Prima Sezione civile - Cass. n. 33398/24
21. Rg. 15074/24 (CGT II grado del Piemonte) - Sezione Tributaria - Cass. n. 7965/25
22. Rg. 16029/24 (Corte d’appello Firenze) - Prima Sezione civile - Cass. n. 12838/25
23. Rg. 17439/24 (Tribunale Siracusa) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 5968/25
24. Rg. 24726/24 (Tribunale Milano) - Terza Sezione civile - Cass. n. 28513/25
25. Rg. 4546/25 (Tribunale Lecce) - Sezione Lavoro - Cass., ord. interl., n. 24662/25
26. Rg. 4771/25 (Tar Genova) - Sezioni Unite civili - udienza 25/11/25
27. Rg. 4764/25 (Tar Genova) - Sezioni Unite civili - udienza 25/11/25
28. Rg. 7497/25 (Tribunale Pavia) - Terza Sezione civile - Cass., ord. interl., n. 27111/25
29. Rg. 7546/25 (CGT I grado Vicenza) - Sezioni Unite civili - udienza 16/12/25
30. Rg. 10524/25 (Tribunale Venezia) - Sezioni Unite civili
31. Rg. 13309/25 (Tribunale Venezia) - Prima Sezione civile - Cass. n. 29593/25
32. Rg. 15611/25 (Tribunale Milano) - Terza Sezione civile - udienza 16/01/26
33. Rg. 16647/25 (Tribunale Siracusa) - Sezioni Unite civili
[3] Così, testualmente, E. D’Alessandro, Il rinvio pregiudiziale in Cassazione, in Il processo, 1, 2023, p. 51.
[4] Cass., Sez. U., 29/05/2024, n. 15130.
[5] Espressamente in tali sensi Cass., Sez. U., 6/03/2025, n. 5968, la quale statuisce che “non rileva che le parti non siano state previamente sentite sulla specifica eventualità di procedere ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. e - tra l’altro - sui requisiti di ammissibilità del relativo procedimento, poiché nessuna irreversibile lesione dei diritti di difesa delle parti è stata, quanto meno nel caso di specie, nemmeno prospettata quale conseguenza della mancata previa instaurazione del contraddittorio sulla specifica questione della sussistenza dei presupposti del rinvio pregiudiziale.”.
[6] Così, fin da Cass. (decr.), 10/05/2023, n. 12522, è stata esclusa la rilevanza quando manchi totalmente la sintetica illustrazione dei fatti di causa e della conseguente incidenza della questione pregiudiziale sulla decisione.
[7] Cass. (decr.), 3/04/2025, n. 8794. Ancora, è stata esclusa la rilevanza della questione dinanzi ad una mera deduzione teorica circa la necessità di stabilire se il giudice rimettente abbia o meno la competenza funzionale a decidere sulla domanda subordinata: Cass. (decr.), 10/07/2025, n. 18925.
[8] Tanto è stato escluso da Cass. (decr.), 25/09/2024, n. 25645, che, con un penetrante controllo dello stato della causa, ha concluso nel senso che il rinvio pregiudiziale è stato disposto prematuramente, poiché il suo esito non avrebbe incidenza alcuna sui già definiti termini in cui, al momento, la causa dovrebbe essere decisa.
[9] Cass. (decr.), 9/04/2025, n. 9301: si è reputato applicabile il medesimo principio elaborato in sede di giurisprudenza costituzionale, la quale, sin dalla sentenza n. 170 del 1986, ha avuto occasione di precisare che la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione ad una domanda proposta nel giudizio a quo in via subordinata è da ritenere motivata sulla rilevanza, allorché il giudice rimettente abbia preso in considerazione le altre istanze, formulate in via principale, rilevando espressamente, nell’ordinanza di rimessione, che esse non potevano trovare accoglimento.
[10] Tra le altre, merita segnalazione Cass., Sez. U., 30/09/2009, n. 20935; tra le più recenti applicazioni si veda Cass. 9/01/2024, n. 822. Le questioni miste, in linea di grande approssimazione, possono definirsi quelle che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese.
L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese. (In applicazione del principio, la S.C. ha negato la nullità della sentenza impugnata che, rilevando d’ufficio il caso fortuito, non aveva concesso termine a difesa ex art. 101 c.p.c., posto che non si trattava di una nuova questione di fatto, ma di una diversa ricostruzione della vicenda con parziale riqualificazione dei medesimi fatti).
[11] Cass. (decr.), 20/11/2023, n. 32059.
[12] Cass. (decr.), 10/05/2023, n. 12522.
[13] Cass. (decr.), 19/10/2023, n. 29032.
[14] Cass. (decr.), 23/01/2025, n. 1687; Cass. (decr.), 3/03/2025, n. 5558.
[15] Cass. (decr.), 11/04/2024, n. 9808, che richiama: Cass. (decr.) 3/11/2023, n. 30657; Cass. (decr.), 14 /02/2024, n. 4071.
[16] Così, testualmente, ancora di recente Cass. (decr.), 7/11/2025, n. 29469.
[17] Cass. (decr.), 7/10/2024, n. 26140; Cass. (decr.), 25/09/2024, n. 15724; Cass. (decr.), 3/11/2023, n. 18326.
[18] Cass. (decr.), 8/09/2025, n. 24757.
[19] Cass. (decr.), 17/05/2024, n. 8999. La dottrina è prevalentemente in tal senso: per tutti, E. D’Alessandro, Il rinvio pregiudiziale in Cassazione, in Il processo, 1, 2023, p. 61.
[20] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14121; Cass. (decr.), n. 24757/25, cit..
[21] Cass. (decr.), 17/07/2025, n. 19883.
[22] Cass. (decr.), 24/10/2024, n. 18015. Sul punto, v. già A. Panzarola, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, in Il rinvio pregiudiziale e le impugnazioni, a cura di M. Di Marzio, R. Giordano, A. Panzarola e R. Succio, Milano, 2024, p. 204 ss.
[23] Cass. (ord.), 9/10/2025, n. 27111.
[24] Cass. (decr.) 15/04/2024, n. 10141; Cass. (decr.), 14 /02/2014.
[25] Con richiamo a precedenti pronunce, v. Cass. (decr.) 10/07/2025, n. 18939.
[26] Cass. (decr.), 10/07/2025, n. 18925, con richiamo a Cass. (decr.), 9/04/2025, n. 9308. In altri termini, una questione non presenta il requisito della grave difficoltà interpretativa, richiesta per l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, ove nella giurisprudenza della Corte di cassazione si rinvenga l’enunciazione dei principi suscettibili di orientare la risoluzione del dubbio posto dal rimettente: Cass. (decr.), 17/05/2024, n. 13749. Il principio è stato generalizzato pure nei rapporti tra sezioni unite e semplici in tema di giurisdizione: queste ultime possono conoscere della questione di giurisdizione oggetto del ricorso, non essendo necessaria la sua devoluzione alle Sezioni Unite, quando queste ultime si siano già espresse sulla medesima questione, ancorché non sullo specifico caso, affermando sul punto chiari e precisi principi informatori, suscettibili di rappresentare una guida orientativa per le sezioni semplici; così Cass. (ord.), 17/03/2025, n. 7152.
[27] Di contrasto “latente”, idoneo a giustificare l’ammissibilità del rinvio, parla espressamente Cass. Sez. U., 7/05/2024, n. 12449; il principio è richiamato nel provvedimento della P.P. 8-10/10/2024, in ricorso iscritto al n.r.g. 17439/24, poi deciso da Cass. Sez. U., 6/03/2025, n. 5968, la quale ha avallato, di fatto, tale impostazione. Tale pronuncia ha, comunque, rivendicato al Collegio l’ultima parola anche sul punto, cioè in ordine alla determinazione se dare ulteriore al procedimento di rinvio pregiudiziale, o, in alternativa, a devolvere la questione all’ordinario sviluppo dell’ordinaria dialettica della giurisprudenza della stessa Corte (nella specie, essendosi - singolarmente - ravvisato il contrasto latente in una sola pronuncia di pochi mesi prima - Cass. 3/05/2024, n. 12007 - con un orientamento riscontrato come assolutamente prevalente).
[28] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14120. Sulla distinzione tra i due tipi di contrasto, v., da ultimo, Cass. (ord.), 22/05/2025, n. 13759.
[29] Cass. (ord.), 22/02/2018, n. 4366.
[30] Cass. (decr.), 12/11/2025, su ricorso n. 15611/2025 r.g., sul tema delle applicazioni del noto arresto di Cass., Sez. U., 30/12/2021, n. 41994, in tema di nullità delle fideiussioni conformi ai testi reputati illegittimi dalla Banca d’Italia.
[31] Cass. (decr.), 23/01/2025, n. 1630; Cass. (decr.), 13/12/2024, n. 32261.
[32] Cass. 20/03/2025, n. 7495.
[33] È questo il caso deciso dalla appena richiamata Cass. n. 7495/25. Per la verità, a maggior ragione in presenza di una novità normativa la Cassazione non potrebbe essersi già pronunciata, tanto da “risolvere” la questione e degradarla a insuscettibile, per questo solo aspetto, del rinvio pregiudiziale interpretativo: dovendo, verosimilmente, il Collegio così investito rinnovare la valutazione, già operata con la delibazione del Primo Presidente, della sussistenza di tutti i presupposti del rinvio stesso.
[34] Cass. (decr.), 14/02/2024, n. 4121.
[35] Cass. (decr.), 15/03/2024, n. 7106.
[36] Così R. Tiscini, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione dell’art. 363-bis c.p.c. La disciplina. La casistica, in Giust. civ., 2, pp. 343 ss., specialmente § 7.
[37] È il caso della materia tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti (Cass., Sez. U., 13/12/2023, n. 34851; Cass. 25/03/2025, n. 7965).
[38] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14121.
[39] Cass. (ord.), 9/10/2025, n. 27111.
[40] Corte cost. 25/06/2015, n. 119.
1. In data 27 novembre 2025 è stata depositata la deliberazione n. SCCLEG/19/2025/PREV, con cui la Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato ha dichiarato non conforme a legge la delibera n. 41/2025 del CIPESS, adottata il 6 agosto 2025, avente ad oggetto “Collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria: assegnazione risorse FSC ai sensi dell’articolo 1, comma 273-bis, della legge n. 213 del 2023 e approvazione, ai sensi dell’articolo 3, commi 7 e 8, del decreto legge n. 35 del 2023, del progetto definitivo e degli atti di cui al decreto-legge n. 35 del 2023”.
2. La decisione dei magistrati contabili poggia su di un articolata esposizione di argomenti, in fatto e in diritto, preceduti, questi ultimi, dall’indicazione delle coordinate entro le quali ascrivere il controllo preventivo di legittimità, assegnato dall’art.100 della Costituzione alla Corte dei conti, quale organo magistratuale terzo e indipendente, a tutela dell’interesse generale alla legittimità dell’attività pubblica.
3. Si vuole quindi riassumere brevemente i contenuti di tale deliberazione, che pure si caratterizza per chiarezza, concisione e facilità di lettura, richiamando, prima di tutto, le premesse in fatto, dove si sintetizzano i passaggi in cui si è articolata l’ampia e complessa vicenda a monte, sviluppatasi nell’arco di quasi 57 anni, e quelli che hanno scandito l’istruttoria condotta dall’Ufficio di controllo, improntata ad estrema celerità per venire incontro alle esigenze rappresentate dalla stessa amministrazione.
4. Nella parte in diritto, il Collegio, preliminarmente, ha inquadrato il contesto entro il quale era chiamato a pronunciarsi, evidenziando che la funzione intestatagli, qualora abbia ad oggetto, come nel caso di specie, provvedimenti relativi a investimenti pubblici infrastrutturali, viene esercitata anche al fine di intervenire preventivamente su aspetti procedurali suscettibili di incidere negativamente sulla realizzazione dell’opera, una volta avviata.
5. La delibera, poi, ha affrontato analiticamente le illegittimità inficianti il provvedimento esaminato, anticipando che, data l’importanza strategica dell’opera e le risorse pubbliche alla stessa destinate, si era tenuto conto essenzialmente delle violazioni della normativa eurounitaria e di altri aspetti maggiormente significativi.
5.1. La Sezione, in primo luogo, si è soffermata sulla violazione della direttiva 92/43/CE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (c.d. direttiva “Habitat”), riferendo sui profili di difformità emersi in esito alla valutazione incidentale della deliberazione del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2025, di approvazione della c.d. “relazione IROPI”, non direttamente sottoposta al controllo ma rilevante quale atto endoprocedimentale inserito nella sequenza rivolta all’approvazione del progetto definitivo (l’adozione della delibera aveva consentito di superare la valutazione di incidenza negativa resa dalla competente Commissione tecnica di impatto ambientale con il parere n. 19/2024, proseguendo l’iter volto all’approvazione del progetto definitivo senza dover acquisire il previo parere della Commissione europea, sostituito da una mera informativa). Al fine di dar conto delle ragioni esposte dalle amministrazioni, si è chiarito che l’asserito carattere “politico” dell’atto non lo schermava dal sindacato (incidentale) della sua legittimità, trattandosi di una valutazione di incidenza ambientale espressione di esercizio di discrezionalità tecnica oltre che amministrativa: anzi, proprio la commistione fra la scelta politica - che, per essere consapevole, doveva seguire ad un provvedimento avente ad oggetto il contemperamento fra gli interessi coinvolti e l’applicazione di regole tecniche – e la decisione amministrativa, attestava un esercizio irregolare e non ordinato delle competenze proprie degli organi coinvolti. La Corte, quindi, ha esaminato gli aspetti tecnici e amministrativi della delibera, raffrontandoli con i parametri di riferimento, rinvenuti, in assenza di una normativa disciplina interna, nelle linee guida nazionali per la VlncA, predisposte nell’ambito dell’attuazione della Strategia nazionale per la biodiversità 2011-2020, finalizzate a rendere omogenea, a livello nazionale, l'attuazione dell'art. 6, paragrafi 2, 3 e 4, della c.d. “direttiva Habitat”, che individuano quali aspetti essenziali delle valutazioni rimesse alle amministrazioni l’aver accertato, da un lato, l’assenza di soluzioni alternative a progetti che incidono su zone speciali di conservazione e, dall’altro, la sussistenza di motivi imperativi di rilevante interesse pubblico. Nel caso di specie, entrambi gli aspetti sono stati risultatati connotati da significative criticità, tanto più in considerazione delle peculiarità ambientali del sito eventualmente inciso dall’opera ascrivibile alla Rete Natura 2000, trasmodanti in profili di illegittimità dell’atto assoggettato a controllo.
5.2. Il profilo della ricerca di eventuali soluzioni alternative è stato scrutinato in base a precisi criteri sostanziali, incentrati sulla tutela dell’ambiente, in base ai quali andavano individuate tutte le varie alternative, confrontate alla luce dei loro effetti sull’habitat e sulle specie presenti in misura significativa nel sito e sui relativi obiettivi di conservazione nonché sull'integrità del sito stesso, con puntuale descrizione e quantificazione delle rispettive incidenze. Ciò posto, l’esame degli atti che avrebbero dovuto dimostrare che l’amministrazione si era fatta carico di una siffatta complessa analisi ha evidenziato, invece, che i predetti criteri non erano stati soddisfatti. In particolare, il parere CTVA n. 19/2024 si era limitato a riportare la descrizione delle alternative ragionevoli prevista nell’ambito dello studio di fattibilità che il proponente doveva presentare unitamente all’istanza di VIA (così come inserita nei formulari predisposti dalla SdM ai sensi dell’art. 23 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) e la “relazione IROPI”, assiomaticamente, aveva definito il Ponte l’unico mezzo a disposizione per “soddisfare le necessità minimizzando gli impatti ambientali”. In sostanza, la mancata dimostrazione dell’effettivo esame di tutte le scelte alternative alla costruzione del ponte ha comportato l’impossibilità di affermare l’insussistenza di una soluzione alternativa, come preteso dal diritto unionale.
5.3. Sul versante del riscontro delle ragioni di interesse pubblico sono emerse carenze non dissimili. La delibera del Consiglio dei ministri la cui adozione aveva consentito di prescindere dall’acquisizione del formale parere della Commissione europea, sostituendola con una mera informativa, infatti, è apparsa priva di riferimenti ad un’adeguata istruttoria, che avrebbe dovuto essere svolta dalle strutture tecnico-amministrative dei ministeri competenti, non risultando supportata dalle valutazioni di organi tecnici e da una congrua documentazione giustificativa del ricorso alla procedura in deroga. Le obiezioni della Sezione, peraltro, risultano suffragate dalla corrispondenza intercorsa fra l’amministrazione statale e la Commissione europea, la cui trasmissione, pur sollecitata nel corso dell’istruttoria, ha coinciso con l’adunanza esitata con il provvedimento in commento.
5.4. Il contrasto fra il diritto eurounitario e l’atto scrutinato riguarda un ulteriore aspetto, determinante una seconda illegittimità, anch’essa già di per sé sufficiente a condurre alla ricusazione del visto. La Sezione, infatti, ha riscontrato la violazione dell’art. 72 della direttiva n. 2014/24/UE (c.d. “direttiva Appalti”), che subordina la possibilità di modificare un contratto senza necessità di nuova procedura concorrenziale alla presenza di precisi requisiti oltre che all’osservanza del limite del 50% dell’eventuale aumento del prezzo rispetto al valore inizialmente fissato. Le condizioni richieste dalla direttiva (applicabile al caso di specie sia in quanto espressione di principi di portata generale, già previsti nella direttiva 2004/18/CEE sotto la cui vigenza è stata indetta la gara iniziale, sia avuto riguardo all’epoca della stipula dell’atto aggiuntivo sottoscritto ai sensi dell’art. 4 del D.L. n. 35/2023) non sono state riscontrate dal Collegio, che, a seguito di un esame approfondito degli atti e delle spiegazioni offerte dalle amministrazioni, invece, ha ritenuto che fossero integrati i presupposti di cui al combinato disposto del paragrafo 1, lett. e) e del paragrafo 4 dell’art. 72, dai quali discende la necessità di un nuovo confronto concorrenziale. Ciò in quanto l’originario programma contrattuale aveva subito modificazioni integranti un mutamento dell’operazione economica favorevole ai soggetti aggiudicatari, conseguendone che le mutate condizioni avrebbero attratto ulteriori soggetti interessati a partecipare ad una procedura di gara proposta nei più vantaggiosi termini attuali. Tale conclusione poggia su plurimi elementi: si è passati dal ricorso alla finanza di progetto, con risorse da reperire sui mercati internazionali (tentativo, peraltro, naufragato nel 2012) al finanziamento pubblico integrale dell’opera; sono stati innovati anche i criteri di aggiornamento del corrispettivo; la quota di prefinanziamento è stata interessata da oscillazioni di significativa entità, che si riferiscono pedissequamente per meglio rendere il senso del ragionamento della Sezione: “il bando di gara prevedeva il prefinanziamento, a carico del Contraente generale, per una quota pari almeno al 10%, e non superiore al 20%, assegnando a detto requisito un punteggio pari a 5 punti; il Contraente generale si è aggiudicato il contratto proponendo per tale requisito il 15%. L’accordo integrativo del 2009 lo ha ridotto al 10% e ha assegnato a SdM la possibilità di ridurre ulteriormente la quota fino al limite del 5%.” Quanto al rispetto del vincolo del 50%, sembra oltremodo significativo richiamare le ragioni che hanno impedito ai magistrati contabili di verificarne l’osservanza: il calcolo della percentuale andava rapportato ad un valore complessivo non determinabile in ragione dell’incerta definizione dei costi dell’opera, in parte meramente stimati e della mancata contrattualizzazione di altre voci ricomprese nel quadro economico dell’opera (si fa riferimento, a titolo esemplificativo, ai “costi dei lavori indicati nella relazione del progettista per 787 milioni di euro”). Per finire: la corrispondenza fra l’amministrazione e la Direzione generale della Commissione europea in merito alla criticità in oggetto, pur se richiesta in via istruttoria, non è stata resa disponibile dall’amministrazione neppure in occasione dell’adunanza in quanto di carattere informale ed in ossequio a regole di “cortesia istituzionale.”
5.5. Da ultimo, è stata accertata la violazione degli artt. 43 e 37 del D.L. n. 201/2011, derivante dall’esclusione dell’Autorità di regolazione dei Trasporti (ART) dalla procedura di approvazione del Piano Economico Finanziario, con specifico riguardo al relativo sistema tariffario, ritenuta contrastante con l’ampia attribuzione di competenze ad opera del richiamato art. 37, confermata dalla interpretazione offertane dalla giurisprudenza amministrativa, coerente con i principi desumibili dalla direttiva (UE) 2022/362.
6. Le ragioni della ricusazione, a questo punto, risultano ampiamente delineate. Tuttavia, la Corte - dopo aver motivato diffusamente la ricorrenza del triplice ordine di illegittimità sopra illustrato, inerente, fra l’altro, al contrasto dell’atto con normativa unionale relativa al rispetto degli habitat naturali e ai principi di trasparenza e di tutela della concorrenza - ha elencato una serie di altre criticità, oggetto di una più sintetica valutazione, dato il carattere assorbente delle precedenti considerazioni.
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Intervistatore: “Ministro, il Procuratore Generale di Napoli ha detto che la riforma della Giustizia così come è composta attua il piano della P2. Come risponde?” Nordio: “Beh, che io non conosco il piano della P2. Mah, posso dire che se l’opinione del signor Licio Gelli era un’opinione giusta non si vede perché non bisogna seguire perché l’ha detto lui. Le verità non dipendono da chi le proclama ma dalla oggettività che rappresentano. Se Gelli ha detto che Gesù è morto in croce non per questo dobbiamo dire che è morto di polmonite. E anche l’orologio sbagliato segna due volte al giorno l’ora giusta. Se anche Gelli è inciampato nella verità, non per questo la verità non è più la verità.”
È uno scambio tra un cronista e il Ministro della Giustizia di pochi giorni fa, che ha destato parecchio scalpore.
Giustamente.
Prima di questa brevissima intervista c’era chi si preoccupava della sinistra coincidenza tra la riforma della giustizia e il famigerato piano di rinascita democratica della Loggia P2.
Sembrava brutto che il Governo stesse facendo un enorme sforzo per cambiare la Costituzione proprio nella direzione auspicata tanti anni fa da quello che è stato definito per decenni come un piano di eversione costituzionale.
Volto al rovesciamento della democrazia italiana.
Ogni volta che i sostenitori del NO alla riforma della Giustizia facevano notare che la separazione delle carriere era uno dei punti cardine del programma di Licio Gelli e della P2 per asservire la magistratura al nuovo assetto golpista, i sostenitori del SÌ sembravano imbarazzati e al più tacevano aspettando che i cinque minuti medi di attenzione dei lettori passassero e si posassero su qualcosa di altro, magari un provvedimento discutibile del Giudice monocratico di Patti o GIP di Sant’Angelo dei Lombardi (tutto va bene quando si tratta di attaccare “la casta”).
Ma ora l’impasse è stata superata. È bastato fare la domanda diretta al Ministro della Giustizia per avere la risposta: tecnica e definitiva.
Ecco le indicazioni provenienti dal Guardasigilli.
Primo punto: “Io non conosco il piano della P2”. Questo spazza via ogni dubbio sul fatto che la riforma sia stata copiata: chi lo conosce a questo signor Licio Gelli? È evidente che la riforma Nordio non può avere preso spunto da qualcuno che nemmeno si sa chi sia. Semmai si dovrebbe chiedere al signor Gelli se per caso non ha copiato dal Ministro, assai più noto di lui per la carica istituzionale rivestita.
Magari si potrebbe scoprire che questo Gelli, avendo saputo da qualche anticipazione o fuga di notizie che la riforma conteneva un’idea tanto importante e giusta, abbia deciso di fare il figo intestandosela e giocando di anticipo.
E questo già dovrebbe essere sufficiente per mettere a tacere lamentosi e sospettosi.
Ma vi è un altro, decisivo argomento: se il signor Licio Gelli ha detto una cosa giusta, perché il Governo non dovrebbe seguirla?
In questo modo il ragionamento di chi si oppone alla riforma è ribaltato e annientato.
Il sillogismo dei sostenitori del no è il seguente:
Premessa maggiore: Gelli ha elaborato il piano di rinascita democratica per sovvertire lo Stato;
premessa minore: nel piano di rinascita democratica è previsto l’asservimento della magistratura al Governo, attraverso (tra l’altro) la separazione delle carriere;
conclusione: la separazione delle carriere è strumento di asservimento della magistratura al Governo.
Ma basta cambiare le premesse e il sillogismo si ribalta.
Ecco il nuovo sillogismo.
Premessa maggiore: separare le carriere è giusto;
premessa minore: Licio Gelli voleva separare le carriere;
conclusione: Licio Gelli dice (anche) cose giuste.
Facile e cristallino.
La logica utilizzata dal Ministro apre nuove prospettive e si presta ad applicazioni illimitate da parte di fantasiosi interpreti della storia e delle leggi.
Vi stanno antipatici i rom?
Ecco qua:
Premessa maggiore: i rom devono essere perseguitati;
premessa minore: Hitler ha perseguitato i rom;
conclusione: il signor Hitler ha detto (anche) cose giuste.
Che poi, non dimentichiamolo, il signor Hitler era un amante dell’arte.
Così dicono.
Perché io non lo conosco questo signor Hitler.
«Certo, certissimo, anzi probabile». È labile il confine tra verità, probabilità e falsità. E la persistente efficacia del sarcasmo di Ennio Flaiano ci ricorda che soprattutto è movibile.
Una determinata concezione dialogica del processo penale, ipertrofica, sembra aver raggiunto il metodo e il merito della riforma. Dapprima piegando la procedura legislativa di “approvazione” della proposta di legge, poi conformando il contenuto della riforma e ora il dibattito referendario: scambio di accuse e difese, parti e posizioni inevitabilmente opposte e sarà il giudice-popolo a decidere. Ma se il processo ha le sue regole, per quanto fallaci, si assiste oggi ad una disputa che s’è fatta sfida, senza leggi precise, nemmeno di cortesia linguistica, ed è forte la sensazione di muoversi secondo gli impulsi impressi dalle mani di abili pubblicitari di personali verità.
Nel presente scritto si cercherà di chiarire come la proposta di riforma, pur presentata come “separazione delle carriere”, non disciplini in alcun punto di essa le carriere di pm e giudici, né vieti o limiti la possibilità di passaggi tra funzioni.
La riforma costituzionale riguarda la struttura istituzionale del governo della magistratura: separazione e divisione del CSM oggi unitario; sottrazione al governo autonomo del disciplinare e istituzione di un giudice speciale per i soli magistrati ordinari; eliminazione del sistema democratico e pluralista delle elezioni e sostituzione di esso con il sistema casuale dell’estrazione a sorte. La stessa riforma poi, con l’art. 102 Cost., impone una futura disciplina differenziata per le carriere e le garanzie di indipendenza di giudici e pm - sino ad ora unitarie e modellate sulla figura del giudice - senza tuttavia indicarne il contenuto.
Si cercherà di delineare le conseguenze della proposta di modifica costituzionale: la frammentazione dell’unitario scudo di garanzia; il riconoscimento istituzionale del potere della pubblica accusa; le linee della futura “autonomia e indipendenza differenziata” di giudici e pm; l’abbandono della cultura unitarista e pluralista della giustizia in favore della cultura separatista e monista.
L’obiettivo finale è quello di dare un contenuto al quesito referendario che, ad ogni modo, appare come una proposta del governo, rifiutabile, di firmare un foglio in bianco sulla giustizia e l’equilibrio dei poteri.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” è scritto in un libro per bambini.
L’articolo è accompagnato da una sintesi in 10 schede in formato pdf
Sommario: Premessa e sintesi - 1. L’istanza “separatista” e la cultura separatista della giurisdizione - 2. “Separare le carriere”, in che senso ? -3. La “carriera” dei p.m. e dei giudici oggi. Tappe necessarie, eventuali, patologiche - 4. Stessa carriera, stessa garanzia di indipendenza e il paradigma del giudice - 5. Se non serve cambiare la Costituzione per “separare le carriere” - 6. Se la proposta di riforma separatista non “separa le carriere”. Tre paradossi - 7. Se la proposta di riforma non vieta né impedisce il passaggio di carriere e di funzioni - 8. Cosa contiene realmente la riforma: a) la separazione (e svilimento) del governo unitario delle carriere di giudici e p.m.; b) la delega “in bianco” al legislatore ordinario per riscrivere e differenziare le carriere e l’indipendenza di giudici e pm - 9. Quattro conseguenze della riforma - 9.1 La frammentazione dello scudo istituzionale dell’indipendenza - 9.2 La pubblica accusa: da parte processuale a potere dello Stato - 9.3 La direzione della futura disarticolazione delle garanzie di indipendenza di giudici e pm - 9.4 L’abbandono della cultura unitarista e pluralista della giustizia - Conclusioni. A cosa chiede di rispondere il quesito referendario.
Premessa e sintesi[1]
Ci sono delle istanze giuridiche - assorbite dalla riforma - che meritano di esser attenzionate poiché in parte reali e in parte sentite. Il riferimento, nel presente scritto, è alla nota istanza “separatista”: quella richiesta di “separazione delle carriere” che caratterizza il nome e monopolizza il discorso sulla riforma costituzionale.
E tanto significa almeno tre cose.
1) Significa rappresentare con chiarezza questa istanza giuridica - ripulendola dalla coltre di ambiguità, spesso artificiose, che accompagnano il discorso e la promozione delle posizioni - e distinguerla dalle conclamate istanze partitico-politiche che muovono il progetto di riforma.
In tale direzione si cercherà di definire l’istanza “separatista”, escludendo le ingannevoli letture della stessa, e di delineare il concetto di “carriera” del giudice e del pm e la sua relazione biunivoca con le garanzie di indipendenza del singolo magistrato.
2) Significa chiarire la struttura della risposta separatista offerta dalla riforma all’istanza. A fronte di un discorso non sempre limpido è necessario dare un effettivo contenuto al concetto di “separazione delle carriere”. Concetto che, declinabile in molteplici modi, è declinato dalla riforma principalmente come una divisione del CSM unitario.
Si tenterà quindi di precisare che la proposta di riforma separatista non contiene nessuna disposizione sulla carriera di pm e giudici, né divieti o impedimenti alla possibilità di passaggio tra le funzioni-carriere di giudici e pm, né l’imposizione di un concorso separato.
Si evidenzierà invece come il contenuto certo della riforma è:
a) nella separazione del governo delle carriere di giudici e pm;
b) nell’introduzione di un giudice speciale disciplinare per i soli magistrati ordinari sino ad ora vietato dalla stessa Costituzione (art. 102 Cost);
c) nell’abrogazione del democratico e pluralista sistema di elezione dei componenti dei due nuovi CSM con l’introduzione di una irrazionale estrazione a sorte;
d) nella previsione di una futura disciplina differenziata per le carriere e le garanzie di indipendenza di giudici e pm, affidata ad una futura legge ordinaria, senza tuttavia alcuna indicazione di contenuto.
3) Significa attenzionare quattro conseguenze che derivano dalla riforma separatista:
a) la frammentazione dell’unitario scudo istituzionale per la tutela dell’indipendenza e autonomia della magistratura;
b) l’elevazione della pubblica accusa da parte processuale a potere autonomo dello Stato; c) la direzione impressa dalla riforma alla futura differenziazione delle carriere e delle garanzie di indipendenza dei singoli giudici e pm;
d) l’abbandono della cultura unitarista e pluralista della giurisdizione, della giustizia e del giurista a favore della concezione separatista e monista.
1. L’istanza “separatista” e la cultura separatista della giurisdizione
L’istanza “separatista”, intesa in senso giuridico, si presenta come la richiesta di dare una veste giuridica differenziata a funzioni giudiziarie differenti (del giudice e del pm) muovendo dal presupposto che il pm - soggetto pubblico che pur persegue un interesse pubblico - è solo una parte del giusto processo accusatorio ex art. 111 Cost. al pari dell’avvocato della difesa.
In questo senso l’istanza - giuridica - separatista è distinta dall’istanza partitico-politica chiaramente individuata, anche di recente, dal Ministro della Giustizia e dal Presidente del Consiglio dei Ministri, promotori ufficiali della riforma, nella impellente volontà di assicurare il primato e l’azione del potere esecutivo sulla magistratura e sul controllo da questa effettuato[2].
L’istanza separatista deve esser allontanata dalla presentazione banalizzante, sensazionalistica, secondo cui la “separazione” serve a far sì che pm e giudici non siano più colleghi e così a garantire un giudice davvero terzo[3]. La divisione, sulla base di questa retorica, potrebbe proseguire all’infinito e arrivare agli stessi avvocati che difendono parti opposte nel processo. La quotidianità di rapporti e strutture comuni - tra giudici, pm, avvocati anche di parti opposte - non pregiudicano la reciproca dignità se si è tra persone oneste, ha ricordato il prof. A. Pace. Del resto la riforma non scioglie, né potrebbe sciogliere rispettando la Costituzione, l’ANM ossia l’associazione unitaria che riunisce giudici e pm.
L’istanza separatista è, in senso più ampio, l’espressione di una cultura separatista e monista della giurisdizione e del giurista opposta a quella unitarista e pluralista. Una cultura - influenzata da una concezione “oppositiva” dei rapporti accusa/difesa - che interpreta l’organizzazione della giurisdizione, l’amministrazione della giustizia e l’atteggiamento del giurista attraverso la forma del processo penale accusatorio (di una determinata concezione di esso) e pretende conseguentemente una distinzione ortodossa tra i singoli attori della giustizia (escludendo al contempo forme istituzionali di unità e osmosi tra le professioni del pm, dell’avvocato, del giudice e, più in generale, tra i giuristi).
Non hanno attinenza con l’istanza giuridica “separatista” - mentre hanno piena attinenza con l’istanza partitico-politica di primazia dell’azione dell’esecutivo sull’azione della magistratura - l’inserimento nella riforma, sotto l’etichetta “separazione delle carriere”, dell’istituzione dell’Alta Corte, giudice speciale disciplinare (vietato dall’art. 102 Cost.) per i pm e giudici ordinari, e l’eliminazione del sistema elettorale e l’introduzione dell’estrazione a sorte dei componenti dei CSM.
L’istanza “separatista” è quella connotata dal maggior tasso di giuridicità, mentre le istanze sottese al sorteggio e all’istituzione dell’Alta Corte sembrano connotate da una maggior caratterizzazione partitico-politica. Al riguardo è sufficiente evidenziare che in nessun ordinamento straniero - né per le altre magistrature italiane - è prevista l’estrazione a sorte dei membri dei governi della magistratura o un giudice speciale costituzionale dedicato al disciplinare dei soli magistrati ordinari.
2. “Separare le carriere”, in che senso?
La riforma risponde all’istanza separatista con una specifica modalità presentata, efficacemente e assolutisticamente, come “separazione delle carriere”.
“Separare le carriere” è invece espressione polisemica che ha assunto infinite forme e combinazioni nelle molte proposte legislative intervenute in questi anni.
Muovendo dal significato comune, con il termine “separazione” si intende l’azione di dividere, disgiungere persone o cose vicine o contigue, mentre con il termine “carriera” si intende (il termine non conosce una precisa definizione giuridica) il percorso che un individuo o una categoria segue nello sviluppo professionale.
Nell’immediatezza del senso la “separazione delle carriere”, riferita alla magistratura, connoterebbe quindi l’azione volta a dividere, mediante un apparato di regole diversificato, quel percorsoprofessionale sino ad ora unito - dei giudici e pubblici ministeri - da un medesimo complesso di norme e istituiti.
Nel comune sentire la “separazione delle carriere” tende poi a coincidere con il divieto o la limitazione del passaggio dal ruolo di pm a quello di giudice e viceversa ovvero con l’esistenza di concorsi differenziati per l’ingresso in magistratura.
3. La “carriera” dei p.m. e dei giudici oggi. Tappe necessarie, eventuali, patologiche
La “carriera” unica dei giudici e pm - intesa nel senso sopra indicato di percorso condiviso di sviluppo professionale - è costruita ad oggi da tappe necessarie, eventuali e patologiche.
Le tappe necessarie sono quattro: a) l’ingresso in magistratura mediante concorso; b) l’idoneità alle funzioni giurisdizionali al termine del tirocinio con conseguente scelta della sede (in un ufficio di primo grado) e delle funzioni (p.m. o giudice); c) la progressione giuridica ed economica, ogni quattro anni, cadenzata dalle 7 valutazioni di professionalità; d) il pensionamento al raggiungimento di 70 anni di età.
Le tappe eventuali e facoltative possono essere o meno perseguite dal singolo magistrato. Tra le più importanti si possono citare: a) il “cambio di funzioni” da requirente a giudicante, e viceversa (ad oggi possibile solo una volta in carriera, cambiando regione, e solo nel corso dei primi anni della carriera); b) la “progressione nelle funzioni” da un ufficio di primo grado ad un ufficio di secondo grado o alla cassazione[4]; c) il “trasferimento” ovvero il cambio di sede di servizio[5]; d) il “conferimento” delle funzioni direttive o semidirettive e quindi il passaggio alla funzione di dirigenza giudiziaria degli uffici giudicanti e di procura[6].
La “carriera” dei giudici e pm può cadere inoltre nelle tappe patologiche, come le sanzioni del disciplinare, il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, la dispensa per ragioni di salute, il mancato conseguimento delle valutazioni di professionalità, ecc..
4. Stessa carriera, stessa garanzia di indipendenza e il paradigma del giudice.
Alla base dello sviluppo della comune carriera di pm e giudici, nella immagine sopra evidenziata di un “viaggio” a tappe, c’è una strada comune costituita dalle garanzie di indipendenza.
Le garanzie sono bifronte: tutelano l’indipendenza sia dai possibili condizionamenti che provengono dall’esterno della magistratura, sia dai possibili condizionamenti che provengono dall’interno della magistratura (in primis dalla stessa “ansia di carriera”).
L’indipendenza è una doppia coperta: è indipendenza individuale dei singoli magistrati rispetto alle pressioni esterne e interne (indipendenza oggetto dell’art. 101 e 107 della Costituzione); è indipendenza istituzionale della magistratura, come organizzazione, rispetto alle pressioni provenienti da altri poteri (indipendenza oggetto dell’art. 104 Cost.).
E, da sempre, il modello di riferimento per la costruzione dello statuto del magistrato indipendente è stato il giudice.
È questi il paradigma dell’indipendenza del magistrato capace di conformare, al massimo delle possibilità, lo statuto del pubblico ministero.
Giudici e p.m. godono delle stesse garanzie di indipendenza ed è unica l’istituzione che li governa (il CSM unitario): per tale ragione le carriere dell’uno e dell’altro sono sottoposte alle medesime regole, ai medesimi istituti, al medesimo decisore. In sintesi, vi è un rapporto biunivoco tra identità di indipendenza e identità di carriera.
L’ordinamento italiano attuale prevede così un rapporto simbiotico tra carriera e indipendenza di giudici e pm: solo la sottoposizione di entrambi ad un medesimo apparato di regole primarie e secondarie (relative al percorso professionale) garantisce effettivamente la medesima indipendenza.
L’attuale differenza tra giudici e pm non riguarda quindi né l’aspetto economico né quello giuridico della carriera professionale o delle garanzie di indipendenza. Giudici e pm sono attualmente differenziati per quel che riguarda l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e i rapporti con i direttivi degli uffici nel “lavoro quotidiano”. I pm, a differenza dei giudici, sono inseriti in un sistema gerarchico (comunque regolamentato anche dalla normativa del CSM) che vede il Procuratore della Repubblica al suo vertice. Gerarchia che incide sull’organizzazione dell’esercizio dell’azione penale, su come si esercita la funzione requirente, ma che non riguarda la carriera o lo status del singolo pm, che segue le stesse tappe di quella del giudice.
5. Se non serve cambiare la Costituzione per “separare le carriere”
Le “tappe” delle carriere di giudici e pm sono disciplinate dalla legge ordinaria e dalla normativa secondaria emanata dal CSM unitario - e tanto proprio per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura - e già solo questo dato è sufficiente a dimostrare come, per incidere sulle differenti carriere e approntare la “separazione delle carriere”, non è necessaria la modifica della Costituzione, essendo sufficiente ricorrere alla modifica della legge ordinaria[7].
È stata la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 37 del 2000 a confermare che per la “separazione delle carriere” non serve modificare la Costituzione: “pur considerando la magistratura come un unico «ordine», soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art.104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
6. Se la proposta di riforma separatista non “separa le carriere”. Tre paradossi
La riforma costituzionale, è sufficiente leggerne le disposizioni, allora non “separa le carriere” nel senso che non propone alcuna norma volta a regolare e differenziare le “tappe” della carriera dei pm e giudici: nessuna norma disciplina il concorso dei pm e giudici, nessuna norma tocca la nomina di procuratori e presidenti, nessuna norma affronta il male del carrierismo, e così via.
La disciplina effettiva della distinzione delle carriere di giudici e pm è rimessa dal nuovo art. 102 Cost. ad una futura legge ordinaria dal contenuto tuttavia ignoto.
La riforma separatista presenta, invece, tre elementi paradossali.
1) Il primo è costituito da due norme non toccate dalla riforma e che delineano un profilo unitarista della magistratura. L’art. 104 Cost. continua ad affermare che la magistratura è un ordine unicobenché composto da magistrati di carriera giudicante e requirente. L’art. 107 Cost. continua ad affermare che i magistrati si distinguono solo per funzioni. Delle due l’una: o le norme saranno vuoti simulacri, due sepolcri imbiancati, oppure dovranno esser necessariamente riempite di un contenuto “unitario” per giudici e pm nonostante la separazione dei CSM.
2) Il secondo è costituito dall’art. 106 Cost. che consentirà ai pm, con soli 15 anni di servizio, di esser nominati giudici di cassazione (quindi di fare il “passaggio di funzioni” e “salire” nel massimo grado della giurisdizione e così anche esser sorteggiati, nella quota spettante ai giudici, nell’Alta Corte). Se appare comprensibile la ragione geometrica (quasi tetragona) della scelta del riformatore, non si può negare l’effetto paradossale raggiunto in seno alla riforma chiamata a “separare le carriere”.
3) Il terzo “paradossale” elemento è l’Alta Corte in cui giudici e pm – che dovrebbero esser separati per tutto – si ritroveranno riuniti (con una rinnovata composizione che “avvantaggia” i pm i quali aumenteranno numericamente e diventeranno anche giudici disciplinari di secondo grado). Alta Corte che comunque, come giudice speciale, non può considerarsi una istituzione dell’ordinamento giudiziario.
7. Se la proposta di riforma non vieta né impedisce il passaggio di carriere e di funzioni
Preso atto che la riforma non incide direttamente sulla disciplina delle carriere - nemmeno sul tema del “carrierismo” giudiziario - e che sarebbe stato sufficiente il ricorso alla legge ordinaria per “separare le carriere”, appare necessario vedere se e come la riforma incide in qualche modo sul tema dei passaggi di funzione tra giudice e pm.
Tema “caldo”, sempre al centro del dibattito e dell’efficace e ingannevole slogan: “Ti fideresti di un arbitro che gioca in una delle due squadre? Ecco perché bisogna separare le carriere”.
La conclusione per cui la riforma non vieta né impedisce il passaggio di carriere e di funzioniemerge seguendo due direzioni: 1) quella servita dal dato normativo della riforma secondo cui la magistratura resta un unico ordine (art. 104 Cost.) e dal testo dell’art. 107 comma terzo Cost. per cui i magistrati si distinguono solo per funzioni; 2) quella offerta dai modelli di separazione europei che sembrano aver ispirato il legislatore: francese e portoghese; quella offerta dai paesi come la Germania in cui il passaggio di carriere è consentito nonostante il potere giudiziario spetti solo ai giudici (tanto che il pm non è contemplato in costituzione ed è altresì un funzionario dell’esecutivo).
Stessa conclusione, ma il tema non verrà affrontato in questa sede, riguarda il tema del reclutamento e quindi il concorso “separato” per entrare in magistratura ovvero la formazione.
7.1 Separazione alla francese. Unico ordine, un Csm e sì ai passaggi di carriera
La “separazione delle carriere” in Francia è così strutturata: a) giudici e pm costituiscono un “unico corpo”; b) giudici e pm hanno status diversi; c) il CSM è unico e si riunisce in formazioni diverse per i pm e per i giudici d) il pm è sottoposto al capo dell’ufficio e al potere esecutivo; e) è possibile passare dalla carriera requirente a quella giudicante e viceversa (essendo i magistrati riuniti in un unico ordine) f) il sistema di ingresso in magistratura è unico (essendo i magistrati riuniti in un unico ordine).
7.2 Separazione alla portoghese. Due ordini, due CSM e no ai passaggi di carriera
La “separazione delle carriere” in Portogallo è così strutturata: a) giudici e pm costituiscono due ordini distinti; b) giudici e pm hanno status diversi; c) ci sono 2 CSM, uno per i giudici, l’altro per i pm; d) il pm è sottoposto ad un sistema gerarchico che ha al suo vertice il Procuratore generale della Repubblica nominato, su proposta del Governo, dal Presidente della Repubblica; e) non è possibile passare dalla carriera requirente a quella giudicante e viceversa (in quanto appartengono a due ordini diversi); f) il sistema di ingresso nei diversi ordini è differenziato (in quanto appartengono a due ordini diversi).
7.3 Separazione all’italiana. Un ordine, due CSM e i passaggi di carriere
La struttura della riforma separatista proposta dal governo appare un ibrido tra il modello francese e il modello portoghese.
Nel disegno della riforma difatti: come per la Francia, giudici e pm costituiranno un ordine unico come indica il nuovo 104 Cost.; come per il Portogallo, ci saranno due CSM, uno per i giudici, l’altro per i pm.
Emerge così dagli elementi della riforma e della sua struttura l’assenza di un divieto o limite costituzionale, espresso o inespresso, di passaggio di carriere:
1) nessuna norma della riforma vieta il passaggio delle carriere;
2) la magistratura, secondo il nuovo art. 104, resta un ordine unico composto da pm e giudici;
3) l’art. 107 comma 3 Cost. continua ad affermare che i magistrati si distinguono solo per funzioni;
4) come dimostra la Francia - laddove la magistratura è un “unico corpo” con carriere separate tra pm e giudici - il passaggio è possibile, reale e frequente; del resto, occorre aggiungere, il modello francese dimostra che ha senso parlare di un unico ordine solo se si discorre della stessa “sostanza”, ossia il magistrato, che si presenta nell’ordinamento nelle diverse forme del pm e del giudice.
5) l’esistenza di 2 CSM - non accompagnata dalla duplicità e distinzione dell’ordine dei pm da quello dei giudici come avviene in Portogallo - implica una duplicità di strutture istituzionali ma non un divieto di passaggio di carriera e funzioni;
6) nel passato (Italia con l’ordinamento del 1865) e nel presente (Germania, Austria e molti altri paesi) sono ammessi passaggi dalla magistratura requirente alla giudicante e viceversa anche in presenza di un rigido regime di “separazione delle carriere”;
7) il passaggio delle funzioni pm-giudici (consentito una sola volta in carriere e con cambio di sede in altra regione e di materia) non è un effettivo problema visto che negli ultimi anni meno dello 0,5% dei 10mila magistrati lo hanno effettuato;
8) la “separazione delle carriere”, come dimostra sempre l’esempio di Francia e Germania, non richiede l’esistenza di forme di reclutamento separate per giudici e pm;
9) l’art. 106 è modificato dalla riforma nel senso di consentire ai pm con soli 15 anni di funzioni di esser nominati giudici di cassazione.
8. Cosa contiene realmente la riforma: a) la separazione (e svilimento) del governo unitario delle carriere di giudici e p.m.; b) la delega “in bianco” al legislatore ordinario per riscrivere e differenziare le carriere e l’indipendenza di giudici e pm
La riforma, chiarito in che termini non articola la “separazione delle carriere”, mostra il suo reale contenuto separatista:
a) la separazione del CSM, l’organo di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, chiamato (anche) a governare le carriere dei giudici e pm.;
b) la futura differenziazione delle carriere e le garanzie di indipendenza di giudici e pm prevista dal nuovo art. 102, primo comma, Cost con una delega in bianco al legislatore ordinario priva di contenuti e linee direttrici. È la “autonomia e indipendenza differenziata” di giudici ordinari e pm.
Le norme della riforma che modificano la Costituzione non riguardano quindi le carriere di giudici e pm bensì il governo delle stesse e il potere di modellarle.
La riforma scinde il CSM ossia l’organo che è chiamato ad occuparsi delle “assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni” di p.m. e giudici e a scrivere quelle regole, protette dalla riserva di legge relativa, che disciplinano nel concreto l’indipendenza dei magistrati. È stabilito che i pm dovranno avere un loro organo di governo (CSM dei pm, con 2/3 di pm) e i giudici un loro organo di governo (CSM dei giudici, composto per 2/3 da giudici). Al contempo, però, ai governi autonomi viene sottratta la competenza disciplinare e viene eliminato il sistema elettivo dei componenti, che verranno estratti a sorte.
La riforma impone di differenziare le regole sulle carriere e sulle garanzie di indipendenza di giudici e pm, sino ad ora unitarie, senza indicarne il contenuto. È stabilito, con il nuovo 102, comma 1, Costche le future leggi ordinarie sull'ordinamento giudiziario, dal contenuto ignoto, dovranno distinguere le carriere e le garanzie di indipendenza del giudice e del pm. sino ad oggi unitarie e modellate sulla figura del giudice.
La figura del giudice cessa di esser così, sia a livello istituzionale che individuale, il paradigma del magistrato indipendente e modello quindi di strutturazione dell’indipendenza del pm.
La “separazione delle carriere”, come suggerito già da O. Dominioni, non riguarda allora l’idea che magistrati requirenti e giudicanti siano da sottoporre a differenti regimi per lo sviluppo delle rispettive carriere ma, in termini ben più ampi, l’idea che le due specie di magistrato debbano appartenere a distinte organizzazioni di ordinamento giudiziario e avere conseguentemente distinte configurazioni istituzionali.
9. Quattro conseguenze della riforma
La separazione del governo della magistratura ha un significato che trascende la mera “separazione delle carriere” declinata come divisione istituzionale del CSM.
È necessario affermare con fermezza - viste le interpretazioni riduzionistiche che tendono a negare ulteriori portati della riforma - che si prospettano delle conseguenze ulteriori rispetto alla divisione istituzionale del CSM[8].
È costituzionalmente illusorio credere che la modifica di ben sei 6 delle 9 norme della Costituzione (titolo IV, sez. I Ordinamento giurisdizionale) che riguardano la magistratura ordinaria non incida sull’interpretazione di quelle norme - o di quella parte delle norme - che la riforma non arriva a toccare testualmente. È illusorio credere che non ci siano conseguenze sull’intera struttura della magistratura e sull’attuale equilibrio dei poteri.
Il nuovo art. 102 Cost. assegna ad una futura legge ordinaria il compito di disciplinare in modo differenziato le carriere e le garanzie di giudici e pm. È poi prescritto dall’art. 8 della legge di riforma costituzionale che entro un anno dall’entrata in vigore della stessa siano adeguate non solo le leggisul C.S.M. e sul disciplinare ma anche quelle che riguardano la carriera e l’indipendenza di pm e giudici (le norme sull’ordinamento giudiziario ad oggi contenute in leggi uniche sia per giudici e pm).
Ed è ancora ineludibile che i due nuovi CSM dei giudici e pm dovranno riscrivere, per ciascuna delle categorie di appartenenza, l’intera normativa secondaria - protetta dall’invadenza dello stesso legislatore da una riserva di legge relativa - che disciplina nel concreto e nel dettaglio le modalità del lavoro quotidiano, le carriere e l’indipendenza dei giudici e dei pm.
9.1 La frammentazione dello scudo istituzionale dell’indipendenza
La prima conseguenza certa e intuitiva della riforma, con funzione amplificatrice delle successive, è quella della frammentazione del comune scudo, costituito dal CSM unitario, che ad oggi tutela l’autonomia e l’indipedenza della magistratura.
La magistratura rimane sì un unico ordine, continua ad affermare l’art. 104 Cost., ma al contempo la sua copertura istituzionale è dapprima frammentata in due – con un CSM per i giudici e un CSM per i pm – e poi, caso unico tra gli ordinamenti dei paesi, non solo depauperata della funzione disciplinare ma anche del sistema elettivo dei suoi componenti, che verranno sorteggiati.
Il motto “divide et impera” è del resto ripetuto da oltre duemila anni.
Sguardi attenti - ospitati da questa Rivista[9] - hanno ben evidenziato come le ristrutturazioni non liberali di importanti democrazie occidentali (Ungheria, Polonia) siano state progressive, sotterranee, senza palesi e immediati scossoni, e mosse formalmente da asserite inefficienze o da reali ma distorte esigenze. E come sia stato il graduale indebolimento della magistratura, con piccole scosse susseguitesi in un lungo arco di tempo, un passo decisivo e privilegiato delle incrinature democratiche apparse in quei paesi.
Ed è poi stato bene evidenziato come la conseguenza finale sia stata il mantenimento di una apparenza priva sostanza: l’instaurazione di nuovi modelli solo formalmente garantisti dell’autonomia e della indipendenza della magistratura.
Alle voci liberali che con sicurezza discorrono degli strumenti democratici e del futuro solido e certo delle democrazie - e che tacciano, chi avanza dubbi, di inutili allarmismi - risponde il verso del tacchino induttivista di Bertrand Russell[10] che ci ricorda come la Costituzione sia la sapiente rete di protezione collettiva del cammino democratico da maneggiare con la giusta insicurezza.
9.2 La pubblica accusa: da parte processuale a potere dello Stato
La seconda conseguenza certa è l’investitura istituzionale del potere della pubblica accusa che, da parte processuale e componente minoritaria della magistratura, si eleva a potere autonomo dello Stato.
La pubblica accusa, che si vuole ridurre nelle intenzioni a parte processuale, acquisisce un proprio organo di rilievo costituzionale, il “CSM requirente ” - composto per 2/3 da pubblici ministeri e 1/3 dei laici - chiamato a governare un piccolo corpo (composto da circa duemila p.m., di cui 118 Procuratori della Repubblica, 24 Procuratori generali, 1 Procuratore Generale della Cassazione), a struttura tendenzialmente gerarchica, che ha l’obbligo dell’azione penale e la disponibilità della polizia giudiziaria.
È evidente la perdita del sapiente bilanciamento presente nell’attuale CSM unitario, i cui componenti eletti sono 5 pm (1/6 del totale), 13 giudici di merito, 2 magistrati di Cassazione e 10 laici.
La pubblica accusa acquisisce anche una maggior forza in sede disciplinare: se ad oggi un solo un pm siede nella sezione disciplinare del CSM (per 1/6 del totale dei componenti) e nessun pm giudica in sede di impugnazione (che si svolge davanti alle Sezioni Unite della cassazione), a seguito della riforma i pm non solo costituiranno 1/5 del totale dell’Alta Corte, ma giudicheranno anche in sede di impugnazione, che si svolgerà dinanzi alla stessa Corte (con l’azione disciplinare peraltro a sua volta sostenuta dal Procuratore generale e promossa dal ministro).
La riforma consegnerà così all’ordinamento “il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea”, come ha scritto A. Pizzorusso, rendendo il pm una parte sempre più forte, non solo dell’ordinamento ma anche nel procedimento e nel processo penale, così disattendendo il suo obiettivo sin dalle premesse[11].
L’ordinamento italiano sarà probabilmente costretto a seguire la strada di altri ordinamenti europeiin cui è prevista la separazione delle carriere intesa come forma di divisione istituzionale, più o meno intensa, dei pm e dei giudici. È stato notato come nei modelli di separazione europei il potere della magistratura requirente è bilanciato da un tendenziale assoggettamento, diversificato nelle forme, alle esigenze del potere esecutivo: ad esempio in Portogallo il vertice gerarchico del pubblici ministeri è di nomina presidenziale ma su proposta del Governo e non deve esser necessariamente un magistrato; in Germania i pubblici ministeri sono funzionari del potere esecutivo; in Francia i pubblici ministeri sono tendenzialmente assoggettati all’esecutivo e gli incarichi direttivi dei pubblici ministeri sono conferiti su proposta del Ministro, mentre il CSM esprime solo un parere; l’obbligo di esercizio dell’azione penale, ove presente, è orientato dalle scelte politiche del Ministro che quindi determina effettivamente i reati da perseguire (così come accade ove non c’è obbligo); e così via.
L’ordinamento italiano, in alternativa di sintesi a quanto appena sopra ipotizzato, non cercherà di bilanciare il peso del potere della magistratura requirente con il peso del potere dell’esecutivo, ma salderà l’uno e l’altro. Si affaccia qui una suggestione, ben concretizzatasi nel passato anche italiano e presente di altre realtà, che richiama un altro millenario motto: se non puoi battere il tuo avversario allora unisciti a lui.
9.3 La direzione della futura disarticolazione delle garanzie di indipendenza di giudici e pm
La terza conseguenza è la disarticolazione delle regole che disciplinano le carriere di giudici e pm - ad oggi unitarie – e quindi delle garanzie di effettiva indipendenza individuale degli stessi.
È necessario ricordare che un conto è l’indipendenza istituzionale della magistratura, come potere e organizzazione, rispetto agli poteri (oggetto dell’art. 104 Cost.), un conto è l’indipendenza individuale dei magistrati rispetto alle pressioni interne ed esterne (oggetto dell’art. 101 e dell’art. 107 della Costituzione).
Se la prima indipendenza è disarticolata mediante la divisione del CSM unitario, la seconda sarà disarticolata mediante la triplice “strada normativa” offerta dalla riforma: il nuovo art. 102 Cost afferma che le norme ordinarie sull'ordinamento giudiziario dovranno disciplinare le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti; l’art. 8 della riforma prescrive al legislatore ordinario, entro un anno, di riformulare le leggi dell’ordinamento giudiziario e quindi le regole primarie che disciplinano in linee generale le carriere e le garanzie di indipendenza dei singoli giudici e pm; i due nuovi decisori, i CSM i cui componenti sono estratti a sorte, dovranno riformulare tutta la normativa secondaria che disciplina nel concreto le carriere e le garanzie di indipendenza dei singoli giudici e pm.
La separazione penetra così dal profilo istituzionale al profilo individuale delle garanzie di indipendenza dei singoli giudici e pm. La legge ordinaria prima e la normativa secondaria dopo saranno chiamate a istituire così una sorta di “autonomia e indipendenza differenziata” di giudici ordinari e pm.
L’effettivo contenuto di questa differenziazione è tuttavia allo stato ignoto ed è rimesso dalla riforma al legislatore con una delega in bianco.
È possibile, tuttavia, indicare cinque linee di questa futura differenziazione.
1) I plessi normativi distinti interromperanno quel rapporto biunivoco, che ad oggi esiste grazie all’unica normativa, tra identità di indipendenza e identità di carriera di giudici e pm. Il giudice cessa di essere il paradigma di riferimento per la costruzione dell’indipendenza del magistrato in generale, e quindi del pm in particolare, e in tal modo il pm si distacca dal giudice.
2) Nei paesi in cui vige la separazione delle carriere - qualunque forma assuma da un punto di vista giuridico e istituzionale - ad esser differente non è solo il grado di indipendenza per giudici e pm dal potere esecutivo ma anche il loro status, le loro carriere e le garanzie di indipendenza dei singoli.
3) È probabile che l’art. 107 ultimo comma Cost. - “Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario”[12] - riacquisti una rinnovata centralità nel discorso a seguito della saldatura con la divisione istituzionale di pm e giudici. La disposizione non è toccata testualmente dalla riforma ma è la cornice del quadro a mutareprofondamente. Riprendono così indubbiamente forza e vigore quelle interpretazioni dell’art. 107, ultimo comma, Cost. volte a rimarcarne la specificità e le differenze con l’art. 101, secondo comma, Cost., secondo cui è solo il giudice, e non il pm, ad esser sottoposto “soltanto alla legge.”, sino ad ora minoritarie nell’attuale quadro unitarista costituzionale. Interpretazioni che hanno visto nella norma la porta giuridica che consente comunque di sottrarre il pm alle garanzie previste dalla Costituzione per il giudice e sottoporlo ad una sempre più marcata struttura gerarchica interna e a sempre più intensi controlli del Ministro.
4) È intuibile che se la pubblica accusa come potere dello Stato, nei rapporti con gli altri poteri, sembra destinata a forme di necessario raccordo con il potere esecutivo, nei rapporti interni sembra sicuramente destinata ad una più marcata verticalizzazione e gerarchizzazione, come del resto è evidente nei paesi in cui ad oggi vige una forma di separazione delle carriere.
5) Restano ferme le norme di cui ex art. 104 Cost. - la magistratura è un ordine unico - ed ex art. 107 Cost. - i magistrati si distinguono solo per funzioni – con cui il legislatore ordinario dovrà necessariamente fare i conti.
9.4 L’abbandono della cultura unitarista e pluralista della giustizia
La riforma abbandona definitivamente quella cultura unitarista e pluralista che vede nella giurisdizione e nella giustizia un progetto comune dei giuristi, avvocati, giudici, pm, notai, professori, dirigenti pubblici che siano[13].
Una visione promotrice di forme culturali, regolatorie e istituzionali di osmosi e percorsi unitari[14]che già arricchisce le giurisdizioni e la giustizia in tanti di quei paesi stranieri che - sempre e solo portati come esempio della cultura separatista - rappresentano nella sostanza l’esatto opposto[15].
Una visione che la Costituzione del ‘48 accoglie - l’art. 106 Cost. afferma che “La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli” - ma che è stata solo in parte attuata, per molti versi tradita e ad oggi banalmente burocratizzata con la trasformazione in simil-funzionari dei magistrati onorari.
La riforma sulla “separazione delle carriere” abbandona questa visione e porta la separazione sin dentro la magistratura ordinaria, favorendo la divisione, l’arroccamento delle posizioni, delle culture, delle condizioni. E le modalità “basse” che scandiscono il dibattitto referendario sono il sintomo di questa cultura separatista, uno dei suoi peggiori effetti, un antipasto del futuro che ci attende quale che sia l’esito referendario.
La cultura e la riforma separatista riflettono, in modo tetragono, nelle istituzioni, nella giurisdizione, nella concezione del giurista un determinato modo di intendere il processo penale accusatorio - lo scontro tra le separate posizioni di accusa e difesa - elevandolo ad universale giuridico: se il processo è per parti separate, le istituzioni devono esser per parti separate, la giurisdizione deve esser per parti separate, la giustizia è per parti separate, i giuristi sono parti separate.
Una sorta di morfismo processuale, l’ennesima pan penalizzazione della nostra società, ossia in definitiva la tendenza giuridica ad attribuire l’aspetto di una determinata concezione del processo penale accusatorio - considerato l’universale dello schema dialogico - a tutte le strutture della giustizia, comprese le istituzioni.
Seguire la più faticosa strada unitarista e pluralista implica riflettere sulla possibilità di ricondurre avvocati, magistrati, notai - proprio con una riforma costituzionale - in un unico sistema, con percorsi condivisi di formazione, con il medesimo concorso, con osmosi di funzioni, con valutazioni di professionalità comuni[16].
Un’ultima notazione sul paradosso della cultura separatista della giurisdizione riguarda la separazione infinita. Una volta avallata la legittimità (o finanche necessità) di una separazione tra giudici e pm, motivata sulla ritenuta inaccettabilità della struttura istituzionale comune, dell’essere colleghi, la separazione potrebbe ugualmente essere replicata all’infinito: tra giudici, pm e avvocati in buoni rapporti; tra giudici di diverso grado (tribunale, appello, Cassazione), tra giudici dello stesso Tribunale (gip, riesame, reclami civili, giudici dell’opposizione), tra stessi avvocati che difendono interessi contrapposti nel processo (pur essendo tutti uniti sotto uno stesso ordine, per giunta eletto, e da uno stesso sistema disciplinare).
Conclusioni. A cosa chiede di rispondere il quesito referendario
“Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025 ?”.
Così si presenterà il quesito referendario al voto popolare. Un quesito dalla lettera enigmatica ma allo stesso tempo puntuale nell’indicare l’essenziale della proposta di riforma costituzionale che non tocca le carriere dei magistrati, non vieta o impedisce i passaggi di funzioni, ma modifica la struttura istituzionale dell’indipendenza e autonomia della magistratura.
Il quesito chiederà in realtà di approvare una legge costituzionale:
1) che non contiene norme che modificano direttamente le carriere dei giudici e pm;
2) che non vieta né impedisce il passaggio di funzioni tra giudice e pm e viceversa (e anzi lo consente con il nuovo art. 106 Cost).;
3) che affida a delle future leggi ordinarie, senza indicare i contenuti, il compito di differenziare le carriere e le garanzie di indipendenza del giudice e del pm sino ad ora modellate sullo statuto del primo;
4) che sostituisce l’unico CSM, organo unitario per l’autonomia e indipendenza della magistratura, con due CSM (uno per i giudici e uno per i pm);
5) che istituisce un giudice speciale disciplinare solo per i giudici e pm ordinari in rottura con l’art. 102 Cost. sul divieto di istituzione di giudici speciali (per la prima volta nella storia costituzionale);
6) che elimina il sistema elettorale, democratico e pluralista, dei componenti del CSM e lo sostituisce con un sistema casuale di estrazione a sorte (per la prima volta nella storia costituzionale).
Il quesito referendario si presenta allora, in senso più ampio, come una proposta – come tale rifiutabile – di firmare un foglio in bianco sulla giustizia e l’equilibrio dei poteri: siete d’accordo nel modificare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, l’equilibrio dei poteri costituzionali, secondo condizioni e modalità che verranno stabilite solo successivamente?
Vorrei sapere da lor signori, – disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici [più famosi del vicinato] riuniti intorno al letto di Pinocchio, – vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!...
A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
– A mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
– Mi dispiace, – disse la Civetta, – di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!
– Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo!...
[1] L’articolo presenta lo sviluppo discorsivo di La riforma costituzionale della magistratura. 10 domande e 10 risposte dello stesso autore
[2] La riforma, ha detto il Ministro Carlo Nordio, «Fa recuperare alla politica il suo primato costituzionale….Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo». (Intervista Corriere della Sera, 3.11.2025). «La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei Conti, entrambe in discussione al Senato, prossime all’approvazione, rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione di Governo, sostenuta dal Parlamento» (Dichiarazione ufficiale del Presidente del Consiglio dei Ministri, 29.11.2025). La distinzione tra istanza giuridica e istanza partitico-politica è artificiale - si tratta di una riforma costituzionale e la volontà partitica accolta dall’attuale Parlamento, su proposta del Governo, è fondamentale nella comprensione della realtà, anche giuridica, presente e prossima - ma in questo frangente appare utile concentrare direttamente l’attenzione sugli aspetti giuridici e sulle criticità della riforma.
[3] Seguendo i sostenitori del motto, i giudici sino ad oggi avrebbero emanato decisioni, anche assolutorie, in modo disonesto e solo per non dispiacere il collega pm così avrebbero allora fatto sino ad ora i giudici di appello per i giudici del primo grado, oppure i giudici del riesame per i gip-gup, così avrebbero fatto gli avvocati che hanno perso delle cause solo per non dispiacere i colleghi del foro.
[4] Progressione possibile dopo aver raggiunto una determinata anzianità di servizio e, per la cassazione, anche dopo aver svolto una specifica selezione a cura di una Commissione tecnica e del CSM.
[5] Il trasferimento è possibile dopo aver trascorso quattro anni nella sede e prevede una forma di selezione, in caso di più domande per la stessa sede, basata su punteggi oggettivi assegnati per condizioni soggettive del singolo (come l’anzianità di servizio e i carichi famigliari.).
[6] Il conferimento degli incarichi direttivi - prima determinato sulla base del criterio oggettivo della anzianità - ad oggi è possibile dopo aver svolto una selezione comparativa a cura del CSM. È quest’ultimo punto, ovvero la spinta “carrierista” per il raggiungimento di posti apicali, ad aver costituito l’oggetto principale del c.d. “caso Palamara” e, a parere di chi scrive, il maggior problema della magistratura ordinaria. Perché lo stesso problema non si è mai posto, ad esempio, per T.A.R. o Consiglio di Stato? Tra le tante ragioni possibili certamente vi è quella per cui nella giurisdizione amministrativa la dirigenza giudiziaria degli uffici è determinata dal criterio oggettivo della anzianità. E la riforma, se ha pensato al sorteggio del CSM, non ha invece proposto il sorteggio dei presidenti dei Tribunali e procuratori della Repubblica.
[7] Per quel che riguarda le “carriere” la Costituzione si limita infatti ad indicare la regola del concorso per l’ingresso in magistratura (art. 106 comma 1 Cost), a garantire l’inamovibilità, a garantire la possibilità di dispensare, sospendere o tramutare i magistrati in base al loro consenso o nei casi e con le garanzie previste dalla legge (art. 107 comma 1 Cost.). Nessuna di queste norme risulta tuttavia toccata dalla riforma, così come non risulta toccato l’art. 107 comma 3 Cost secondo cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.
[8] È intuibile che il processo riformatore - nelle intenzioni volto anche alla riaffermazione del primato governativo, come indicato dal Ministro, e a rendere il pubblico ministero sempre più una “parte” del processo - non possa limitarsi a modificare, duplicandolo, l’organo che garantisce i magistrati e ne governa le carriere, lasciando tutto il resto uguale a prima.
[9] Sul caso ungherese S. Benvenuti, Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria e dello stesso autore Fenomeni di regressione costituzionale in Europa, il caso ungherese; sul caso polacco S. Pitto Indipendenza della magistratura in Polonia. Lo “strappo nel cielo di carta” della rule of law e l’argomento identitario e sempre dello stesso autore Indipendenza della magistratura e regressione democratica nel contesto europeo. Per quel che riguarda l’esperienza israeliana L. Pierdominici, La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale e dello stesso autore, La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all'indipendenza della magistratura. “La magistratura e l’indipendenza” è stato l’oggetto del IV Convegno di Giustizia Insieme, di cui Questa Rivista ha pubblicato gli atti.
[10] «Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell'allevamento in cui era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un'inferenza induttiva come questa: "Mi danno sempre il cibo alle 9 del mattino". Questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla Vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato».
[11] E tanto giustificare la presenza di un pm di “manipulite”, da sempre considerato un antigarantista per eccellenza dai garantisti, tra i sostenitori della riforma.
[12] Essa rappresenta il compromesso tra le due principali correnti di pensiero, che della Assemblea Costituente: la prima che riteneva soddisfacente la soluzione della c.d. legge Togliatti che aveva sostituito al termine «direzione» quello di «vigilanza» ministeriale sulle funzioni esercitate dal Pubblico Ministero; l'altra volta ad assimilare il pm al giudice nelle garanzie di indipendenza, e di cui vi è traccia nel 4° co. dell'art. 99 del Progetto di Costituzione, secondo il quale: «il Pubblico Ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati».
[13] Scriveva Calamandrei: «Bisognerebbe che ogni avvocato per due mesi all’anno facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi: e reciprocamente si stimerebbero di più».
[14] Su questa Rivista: S. Ottoni, La selezione di avvocati e magistrati. Divergenze, formazione e cultura comune; A. Costanzo, Spunti per una nuova formazione comune per le professioni legali.
[15] In questa Rivista: A. Musella, L’accesso alla magistratura francese; C. Valle, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca.
[16] Ma tanto significherebbe fare i conti con la cultura della legalità del nostro paese e con tanti problemi, con i problemi reali della “giustizia”, a cominciare da quelli numerici che vedono l’Italia - il dato è preso dalle rilevazioni della Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa - un paese con pochi giudici (5,4 ogni 100mila abitanti) e pm (4 ogni 100mila abitanti) rispetto alla mediana europea (per i giudici di 17,8 e per i pm di 11) e con molti avvocati (400 ogni 100mila abitanti, mentre la mediana europea è circa di 200). 233.260 avvocati, 4 ogni mille abitanti, con posizioni reddituali frastagliate per sesso ed età come evidenziato dal “Rapporto annuale sull’avvocatura 2025” della Cassa Forense e del Censis. “Nel 2023 le avvocate hanno avuto un reddito medio pari a meno della metà di quello degli uomini avvocati, con una differenza di più di 30mila euro; nonostante ciò, risulta maggiore la crescita del reddito delle avvocate (8,8%) rispetto ai colleghi uomini (5,5%) Inoltre, la differenza di reddito cresce con il crescere dell’età: se gli avvocati sotto i trent’anni hanno un reddito rispetto alle colleghe della stessa classe di età mediamente di poco più di 2mila euro superiore, nella classe di età 60-64 anni la differenza supera i 44mila euro”.
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