ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte Costituzionale, l’aggio e l’urgente ed indifferibile riforma del sistema di riscossione
di Alessio Persiani
Sommario: 1. Premessa – 2. La questione di costituzionalità e la pronuncia della Corte – 3. Le censure della Corte in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio – 4. La declaratoria di inammissibilità della questione e l’urgente riforma della riscossione tributaria – 5. Considerazioni conclusive e prospettive future.
1. Premessa
Con la sentenza n. 120 del 10 giugno scorso la Corte Costituzionale entra per la prima volta nel merito della legittimità costituzionale dell’aggio di riscossione e, sia pur dichiarando inammissibile la questione sollevata, chiede al legislatore di procedere ad un’urgente ed indifferibile riforma sia delle norme relative all’aggio, sia, e più in generale, del sistema di riscossione coattiva, al fine di renderlo coerente con i principȋ di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità sanciti a livello costituzionale.
I tentativi di sottoporre le norme sull’aggio di riscossione al vaglio della Corte Costituzionale non erano mancati, anche negli anni recenti. La Corte, tuttavia, non era sinora mai entrata nel merito delle questioni prospettate dalle diverse Commissioni tributarie, facendo leva ora sull’omessa o insufficiente descrizione della fattispecie, ora sul difetto di motivazione da parte dei giudici a quibus in punto di rilevanza della questione, avendo riguardo agli altri motivi dedotti in ricorso che avrebbero potuto condurre all’accoglimento di quest’ultimo e della cui infondatezza la Commissione rimettente non aveva dato il dovuto conto ([1]).
Né, sempre in anni recenti, sono mancati rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia che dubitavano della coerenza delle previsioni sull’aggio con la normativa sugli aiuti di Stato ([2]) o sentenze delle Commissioni di merito che, al di fuori della sottoposizione di questioni di costituzionalità, hanno assunto posizioni fortemente critiche sull’aggio, dichiarandolo non dovuto poiché l’agente della riscossione non aveva offerto la prova delle attività svolte e compensate con l’aggio stesso ([3]).
Prendendo forse atto dei crescenti rilievi critici mossi all’aggio di riscossione, l’ordinanza in commento della Corte Costituzionale entra in medias res e ammonisce il legislatore a procedere quanto prima ad una riforma del complessivo sistema della riscossione coattiva, ivi compresa la disciplina dell’aggio. La fermezza della posizione della Corte unita alla puntualità dei rilievi critici sul sistema di riscossione fanno quasi passare in secondo piano il dispositivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale motivata dal margine di discrezionalità riservato al legislatore nel porre rimedio alle incoerenze del sistema rispetto ai principȋ costituzionali.
2. La questione di costituzionalità e la pronuncia della Corte
La questione rimessa dalla Commissione tributaria provinciale di Venezia ([4]) traeva origine da un contenzioso in cui il ricorrente aveva impugnato la cartella di pagamento notificatagli a seguito di sentenza sfavorevole emessa dalla Corte di Cassazione con esclusivo riferimento all’aggio di riscossione. Data la riferibilità dell’impugnazione al solo versante dell’aggio, nessun dubbio poteva porsi sulla rilevanza della questione di costituzionalità rispetto alla decisione del giudizio a quo ([5]).
Con riferimento al dettato normativo oggetto delle censure, vale ricordare che in base all’art. 17, d.lgs. n. 112 del 1999 – nella versione precedente a quella risultante a seguito delle modifiche di cui all’art. 9, d.lgs. n. 159 del 2015 ([6]) e rilevante ratione temporis – il contribuente era tenuto al versamento dell’aggio di riscossione in tutti i casi, sia che versasse le somme dovute entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella, sia che il versamento avvenisse oltre il predetto termine. L’unica differenza era di carattere quantitativo: nel primo caso era a carico del contribuente un onere pari al 51% dell’aggio di riscossione, mentre nel secondo caso l’aggio era interamente a carico del contribuente.
La Commissione veneziana ha censurato tale disciplina in relazione a diversi parametri costituzionali.
Anzitutto, le norme sull’aggio sono state ritenute in contrasto con i principȋ di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. in ragione del mancato legame e del conseguente difetto di proporzione tra ammontare dell’aggio dovuto e costi sopportati dall’agente della riscossione, tenuto anche conto dell’assenza di un limite minimo e massimo di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto ([7]). A ciò si aggiungano – precisa la Commissione – che le modalità di calcolo dell’aggio si presentano ad un tempo irragionevoli e discriminatorie: irragionevoli in quanto la base di calcolo dell’aggio comprende anche gli interessi dovuti all’ente impositore – sicché l’ente impositore finisce per percepire “un sovrappiù a titolo di interessi su somme da quest’ultimo non anticipate né tantomeno sborsate” – e discriminatorie in quanto, a parità di servizio reso, diversi contribuenti sarebbero tenuti al pagamento di un aggio in misura diversa unicamente in funzione della somma oggetto di riscossione.
Se ciò è vero, allora la disciplina dell’aggio deve reputarsi altresì in contrasto con il principio di capacità contributiva: il venir meno del carattere di controprestazione proprio dell’aggio fa sì che esso divenga una vera e propria prestazione tributaria, come tale illegittima perché disancorata dalla capacità contributiva del cittadino e neppure in linea con il criterio di progressività del sistema tributario sancito dal secondo comma dell’art. 53 Cost.
I giudici veneziani ritengono, poi, che le norme sull’aggio violino i principȋ costituzionali sulla riserva di legge applicabile alle prestazioni imposte e sul diritto di difesa. Vi sarebbe lesione della riserva di legge in quanto mancherebbe una previsione di legge che determini la misura del costo dell’esecuzione coattiva o che, comunque, fissi un tetto minimo e massimo di tale costo in modo da limitare la discrezionalità dell’imposizione da parte dell’agente di riscossione. La lesione dell’art. 24 Cost sarebbe ravvisabile, poi, nella mancata previsione a carico dell’agente di riscossione di indicare dettagliatamente all’interno della cartella di pagamento gli atti esecutivi compiuti nel caso specifico, con la conseguenza che il contribuente sarebbe chiamato al pagamento di costi riferiti ad attività non conosciute, né conoscibili e, in ipotesi, neppure poste in essere.
Infine, il mancato collegamento della misura dell’aggio ai costi di riscossione darebbe luogo sia ad un eccesso di delega in violazione dell’art. 76 Cost. ([8]), sia ad un contrasto con i principȋ di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost., dovendo considerarsi i criteri di trasparenza, correlazione con l’attività richiesta e congruità con i costi medi di gestione del servizio quali corollari dei principȋ sanciti dalla Carta costituzionale.
La Corte Costituzionale condivide i dubbi in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio, ma – come diremo nel successivo par. 3 del presente lavoro – sulla scorta di un percorso argomentativo diverso da quello della Commissione veneziana e che, anziché soffermarsi sul piano particolare dell’aggio addebitato nel caso di specie, si situa su un piano più generale. Ciò non toglie che, come anticipato in premessa, i giudici costituzionali giungano ad una dichiarazione di inammissibilità della questione prospettata, motivata dal margine di discrezionalità che deve essere lasciato al legislatore in sede di revisione delle norme sull’aggio e, in senso più ampio, della disciplina della riscossione coattiva. Ci occuperemo della declaratoria di inammissibilità della questione nel par. 4 del lavoro, esponendo le ragioni in base alle quali la conclusione raggiunta dalla Corte deve ritenersi, a nostro avviso, condivisibile.
3. Le censure della Corte in punto di ragionevolezza della disciplina dell’aggio
Le censure sulla ragionevolezza della disciplina dell’aggio si fondano su un iter logico-argomentativo imperniato su due cardini essenziali.
Anzitutto, i giudici costituzionali affrontano il tema della natura dell’aggio di riscossione. Con particolare riferimento all’ipotesi in cui il contribuente versi il dovuto entro i sessanta giorni dalla notifica della cartella – ciò che, quindi, esaurisce l’attività dell’agente della riscossione – taluni avevano ravvisato nell’aggio di riscossione i caratteri di una sanzione impropria ([9]), altri l’avevano ricondotto tra gli oneri tributari o paratributari, in quanto i costi della struttura deputata alla riscossione dei tributi vengono addossati ad alcuni contribuenti – vale a dire i contribuenti morosi, per essi intendendosi anche coloro che ricevano una cartella di pagamento e adempiano entro sessanta giorni ([10]) – in proporzione all’entità del debito tributario posto in riscossione ([11]), altri ancora avevano ravvisato nell’aggio una natura retributiva, costituendo esso il compenso per l’attività esattiva svolta ([12]); tesi, quest’ultima, condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità ([13]).
La Corte Costituzionale richiama la posizione della Corte di Cassazione e sembra aderire, almeno parzialmente, ad essa. Da un lato, infatti, in alcun modo adombra la possibilità di qualificare l’aggio come prestazione tributaria o paratributaria (né sottopone la relativa disciplina al vaglio ex art. 53 Cost.), dall’altro lato, la Corte, sebbene precisi che l’aggio è rivolto “non tanto a remunerare le singole attività compiute dal soggetto incaricato della riscossione, ma a coprire i costi complessivi del servizio”, comunque richiede che il suo ammontare resti “coerente con la sua funzione” e non si traduca in un addebito arbitrario nei confronti dei contribuenti.
Proprio questo è il passaggio argomentativo alla base dell’ulteriore sviluppo del ragionamento della Corte. La disciplina dell’aggio viene censurata sul piano costituzionale avendo riguardo non già al rapporto con i costi sostenuti dall’agente della riscossione per lo svolgimento delle attività richieste dalla specifica procedura esecutiva, quanto sul piano della sua idoneità a coprire i costi del servizio di riscossione globalmente considerato restando coerente con i principî di ragionevolezza e non arbitrarietà.
È proprio per tale ragione che i giudici costituzionali, discostandosi dagli argomenti della Commissione veneziana, hanno ravvisato la violazione non tanto del principio di eguaglianza – sub specie del divieto di discriminazione tra contribuenti che, pur ricevendo un servizio analogo da parte dell’agente della riscossione, siano debitori di somme diverse e siano quindi tenuti a versare aggi in misura diversa ([14]) – quanto del principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà delle scelte del legislatore tributario, atteso che sulla limitata platea dei contribuenti cc.dd. solventi ([15]) finiscono per essere addebitati i costi dell’intero servizio di riscossione e, in particolare, i costi dell’“abnorme dimensione delle esecuzioni infruttuose”. In altri termini, i giudici costituzionali si astraggono dalla quantificazione dei compensi dovuti per le attività svolte dall’agente della riscossione nel caso specifico e indirizzano le proprie riflessioni sul piano generale e complessivo del sistema di riscossione, in cui la violazione del principio di ragionevolezza viene riscontrata nell’arbitrarietà dell’addebito ai contribuenti solventi dei costi del c.d. «non riscosso».
Ed è proprio nell’ottica del complessivo sistema della riscossione tributaria che trovano spiegazione i riferimenti della Corte Costituzionale sia alle analisi della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato per l’anno 2019 e da cui emerge un indice di riscossione del 13,3, per cento sul volume delle riscossioni relativo al periodo 2000-2019, sia alle affermazioni di tenore analogo del Direttore dell’Agenzia delle entrate nell’audizione dinanzi alla VI Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Dati che, peraltro, risultano confermati anche dal più recente rapporto 2021 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica, da cui emerge non solo un indice di riscossione (13,1%) a distanza di venti anni dall’iscrizione a ruolo sostanzialmente in linea con quello dell’analisi dell’anno precedente, ma anche come tale indice non superi il 15% a distanza di un decennio dall’iscrizione a ruolo ([16]).
Ancora, il riferimento al sistema di riscossione tributaria inteso nel suo complesso ed al carattere arbitrario dei costi sopportati dai contribuenti solventi offre alla Corte l’opportunità di collegare la lesione del principio di ragionevolezza a quelli di solidarietà – che costituisce il fondamento del dovere tributario previsto dal successivo art. 53 Cost. – e, soprattutto, di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. È bensì vero che, in conformità alla giurisprudenza della Corte, tale ultimo principio non costituisce parametro autonomo di giudizio, ma, al più, elemento della più ampia valutazione di ragionevolezza della disciplina ([17]). Ciononostante, il richiamo all’eguaglianza sostanziale si rivela importante in quanto consente alla Corte di precisare che essa si riferisce non solo alla «tradizionale» area dei diritti sociali, ma anche a quella dei diritti civili: come da tempo messo in luce da un’autorevole dottrina costituzionalistica anche l’effettivo esercizio dei diritti di libertà (e dei diritti politici) richiede “un intervento sociale che ne istituzionalizzi la protezione, senza la quale [essi] resterebbero pretese astratte, di mero fatto, o prive di qualunque garanzia” ([18]).
4. La declaratoria di inammissibilità della questione e l’urgente riforma della riscossione tributaria
Il citato riferimento al sistema della riscossione tributaria nel suo complesso è altresì alla base della declaratoria di inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dalla Commissione veneziana e dell’ulteriore sviluppo del percorso argomentativo della Corte in relazione alla modifica della disciplina dell’aggio.
Il giudice a quo aveva richiesto alla Corte l’adozione di una sentenza interpretativa di accoglimento che integrasse la disciplina dell’aggio in base a quanto statuito dalla stessa Corte nella risalente (ma tuttora rilevante) pronuncia n. 480 del 1993 relativa ai compensi spettanti al concessionario della riscossione per la Regione Sicilia. In particolare, i giudici veneziani chiedevano alla Corte la fissazione di limiti minimi e massimi di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto, nonché di un rapporto di proporzionalità inversa tra l’aggio stesso e la somma da riscuotere.
La Corte rigetta tale richiesta sottolineando che all’irragionevolezza della disciplina può porsi rimedio con modalità diverse e che la scelta tra esse resta rimessa alla libera determinazione del legislatore.
Si tratta, a nostro avviso, di una soluzione condivisibile per motivi legati sia alle peculiarità delle sentenze interpretative di accoglimento, sia alle ragioni di politica fiscale sottese al ragionamento della Corte.
Quanto alle sentenze interpretative di accoglimento, occorre ricordare che l’accettazione di pronunce che dichiarino l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione di una norma passa per la desumibilità della norma omessa da altre norme e principȋ contenuti nel sistema normativo, interpretato anche in via analogica ([19]). Se così è, deve allora condividersi l’osservazione della Corte laddove mette in luce la riferibilità delle norme oggetto di analisi con la sentenza n. 480 del 1993 ad un sistema normativo ormai non più attuale, sol che si pensi che la previsione del rapporto di proporzionalità inversa tra aggio dovuto e somme da riscuotere era animata da una finalità di perequazione del carico affidato in riscossione ai diversi concessionari locali e che tale obiettivo non può più ritenersi attuale in presenza di un sistema di riscossione sostanzialmente accentrato a livello nazionale ([20]).
Nel prospettare le linee di intervento della Corte, si sarebbe forse potuto fare riferimento al recente intervento nel settore della riscossione dei tributi locali, ove il legislatore ha stabilito limiti di carattere assoluto all’ammontare dell’aggio dovuto ([21]). La conclusione della Corte probabilmente non sarebbe cambiata – i giudici costituzionali avrebbero comunque potuto far leva sulle diversità tra la riscossione dei tributi locali e quella dei tributi erariali – ma, quantomeno, si sarebbero forniti alla Corte riferimenti e principȋ contenuti in un sistema normativo di recente introduzione e tuttora applicabile.
Quanto alle ragioni di politica fiscale, non può trascurarsi che la Corte, per il tramite del riferimento al sistema della riscossione tributaria complessivamente considerato, sembra propendere per una revisione della disciplina dell’aggio radicalmente diversa da quella prospettata dal giudice a quo. La previsione di limiti assoluti all’ammontare dell’aggio dovuto, infatti, costituirebbe un correttivo teso a salvaguardare la posizione dei contribuenti, ma non muterebbe le caratteristiche fondamentali del sistema: in ogni caso i costi della riscossione (e, in particolare, delle esecuzioni infruttuose) resterebbero a carico dei contribuenti solventi, sia pur in misura attenuata. Con la conseguenza che la quota di tali costi non addebitabile ai contribuenti solventi non potrebbe che gravare sulla fiscalità generale.
È in quest’ottica, allora, che trova ragione il riferimento, neppure tanto velato, dei giudici costituzionali al venir meno della ragion d’essere dell’istituto dell’aggio, che è “divenuto anacronistico e costituisce una delle cause di inefficienza del sistema”, dovendo il legislatore prendere in seria considerazione l’ipotesi di porre i costi del sistema di riscossione integralmente a carico della fiscalità generale, sulla scia di quanto accade da tempo nei principali Stati dell’Unione europea ([22]). Ciò che deve avvenire – sottolinea la Corte – nell’ambito di un’urgente ed indifferibile riforma del sistema di riscossione inteso nel suo complesso, che sia ispirata ad una maggiore efficacia dell’esazione dei crediti tributari, soprattutto se di minore entità ([23]).
Appare del tutto evidente, poi, che ad una tale riforma non possa procedere la Corte per via di sentenza, ma che essa debba costituire il risultato di una meditata e profonda revisione da parte del legislatore dell’impianto normativo della riscossione. Di qui, dunque, il monito al legislatore ad attivarsi in tal senso e la declaratoria di inammissibilità della questione posta dalla Commissione tributaria veneziana.
5. Considerazioni conclusive e prospettive future
Dopo molti e vani tentativi di rinvio, la Corte Costituzionale ha finalmente ritenuto di dover mettere in luce i profili di irragionevolezza ed arbitrarietà della disciplina dell’aggio di riscossione, ammonendo il legislatore a procedere quanto prima ad una complessiva riforma del sistema di esazione dei tributi. In tale ottica di sistema trova fondamento anche la declaratoria di inammissibilità della questione posta dal giudice a quo: anziché limitarsi alla correzione – peraltro tecnicamente difficile, nelle circostanze – di singoli profili della disciplina mediante una sentenza additiva, la Corte invoca una revisione dell’intero sistema di riscossione, tesa a renderlo più efficiente e tempestivo, ciò che andrebbe a beneficio non solo degli enti impositori ([24]), ma anche della generalità dei contribuenti, sub specie della piena attuazione di quel dovere generale di solidarietà su cui si fonda anche il dovere tributario. Come sottolinea la Corte dei Conti nel suo più recente rapporto sul rendiconto generale dello Stato ([25]), “la riscossione coattiva delle somme ancora dovute costituisce complemento imprescindibile” del più generale sistema di attuazione dei tributi fondato sull’adempimento spontaneo da parte dei contribuenti.
L’auspicio, allora, è che nell’ambito della riforma fiscale di cui si sta attualmente discutendo a livello governativo possa trovare posto anche la complessiva revisione della disciplina della riscossione tributaria, secondo i principȋ ed i criteri chiaramente indicati dalla Corte Costituzionale ([26]). Un segnale in tal senso si rinviene nel recente documento delle Commissioni parlamentari redatto a conclusione dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’IRPEF ove si afferma che “la riscossione deve andare incontro ad una vera e propria ‘rivoluzione manageriale’, in grado di superare l’approccio meramente formale e virare verso una gestione del processo produttivo interamente concentrata su efficienza ed efficacia” ([27]).
Le intenzioni sembrano buone, non resta che attendere i fatti.
([1]) Limitandoci all’ultimo decennio, si vedano le ordinanze della C.T.P. di Roma n. 271 del 23 settembre 2010, della C.T.P. di Torino n. 147 del 18 dicembre 2012 e della C.T.P. di Latina n. 40 del 29 gennaio 2013. Per alcune riflessioni sulle ordinanze si vedano E. DE MITA, La riscossione servizio già pagato. L’aggio è un extra, in Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2013, p. 23; S. CANNIZZARO, Alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’«aggio» di riscossione, in Corriere tributario, 2013, p. 1283-1288. Le questioni sollevate dalla prima ordinanza sono state dichiarate manifestamente inammissibili con l’ordinanza n. 158 del 21 giugno del 2013; mentre l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla C.T.P. di Torino e dalla C.T.P. di Latina è stata dichiarata con l’ordinanza n. 147 del 9 luglio 2015. Poi, con l’ordinanza n. 129 del 26 maggio 2017 è stata dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate dall’ordinanza della C.T.P. di Cagliari n. 43 del 29 maggio 2014; dall’ordinanza della C.T.P. di Roma n. 71 del 7 luglio 2014 e dall’ordinanza della C.T.P. di Milano n. 81 del 23 novembre 2015. Da ultimo, anche la C.T.R. Lombardia aveva sottoposto una questione di costituzionalità della disciplina dell’aggio di riscossione con l’ordinanza n. 264 dell’8 giugno 2016, anch’essa ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 65 del 29 marzo 2018. Per un commento sull’ordinanza della C.T.R. Lombardia si veda G. GLENDI, Ritorna alla Corte Costituzionale la questione della legittimità costituzionale dell’”aggio”, in Diritto e pratica tributaria, 2018, p. 406-419.
([2]) Si veda la questione pregiudiziale sollevata dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE dalla C.T.P. di Latina con ordinanza n. 41 del 29 gennaio 2013 relativa al possibile contrasto tra la disciplina dell’aggio di riscossione e la normativa unionale in materia di aiuti di Stato. Per un commento dell’ordinanza si veda S. CANNIZZARO, Rinvio alla Corte di giustizia UE sulla natura di aiuto di Stato dell’aggio di riscossione, in Corriere tributario, 2013, p. 1596-1602. Con l’ordinanza del 27 febbraio 2014, C-181/13, Acanfora, la Corte di giustizia ha ritenuto la questione sollevata (con riferimento alla possibile violazione delle norme sugli aiuti di Stato) manifestamente irricevibile in quanto il giudice a quo non aveva fornito ai giudici unionali elementi sufficienti per una risposta utile sulla questione.
([3]) Il riferimento è alla pronuncia della C.T.P. di Treviso, sez. VIII, 25 settembre 2012, n. 84, che, dopo aver evidenziato che all’aggio di riscossione può riconoscersi, alternativamente, natura sanzionatoria ovvero retributiva rispetto all’attività svolta dall’agente della riscossione, sottolinea come nel primo caso l’illegittimità deriverebbe dall’assenza di inadempimenti ad opera del debitore e dall’estraneità dell’irrogazione dello stesso aggio rispetto alla disciplina delle sanzioni tributarie e, nel secondo caso, discenderebbe, almeno nel caso di specie, dalla mancata prova ad opera dello stesso agente dell’attività svolta in grado di giustificare la richiesta delle somme addebitate. A nostro avviso, si tratta di posizione non condivisibile, in quanto giunge alla disapplicazione nel caso di specie di una norma di legge, vale a dire l’art. 17 del d.lgs. n. 112 del 1999, ciò che non rientra tra i poteri del giudice tributario il quale, se del caso, può sollevare una questione di costituzionalità della norma stessa, come dimostrano, del resto, le ordinanze citate nella precedente nota n. 1. Sul tema si veda anche A. RENDA, Illegittimo l’aggio di riscossione senza le prove della effettiva attività svolta per il recupero delle imposte, in Corriere tributario, 2012, p. 3499-3504.
([4]) C.T.P. Venezia, sez. I, ordinanza n. 85 del 5 giugno 2019.
([5]) Diversamente da quanto accaduto, per esempio, per la questione sollevata dall’ordinanza della C.T.P. di Roma n. 271 del 23 settembre 2010, dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale per non aver offerto adeguata motivazione “sulla rilevanza della questione sollevata, dal momento che il giudice rimettente non ha in alcun modo illustrato, anche solo sommariamente, le ragioni di infondatezza degli altri motivi di ricorso, pure spiegati in via principale nel giudizio a quo ed aventi «priorità logica»”.
([6]) L’ordinanza della C.T.P. Venezia ricorda, peraltro, che l’attuale formulazione dell’art. 17, comma 1, d.lgs. n. 112 del 1999 non risulta attuata in ragione della mancata emanazione del decreto ministeriale che avrebbe dovuto individuare i criteri ed i parametri per la determinazione dei costi di funzionamento del servizio di riscossione, anche nell’ottica di una possibile diminuzione delle misure attualmente fissate dell’aggio di riscossione.
([7]) A questo proposito l’ordinanza della Commissione veneziana richiamava uno dei rari casi in cui la Corte Costituzionale si è occupata nel merito della determinazione dell’aggio di riscossione: il riferimento è alla sentenza della Corte Costituzionale n. 480 del 1993 in cui i giudici costituzionali – con riferimento ai compensi spettanti ai concessionari del servizio di riscossione delle imposte operanti in Sicilia – avevano ritenuto che un sistema di determinazione dei compensi basato su una misura di carattere percentuale con la fissazione di un limite minimo e di un limite massimo del compenso dovuto realizzasse “un opportuno ed effettivo ancoraggio della remunerazione al costo del servizio, contemporaneamente impedendo, per un verso, che […] la misura percentuale del compenso scenda al di sotto del livello minimo di remuneratività del servizio e, per converso, che […] il compenso stesso salga notevolmente al di sopra della predetta soglia di copertura del costo della procedura”.
([8]) Il riferimento è al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 1, lett. e), legge 28 settembre 1998, n. 337 che, nell’ambito di un complessivo riordino della disciplina della riscossione tributaria, delegava il Governo a prevedere un “sistema di compensi collegati alle somme iscritte a ruolo effettivamente riscosse, alla tempestività della riscossione e ai costi della riscossione, normalizzati secondo criteri individuati dal Ministero delle finanze, nonché alla situazione socio-economica degli ambiti territoriali con il rimborso delle spese effettivamente sostenute per la riscossione di somme successivamente sgravate, o dovute da soggetti sottoposti a procedure concorsuali”.
([9]) G. CASTELLANI – A. FIORILLI, Perché pagare l’aggio di riscossione su somme che potrebbero essere versate spontaneamente?, in Dialoghi tributari, 2009, p. 455-457 parlano di “funzione pseudo-sanzionatoria” ravvisabile in tutti i casi in cui l’aggio non remuneri “alcuna attività di riscossione di crediti proprio a motivo dell’ampia disponibilità del debitore diligente di effettuare tempestivamente i versamenti obbligatori per legge”.
([10]) Per la ricomprensione anche di tali soggetti tra i contribuenti morosi si vedano le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, sintetizzate al par. 2.2. delle considerazioni in fatto della sentenza in commento.
([11]) In questo senso G. INGRAO, Gli interessi moratori e l’aggio di riscossione nella nuova dinamica della riscossione dei tributi, in Dialoghi tributari, 2011, p. 651-653. Si veda anche P. COPPOLA, La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di ragionevolezza e coerenza interna, in Rassegna tributaria, p. 1421 e ss. che argomenta sull’incostituzionalità delle norme sull’aggio ritenendolo un “accessorio di un tributo”.
([12]) A favore della qualificazione dell’aggio come “controprestazione economica per l’attività esplicata a beneficio dell’ente” e che, come tale, “forma il contenuto di un’obbligazione che deriva direttamente dalla legge” si era espressa già una risalente pronuncia della Corte dei Conti del 19 gennaio 1937 citata da A. RENDA, Illegittimo l’aggio di riscossione senza le prove della effettiva attività svolta per il recupero delle imposte, cit., p. 3499-3504.
([13]) Si veda Cass., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3416 secondo cui “l’aggio di riscossione ha natura retributiva, trattandosi del compenso per l’attività esattoriale, e questa natura non muta in base al soggetto – contribuente, ente impositore od entrambi pro quota – a carico del quale è posto il pagamento nelle varie circostanze”. In senso analogo si vedano anche Cass., sez. V., 11 maggio 2020, n. 8714; Cass., sez. V, 28 febbraio 2017, n. 5154; Cass., sez. V, 23 dicembre 2015, n. 25932 nonché Cass., sez. V, 3 aprile 2014, n. 7868.
([14]) Nella sua ordinanza di rimessione la commissione veneziana aveva rilevato la violazione del principio di eguaglianza in quanto, tra l’altro, la disciplina dell’aggio “prevedendo una percentuale fissa applicabile a ogni importo, crea una disparità di trattamento tra i contribuenti soggetti al servizio, in quanto, a parità di servizio reso (compilazione della cartella), il compenso varia in relazione al mero dato della somma oggetto di riscossione, senza riguardo alcuno alle attività che l’inadempimento rende necessarie ai fini dell’esazione dell’importo”.
([15]) Vale a dire di quei contribuenti destinatari di una cartella di pagamento e che adempiano nel termine di sessanta giorni.
([16]) Si veda Corte dei Conti, Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 139.
([17]) Precisa F. SORRENTINO, Dell’eguaglianza, Modena, 2014, p. 50-51 che il principio di eguaglianza sostanziale, in ragione della sua struttura, “raramente perviene all’attenzione del giudice delle leggi come parametro di giudizio, è però vero che esso entra comunque nella sua considerazione, sia ai fini del giudizio di ragionevolezza alla stregua del primo comma dell’art. 3, sia nel quadro di un bilanciamento, sempre difficile, tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, che, a seconda dei diritti che vengono di volta in volta in considerazione, vede la prevalenza ora dell’uno ora dell’altro”.
([18]) M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in Democrazia e diritto, 4/1994 -1/1995, p. 565, che adduce, a titolo esemplificativo, il caso del diritto di difesa che, richiedendo l’apprestamento di mezzi concreti per il suo esercizio (giudici, aule, strutture amministrative), si risolve, a ben vedere, anche in un diritto a prestazione. Sul tema si veda anche il noto saggio di S. HOLMES – C.R. SUNSTEIN, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Bologna, 2000.
([19]) Già molti anni fa l’illustre V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano. La Corte Costituzionale, Padova, 1984, II, 2, p. 404 precisava che “la dichiarazione di incostituzionalità della omissione ha, allora, l’effetto di introdurre indirettamente quella disciplina che faceva difetto: traendola, ovviamente, non dalla fantasia della Corte, ma, per analogia, da altre norme e principȋ contenuti nel sistema (o addirittura dalla stessa norma costituzionale alla stregua della quale si è svolto il giudizio)”.
([20]) A questo riguardo si tenga conto che l’art. 76, decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73 ha previsto che il prossimo 30 settembre avvenga lo scioglimento anche di Riscossione Sicilia S.p.A., vale a dire dell’agente della riscossione per la Regione Sicilia, e che le relative funzioni siano affidate ad Agenzia delle entrate – Riscossione.
([21]) Il riferimento è all’art. 1, comma 803, legge 27 dicembre 2019, n. 160 ove si prevede che la quota degli oneri di riscossione a carico del debitore sia “pari al 3 per cento delle somme dovute in caso di pagamento entro il sessantesimo giorno dalla data di esecutività dell’atto di cui al comma 792, fino ad un massimo di 300 euro, ovvero pari al 6 per cento delle somme dovute in caso di pagamento oltre detto termine, fino a un massimo di 600 euro”. È ben vero che tali previsioni sono state introdotte successivamente alla pubblicazione dell’ordinanza della Commissione veneziana, ma si sarebbe potuto far riferimento ad esse nel contraddittorio tra le parti costituite dinanzi alla Corte (ciò che, almeno in base a quanto riportato nella premessa in fatto della sentenza, non sembra essere avvenuto).
([22]) Sul tema si vedano i risultati della ricerca della FONDAZIONE BRUNO VISENTINI, La riscossione in Italia, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito: un’analisi comparata, Viterbo, 2015 da cui emerge che, tra gli Stati considerati, l’Italia è l’unico Paese in cui la remunerazione dell’attività di riscossione è posta a carico dei contribuenti inadempienti o morosi.
([23]) Sul punto si veda anche quanto afferma la Corte Costituzionale nella sentenza 15 marzo 2019, n. 51: “resta fermo che una riscossione ordinata e tempestivamente controllabile delle entrate è elemento indefettibile di una corretta elaborazione e gestione del bilancio, inteso come ‘bene pubblico’ funzionale ‘alla valorizzazione della democrazia rappresentativa’, mentre meccanismi comportanti una ‘lunghissima dilazione temporale’ (sentenza n. 18 del 2019) sono difficilmente compatibili con la sua fisiologica dinamica. In tale prospettiva deve essere sottolineata l’esigenza che per i crediti di minore dimensione il legislatore predisponga sistemi di riscossione più efficaci, proporzionati e tempestivi di quelli fin qui adottati”.
([24]) Anche per mettere fine alla vicenda dei residui attivi presenti in molti dei bilanci pubblici, che – come sottolinea la Corte – ne minano la trasparenza e l’affidabilità.
([25]) Si veda Corte dei Conti, Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 140.
([26]) Come icasticamente sottolinea E. DE MITA, Nella riscossione va cancellata l’ingiustizia dell’aggio, in Il Sole 24 Ore, p. 33-35 “la sentenza 120/2021 potrebbe già essere la relazione illustrativa della riforma che la Corte sollecita come indifferibile”.
([27]) Si veda il documento delle Commissioni riunite VI Commissione (Finanze) della Camera dei Deputati e 6° Commissione (Finanze e Tesoro) del Senato della Repubblica, Indagine conoscitiva sulla Riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario, 30 giugno 2021, p. 84.
Relazione del Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia sulle iniziative di riforma in materia di giustizia
1.L’esperienza che si sta facendo suggerisce infatti di esser pronti a intervenire con celerità e con immediatezza, perché il cantiere delle riforme è ricco di temi e i tempi spesso sono molto rapidi.
Siamo chiamati in questo frangente ad un più intenso impegno nello studio di tanti progetti di riforma, anche in termini propositivi.
E ciò al fine di disporre negli spazi di discussione pubblica, angusti o meno angusti che siano, degli argomenti per una tempestiva considerazione critica di quanto viene proposto o emendato.
E per essere in grado, ove occorra, di suggerire soluzioni alternative, strade diverse, più efficaci e comunque funzionali all’obiettivo rispetto al quale non ci diversifichiamo dai proclami politici, ossia il miglioramento dell’efficienza e della qualità della risposta di giustizia.
2. Come si è sperimentato in occasione della vicenda degli emendamenti al disegno di legge AC 2435 “di delega al Governo per l'efficienza del processo penale ecc. ecc. ", i tempi dell’azione riformatrice possono subire delle forti accelerazioni.
Gli emendamenti sono stati approvati dal Governo senza che trapelasse prima una bozza di lavoro.
Sino alla seduta del Consiglio dei Ministri in cui sono stati varati si conoscevano soltanto i risultati dei lavori della Commissione ministeriale di esperti, la Commissione presieduta dal presidente Lattanzi.
La sostanziosa rivisitazione del disegno di legge presentato dal precedente Ministro è stata quindi compiutamente conosciuta soltanto qualche giorno dopo la seduta del Consiglio dei ministri.
3. Peraltro, il Governo si è determinato, per una parte centrale di quell’impianto riformatore – prescrizione del reato e tempi del processo –, in modo difficilmente pronosticabile.
Ha infatti finito col recepire una opzione “discussa anche se non accolta come proposta della Commissione” – utilizzo le testuali espressioni della Relazione consegnata dalla Commissione Lattanzi –.
Per tale ragione ci si è dovuti misurare con una proposta emendativa inaspettata, anche per la eccentricità della soluzione adottata.
4. La Gec ha però saputo agire con la dovuta tempestività.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato gli emendamenti nella seduta serale dell’8 luglio; le notizie sui contenuti degli emendamenti si sono avute, in termini di sufficiente certezza, dopo qualche giorno.
La Gec ha allora elaborato una netta posizione di critica, resa nota con un comunicato dal titolo “Il principio di realtà e la proposta del Governo sulla prescrizione processuale” – del 14 luglio –, e ciò lo stesso giorno della presentazione alla Camera degli emendamenti.
Contestualmente ha richiesto di poter essere ascoltata dalla Commissione giustizia della Camera ed è stata ascoltata nella giornata del 16 luglio, consegnando un documento di osservazioni e rilievi sulla soluzione dell’improcedibilità e su qualche altro aspetto di quel disegno riformatore.
5. Il seguito è assai noto.
Anche grazie alle argomentate, ragionate, critiche che in quella sede sono state illustrate, il Governo e la sua maggioranza hanno modificato l’iniziale proposta sulla improcedibilità, hanno attenuato i vistosi difetti di quell’impianto, che però resta insoddisfacente perché legato ad una opzione in favore di una soluzione sistematicamente inaccettabile.
Oggi avremo modo di approfondire il disegno di legge grazie al pregevole lavoro della Commissione di studio, che ci ha consegnato un esame attento, puntuale e completo dell’intero impianto.
E vedremo nei prossimi giorni se, come sembra facile preconizzare, l’esigenza governativa di rispettare un calendario delle riforme a tappe sostanzialmente forzate prevarrà sul bisogno avvertito anche da buona parte dell’Accademia di rimediare alla irrazionalità di quella scelta.
6. Tempi parlamentari meno stringenti hanno interessato, almeno all’inizio, la trattazione degli emendamenti al disegno di legge di riforma del processo civile, AS n. 1662 di delega al Governo per l’efficienza del processo civile ecc. ecc., presentati nel giugno scorso.
Qui il Governo si era mosso indicando la necessità di un intervento articolato su più e diversi piani per il raggiungimento di un obiettivo particolarmente ambizioso.
In gioco è la riduzione, per esigenze di rispetto delle previsioni del PNRR, della eccessiva durata del processo civile.
Occorre abbattere i tempi dei processi del 40% e, come sappiamo e come spesso viene ricordato, l’attuazione delle riforme della giustizia è condizione dell’intero piano di finanziamento europeo.
Nella predisposizione degli emendamenti il Governo aveva inteso coniugare riforme del rito, miglioramento dell’organizzazione e rafforzamento delle ADR, nella consapevolezza, credo da condividere, che la riduzione dei tempi, senza scadimento della qualità della risposta e indebolimento delle garanzie, non possa che essere il risultato di una pluralità di azioni coordinate.
7. È però notizia giornalistica di questi giorni che le critiche dell’avvocatura alle soluzioni messe in campo in tema di riforma del rito hanno indotto il Governo, e per esso il Ministero della Giustizia, a rivedere le scelte compiute in tema di prima udienza e di correlate preclusioni e decadenze.
Da quel che si apprende dalla lettura dei giornali, è stata ultimata una bozza di modifica concertata dal Ministero con i capigruppo di maggioranza in Commissione giustizia al Senato e con le relatrici del disegno di legge, calendarizzato per l’esame in Aula al prossimo 14 settembre.
Non entro ora nel merito della fondatezza delle proteste degli avvocati e quindi della accettabilità, e della congruità al fine della riduzione dei tempi, delle soluzioni per le quali, a pena di decadenza, nell’atto di citazione e nella correlata comparsa di risposta devono essere indicati specificamente i mezzi di prova e i documenti offerti in comunicazione e devono essere svolte tutte le difese in modo da evitare lungaggini di successive udienze per la modifica delle domande, delle difese e per l’articolazione dei mezzi di prova.
E non prendo posizione sulla utilità, sempre ai fini dell’abbattimento dei tempi dei processi, di una previsione che colleghi alla contumacia la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda, ove essa abbia ad oggetto la materia dei diritti disponibili.
Credo però che a questo punto sia urgente e doveroso interrogarsi, partendo dalle già ricordate premesse dell’azione riformatrice del Governo, se il non marginale aggiustamento delle proposte sul rito possa far dire che l’impianto di riforma è ancora adeguato al raggiungimento dell’ambizioso obiettivo.
O se, invece, l’attenuazione della portata innovatrice di quelle soluzioni debba essere compensata da altri accorgimenti che non facciano gravare soltanto sugli altri due pilastri il peso e la responsabilità di assicurare tempi di definizione dei processi sensibilmente più brevi.
8. Non mi pare realistico sperare che si possano abbreviare del 40% i tempi dei processi contando soltanto sul potenziamento delle ADR, per il vero non così significativo, e sulle misure di riorganizzazione degli uffici giudiziari, e quindi sulla nuova strutturazione dell’ufficio per il processo.
Il timore è che riversando l’intero carico di attese e di speranze di un così robusto efficientamento della giustizia civile soltanto su questi due capitoli della riforma, e in particolare sulla nuova fisionomia dell’ufficio per il processo, li si consegni a un futuro assai incerto, in qualche modo ponendo le condizioni per registrarne in beve tempo il sostanziale fallimento.
Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle riforme, che sono per la gran parte necessitate dall’urgenza di venir fuori da una crisi di portata eccezionale, e che ci si debba predisporre costruttivamente, rifuggendo da atteggiamenti di preconcetta chiusura alle innovazioni.
Personalmente penso anche che occorra coltivare un cauto e razionale ottimismo, per tenere a bada le pur comprensibili tendenze al disincanto.
Ma l’ottimismo non può essere ingenuo, va sostenuto con il necessario realismo, perché solo in tal modo si impedisce che l’entusiasmo riformatore si faccia in breve tempo pericolosa illusione.
La Magistratura dovrà fare la sua parte affinché gli strumenti messi a disposizione possano essere utilizzati nel miglior modo possibile.
In termini di ampliamento delle risorse, il reclutamento di oltre 8.000 addetti da destinare all’ufficio per il processo non è poca cosa, e occorrerà nel breve tempo ragionare sulla allocazione migliore all’interno degli uffici, per sfruttare nella massima misura le potenzialità della nuova organizzazione.
E però l’ufficio per il processo deve essere una delle plurime soluzioni da dare all’annoso problema dei tempi della giustizia civile, perché non è, purtroppo, una formula magica.
9. Una riforma che invece sembra segnare il passo, e spero vivamente di essere sul punto in errore, è quella dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm.
La Commissione ministeriale di esperti presieduta dal prof. Luciani ha concluso i lavori il 31 maggio scorso ma ancora non si ha notizia della predisposizione di emendamenti governativi al disegno di legge che giace da tempo alla Camera – AC 2681 –, presentato il 28 settembre 2020.
Sappiamo che la Ministra della giustizia ha espresso più volte la convinzione dell’urgenza della riforma, sottolineando che “qualcosa si è rotto nel rapporto tra magistratura e popolo” e che pertanto “occorre urgentemente ricostruirlo”.
E allora una riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm è improcrastinabile.
L’attuale legge elettorale, varata circa venti anni fa col dichiarato intento di scardinare le correnti, ha finito col rafforzare e favorire il correntismo.
È una legge che ha dato cattiva prova, che ha concorso a non pochi guasti.
Occorre “voltare pagina”, secondo l’autorevole monito del Capo dello Stato, e ciò si fa anche, non solo, ma anche con le riforme necessarie.
Il tempo c’è ancora, ma non è infinito perché l’attuale consiliatura si accinge ad entrare nell’ultimo anno della sua esperienza.
10. Credo allora che possa e debba chiedersi al Ministro, al Governo e alla Politica di fare in fretta, dicendo con chiarezza che non si può andare al rinnovo del Csm senza aver provveduto a eliminare i fattori di rischio di una ulteriore delegittimazione dell’organo consiliare.
La Commissione ministeriale ha fatto una scelta: proprio oggi discuteremo di quelle proposte e di altre ancora.
E però, superando la questione dei contenuti, non è un azzardo dire che, siccome l’attuale legge ha prodotto frutti avvelenati, il tema di quale debba essere il modello elettorale da privilegiare in sostituzione di essa rischia di essere secondario di fronte all’urgenza di una riforma pur che sia, alla condizione, ovviamente, della compatibilità costituzionale.
È un paradosso, ma rende efficacemente l’idea, che a me pare dovrebbe trovarci tutti d’accordo, di una necessità non eludibile, di una necessità rafforzata di riforma.
11. Due altri versanti dell’impegno riformatore non devono essere trascurati. La magistratura onoraria e la giustizia tributaria.
11.1. Giorno per giorno cresce il malessere tra i magistrati onorari in servizio per una riforma della cd. legge Orlando nella parte che attiene alle disposizioni sul loro trattamento, e che tarda ad essere compiutamente varata.
La Commissione ministeriale di studio presieduta dal Claudio Castelli ha concluso con rapidità i lavori, consegnando un articolato nella seduta conclusiva del 20 luglio.
L’auspicio, ancora una volta fondato sulle dichiarazioni programmatiche della Ministra della giustizia, è che si dia rapidamente una soddisfacente risposta, in termini di riconoscimento di diritti e tutele lavorative adeguate e dignitose, alle attese dei magistrati onorari, che sono in servizio precario da molti anni e che costituiscono un importante supporto per gli uffici giudiziari.
Di pari importanza è che si stabilizzi un quadro normativo chiaro per la magistratura onoraria, che merita di essere valorizzata per il ruolo che la Costituzione le assegna, non di magistratura di complemento e di supplenza ma autonoma nel suo specifico statuto.
11.2. Un capitolo ancora non esaminato con la necessaria compiutezza è quello della giustizia tributaria.
La istituita commissione interministeriale di esperti, presieduta dal prof. della Cananea, ha concluso i lavori, specificamente il 30 giugno scorso, ma non so dire ora quale sia lo stato della riflessione e dell’elaborazione del Governo su quel ricco materiale di proposte.
L’obiettivo del PNRR per la giustizia tributaria consiste nella riduzione del numero di ricorsi dinnanzi alla Corte di cassazione e in una loro più rapida trattazione.
Secondo gli intendimenti del Governo dovrebbe giungersi all’approvazione di una legge delega entro l’anno in corso, ma mi sembra a questo punto programma velleitario, e al varo dei decreti delegati nel corso dell’anno prossimo.
Nonostante il riferimento del PNRR sembri limitato alla necessità di intervento sulle criticità del giudizio tributario di legittimità, il mandato conferito alla Commissione di esperti dal Ministro dell’Economia e dal Ministero della Giustizia è stato più ampio e ha riguardato il complessivo assetto della giurisdizione tributaria.
Le conclusioni raggiunte da questa Commissione sono ricche e articolate, e occorre approfondirle non solo perché la materia del contenzioso tributario è strategica per il miglioramento complessivo della risposta di giustizia; ma anche per le implicazioni di sistema che potrebbero avere sull’assetto dell’ordinamento giudiziario.
Si legge in quella Relazione anche della proposta, al fine di rafforzare la specializzazione dei giudici tributari, di istituzione di una magistratura speciale che tenga luogo dell’attuale magistratura tributaria a connotato di onorarietà.
È testuale l’indicazione per l’istituzione di un giudice speciale – i tribunali tributari e le corti d’appello tributarie –, con reclutamento fondato su un pubblico concorso, ma ovviamente diverso da quello di cu all’art. 106 Cost. per l’accesso alla magistratura ordinaria.
E ciò, si afferma, al fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari, oggi onorari e quindi asseritamente poco specializzati.
La questione è di particolare rilievo, come è facilmente intuibile, perché sappiamo bene che la Costituzione pone espressamente e chiaramente il divieto di istituzione di giudici speciali; ma sappiamo anche che la giustizia tributaria è in sofferenza, e che la sofferenza maggiore si registra nel contenzioso dinnanzi alla Corte di cassazione, che deve fronteggiare un carico considerevole di arretrato.
Si tratta di un altro segmento delle riforme annunciate che merita la nostra attenta considerazione, nella consapevolezza della duplice esigenza di migliorare la resa del servizio giustizia e di rispettare i vincoli costituzionali.
12. Credo di poter affermare che, quale che sia il settore di volta in volta interessato da un progetto di riforma della giustizia, il nostro apporto critico debba sempre indirizzarsi a valutare, dal punto di vista di chi le norme è chiamato ad applicarle, l’utilità possibile in termini di miglioramento di tempi e qualità delle decisioni e la compatibilità necessaria con l’assetto costituzionale.
Tra i due aspetti non può esserci tensione o addirittura conflitto, perché non v’è spazio per una buona riforma fuori della cornice costituzionale, a meno, appunto, che non si ponga mano ad una modifica della Costituzione.
Sembra ovvio ma nel pubblico dibattito sui temi della giustizia così a volte non è.
Sta a noi allora spiegarlo, perché gli argomenti, i buoni argomenti non mancano.
Aspettando le Sezioni Unite sull’apertura di borse senza autorizzazione del P.M. in ambito fiscale
Intervista di Enrico Manzon ad Alberto Marcheselli e Francesco Pistolesi
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021 la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ne interroga le Sezioni Unite su di una questione, molto delicata, inerente ai diritti del contribuente in fase di istruttoria amministrativa ed alla relativa disciplina di principio costituzionale, unionale e convenzionale. Nel caso di specie risultano in particolare implicati gli obblighi informativi dell'agenzia fiscale in ordine a tali diritti, l'efficacia del consenso del contribuente e le conseguenze giuridiche di eventuali vizi del consenso stesso causati dalla violazione di detti obblighi.
In vista della pronuncia del Supremo Collegio, anche in un’ottica di servizio, la Rivista, che già si è occupata dell’argomento – cfr. G.Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni unite - ha interpellato due autorevoli tributaristi accademici, il prof. Alberto Marcheselli ed il prof. Francesco Pistolesi, i cui apprezzati interventi abbiamo già avuto modo di ospitare.
Specificamente, seguendo la traccia della pronuncia in commento, a loro è stato chiesto di analizzare i punti seguenti: Il rilievo giuridico del consenso del contribuente, anche in forma di contegno passivo, nel caso di illegittima compressione di un suo diritto di matrice costituzionale, unionale e convenzionale verificatosi in sede di verifica fiscale; gli oneri informativi facenti carico all’Amministrazione finanziaria affinché il comportamento collaborativo del soggetto verificato sia valido: determinazione del concetto giuridico di "consenso libero e informato"; la sorte delle prove acquisite illegittimamente e la possibilità di discriminarle in ragione del diverso livello di lesività dei diritti del contribuente ravvisabile nell’azione svolta dall’Amministrazione finanziaria.
Queste le loro interessanti risposte.
§§§
Prof.Alberto Marcheselli
Ordinario diritto tributario Università di Genova
Le conseguenze delle violazioni istruttorie tributarie e gli effetti della condotta del contribuente durante la verifica fiscale, tra buona fede, proporzionalità e diritti fondamentali
Sommario: 1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie. - 2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato - 3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore - 4.Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
1. La natura e l’interesse tutelato dalle norme sulle indagini tributarie
La premessa che la violazione delle regole sulle indagini tributarie possa determinare la caducazione dell’avviso di accertamento tributario può essere data per solida e robusta (in tal senso convergono, nel loro dialogo, le varie giurisdizioni: ex plurimis Cass. SS.UU. 16424/02, CGUE, 17 dicembre 2015, WebMindLicenses, C‑419/14, EU:C:2015:832, punto 89).
Sul piano più teoretico che pratico si può, in effetti, discutere se la conseguenza sia una invalidità derivata o, come a me pare più corretto, una inutilizzabilità del risultato della indagine illegittima, ma la scelta che si fa quanto a questa opzione non appare praticamente rilevante quanto al tema da affrontare. Per convenzione terminologica, allora, di qui in poi mi riferirò indifferentemente a inutilizzabilità o illegittimità, come se fossero sinonimi, nulla mutando in pratica.
Ciò posto, appare altrettanto pacifico che non tutte le violazioni sono suscettibili di produrre tale effetto. In termini generali, è intuitivo che anche la “sanzione” per la violazione istruttoria deve essere giustificata da e proporzionata alla violazione.
Tale giustificazione e proporzione non sussiste quando o si tratti di violazioni di norme che non riguardano la proiezione esterna dell’attività amministrativa (norme di organizzazione interna) o, comunque, di violazione di insufficiente gravità.
In termini generali e a questi fini, le norme sull’istruttoria possono allora distinguersi, tenendo presente una premessa: appaiono poter inficiare l’accertamento o le violazioni di norme che esprimano la congruità della procedura seguita al suo scopo (accertare con sufficiente precisione e plausibilità l’entità del presupposto), ovvero le norme che segnino i limiti esterni del potere della Amministrazione Finanziaria e dello Stato rispetto ad interessi altrui. Tra gli interessi con cui l’accertamento tributario può venire in conflitto non pare infatti che il contribuente possa pretendere di azionare quelli spettanti al soggetto pubblico.
Alla luce di ciò, le norme sull’istruttoria sembrano così potersi classificare: a) norme interne di organizzazione dell’attività degli uffici; b) norme finalizzate a garantire l’accuratezza dell’accertamento; c) norme di garanzia di diritti e interessi privati, del contribuente e di terzi; d) norme di garanzia di interessi pubblici diversi da quelli relativi all’attuazione dei tributi.
Tenendo ferma la premessa posta poco sopra, la violazione di norme dei tipi sub a) e d) non pare allora poter determinare l’illegittimità dell’accertamento. Si tratta di norme che non servono a garantire la realizzazione della funzione (un accertamento che misuri con ragionevole plausibilità la ricchezza) e/o tutelano interessi dello Stato (e quindi non possono configurare limiti esterni del potere).
L’illegittimità sembra invece poter colpire le violazioni delle norme degli altri due generi, sempre che si tratti di violazione di sufficiente gravità.
A questo proposito, ben può essere un criterio di supporto la ricerca di un valore costituzionale sottostante.
Come criterio interpretativo, laddove manchi una prescrizione espressa di nullità/inutilizzabilità, può certamente essere utile interrogarsi sul fatto se la regola intenda presidiare valori costituzionali che entrino in tensione rispetto agli atti di indagine. In tali casi, in effetti, la norma esprime, effettivamente e certamente, un limite del potere, e il criterio del valore costituzionale risulta congruente con il criterio appena enunciato.
Naturalmente, la decisività di tale criterio non può neppure eccessivamente enfatizzarsi, in un duplice senso. Da un lato, molte delle iniziative di indagine impattano con libertà costituzionali (ed è quindi sostenibile che le relative regole li ponderino e tutelino, per cui il criterio non è particolarmente selettivo, se applicato in senso proprio), dall’altro, il criterio della individuazione del valore costituzionale sottostante può valere solo come criterio interpretativo di selezione dei casi rilevanti (cioè: determinano sicuramente inutilizzabilità le regole legislative che tutelino tali valori), non come possibilità di sostituzione, alla valutazione e disciplina legislativa, di un controllo diffuso di costituzionalità.
Detto più chiaramente: a fronte di una regola sull’istruttoria e in mancanza di una sanzione espressa di inutilizzabilità, in caso di violazione della regola, è corretto chiedersi se quella norma limitasse il potere di indagine (ed è corretto affermare che lo fa sempre e sicuramente quando pondera tra valori costituzionali).
Ma non sarebbe corretto invertire il ragionamento e confondere tra condizione sufficiente e condizione necessaria: se una regola limita il potere non è che questa possa essere ritenuta irrilevante, quanto alla inutilizzabilità, rifacendosi e sostituendosi, tout court e sempre, da parte del giudice la verifica sulla correttezza della ponderazione legislativa. Salvi gli spazi di interpretazioni costituzionalmente orientate, ove si ritenesse che la regola che limita il potere non fosse assisa su una proporzionata ponderazione dei valori costituzionali, la via sarebbe o quella di elevarne questione di legittimità costituzionale o, nelle materie armonizzate, porsi un delicato problema di disapplicazione, per contrasto con il principio di proporzionalità.
Ne consegue che determina la inutilizzabilità dei dati probatori acquisiti solo: i) la violazione di norme che disciplinano il potere di acquisizione, sufficientemente gravi e corrispondenti a un interesse privato, del contribuente o di terzi; ii) la violazione di norme che definiscono gli standard di affidabilità del materiale probatorio (categoria fondamentale di norme di questo ultimo tipo è dato da quelle sul contraddittorio procedimentale come strumento di adeguamento dell’accertamento fondato su dati standard alla realtà del contribuente - Cass., sez. un., 26635/2009 o più in generale come complemento istruttorio).
2. Il consenso del contribuente: funzione, limiti, caratteristiche ed efficacia. Il consenso libero e informato
Il secondo profilo rilevante è quello del consenso.
In senso proprio, si tratta del problema della efficacia delle manifestazioni di volontà del contribuente, che accetti che si verifichino nei suoi confronti determinate conseguenze giuridiche. In senso lato, si tratta dell’espressa accettazione del compimento da parte degli operanti di determinate attività.
Un primo ostacolo di ordine generale sembrerebbe opporsi al ritenere che tale consenso possa avere degli effetti in materia tributaria, e si tratta della – pacifica – indisponibilità del diritto tributario. Sul punto però occorre fare subito una precisazione, che appare sostanzialmente svuotare di rilevanza l’argomento. Che il diritto tributario sia materia indisponibile significa solo una cosa: che la fonte degli obblighi tributari non è volontaristica e, pertanto, essi non possono essere modificati per effetto della volontà: non ci si può obbligare né liberare volontariamente, né i debiti possono essere in tutto o in parte rimessi.
Ma ciò non significa affatto che, per quanto attiene la attuazione del tributo, le scelte delle parti non possano essere prive di effetti. Per esempio, l’imputato nel processo penale …non può decidere di andare in prigione, perché la libertà personale non è disponibile, ma può ammettere il reato, non contestare le accuse del pubblico ministero, non appellare le sentenze, non chiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione, ecc. Simmetricamente, nello stesso processo, il P.M., ancorché il diritto penale sia l’apoteosi della materia indisponibile, può certamente, effettuare tutte le scelte procedimentali. È appena il caso di notare che, persino la negligenza nella gestione del procedimento non sarebbe rimediabile per un intervento sostitutivo del giudice: se l’imputato o il Pubblico Ministero non presentano appello nei termini, non ostante la delicatezza estrema della materia, non vi è alcun correttivo.
Ma vi è di più.
Quando si tratta della materia delle indagini, tale conclusione esce confermata e rafforzata dal fatto che il consenso della cui ammissibilità ed efficacia si discute non ha affatto ad oggetto l’obbligo di pagare, ma consentire deroghe al sacrificio di posizioni giuridiche diverse. Si tratta, ad esempio, di discutere se il contribuente possa validamente rinunciare alle regole previste, ad esempio, a tutela della sua vita privata, e simili.
La distinzione tra diritti economici oggetto della pretesa tributaria e diritti fondamentali intersecantisi con le indagini tributarie, è perfettamente colta in sede eurounitaria (si vedano ad esempio le Conclusioni dell’Avvocato generale Kokott del 2 luglio 2020, procedimenti riuniti C-245/2019 e C-246/2019, caso État luxemburgeois, in particolare al § 71), mentre stenta a farsi strada nel diritto interno.
La soluzione, per la verità, appare molto semplice e lineare: il consenso è valido se esprime un atto di disposizione di diritti suscettibili di gestione e disposizione (e nei limiti in cui lo siano): si tratta di concetti puramente civilistici che nulla hanno a che vedere con la materia tributaria, che è solo l’occasione in cui la frizione con il diritto personale avviene. Così come il soggetto non può fare, se non entro certi limiti, validi atti di gestione della propria integrità fisica, ma può ad esempio, far entrare nel proprio domicilio chi vuole (e la cosa coerentemente esclude anche il delitto di violazione di domicilio), non si vede perché non potrebbe consentire a iniziative di indagine tributaria anche al di fuori dei limiti della legge tributaria, se si rimane nei limiti del consentito esercizio civilistico del diritto.
Le regole tributarie stabiliscono il punto di equilibrio tra potere pubblico tributario e diritti individuali: si può dire che strutturalmente presuppongano il dissenso e la necessità di costrizione. Ove il dissenso non vi sia, vi è solo l’ostacolo della indisponibilità (o superamento dei limiti di disponibilità), che non dipende affatto dalle regole tributarie, ma da quelle civilistiche. Tale indisponibilità, attese le posizioni coinvolte nella istruttoria tributaria (domicilio, riservatezza e simili) risulta di non probabile configurazione. Le ipotesi di indisponibilità concernono diritti rinunciare ai quali, sostanzialmente, sarebbe contrario al buon costume e all’ordine pubblico (integrità fisica, personalità, libertà morale, ecc.), ma non si tratta di norma di diritti su cui la indagine tributaria possa incidere. Una possibile eccezione, tuttavia, vi è, ed è quella della protezione dei dati personali, se la si intende, come pare si debba, non quale proiezione di un diritto individuale, ma interesse della collettività, correlato con la libertà e democrazia collettiva (ex multis, A. Mantelero, Personal data for decisional purposes in the age of analytics: from an individual perspective to a collective dimension of data protection, in Computer Law & Security Review, 2016, 238 ss.).
Insomma, il consenso vale come fatto che, escludendo costrizione, implica il venir meno delle necessarie cautele previste per l’esercizio di poteri.
Da tale premessa derivano alcuni corollari.
Innanzitutto, il fatto che il consenso ha un ruolo solo rispetto alle situazioni e alle regole che concernano l’esercizio di poteri o l’attivazione di obblighi. Il consenso è irrilevante (non è né richiesto, né sanante) per attività di indagine che non implichino soggezione o costrizione.
E, soprattutto, il fatto che il consenso rilevante è solo quello che significhi che il soggetto al potere accetta il sacrificio del suo interesse compresso dall’indagine, senza che sia necessario attivare alcun potere o costrizione: detto in altre parole, il consenso deve essere libero e informato.
Libero significa che non deve sussistere alcuna costrizione, né diretta né indiretta. Diretta sarebbe ove il consenso fosse ottenuto attraverso la prospettazione di conseguenze sfavorevoli: non sarebbe libero il consenso ottenuto prospettando sanzioni, proprie o improprie, specifiche o vaghe, sia che tali conseguenze esistano, sia che siano soltanto minacciate, o anche solo oggetto di vaga allusione (in formule sibilline quali “con le conseguenze di legge”).
Anzi, considerato che l’attività degli operanti l’indagine è naturalmente e normalmente autoritativa, l’unica soluzione idonea a sgombrare il campo da equivoci è l’espressa informazione del fatto che dalla scelta del soggetto all’indagine non potranno scaturire conseguenze sanzionatorie, in senso lato (ovviamente restano escluse le valutazioni strategiche di convenienza). Tale ultimo aspetto transita già nel concetto di consenso informato: il consenso efficace è solo quello che viene manifestato sapendo di poterlo adottare senza conseguenze sanzionatorie, da un lato, e nella consapevolezza del suo effetto giuridico: rendere non necessarie garanzie che altrimenti paralizzerebbero le indagini.
Il consenso non riguarda solo lo svolgimento materiale delle operazioni (il non opporsi, come purtroppo spesso in maniera non sufficientemente avvertita si ritiene) ma anche – necessariamente - il fatto che, in tal modo, non sono più necessarie le garanzie procedimentali. Ciò comporta che gli operanti che vogliano valersi del consenso devono giocare a carte scoperte: informare del fatto che il consenso è libero e che, in sua assenza non sarebbe possibile procedere.
In difetto, non si vede come possa, in rigorosi termini giuridici, ipotizzare un consenso efficace.
3. Atteggiamento passivo, silenzio e condotta inerte: quale spazio per un consenso tacito? I doveri informativi della PA e gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia del contribuente e del suo difensore
Il terzo problema è se il consenso debba essere espresso o possa essere tacito, manifestato con la inerzia o attraverso comportamenti concludenti.
La soluzione del problema deve essere espressa in modo articolato, sia perché vengono in gioco diversi aspetti, sia perché le fattispecie ipotizzabili solo alquanto diverse.
Una prima ipotesi, coerentemente a quanto fin qui espresso, è quella in cui gli operanti informino l’interessato in modo trasparente del fatto che nella fattispecie è necessario il consenso, che questo è libero e domandino se egli lo esprima. In questo caso il problema del silenzio è sostanzialmente di scuola, in termini pratici. Viene difficile ipotizzare in concreto che il contribuente, sollecitato, rimanga inerte come una Sfinge. Ove si dia questo – invero bislacco – caso, non sembra, di per sé, espresso un consenso, diventando semmai rilevante la somma di silenzio e comportamento successivo. Sempre ragionando in termini puramente astratti non sarebbe sproporzionato, sempre in questa ipotesi fantasiosa, ritenere che al contribuente non costerebbe alcun sacrificio esprimere un sì e un no, ma resta comunque il fatto che, se anche il silenzio si potesse interpretare come assenso, dovrebbe valutarsi la condotta successiva: il contribuente collabora (per esempio: apre la porta? Si scansa e fa entrare gli operanti?). In questo caso, un silenzio successivo a una trasparente informazione, seguito da una condotta collaborativa potrebbe effettivamente esprimere per fatti concludenti un assenso: pretendere successivamente di qualificarlo come opposizione appare contrario a buona fede.
Ma fuori da questa ipotesi, di fantasia, la costruzione di un valido consenso sembra normalmente da escludere.
In particolare, tutte le volte che il contribuente non venga informato (o non vi sia certezza che sia a conoscenza altrimenti) del carattere decisivo del consenso (cioè del fatto che manca la necessaria autorizzazione) non si vede come il silenzio e il comportamento del contribuente potrebbero valere come valida rinuncia alle garanzie procedurali.
Non è sostenibile, perché non è proporzionato e conforme a buona fede né ipotizzare che il contribuente dovrebbe …sapere da solo se l’autorizzazione esiste, né che sia egli a dover chiedere e pretendere di sapere se l’autorizzazione esiste: non si vede perché, in base ai principi di buona fede e proporzionalità, la Pubblica Amministrazione potrebbe agire in modo non trasparente e contrario a buona fede senza andare incontro a conseguenze, se non quando il contribuente solleciti il rispetto del suo diritto, quasi che le regole siano da applicarsi a richiesta.
Tale soluzione è particolarmente abnorme perché il comportamento trasparente della P.A., oltre che doveroso, è anche di semplice adempimento: si tratta semplicemente di rispettare la legge e adempiere semplicissimi oneri (o premunendosi di autorizzazione, che si può ottenere anche in forme semplificate e urgenti, o, in difetto di questo primo adempimento dovuto, almeno informare il contribuente). Sanare l’inadempimento, grave, di due semplici doveri ribaltando l’onere sul contribuente appare particolarmente sbilanciato e ingiustificato (oltre che incentivante di condotte negligenti).
Idem, di regola, quando la condotta non sia libera.
Va, in effetti, tenuto presente che quando degli esponenti della pubblica autorità si presentano in modo ufficiale e non viene esplicitato che l’attività di indagine non può esperirsi in modo autoritativo, risulta pressoché impossibile ipotizzare che il contribuente sia consapevole del fatto di potersi legittimamente opporre. Anche senza evocare il metus rispetto alla autorità, è evidente che l’Autorità agisce in modo … naturalmente e ordinariamente autoritativo. Lo spazio per ritenere un implicito consenso nelle situazioni ambigue appare pertanto assai ristretto, salvo quanto si dirà subito oltre.
Residua un solo profilo, nuovamente sostanzialmente di scuola.
Quello in cui gli operanti informino trasparentemente della mancanza di autorizzazione, ma tacciano sul fatto che un libero consenso potrebbe essere sanante.
In questa ipotesi, e solo in questa ipotesi, ci si può effettivamente domandare se non si possa fare qualche distinzione soggettiva, considerando le qualità del soggetto che subisce materialmente l’indagine. È diverso, per esemplificare, il caso dell’accesso presso un pensionato delle poste, o presso un commercialista che eserciti professionalmente l’assistenza tributaria. Ovvero, appare diversa la condizione del soggetto ad indagine che sia assistito da un professionista da quello che non lo sia assistito. Un professionista, ragionevolmente, sa che senza l’autorizzazione che manca nella fattispecie la sua collaborazione è decisiva, e in questo caso, e solo in questo caso, il silenzio unito a una condotta collaborativa potrebbe essere significativo di un consenso implicito.
Non così, però, nel caso in cui manchi l’informazione degli operanti, perché nel bilanciamento tra una pubblica amministrazione che agisca in modo non trasparente e doppiamente negligente resta comunque sproporzionato ritenere che sia il soggetto passivo della indagine, anche se tecnicamente preparato, a chiedere di verificare la legittimità del potere. La legge va rispettata nei confronti di tutti, non solo di chi non la conosca.
Si potrebbe, inoltre, ritenere che, se il contribuente, che è stato informato della illegittimità istruttoria, non è assistito da un professionista dopo essere stato avvertito della possibilità di farsi assistere, la sua situazione equivalga a quella di chi fruisce di assistenza: tutto sommato egli, per sua scelta, affronta l’indagine senza curarsi di integrare la sua difesa con le necessarie competenze tecniche, così rispondendo degli effetti della sua negligenza e imprudenza. Nel particolare caso in cui invece egli non sia assistito ma non fosse neanche stato informato, ai sensi dell’art. 12, del diritto di assistenza del difensore, la situazione si ribalterebbe: il contribuente aveva il diritto di essere informato della sua facoltà di assistenza tecnica: mancando questa doverosa informazione può ritenersi che egli non sia stato né negligente né imprudente e torna pertanto esclusa la possibilità di un implicito consenso sanante, nei limitati casi in cui questo potrebbe sussistere. In tal senso si potrebbe sciogliere il nodo evidenziato da Cass. ord. 10664/2021, nella rimessione alle SS.UU.
Tale consenso resta tuttavia radicalmente precluso, salvo questo caso di scuola, a nostro avviso, se chi subisce l’indagine non è almeno informato sul presupposto che rende il consenso decisivo (manca l’autorizzazione) o non è libero. Se colui che subisce l’indagine non sa che essa non potrebbe essere legalmente svolta, come può il suo non opporsi equivalere ad accettarla anche se non può essere legalmente svolta? Mancherebbe il presupposto decisivo del consenso sanante.
4. Una diversa prospettiva per la condotta inerte del contribuente durante la verifica: sono possibili effetti probatori o sulla attribuzione della successive spese processuali?
Da ultimo, va considerato se il silenzio e l’inerzia del contribuente durante le indagini non possano avere, comunque, effetti giuridici diversi, e congrui con il principio di buona fede e proporzionalità.
Un primo aspetto concerne il versante probatorio e in particolare se non contestare dei rilievi non implichi comunque una condotta di ammissione, ovvero una non contestazione tale da ingenerare effetti giuridici.
Come noto, ammissione e non contestazione operano a due livelli diversi. Il primo è se la condotta possa essere una prova del fatto affermato dall’Agenzia. La non contestazione invece avrebbe l’effetto di esonerare l’Agenzia dell’onere della prova, secondo il principio di cui, per il processo civile, all’art. 115, comma 1. Nel primo caso dal comportamento del soggetto si trarrebbe una prova contro di lui, nel secondo, dal suo comportamento deriverebbe l’esonero dall’onere della prova dell’Agenzia.
Entrambe le configurazioni sono a nostro avviso deboli, salvo che nel senso che si dirà. Sul piano, per così dire, semantico il silenzio è sicuramente del tutto ambiguo: il tacere può tranquillamente equivalere al riservarsi le contestazioni ad altra sede, magari per meglio articolarle e specificarle. Sul piano giuridico, dovrebbe individuarsi la fonte, per un dovere di contestare.
Essa non si trova nelle norme espresse (che prevedono il dovere di rispondere alle domande ma non di contestare le affermazioni), e può porsi il dubbio se non derivi dal dovere di buona fede.
La questione è delicata: da un lato il prendere posizione sui fatti affermati dalla controparte, limitandosi a negarli, può apparire un onere di modesta incisività, dall’altro va detto che l’onere di contestazione è previsto dalla legge nel processo e ciò potrebbe parere tutt’altro che casuale: in quel caso ci si trova davanti a un soggetto terzo e imparziale e si sta giocando la partita nell’area protetta dalla presenza di un arbitro. Ritenere che, per effetto di un atteggiamento passivo durante le indagini, il soggetto si veda privato della possibilità di provare la propria ragione successivamente davanti al giudice appare decisamente sproporzionato. Più ponderato appare invece ritenere che tale condotta debba essere valutata insieme a tutto il materiale probatorio, quale argomento di prova (art. 116 c.p.c. applicato analogicamente), senza derivarne automatismi e regole rigide.
In effetti, il silenzio durante le indagini può essere indicativo di cose diverse ed opposte (da un estremo all’altro: timore riverenziale, difficoltà temporanea a organizzare la difesa, scelta strategica attendista, malizioso silenzio nel tentativo di predisporre prove false nelle more, ecc.…).
In sintesi, il silenzio è un elemento da valutare, ma sulla base di un giudizio di fatto caso per caso, non suscettibile di ipostatizzazioni in regole (o massime giurisprudenziali) rigide.
Per altro verso, sembra di dover ritenere che l’unico silenzio rilevante sia quello che si protrae fino a dopo la conclusione delle indagini ed è mantenuto anche dopo il rilascio del processo verbale e l’offerta di un termine per le osservazioni (non potendosi valorizzare in assenza di tale possibilità). Ritenere che sia rilevante anche il mero tacere “in diretta” durante le indagini è palesemente sproporzionato e creerebbe una notevole impasse anche alla stessa attività di indagine. Il discorso dovrebbe infatti simmetricamente rovesciarsi. Ove il contribuente si opponesse sollevando eccezioni, qualora i verificatori non le contrastassero immediatamente ne deriverebbe un pregiudizio ad una successiva contro-argomentazione da parte degli enti impositori. Ne conseguirebbe una rigidità per le attività di indagine che non ha alcuna proporzionata giustificazione, da un lato, e si presterebbe ad abusi e strumentalizzazioni assai gravi, da entrambe le parti.
Infine, non sembrano esservi ostacoli a valutare il silenzio e la sua corrispondenza alla buona fede nel momento della determinazione e attribuzione delle spese dell’eventuale successivo giudizio. La tendenza della giurisprudenza sembra, infatti, espansiva nel riconoscere sempre maggiore spazio, accanto alla regola della soccombenza, alla regola della valorizzazione della “responsabilità” per aver determinato l’insorgenza di una lite che sarebbe stata evitabile. Si tende sempre più a valorizzare la condotta delle parti anche prima del processo, verificando quale di esse non abbia fatto quanto di ragionevole per evitare la lite, anche in adempimento dei doveri di buona fede. Così si afferma che paga le spese, tra l’altro, la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi [Cass. 13.1.2015, n. 373]. Lungo questa via potrebbero allora valorizzarsi non solo condotte procedimentali quali l’omessa partecipazione al contraddittorio ma più in generale sottrarsi alla dialettica procedimentale e si tratterebbe probabilmente di una conclusione ragionevole e proporzionata, attuativa, in modo ponderato, del principio di buona fede.
Prof. Francesco Pistolesi
Università degli Studi di Siena
Le Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sul rilievo del consenso del contribuente a fronte di attività istruttorie fiscali che ne ledano diritti fondamentali
Sommario: 1. La rilevanza del consenso del contribuente - 2. Il consenso libero e informato - 3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente - 4. Conclusioni.
1. La rilevanza del consenso del contribuente
Con l’ordinanza interlocutoria n. 10664 del 22 aprile 2021, la Sezione V della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della decisione su tre importanti questioni:
- se, in caso di apertura di una valigetta reperita nel corso di un accesso presso il luogo di svolgimento dell’attività del contribuente, la mancanza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina, prevista dall’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972[1], possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza ivi presumibilmente contenuta;
- se, qualora si dia una risposta positiva alla questione che precede, il consenso possa considerarsi “libero e informato” anche qualora l’Amministrazione finanziaria non abbia reso edotto il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza della facoltà, contemplata dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria[2];
- se, infine, l’eventuale inosservanza di detto obbligo di informazione e il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza comporti la non utilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione.
Il primo profilo è quello, forse, più agevole da affrontare.
La mancanza di autorizzazione ex art. 52, comma 3, cit. può essere sopperita dal consenso dell’interessato all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Infatti, non è frutto del caso che la norma in esame si riferisca all’apertura “coattiva”, ossia eseguita senza la condivisione (o, quanto meno, “non opposizione”) del titolare del diritto tutelato dallo stesso precetto.
Se il soggetto garantito acconsente – o non esprime dissenso – all’apertura, viene meno la “coattività” e con essa l’esigenza dell’autorizzazione, richiesta dall’art. 52, comma 3 cit., quest’ultima occorrendo solo quando faccia difetto la disponibilità dell’interessato a che l’Amministrazione finanziaria entri in possesso del contenuto “di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
La natura del diritto tutelato giustifica la soluzione esposta. Si tratta del diritto alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, qualificato come inviolabile dall’art. 15, comma 1, Cost., e soggetto a “limitazione” solo “per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”, stando al successivo comma 2. Ossia un diritto che, in difetto dell’opposizione del titolare, è ritenuto dal legislatore – con valutazione discrezionale che non appare irragionevole – suscettibile di “limitazione” pur in difetto dell’autorizzazione dell’Autorità competente. A quest’ultima è dato ricorrere soltanto quando tale titolare neghi l’apprensione di quanto trovasi nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Diversamente, per l’accesso nel domicilio e per la perquisizione personale[3], è – a mio avviso – meritevole di condivisione l’indirizzo interpretativo della Cassazione, ricordato dall’ordinanza n. 10664/2021, per cui il consenso – o il mancato dissenso – non sopperisce alla mancanza dell’autorizzazione.
Difatti, in tali evenienze, la “coattività” dell’attività istruttoria, e quindi il consenso – o l’omessa opposizione – non rileva. In ogni caso, è indispensabile l’autorizzazione, in quanto i valori tutelati – l’inviolabilità del domicilio, dall’art. 14 Cost., e della libertà personale, dall’art. 13 Cost. – sono talmente essenziali da postulare sempre il preventivo vaglio del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria, oltre alla sussistenza – nel caso dell’accesso in locali adibiti a esclusivo uso abitativo – di “gravi indizi” di violazioni delle norme tributarie, come stabilito dall’art. 52, comma 2, cit.
In conclusione, dell’autorizzazione non può mai prescindersi per le indagini fiscali consistenti nell’accesso nel domicilio e nella perquisizione personale, mentre per quelle volte ad acquisire il contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” il consenso – o la mancata manifestazione del dissenso – del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza elide la necessità di detta autorizzazione, essa rendendosi necessaria solo qualora l’Organo procedente ricorra all’apertura “coattiva”[4]. Ciò poiché tale diritto alla segretezza ha natura “disponibile”, volendo riprendere l’espressione impiegata nell’ordinanza di cui trattasi[5].
Poi, nell’ordinanza in esame il consenso espresso viene accomunato alla “mancata manifestazione di un dissenso del contribuente o di terzi rispetto all’esercizio di una attività ispettiva eseguita al di fuori delle garanzie predisposte dal legislatore”[6].
In particolare, tale equiparazione viene in rilievo allorché la Cassazione illustra le proprie precedenti prese di posizione in ordine all’inefficacia sanante del consenso e, appunto, del mancato dissenso in presenza di accesso domiciliare non autorizzato.
Nell’argomentare siffatta inefficacia, la Corte Suprema ha anche evidenziato che “l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo od illegittimo che sia, è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge”[7].
Questa corretta osservazione riveste duplice interesse ai nostri fini.
Per un verso, conferma quanto osservato poc’anzi sulla rilevanza sanante del consenso quando l’autorizzazione sia richiesta per l’apertura “coattiva” di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”. Non solo, la “coattività” non può che sottendere, oltre alla mancanza del consenso, anche il contegno passivo del contribuente o la “mancata manifestazione di un dissenso”, per usare l’espressione impiegata dall’ordinanza n. 10664/2021. Quindi, se l’interessato acconsente esplicitamente o comunque non si oppone – non dissentendo, appunto – a siffatta apertura, non ci si trova al cospetto di un’attività contrassegnata dalla “coattività”, di modo che si può fare a meno dell’autorizzazione.
Per l’altro verso, laddove tale “coattività” non viene in giuoco poiché il legislatore – nei ricordati casi dell’accesso domiciliare e della perquisizione personale – non ne fa menzione, il consenso o il contegno inerte del soggetto investito dall’attività istruttoria è irrilevante e, dunque, non vale a sollevare l’Amministrazione finanziaria dalla necessità di munirsi della prescritta autorizzazione.
Ciò, oltretutto, trova conforto anche in un’altra considerazione, fondata sul buon senso. Se il consenso rileva, è fondato attribuire la stessa valenza pure all’atteggiamento passivo o al non dissenso, che dir si voglia. Ove invece il consenso sia privo di incidenza, lo stesso deve dirsi per la “mancata manifestazione di un dissenso”.
2. Il consenso libero e informato
Nell’ordinanza n. 10664/2021 si legge che il consenso preventivo e informato del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza rappresenta il “necessario bilanciamento tra i valori costituzionali che entrano in gioco nella vicenda”, ossia l’interesse pubblico – che trova il proprio fondamento nell’art. 53 Cost. – alla corretta acquisizione dei tributi (indispensabili per far fronte alle esigenze della collettività), da un lato, e, dall’altro, la tutela della riservatezza delle comunicazioni personali[8].
Trattasi di affermazione del tutto condivisibile, cui può aggiungersi la considerazione che, insieme al rispetto del diritto alla segretezza della corrispondenza, viene in rilievo pure l’interesse pubblico al corretto svolgimento dell’azione amministrativa volta a verificare gli adempimenti fiscali dei contribuenti.
Parimenti apprezzabile è l’ulteriore convincimento enunciato dalla Suprema Corte in tale ordinanza, secondo cui “solo il consenso validamente prestato, cioè espresso dal soggetto titolare del diritto di libertà oggetto di compressione ed effettivo, possa consentire di ritenere che siano venute meno le esigenze di garanzia poste a tutela dei valori costituzionalmente tutelati della libertà della persona, al cui presidio è prevista dal legislatore la necessità della previa autorizzazione”[9].
Quindi, se il diritto alla segretezza della corrispondenza è – come credo – “disponibile”, ossia suscettibile di limitazione con la condivisione – o la non opposizione – dell’avente diritto, il consenso deve risultare “validamente espresso, il che comporta che sia stato adeguatamente informato, cioè che sia reso in piena libertà di giudizio”, come sempre correttamente evidenzia l’ordinanza oggetto di attenzione[10].
Detto consenso libero e informato dev’essere enunciato dal titolare del diritto tutelato, che può non coincidere con il contribuente interessato dall’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria. Per intendersi, può accadere che, nel corso – per esempio – di un accesso presso la sede di una società di capitali, sia chiesto di aprire una borsa a un dipendente, a un amministratore o a un collaboratore esterno, ossia a un soggetto diverso dal contribuente destinatario della verifica fiscale. È tale soggetto “diverso” che deve acconsentire all’apertura e che deve, perciò, essere adeguatamente informato del fatto che quanto reperito all’interno della borsa potrebbe essere utilizzato come elemento di prova per avanzare una pretesa impositiva e/o sanzionatoria nei suoi riguardi, oltre che del contribuente per cui è stata avviata l’indagine fiscale.
Pertanto, perché l’acquisizione istruttoria sia legittima, è necessario che il titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza acconsenta espressamente – o comunque non si opponga – all’apertura della borsa, avendo piena e preventiva consapevolezza che quanto ivi contenuto potrà essere impiegato dall’Ente impositore per muovere un addebito nei suoi confronti e/o del distinto soggetto investito dall’azione istruttoria.
Sono convinto che tale consapevolezza difetti quando il contribuente su cui si appunta la verifica non sia stato informato della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, come avvenuto nel caso affrontato dall’ordinanza n. 10664/2021.
L’omissione di tale informazione impedisce la presenza di un professionista avente la capacità di verificare la correttezza dello svolgimento dell’indagine fiscale e di rappresentare al contribuente o al “diverso” soggetto titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze discendenti dall’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Tuttavia, anche qualora tale informazione sia stata resa e il contribuente non abbia ritenuto di farsi assistere da un professionista nel corso della verifica fiscale, l’Organo procedente non potrà sottrarsi dal rappresentare al contribuente o al terzo gli effetti derivanti dalla prestazione del consenso – o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” – all’apertura della borsa. E ciò dovrà risultare da apposita verbalizzazione, atta a dimostrare che il consenso eventualmente reso – o il dissenso non enunciato – è stato, appunto, libero e informato.
In altri termini, le conseguenze derivanti dal rinvenimento della corrispondenza possono essere talmente significative e pregiudizievoli per il soggetto avente la disponibilità della borsa, per restare all’esempio fatto, che l’Amministrazione finanziaria non può esimersi dal segnalarle quando il soggetto verificato non sia assistito da un professionista.
In tal senso depone, oltre che il rispetto dei valori costituzionali del diritto alla segretezza della corrispondenza e del diritto di difesa, quanto sancito dall’art. 10, comma 1, della L. n. 212/2000, in forza del quale i rapporti fra i contribuenti e l’Ente impositore sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Non solo, la necessità che il consenso sia libero e informato per poter evitare il ricorso all’autorizzazione, in caso di acquisizione del contenuto di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”, trova conferma nei principi del diritto europeo e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Da un canto, l’art. 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e l’art. 8 della CEDU, affermando il diritto di ogni individuo al rispetto delle proprie comunicazioni, elevano il diritto alla segretezza della corrispondenza a principio fondamentale del diritto europeo e convenzionale.
Dall’altro canto, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[11] – facendo leva sul principio del “giusto processo”, sancito dall’art. 6 della CEDU – afferma da tempo il “diritto al silenzio”, inteso come diritto di non cooperare alla propria incolpazione nel contesto di un procedimento amministrativo che potrebbe sfociare nell’irrogazione di sanzioni con carattere punitivo. Non solo, analogo diritto può desumersi dagli artt. 47 e 48 della CDFUE, secondo l’interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[12].
Non v’è dubbio che tale “diritto al silenzio” presuppone che la disponibilità a condividere con l’Amministrazione finanziaria elementi di prova emergenti dalla propria corrispondenza sia frutto di una determinazione pienamente consapevole e scevra da condizionamenti.
In sostanza, se il contribuente ha il diritto a non cooperare con l’Organo amministrativo che svolge l’istruttoria, vi può abdicare soltanto esprimendo un consenso libero e informato. Diversamente, solo grazie all’autorizzazione rilasciata dalla competente Autorità giudiziaria, l’Organo suddetto potrà acquisire i dati istruttori contenuti nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli”.
Da ultimo, queste considerazioni sono significativamente confortate dalla Corte Costituzionale, che – con la sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 – ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale.
In particolare, dalla pronuncia della Consulta, che richiama i rammentati principi e la giurisprudenza sovranazionali, si può trarre un’indicazione valevole pure nella materia tributaria: se è indebita ogni forma di pressione sul contribuente o sul terzo volta ad acquisire prove potenzialmente a loro sfavore, la collaborazione da tali soggetti eventualmente prestata non può che essere frutto di un consenso libero e informato.
3. La sorte dei mezzi istruttori acquisiti illegittimamente
Se difetta l’informazione ex art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, i mezzi istruttori acquisiti all’interno di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e rispostigli” in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 non possono essere utilizzati. Ciò non esclude, peraltro, che l’atto impositivo, sulla scorta di altre prove legittimamente reperite, possa comunque risultare idoneo a perseguire efficacemente l’illecito fiscale eventualmente commesso dal privato.
Questa conclusione si impone avendo riguardo al valore, costituzionalmente garantito, del diritto alla segretezza della corrispondenza.
Vero è che si tratta di un diritto “disponibile”, come evidenziato in precedenza, ossia suscettibile di compressione in presenza del consenso libero e informato. Ma è altrettanto indiscutibile che, se detto consenso difetta, non può ammettersi l’impiego delle prove reperite violando un principio, al pari dell’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, sancito e tutelato dalla Costituzione.
Detto altrimenti, ammettere l’uso degli elementi istruttori ottenuti in spregio del diritto alla segretezza della corrispondenza ne comporterebbe una lesione intollerabile. Lesione che, nel bilanciamento di valori che necessariamente si impone, non può giustificarsi adducendo l’esigenza di assicurare il corretto prelievo impositivo.
Ciò in ragione del fatto che, se l’Organo procedente si fosse premurato di ottenere un effettivo consenso del titolare del diritto al riserbo delle comunicazioni personali, il diritto alla segretezza della corrispondenza ben avrebbe potuto retrocedere dinanzi alla ricordata necessità di acquisire i tributi ex lege dovuti.
Si deve pervenire allo stesso esito anche quando l’informazione di cui all’art. 12, comma 2, cit. sia stata resa ma il contribuente non si sia avvalso della facoltà disciplinata da tale norma e l’Amministrazione finanziaria non abbia rappresentato al titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza le conseguenze della sua disponibilità a consentire l’apertura della borsa. L’assenza di un professionista unitamente all’omessa verbalizzazione degli effetti discendenti dalla prestazione del consenso rende inefficace il consenso – o la non opposizione – di detto titolare e, quindi, cagiona l’illiceità dell’acquisizione dei mezzi istruttori, determinandone, per l’effetto, la relativa non utilizzabilità.
Per terminare, occorre chiedersi se la mancanza dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. infici l’impiego di ulteriori prove reperite durante l’attività di controllo fiscale.
Il consenso libero e informato occorre ogni qual volta il privato è coinvolto in operazioni istruttorie che postulano la sua attiva partecipazione e che possono consentire il reperimento di elementi di prova adducibili contro di esso. Mi riferisco, essenzialmente, al caso (assai frequente nella prassi) in cui vengano richieste informazioni al contribuente o ai suoi dipendenti, collaboratori, clienti, fornitori e via discorrendo. Tutti costoro, prima di rendere tali informazioni, devono essere pienamente consapevoli che esse potranno poi essere utilizzate come elementi di prova[13] a loro carico. Cosicché l’omissione dell’informazione ex art. 12, comma 2, cit. può seriamente pregiudicare questi soggetti.
Viceversa, il difetto della ricordata informazione è irrilevante per l’acquisizione di quei dati istruttori in ordine ai quali la menzionata attiva partecipazione del contribuente o dei terzi risulta priva di rilievo. Si pensi, ad esempio, all’acquisizione e all’esame di documenti contabili ed extracontabili liberamente accessibili e disponibili o al controllo di beni e strumenti posti nei locali ove si svolge l’accesso.
Insomma, l’omissione dell’indicazione contemplata dall’art. 12, comma 2, cit. non inficia l’atto finale del procedimento amministrativo volto a contestare l’illecito fiscale. Sarebbe una conseguenza eccessiva, contraria al principio di proporzionalità, del mancato rispetto della regola procedimentale dettata dalla norma in discussione[14]. Detta mancanza, però e come evidenziato, si riverbera – pur in difetto di una previsione normativa ad hoc – sulle prove reperite in sede di accesso per le quali è indispensabile la partecipazione attiva e consapevole del contribuente e di eventuali soggetti terzi, rendendole non utilizzabili. Tali prove, difatti, risultano acquisite in violazione di primari valori costituzionali, quali il diritto alla segretezza della corrispondenza, nel caso affrontato dall’ordinanza oggetto di attenzione, o il diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost., qualora siano acquisite informazioni impiegabili a conforto di pretese impositive e sanzionatorie azionabili nei riguardi di coloro che le rendono.
Infatti, non occorre alcuna puntuale sanzione ex lege per affermare – come, del resto, in più occasioni ha fatto la giurisprudenza ricordata nell’ordinanza n. 10664/2021 – che un mezzo istruttorio non è suscettibile di impiego laddove sia stato acquisito in spregio a fondamentali principi costituzionali.
4. Conclusioni
Tirando le fila dei rilievi svolti, sui temi sollevati dall’ordinanza varie volte rammentata possono enunciarsi, secondo chi scrive, le seguenti conclusioni:
- la mancanza di autorizzazione della competente Autorità giudiziaria all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” può essere sanata dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso” del titolare del diritto alla segretezza della corrispondenza: in sostanza, l’autorizzazione è indispensabile solo per l’apertura “coattiva”;
- tuttavia, detto consenso o difetto di dissenso dev’essere “libero e informato” e, per essere tale, occorre che l’Amministrazione finanziaria abbia avvertito il contribuente verificato della facoltà di farsi assistere da un professionista; in ogni caso, laddove detto contribuente non si sia avvalso di tale diritto, l’Organo procedente deve rappresentare all’interessato le conseguenze derivanti dal consenso o dalla “mancata manifestazione di un dissenso”;
- l’inosservanza di siffatti obblighi informativi rende non utilizzabili le prove reperite nei “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli” in carenza di autorizzazione e quelle ottenute chiedendo dati e notizie al contribuente o al terzo.
[1] Per i controlli in materia di imposte dirette, l’art. 33, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973 rinvia all’art. 52 cit. Sul tema, v. A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002.
[2] Sull’argomento, v. S. Muleo, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in AA. VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2007, p. 99 ss.; G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012; M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2013.
[3] Nell’ordinanza in esame la perquisizione personale viene equiparata all’apertura di “pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e ripostigli”. In realtà, come evidenziato nel testo, pare corretto riferire il carattere della “coattività” solo alla menzionata apertura e non alla perquisizione personale, di modo che per quest’ultima il consenso risulta, in ogni caso, privo di rilievo.
[4] In questi termini, v. G. Iacobelli, Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente? La questione al vaglio delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 27 maggio 2021.
[5] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[6] Cfr. paragrafo 5.1.
[7] Cfr. Cass., sez. V, 6 giugno 2018, n. 14701.
[8] Cfr. paragrafo 5.4.1.
[9] Cfr., di nuovo, paragrafo 5.4.1.
[10] Cfr. sempre paragrafo 5.4.1.
[11] V. sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] Cfr. sentenza “D.B. contro CONSOB” del 2 febbraio 2021, C-481/19.
[13] Le dichiarazioni di terzi, secondo la giurisprudenza (v., per esempio, Cass., sez. V, 27 maggio 2020, n. 9903), hanno solo valenza indiziaria. Le dichiarazioni del contribuente, alla stregua di una confessione stragiudiziale, possono invece rappresentare prove dirette dei fatti controversi. Su questi temi, per ulteriori ragguagli, mi permetto di richiamare F. Pistolesi, Il processo tributario, Torino, 2021, pp. 127 ss.
[14] Sull’argomento sia consentito rinviare a F. Pistolesi, La “invalidità” degli atti impositivi in difetto di previsione normativa, in Riv. dir. trib., 2012, I, pp. 1135 ss. Cfr. altresì S. Zagà, Le invalidità degli atti impositivi, Padova, 2012; A. Comelli, Poteri e atti nell’imposizione tributaria. Contributo allo studio degli schemi giuridici dell’accertamento, Padova, 2012; F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2015.
Bibliografia:
R. Schiavolin, sub Art. 70, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accertamento e sanzioni, a cura di F. Moschetti, 2011;
S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, pp. 113 ss.;
I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, 217 e ss.;
G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, p. 299 e ss.
G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 2012
S. La Rosa, Scritti scelti, vol. II, Torino 2011, pp. 697 ss.
R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, 2013
A. Marcheselli, L’accertamento tributario, poteri e diritti nei procedimenti fiscali, in corso di pubblicazione, Giuffré 2021
A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano 2018
Le conclusioni dell’Avvocato Generale sulle questioni pregiudiziali poste dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del 2020: il Consiglio di Stato nega la tutela comunitaria sugli appalti, ma la decisione non è sindacabile in Cassazione
1. Lo scorso 9 settembre 2021 l’Avvocato Generale della Corte di giustizia UE ha presentato le proprie conclusioni nella Causa C – 497/20, originata dal rinvio pregiudiziale sollevato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con l’ordinanza n. 19598 del 18 settembre 2020[1]. In attesa della decisione della Corte di giustizia, le conclusioni dell’Avvocato Generale prendono posizione sulle tre questioni poste dalla Cassazione, evidenziando alcuni aspetti sin d’ora meritevoli di segnalazione.
2. Come si ricorderà, il rinvio pregiudiziale è maturato nel giudizio d’impugnazione di una decisione del Consiglio di Stato promosso a suo tempo da un concorrente escluso da una gara per l’affidamento di un appalto pubblico. Il Consiglio di Stato si era limitato ad esaminare (e rigettare) soltanto le censure proposte dal concorrente con riferimento alla valutazione della propria offerta, ma aveva dichiarato inammissibili le ulteriori contestazioni rivolte all’intera procedura, sul presupposto che il concorrente escluso fosse privo di legittimazione a censurare la regolarità della gara nel suo complesso. Nel ricorrere in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, co. 8 Cost., il concorrente escluso contestava al Consiglio di Stato di avere erroneamente dichiarato inammissibili le censure rivolte alla procedura nel suo complesso, in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con il diritto ad un ricorso effettivo così come interpretato dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE.
Dal suo canto, pur ritenendo la denunciata violazione configurabile alla stregua di una questione inerente la giurisdizione, la Cassazione rilevava come, allo stato, l’ammissibilità del ricorso fosse ostacolata da una “prassi interpretativa nazionale”, chiaramente esplicitata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, secondo la quale la violazione del diritto dell’Unione europea non sarebbe inquadrabile in una questione di giurisdizione, ma integrerebbe una semplice violazione di legge, come tale incensurabile attraverso il ricorso per Cassazione previsto dall’articolo 111, co.8, Cost.
Di qui le tre questioni poste in via pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, che possono così sintetizzarsi:
i) una prima questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base dell’articolo 111, co.8, Cost., assume l’inutilizzabilità del ricorso per Cassazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con il diritto europeo;
ii) una seconda questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., esclude la proponibilità del ricorso in Cassazione per contestare le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano immotivatamente omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia;
iii) una terza questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi giurisprudenziale nazionale che, come quella applicata dall’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, ritiene insussistente la legittimazione del concorrente escluso a contestare nel suo complesso la regolarità della gara, anche ove l’esclusione non risulti definitivamente accertata e sebbene l’eventuale accoglimento dell’impugnazione possa indurre l’amministrazione ad avviare una nuova procedura. In questo quadro vanno, dunque, collocate le conclusioni dell’Avvocato Generale, che di seguito vengono sinteticamente riassunte.
3. Per quanto riguarda la prima questione, l’Avvocato Generale tiene preliminarmente a precisare che il parametro normativo di riferimento debba essere esattamente individuato nella Direttiva 89/665 che tutela il diritto a un ricorso effettivo, in conformità all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Con questa precisazione, l’Avvocato Generale osserva che, nell’attuazione della Direttiva 89/665, gli Stati membri, conformemente alla loro autonomia procedurale, conservano “la facoltà di adottare norme che possono rivelarsi differenti da uno Stato membro all’altro” e che una limitazione del diritto a un ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 47 “può quindi essere giustificata soltanto se prevista dalla legge, se rispetta il contenuto essenziale di tale diritto e se, in osservanza del principio di proporzionalità, è necessaria e risponde effettivamente a finalità d’interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”, precisando ulteriormente che l’articolo 47 della Carta “non impone un doppio grado di giudizio” e che, in virtù di tale disposizione, il principio della tutela giurisdizionale garantisce il diritto di accesso “soltanto a un giudice”. Di conseguenza, se la disciplina dello Stato membro garantisce l’accesso a un giudice, conferendo a tale giudice la competenza a esaminare il merito della controversia, i principi di tutela giurisdizionale sanciti dall’articolo 47 e dalla Direttiva 89/665 non possono ritenersi violati, proprio in quanto non “impongono un ulteriore grado di giudizio per porre rimedio a un’applicazione erronea di dette norme da parte del giudice di appello”.
Nel descritto contesto di riferimento, il fatto che il ricorso in Cassazione previsto dall’articolo 111, co. 8, Cost. sia limitato alle sole questioni di giurisdizione non può pertanto “essere considerato di per sé contrario al diritto dell’Unione neppure laddove precluda l’impugnazione di una decisione con la quale il giudice di secondo grado ha applicato un’interpretazione del diritto nazionale che, oggettivamente, è contraria al diritto dell’Unione”, proprio in quanto il diritto italiano prevede pacificamente l’accesso a un giudice competente a esaminare il merito della controversia.
Sulla base di queste premesse, l’Avvocato Generale conclude così che “l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che esso non osta a una norma quale l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana, come interpretato nella sentenza n. 6/2018, secondo la quale un ricorso in cassazione per motivi di «difetto di potere giurisdizionale» non può essere utilizzato per impugnare sentenze di secondo grado che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea”.
Nel rassegnare le conclusioni, l’Avvocato Generale tiene comunque a precisare che la soluzione a un’errata applicazione del diritto europeo da parte di un giudice di ultima istanza andrebbe piuttosto individuata in “altre forme procedurali”, quali un ricorso per inadempimento ai sensi dell’articolo 258 TFUE, ovvero un’azione del “tipo Francovich” che consenta di far valere la “responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei diritti dei singoli riconosciuti dal diritto dell’Unione”.
4. In relazione alla seconda questione, l’Avvocato Generale evidenzia preliminarmente che “l’obbligo di adire la Corte in via pregiudiziale, previsto all’articolo 267, terzo comma, TFUE, incombente agli organi giurisdizionali nazionali avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso, rientra nell’ambito della cooperazione istituita al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, nell’insieme degli Stati membri, tra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Corte”, precisando che, a norma dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, “una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è in linea di principio tenuta a rivolgersi alla Corte, quando è chiamata a pronunciarsi su una questione di interpretazione del diritto dell’Unione”.
Nel descritto contesto di riferimento, al diritto nazionale sarebbe pertanto soltanto vietato di “impedire a un organo giurisdizionale nazionale di avvalersi della suddetta facoltà o di conformarsi al suddetto obbligo”. Sicchè, laddove al giudice interno sia riconosciuta la possibilità di effettuare un rinvio pregiudiziale, ovvero sia previsto l’obbligo di effettuare tale rinvio, spetterebbe esclusivamente ad esso “valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emanare la propria decisione, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte”. La mancata adizione della Corte in via pregiudiziale verrebbe così ad integrare una illegittimità sostanziale o procedurale, ma non “una questione di competenza giurisdizionale ai seni dell’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana”, con la conseguenza che, come anche precisato per la prima questione, la soluzione ad un’eventuale errata applicazione degli obblighi derivanti dall’articolo 267 TFUE andrebbe individuata in altre forme procedurali, quali un ricorso per inadempimento o un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato.
In base a questi presupposti, l’Avvocato Generale conclude che il diritto europeo e, in particolare l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 19, paragrafo 1, TUE e l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, “non ostano a che le norme relative al ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione siano interpretate ed applicate nel senso di precludere che dinanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di cassazione sia proposto un ricorso per cassazione finalizzato a impugnare una sentenza con la quale il Consiglio di Stato ometta, immotivatamente, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte”.
5. Quanto alla terza questione, l’Avvocato Generale ribadisce i principi affermati dalla giurisprudenza europea, secondo i quali “il criterio determinante l’obbligo del giudice di esaminare il ricorso della ricorrente è che ciascuna delle parti del procedimento ha un interesse legittimo all’esclusione delle offerte presentate dagli altri concorrenti”. In base a tali principi, preordinati a una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, la censura del concorrente escluso diretta a travolgere l’intera procedura andrebbe comunque esaminata in quanto “non si può escludere la possibilità che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto”. Più esattamente, l’esistenza di una siffatta possibilità sarebbe sufficiente a radicare la legittimazione (e/o l’interesse) del concorrente escluso all’impugnazione, poiché l’ipotetico accoglimento dell’impugnazione potrebbe comunque arrecargli una precisa utilità, consentendogli, ad esempio, di partecipare alla nuova procedura eventualmente indetta dall’amministrazione. Resta inteso che il concorrente escluso sarebbe comunque privo di legittimazione (a contestare l’intera procedura) nelle ipotesi in cui l’esclusione sia stata confermata “da una decisione che ha acquistato forza di giudicato prima che il giudice investito del ricorso contro la decisione di affidamento dell’appalto si pronunci”.
Nel caso di specie, al momento di proposizione del ricorso al Consiglio di Stato, l’esclusione del concorrente non risultava ancora definitiva, ragion per cui, come rilevato dall’Avvocato Generale, le censure dirette a travolgere l’intera procedura avrebbero dovuto essere esaminate, anche in considerazione del fatto che il loro eventuale accoglimento avrebbe potuto inficiare la regolarità delle altre offerte in gara prefigurando l’ipotetica indizione di una nuova procedura. Conseguentemente, al fine di garantire il diritto ad un ricorso effettivo, il Consiglio di Stato avrebbe dovuto applicare i richiamati principi affermati dalla giurisprudenza europea, riconoscendo in capo al concorrente escluso la legittimazione a contestare la regolarità della procedura di gara.
6. Sebbene non sia questa la sede per compiere più ampi approfondimenti, le conclusioni dell’Avvocato Generale forniscono alcune precise indicazioni.
In primo luogo, evidenziano che, nel ritenere inammissibili le censure dirette a travolgere l’intera procedura di gara, il Consiglio di Stato avrebbe erroneamente applicato il diritto europeo e, segnatamente, i principi in materia di effettività della tutela giurisdizionale come anche interpretati dalla Corte di giustizia.
In secondo luogo, rivelano che il diritto nazionale, nella misura in cui limita ai profili di giurisdizione il ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, non contrasterebbe con il principio di effettività della tutela giurisdizionale così come riconosciuto e tutelato a livello europeo.
In terzo luogo, danno atto che eventuali errori del giudice nazionale di ultima istanza in ordine all’applicazione del diritto europeo sarebbero pur sempre riparabili mediante un eventuale ricorso per inadempimento, ovvero attraverso un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato membro.
Non resta a questo punto che attendere la decisione della Corte di giustizia.
E. Z.
[1] Per i commenti all’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 2020, M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; F. FRANCARIO, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021; G. TROPEA, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. NASCIMBENE, P. PIVA, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?, ib., 24 novembre 2020.
Sull’interruzione del processo per fallimento della parte: commento a Cass. S.U. 7 maggio 2021, n. 12154
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – Fallimento ed interruzione dei processi. 2. – Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile. 3. – La soluzione delle Sezioni Unite del 2021. 4. – La novità “processuale” partorita dalla Cassazione. 5. – Conclusioni.
1. Fallimento ed interruzione dei processi
L’ampia e dotta sentenza delle Sezioni Unite in commento si occupa di una problematica per lunghissimo tempo ignota agli studiosi del diritto fallimentare, per la decisiva considerazione che la disciplina originaria della legge fallimentare del ’42, sul punto non dava adito a dubbi interpretativi di sorta.
È noto che l’apertura del concorso tra i creditori del fallito determina l’interruzione di tutti i processi pendenti, purchè riferiti a rapporti di natura patrimoniale, visto che essa produce la perdita della capacità di stare in giudizio del soggetto che lo subisce e la nascita contestuale, salve le eccezioni previste nell’art. 46 l.fall., della legitimatio ad processum in capo al solo curatore.
L’art. 43, primo comma, l.fall. si limita ancora oggi seccamente a stabilire che nelle controversie in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore; e questa norma secondo la granitica giurisprudenza della S.C. determina appunto quella perdita della «capacità di stare in giudizio» che al pari della morte, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., costituisce causa di interruzione del processo.
Ora, verificatosi l’evento interruttivo – id est la dichiarazione di fallimento di una delle parti –, tradizionalmente nella vigenza della legge del ’42, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 300, commi primo, secondo e quarto, c.p.c., con la conseguenza che se la parte era stata dichiarata fallita dopo la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore, l’interruzione si verificava solo se e quando il medesimo lo avesse dichiarato in udienza o lo avesse notificato alle altre parti; nei casi in cui invece l’apertura del concorso si era verificata dopo la dichiarazione della contumacia della parte, l’interruzione si verificava nel momento in cui l’evento fosse stato documentato dalla parte in bonis, oppure fosse stato certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti o atti di cui all’art. 292 c.p.c.
Siffatto inquadramento dell’istituto, pacificamente applicato in giurisprudenza per oltre sessant’anni, ebbe a subire una rilevante modifica con l’introduzione del terzo comma all’art. 43 l.fall., ad opera dell’art. 41, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a tenore del quale l’apertura del fallimento «determina l’interruzione del processo».
La norma novellata è stata interpretata costantemente dalla successiva giurisprudenza edita, anche della S.C., nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale, determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante, ai fini della produzione del relativo effetto la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, come pure la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, nonché tutti gli altri atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c., nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace.
Corollario necessario di questo indiscusso assunto, è che la disciplina processuale del fallimento, quale evento interruttivo automatico, deve oggi essere ricercata nell’ambito dei casi in cui il codice di rito prevede e regola eventi che producono appunto automaticamente l’interruzione del giudizio: cioè negli artt. 299, 300, comma terzo, e 301 c.p.c., letti in combinato disposto con l’art. 305 c.p.c.
E la Consulta (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17), investita della questione di legittimità dell’art. 305 c.p.c., in relazione ai parametri degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui fa decorrere dall’interruzione del processo per l’apertura del fallimento, ai sensi dell’art. 43, comma terzo, l.fall., anziché dalla data di “effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita e dai soggetti che hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento, con sentenza interpretativa di rigetto ha già avuto modo di affermare che, in base ai princìpi da essa stessa espressi nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. in relazione alle ipotesi di interruzione ipso iure previste dagli artt. 299, 300 comma 3, 301 c.p.c., si era consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui di tale evento abbia avuto conoscenza “in forma legale” la parte interessata alla riassunzione; sicché il relativo dies a quo può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra.
Sulla problematica in oggetto, poi, una significativa novità è stata introdotta con il d.lgs. 12 febbraio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (di seguito il c.c.i.i.) - destinato tuttavia ad entrare in vigore, dopo l’ennesimo rinvio, forse, il prossimo 16 maggio 2022 -, il quale nel comma 3 dell'art. 143 stabilisce espressamente che il termine per la riassunzione del processo decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice.
Dunque, è certo che - almeno per il futuro - sarà necessaria la dichiarazione di interruzione da parte del giudice, perché decorra il termine per la riassunzione del processo, mentre nulla soggiunge il Codice in ordine a quale sia lo strumento per assicurare a tutte le parti la “conoscenza legale” di questa dichiarazione, come tale idonea a fare decorrere il termine per la riassunzione o per la prosecuzione.
Due, allora, sono le problematiche sorte all’esito della cennata novella del 2006 dell’art. 43 l.fall. e che – come da atto la sentenza in commento – hanno dato vita ad orientamenti contrastanti: i) la necessità o meno che, anche nel regime vigente, l’evento interruttivo venga dichiarato dal giudice, affinché decorra il termine per la sua riassunzione o prosecuzione; ii) quale debba ritenersi la forma di “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, sufficiente ad assicurare il decorso del termine fissato la prosecuzione o la riassunzione con riguardo a tutte le parti del processo, nonché al curatore fallimentare.
2. Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile
Per capire le rilevanza delle questioni poste dai quesiti surriferiti, è assai interessante esaminare il caso concreto portato all’esame delle Sezioni Unite della S.C., a seguito dell’ordinanza interlocutoria spiccata dalla Prima sezione civile (Cass. 12 ottobre 2020, n. 21961), con la quale è stata appunto sollecitata la rimessione al massimo consesso del giudice di legittimità.
Una società titolare di un conto corrente bancario conviene in giudizio l’istituto di credito per ottenere la sua condanna alla restituzione delle somme indebitamente trattenute nell’ambito del detto rapporto; il tribunale condanna la banca alla restituzione in favore della correntista di una determinata somma; proposto appello da parte dell’istituto di credito, ed interrotto il relativo processo in seguito alla dichiarazione di fallimento della società appellata, l’appellante riassume il giudizio, ma la curatela del fallimento della società, costituendosi nel giudizio riassunto, eccepisce l’estinzione del processo, assumendo che la banca non lo aveva tempestivamente riassunto, visto che quest’ultima aveva già ricevuto da oltre sei mesi l’avviso di cui all’art. 92 l.fall., la cui comunicazione avrebbe dovuto essere considerata idonea a determinare la sua “conoscenza legale” dell’evento interruttivo anche nell’ambito del giudizio d’appello.
La corte di appello accoglie l’eccezione della curatela e dichiara estinto il giudizio di appello; la banca propone allora ricorso per cassazione lamentando che la corte di appello abbia dichiarato l’estinzione del giudizio di secondo grado, individuando quale momento in cui avrebbe avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, la ricezione dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall. da parte del curatore del fallimento, anziché quello in cui era intervenuta la dichiarazione dell’interruzione del processo, all’udienza davanti al giudice del gravame.
Insomma, dalla lettura della vicenda sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria, si capisce benissimo che, dopo la riforma del 2006, fermo l’orientamento a tenore del quale la dichiarazione di fallimento produce ex lege l’interruzione del giudizio, non era ancora sufficientemente chiaro nella giurisprudenza – neppure di legittimità – se occorra o meno una dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e quando si possa dire che le parti abbiano avuto “conoscenza legale” del medesimo, al fine di individuare il dies a quo del termine di decadenza per riassumere o per proseguire il giudizio.
3. La soluzione delle Sezioni Unite del 2021
Le Sezioni Unite osservano anzitutto che la duplice modifica dell’art. 43 l.fall., prima nel 2006 – con l’introduzione del terzo comma che prescrive l’interruzione automatica dei processi – e poi nel 2015 – con l’inserimento di un quarto comma, in forza del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, in forza del quale le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, appare chiaramente volta, da un lato, ad attenuare, con l'automaticità dell'interruzione dei processi pendenti, i costi del contenzioso non endoconcorsuale e così, indirettamente, la durata dei fallimenti, dall'altro lato, ad istituire regole di trattazione selettiva per tutti i processi in cui assuma la qualità di parte l'organo concorsuale.
Del resto, l’art. 25 della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, tra le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, prescrive che gli Stati membri provvedono affinché «il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi delle procedure».
La scelta del legislatore del 2006 di rendere applicabile l’art. 305 c.p.c. con la conseguente estinzione del processo, ove non proseguito o riassunto nel termine ora trimestrale, appare allora chiaramente ispirata ad esigenze di celerità delle procedure, anche se occorre evidenziare – come puntualmente fanno le S.U. – che l’estinzione in caso di inerzia non è la sorte riservata a tutti i processi pendenti al momento della dichiarazione di fallimento di una parte, posto che in altri casi la dichiarazione di fallimento costituisce motivo di improcedibilità della lite, come quando è necessaria la migrazione della domanda in sede di accertamento del passivo.
Ora, secondo il Giudice di legittimità occorre chiedersi se la ricordata soluzione prospettata per il futuro dall’art. 143, comma 3, c.c.i.i. possa essere utilmente impiegata anche nella vigenza dell’attuale art. 43 l.fall.; e ciò pure tenendo a mente che l’art. 2, comma 1, lett. m), della legge 19 ottobre 2017, n. 155, nel dettare i principi di delega per la riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza, ha attribuito al legislatore delegato la potestà di riformulare le disposizioni all'origine dei contrasti interpretativi, così da consentirne il superamento, in coerenza con gli stessi principi della legge delega.
Il Giudice di legittimità sottolinea allora come la regola fissata nell'art. 143, comma 3, c.c.i.i. – quella della necessità della dichiarazione giudiziale dell’interruzione – non esprime una assoluta novità, mostrando all'evidenza di coincidere, come già evidenziato nell’ordinanza interlocutoria, con uno degli orientamenti formatisi presso la S.C.; dunque, la scelta del legislatore riformista si è limitata a selezionare un'interpretazione possibile, tra le più finora seguite, delimitando la portata dell'istituto e pertanto, per quel che qui rileva, non assumendo una radicale natura anche legislativamente innovativa.
E già in precedenza le S.U. della Cassazione hanno chiarito che il codice della crisi e dell'insolvenza «è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, primo comma, c.c.i.i.), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro» (Cass. S.U. n. 12476 del 2020; Cass. S.U. n. 8504 del 2021).
Anche la relazione illustrativa al Codice sullo specifico punto ribadisce che, per consentire al curatore di costituirsi nei giudizi che hanno ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione, l'apertura della stessa comporta di diritto l'interruzione automatica del processo - ed è il principio riflesso anche nell’attuale art. 43, comma terzo, l.fall. - ma per assicurare il diritto di difesa delle parti, il termine della riassunzione decorre dal momento in cui il giudice dichiara l'avvenuta interruzione.
Dai superiori elementi, nella sentenza in esame le Sezioni Unite ricavano quella continuità normativa che giustifica l’opzione in favore della scelta ermeneutica fatta dal legislatore del 2019; e anzi, ribadisce la decisione che ci occupa, come già aveva fatto nella sua requisitoria il Procuratore Generale, che la soluzione codicistica non costituisce affatto un ritorno all’ancien regime, perché esigere la declaratoria giudiziale dell'interruzione affinché scatti l’onere di riassunzione del processo non significa affatto ripristinare il regime in base al quale l'interruzione non era automatica, visto che il giudice può addivenire alla dichiarazione di interruzione del procedimento per il solo fatto di essere venuto a conoscenza della sopravvenuta procedura fallimentare e a prescindere dalla dichiarazione del difensore del fallito.
La sentenza in commento, peraltro, osserva che pure ad aderire alla tesi che possa invocarsi in via ermeneutica l’opzione legislativa fatta propria per il futuro dal Codice, rimane non sufficientemente chiaro se la dichiarazione giudiziale di interruzione, determini il decorso del termine solo per alcuni soggetti, come si potrebbe evincere dal riferimento alla sola “riassunzione” e non anche alla “prosecuzione”, così delimitando la previsione della decorrenza del termine, almeno nella sua formula espressa, alla sola altra parte non colpita da fallimento.
Insomma, si tratta di capire se anche per il curatore il termine per la prosecuzione del processo decorra dalla dichiarazione del giudice e ciò, peraltro, considerato che il predetto curatore non ha di norma mai “conoscenza legale” della dichiarazione di interruzione, salvo che sia resa in un'udienza cui egli abbia presenziato, ovvero gli sia stata notificata come atto autonomo dall’altra parte.
La conclusione della Corte è perentoria: in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma terzo, l.fall., il termine per la riassunzione ad opera della parte non fallita, come quello per la prosecuzione su iniziativa del curatore della fallita, decorre sempre e soltanto da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia stata portata a conoscenza di ciascuna parte cui spetta riassumere o proseguire, compreso quindi il curatore fallimentare.
Orbene, nulla quaestio se la dichiarazione di interruzione viene ad essere conosciuta da tutte le parti – compreso il curatore – perché pronunciata in udienza con ordinanza, ai sensi dell’art. 176, comma secondo, c.p.c.: dalla data della pronuncia del giudice che dichiara l’interruzione decorrerà per tutti il termine trimestrale per la riassunzione o la prosecuzione del processo.
Quando l’ordinanza che dichiara interrotto il processo non sia stata pronunciata in udienza, invece, affinchè decorra il termine trimestrale essa dovrà essere comunicata alle parti in lite, secondo quanto previsto dall’art. 136 c.p.c. in generale per tutti i provvedimenti del giudice, oppure notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, in modo da determinarne quella “conoscenza legale” che in maniera ora esclusiva determina il decorso del termine per riassunzione o prosecuzione.
Così ricostruita la disciplina vigente, allora, nella vicenda all’esame della S.C. la soluzione diviene obbligata: poiché la conoscenza legale dell’evento interruttivo si è verificata in capo alla banca appellante soltanto con la dichiarazione di interruzione resa all’udienza dal giudice di appello, la sentenza impugnata - che ha erroneamente dichiarato estinto il giudizio, ancorchè riassunto nel termine decorrente dalla pronuncia giudiziale di interruzione - merita di essere cassata; spetterà dunque al giudice del rinvio riesaminare nel merito le doglianze formulate dall’appellante.
4. La novità “processuale” partorita dalla Cassazione
Ma ecco che in cauda venenum: dopo avere fatto in maniera apprezzabile chiarezza sulla necessità della dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e sugli eventi che determinato quella conoscenza legale che fa decorrere il termine per riassumere o proseguire il giudizio, la sentenza di cui ci occupiamo sottopone agli interpreti una novità processuale inattesa, peraltro estranea al caso sottoposto dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, che come visto si riferiva ad una tardiva riassunzione da parte del soggetto rimasto in bonis e non al caso della prosecuzione su iniziativa del curatore.
Secondo le Sezioni Unite, a prescindere dalla notifica a cura della controparte al curatore fallimentare della parte fallita dell’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo, sarà il cancelliere dell’ufficio giudiziario a doverla comunque comunicare al predetto curatore, affinchè decorra il termine per la prosecuzione del processo.
Per giustificare siffatta perentoria conclusione, la sentenza in commento si impegna in una diffusa motivazione che attinge anche a profonde suggestioni del diritto convenzionale europeo.
Il collegio parte dall’idea che la connotazione pubblicistica della procedura concorsuale, una volta aperta, imponeva di escludere che «una regola tanto solenne quanto puntuale, come l'interruzione ipso jure del giudizio in cui sia parte un fallimento, venisse arbitrata opportunisticamente o discrezionalmente, ma in modo di fatto casuale, dall'iniziativa di una parte rimettendo la sua verifica».
Constatata la doverosità giudiziale della dichiarazione di interruzione, le Sezioni Unite affermano che anche la priorità di trattazione dei giudizi in cui sia parte un soggetto fallito, disposta con il cennato d.l. n. 83 del 2015, si inserirebbe in una logica tutta tesa ad assicurare una efficace raccolta delle informazioni sull'eventuale dichiarazione di fallimento resa a carico di una parte, in modo da consentire ai giudici di rendere tempestivamente e anche d'ufficio la descritta dichiarazione, in coerenza agli artt. 127 e 175 c.p.c. e l’art. 81-bis disp. att. c.p.c.
Si ricorda, ancora, che lo scopo legittimo di assicurare il regolare funzionamento della giustizia, più volte è stato enunciato dalla Corte EDU con riguardo all'art. 6 §1 della Convenzione EDU, poiché amministrare la giustizia senza ritardi ingiustificati che possano comprometterne la credibilità e l'effettività, realizza un interesse generale della società («court proceedings unhindered by unjustified delays»: Corte EDU 15 ottobre 2015, in Konstantin Stefanov v. Bulgaria § 64).
D'altra parte lo stesso principio di «sécurité juridique» secondo la declinazione dell'art. 6 §1 della Convenzione EDU, tende a garantire una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia nella giustizia, quali elementi fondamentali di uno Stato di diritto (Corte EDU 29 novembre 2016, in Paroisse gréco-catholique Lupeni et autres c. Roumanie, § 116), così che il bilanciamento tra il diritto di accesso alla giustizia e la perdita della possibilità di esercizio dell'azione lascia agli Stati membri margini d'intervento, ma evitando al contempo un eccesso di formalismo che minerebbe «l'équité de la procédure» e «une souplesse excessive» (Corte EDU 17 gennaio 2012, in Stanev c. Bulgaria §§ 229-231).
La conclusione, indefettibile, per il Giudice di legittimità è che non vi è alcun ostacolo alla comunicazione d'ufficio dell'ordinanza dichiarativa di interruzione del processo al curatore fallimentare, a seguito della dichiarazione di fallimento di una parte, ancorchè si tratti di un soggetto che non vi aveva assunto la medesima qualità.
Se invero il dies a quo per la decorrenza del termine di cui all'art. 305 c.p.c. viene fatto coincidere con la produzione della conoscenza dell'evento interruttivo, secondo un procedimento che parte dalla dichiarazione giudiziale e si realizza mediante la successiva facoltativa notificazione al curatore fallimentare, a cura della parte costituita, allora deve ammettersi analoga attività di comunicazione da parte dello stesso ufficio giudiziario; si tratta, infatti, di una forma di produzione della conoscenza che condivide con l'iniziativa della parte interessata «la natura di fattispecie meno extraprocessuale, in questa accezione, perché pur sempre originante dalla constatazione del fallimento assunta in primo luogo dal giudice del processo interrotto e dunque volta a veicolare una sua pronuncia, per quanto meramente dichiarativa».
Ora, certamente i cennati ampi richiami all’esigenza – garantita anche dal diritto convenzionale – di assicurare un processo equo e regolare, con una durata ragionevole, evitando inutili formalismi e costi anche economici a carico della collettività, sono tutti ampiamente condivisibili ed apprezzabili in linea generale.
Il fatto è, però, che non spetta alla Corte di Cassazione – e neppure alle sue Sezioni Unite – di ergersi a legislatore; dunque, quando il codice di rito, all’art. 136 c.p.c., prevede che le comunicazioni a cura del cancelliere si fanno nei casi previsti dalla legge o su ordine del giudice, è all’evidenza che occorre individuare quali siano siffatti casi, rinvenibili uno per uno nel tessuto normativo e non invocando genericamente i principi generali.
E dal combinato disposto degli artt. 134, 170 e 292 c.p.c. si capisce che, da sempre, le ordinanze - compresa quella che dichiara l’interruzione del giudizio per intervenuto fallimento della parte - devono essere comunicate a cura dell’ufficio giudiziario alle sole parti che siano costituite in giudizio, tramite il difensore, ma giammai al contumace, né al soggetto che, a seguito della perdita della capacità di stare in giudizio della parte processuale, per legge ne acquista la relativa legittimazione.
È vero che la parte non colpita dall’evento interruttivo pacificamente può notificare di sua iniziativa l’ordinanza al curatore fallimentare, al fine di provocarne la conoscenza legale e fare decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio, onde guadagnare la sua eventuale estinzione, ma è chiaro che si tratta appunto di una facoltà in capo alla parte interessata, alla quale non può contrapporsi un dovere d’ufficio – per il cancelliere –, che non ha alcun fondamento normativo; e ciò senza neppure considerare difficoltà concreta dell’onere che viene posto in capo al cancelliere, id est di ricercare un nominativo (quello del curatore fallimentare), che potrebbe essere ignoto, potendo avere in thesi l’ufficio giudiziario notizia certa dell’apertura del concorso, ma non del professionista nominato dal tribunale fallimentare, magari situato in altro distretto di corte d’appello.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in commento appare assai apprezzabile laddove – anticipando la futura soluzione adottata dal Codice della crisi – stabilisce una volta per tutte che solo dopo che il giudice abbia dichiarato l’evento interruttivo, potrà decorrere il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto.
Parimenti merita sicuro plauso la scelta – improntata a chiarezza e a semplificazione – di fare decorrere sia la riassunzione che la prosecuzione della lite, dal momento in cui l’ordinanza che dichiara l’interruzione è conosciuta dalle parti in udienza, oppure a seguito di comunicazione del cancelliere o notificazione a cura dell’altra parte.
Quella che lascia perplessi, invece, è l’idea che – solo per l’evento dichiarazione di fallimento – in difetto di una norma di qualsivoglia natura, si possa imporre al cancelliere di comunicare l’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo direttamente al curatore fallimentare, cioè non al difensore della parte, ovvero alla parte stessa, ma ad un soggetto che è in quel momento estraneo al processo, essendo solo titolare di una legittimazione ex lege a proseguirlo.
Insomma, la legge processuale italiana non prevede che il cancelliere comunichi alcunchè a chi non è ancora parte del processo; e questo obbligo non può essere rinvenuto invocando i principi generali in tema di ragionevole durata del processo, perché allora un tale onere si dovrebbe estendere all’evidenza a tutti i procedimenti civili, né la specialità del procedimento fallimentare e la sua natura pubblicistica – in mancanza di una previsione espressa nella legge fallimentare, come quella appunto del terzo comma dell’art. 43 – autorizzano a ritenere che il codice di rito possa subire una così plateale eccezione agli oneri che incombono sull’ausiliario del magistrato.
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