ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione
di Giuseppe Severini e Paolo Carpentieri
1. La normazione iconica, fatta di solenni enunciazioni di valori impropriamente vestiti con i panni della legge, è per i giuristi una delle afflizioni dei nostri tempi. Rispecchia la pratica semplificatoria dei social media, di cui replica l’impronta riduttiva e ricerca la formula disintermediata. Le motivazioni non sono dissimili. È in realtà una sovra-legificazione proclamatoria di simboli ben più che produttiva di norme. Corrisponde assai poco a un bisogno di diritto: lo denuncia il fatto che si presenta molto assiologica e per nulla tassonomica; non evidenzia infatti la norma agendi per portare a effetti la proclamazione. Corrisponde a una concezione primaria e regressiva della legge, la espunge dalla realtà articolata dell’edificio del diritto per elevarla a prevaricatorio totem comunicazionale. Insomma, è un paludamento autocelebrativo per il legislatore, ma distante da razionalismo e tecnicismo giuridici. Nel generale crollo culturale della classe politica - ormai più usa al post di foto e battute sui social che al ragionamento e alla dialettica -, la normazione iconica esprime come si possa piegare a un uso politico lo strumento più tipico del diritto, deprivandolo del ragionamento giuridico che vi è coessenziale: e al prezzo di intaccare i postulati della sicurezza giuridica su cui invece si basa lo Stato di diritto.
La normazione iconica è dunque per lo più inutile proprio perché non è corredata da autentiche norme e procedure per dar seguito a quella celebrazione di simboli; ma non raramente è anche dannosa, perché genera confusione alterando la preesistente realtà dell’ordinamento.
In questo quadro va considerato quanto sta avvenendo nelle aule parlamentari a proposito dell’art. 9 della Costituzione: articolo di preminente importanza tra i principi fondamentali della Carta – fino ad oggi mai toccati dalla penna del legislatore costituzionale - che ora si vorrebbe alterare, apparentemente arricchendolo di un comma, collegato a una contestuale modifica dell’art. 41, ma in realtà per buona parte stravolgere.
2. Il 9 giugno 2021 il Senato ha approvato, in prima deliberazione, la proposta di legge costituzionale (in un testo unificato: AC 3156) recante "Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente".
La proposta aggiunge un terzo comma all'articolo 9 della Costituzione ([La Repubblica] «Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali») e ne modifica l’articolo 41 (aggiungendo, al secondo comma, che l'iniziativa economica privata non può recare danno «alla salute» e «all’ambiente»; e al terzo comma, che l'attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a fini anche «ambientali»).
A una prima e superficiale lettura, la proposta, a muovere da queste modifiche all’art. 41, dovrebbe suscitare serie perplessità anzitutto in chi si riferisce ai postulati neoliberisti, nei sostenitori del libero mercato come chiave per risolvere ogni questione, nei convinti del primato del Growth and Development: anche perché nemmeno reca più il riferimento testuale al concetto-valvola dello «sviluppo sostenibile», che pure era previsto in una delle proposte riunite in questo testo unificato; e, circa il danno del secondo comma, non reca l’aggettivo «significativo», che pure il recente Regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili si preoccupa di prevedere, in applicazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, ad evitare che qualsivoglia alterazione ambientale, pur minima, possa rilevare negativamente. Ma non dovrebbe dispiacere a chi ha a cuore e vuol difendere il paesaggio e il patrimonio culturale. In fondo, si potrebbe sostenere, questa modifica opera per addizioni, rafforzando la tutela dell’ambiente: la quale, nel suo amplissimo e onnicomprensivo campo di denotazione, include anche il paesaggio; sicché non vi sarebbero ragioni di dubbio dal lato della tutela dei beni culturali, dei beni paesaggistici e del paesaggio. Ma anche in questo caso, come si è più volte osservato in precedenti contributi, “paesaggio” e “ambiente” divergono, si differenziano ed entrano in conflitto. Conflitto oggi acuito, come diremo, dall’irrompere sulla scena giuridica (e politica) della grande notion di “transizione ecologica”, certo positiva ma in realtà a latitudine indeterminata e specie su questo assai delicato fronte. Di tale generale indeterminatezza è ultima riprova la divergenza di contenuto tra l’indirizzo ricavabile dal recente diritto derivato dell’Unione europea e quello ricavabile dalla più recente posizione italiana attuativa del PNRR (il primo puntando ad ogni intervento a finalità green, cioè ambientale; il secondo, almeno nell’ultima stesura, essenzialmente al contenimento del mutamento climatico).
Di conseguenza, a ben vedere - in disparte l’ingenuità giuridica di diversi patrocinatori - questa proposta, se rapportata all’attuale momento storico e letta alla luce delle pressanti contingenze politiche ed economiche, si manifesta in realtà discutibile e assai pericolosa per la tenuta della tutela del paesaggio italiano. Va infatti a incidere, apparentemente per ridondanza ma in realtà per alterazione, su un sistema che ha una sintesi esemplare nel testo dell’articolo 9, secondo comma: snodo dinamico fondamentale, che ha conferito dignità di principio fondamentaleall’esemplare legislazione generalizzata in Italia a muovere dalla legge Croce del 1922, e la ha proiettata con straordinaria attualità verso sviluppi ulteriori, fecondi di risultati, plasticamente aderenti all’unica e irripetibile specificità dei paesaggi italiani, noti al mondo per bellezza e attrattività ed elemento della stessa identità italiana.
È sì un dato oggettivo che l’art. 9 non usa la parola “ambiente” perché questa, nel senso di equilibrio ecologico, è stata tematizzata solo un quarto di secolo dopo: ma questo non vuol dire affatto che non si tratti di un bene che già ha trovato inequivoca protezione nella stessa Costituzione. I giuristi, dai tempi dei Romani, sanno e insegnano che le norme non risiedono nella sola lettera delle disposizioni ma si ricavano dal loro insieme, e che senza mutare nella lettera si attualizzano con la trasformazione sociale: il diritto non è il mero testo della legge, come una concezione primordiale e arcaica del nómos farebbe intendere. Così, da quando mezzo secolo fa è sorta la questione ambientale, dottrina e giurisprudenza ben presto concordarono che la tutela dell’ambiente possiede già una chiara base costituzionale nella combinazione dell’art. 9 e dell’art. 32 sul diritto alla salute. Il che è dato non meno oggettivo del precedente, proprio perché il diritto non è composto dalla mera littera legis.
È dunque indubbio, per il giurista appena consapevole della realtà dell’ordinamento e che guardi all’effettività costituzionale, un dato giuridico inoppugnabile: la Costituzione, nel testo vigente, già tutela l’ambiente. Lo ribadisce testualmente, del resto, da vent’anni l’art. 117, secondo comma, lett. s), che assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». La previsione fu introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la c.d. riforma del Titolo V: il che non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata già una copiosa giurisprudenza costituzionale che, appunto, affermava che la tutela dell’ambiente era già implicitamente presente nella Costituzione (es. Corte cost., n. 238/1982; 210/1987; 641/1987; ecc.).
Sicché oggi l’aggiunta anche testuale, nell’art. 9, della tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» appare anzitutto inutile, perché ripetitiva di un precetto presente e incontestato e dunque produttiva di nessuna autentica utilità: il che già dovrebbe consigliare un legislatore costituzionale minimamente accorto a non turbare, per un nessun valore aggiunto, il valore superiore della sicurezza costituzionale, e massimamente in tema di principi fondamentali. Ma poco sarebbe, se non si dovesse ahimè rilevare che è soprattutto dannosa. E forse non involontariamente dannosa, almeno per certi punti di vista.
Infatti, la dizione proposta, dalla confusa connotazione e dalla vaga denotazione, reca con sé un effetto pratico dirompente, in particolare per un Paese qual è l’Italia: di banalizzare il principio fondamentale della tutela del paesaggio, che pure è così radicato ed essenziale per la percezione generale di quello che già Dante e Petrarca chiamarono il Bel Paese e che ha trovato nell’art. 9 – come icasticamente scrisse Sabino Cassese - la costituzionalizzazione delle teste di capitolo del corpo legislativo precedente il quale – è da sottolineare - corrispondeva alla tradizione culturale e alla coscienza nazionale. La dannosità, insomma, si profila e si concretizza contro il mirabile paesaggio italiano e contro il delicato, prezioso sistema di sua tutela approntato e affinato con accurata sapienza giuridica lungo tutto un secolo: e questo affonda nell’identità e nella cultura dell’Italia al punto che il collegamento tra cultura e paesaggio – la culturalità del paesaggio – modella la sua protezione giuridica e offre la base al riconoscimento della massima dignità costituzionale.
Nella realtà, infatti, non può sfuggire anche al più distratto tra i giuristi che affiancare la tutela dell’ambiente alla tutela del paesaggio della Nazione, significa porre sullo stesso piano, dunque equiordinare nella forma e nella sostanza, l’una nozione e funzione all’altra. L’effetto reale è di dequotare senz’altro, in pratica vanificare, il rilievo del paesaggio e della sua protezione di fronte a nuove opere che si assumono di difesa dell’ambiente-quantità: in pratica, espungendolo dalla primaria e icastica collocazione tra i principi fondamentali della Costituzione ogniqualvolta la sua difesa si ponga in concreto contrasto con la sua alterazione provocata da interventi mitigatori dell’inquinamento e dunque di contrasto al cambiamento climatico: tali o solo asseriti tali che siano. Come dire che – contro ogni ragionevolezza - il vulnus al paesaggio va non più valutato in concreto ma ora, e per categorie generali, presunto in questi casi come senz’altro inesistente.
La consapevolezza di quanto sopra conduce dunque ad un’estrema cautela davanti a una proposta di modifica costituzionale come quella di cui parliamo. In disparte che per diversi Autori la modifica costituzionale non può giungere a toccare il testo dei principi fondamentali della Costituzione (questo sarebbe il primo caso), la domanda di fondo è se la configurazione materiale e visibile dell’Italia, con quanto vi corrisponde in termini di valore identitario, sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento, meriti di essere nel volgere di brevissimo tempo sacrificato di fronte a cento e cento foreste di torri eoliche che muterebbero irrimediabilmente l’idea e il “volto amato della Patria”, secondo la celebre espressione di John Ruskin che cento anni fa veniva da tutti evocata a sintesi dell’idea stessa di tutela del paesaggio.
3. Occorre dunque guardarsi dall’inganno per cui, a un esame disattento delle implicazioni, sembrerebbero non esservi ricadute nocive per la primazia della tutela del paesaggio.
Così, in verità, non è: anche indipendentemente dal rapporto con la tutela del paesaggio, va anzitutto rilevato che, in questa formalizzata tutela de «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni», si può implicare finanche il più ingannevole greenwashing industriale, solo che si vesta appunto di quel comodo e generoso abito. Del resto, oggi finanche il carbone, per taluni, è “verde”, come è verde l’operazione industriale della sostituzione con l’auto elettrica del parco auto circolante, come “verdi” sono le distese di centinaia di ettari di pannelli fotovoltaici messi nei campi agricoli, o i “parchi eolici” che, in nome di quella religione dell’eolico che in Francia sta facendo insorgere molti per le devastazioni che reca, stanno cambiando il volto dei paesaggi appenninici, finora sopravvissuti alla cementificazione. E così si viene direttamente al conflitto tra questa tutela del «l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi» e la tutela del paesaggio consacrata dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione. Il punto, reale, è che davvero troppo è in sé acriticamente qualificabile come “verde”, anche operazioni pianificate essenzialmente per lucrare i generosi incentivi pubblici.
È piuttosto un dato oggettivo e realistico che la tutela del paesaggio non sempre va d’accordo con la tutela dell’ambiente se questa è acquisita nella sua declinazione industrialista. Una tale declinazione oggi insidia non infrequentemente il concetto, certo positivo ma non sufficientemente specificato su questo lato, della “transizione ecologica”. In effetti, alcuni suoi sostenitori assumono che qualsiasi opera vi trovi giustificazione in nome del contrasto del riscaldamento globale e che perciò prevale sempre e comunque sulla tutela paesaggistica: perciò polemizzano con le soprintendenze, a loro dire ree di rallentarla; e propugnano la diffusione senza contrasti, dovunque e comunque, dei “parchi” fotovoltaici ed eolici. Il “nemico” della transizione ecologica parrebbe dunque, a dire di costoro, essere costituito dall’effettività della tutela del paesaggio e dagli organi statali che vi danno concretezza ...
In termini concettuali, il rischio, prima ancora che nell’indefinitezza del concetto di “transizione ecologica”, si annida già nel corto circuito logico del “pensare globale – agire locale” e nell’intrinseca ambiguità dello “sviluppo sostenibile”, pur se – come detto – non menzionato da questa proposta. “Pensare globale e agire locale”, nella decezione insita nel quasi ossimoro dello “sviluppo sostenibile” (sarebbe stato meglio a suo tempo tradurre “sustainable development” in “sviluppo durevole”, come si è fatto in francese con “développement durable”, a rimarcare la durevolezza nel tempo del risultato e ad attenuare il peso del pilastro economico rispetto a quelli ecologico e sociale), ha un significato pratico di enorme impatto: significa la disponibilità del valore del paesaggio a fronte di qualsivoglia intervento asserito di “transizione ecologica”; un effetto materialmente e culturalmente devastante per l’Italia e costituito dal sacrificio, di forme e proporzioni inedite, dei paesaggi italiani; e quale che ne sia il pregio e il valore identitario. Tutto questo in nome di un’asserita e futuribile “decarbonizzazione” e del contrasto del mutamento climatico: come se coprire i terreni agricoli di pannelli fotovoltaici e le dorsali appenniniche di torri eoliche possa davvero comportare un’effettiva incidenza sul riscaldamento globale, visto che l’Europa intera contribuisce al riscaldamento con meno di un decimo delle emissioni globali mentre l’Amazzonia continua a essere bruciata, il PIL della Cina continuerà a crescere con ritmi a due cifre all’anno con effetti evidentemente globali da emissioni di carbonio che dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030, e l’India semplicemente sembra ignorare il problema. Esiste, è il caso di davvero domandarsi, una reale e ragionevole proporzione di prezzo tra il danno elevatissimo che va a subire la configurazione dell’Italia e l’effettivo contributo alla mitigazione del riscaldamento globale che può offrire il sacrificio del suo paesaggio? La risposta negativa è in re ipsa e dovrebbe condurre il Parlamento ad accentuare la prudenza e alzare la guardia di fronte ad una tale temeraria innovazione costituzionale: ad evitare che, per il paesaggio italiano, la “transizione ecologica” si traduca in un costo elevatissimo e insensato, dall’effetto per di più pressoché irrilevante.
Insomma, si profila con ogni serietà il rischio che la modifica costituzionale possa provocare, quale suo immediato effetto tangibile, quello di subordinare la tutela paesaggistica alla straripante diffusione degli impianti industriali di produzione di energia da fonti rinnovabili: La devoluzione, a quel punto, alle mere logiche di mercato (tolti di mezzo gli orpelli amministrativi della tutela paesistica) li dice destinati a essere realizzati lì dove la proprietà privata è più debole e più facilmente aggredibile, ossia nei terreni agricoli e nelle aree interne. La modifica degli articoli 9 e 41 Cost., senza poter in realtà innovare al bilanciamento e agli equilibri tra i valori costituzionali di tutela dell’ambiente salubre e di iniziativa economica privata, finirebbe così per veicolare senza remore la trasformazione industriale dei paesaggi agrari e appenninici del Paese: un nuovo “interesse tiranno”, capace di facilmente travolgere la tutela paesaggistica che ancora lo conteneva. Sono segnali inequivoci e ben visibili di questa dinamica aggressiva il conflitto, di dimensioni ormai fuori da ogni proporzione, intorno a elefantiaci progetti di parchi fotovoltaici nelle campagne della Tuscia, dove la Regione Lazio ricusa di considerare (come invece richiede la Soprintendenza) l’effetto paesaggistico della sommatoria dei numerosi progetti (ciascuno per decine e decine di ettari di suolo agricolo) presentati in sequenza o in parallelo da più operatori economici; o la recente disciplina semplificatoria inserita nel decreto-legge di semplificazione n. 77 del 2021 (Capo VI, Accelerazione delle procedure per le fonti rinnovabili, artt. 30-32) per limitare i controlli paesaggistici in relazione ai progetti – dichiaratamente attuativi della “transizione ecologica” – per la realizzazione delle suddette tipologie di impianti.
Si dice: «ma è l’Europa che ce lo chiede». Ma non è così. L’Europa fissa obiettivi strumentali solo percentuali: il regolamento (UE) 2021/1119 del 30 giugno 2021 “che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica” (detto - in accentuazione comunicazionale - “European Climate Law” o “Loi européenne sur le climat”) e il pacchetto “Fit for 55” del 14 luglio 2021 finalizzato a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 55% rispetto al 1990 (in vista della “carbon neutrality” da raggiungere entro il 2050). Però lascia alla responsabilità degli Stati membri di scegliere il mix qualitativo di misure da loro stimate più congrue e opportune a seconda delle caratteristiche del Paese. Siamo noi (per il mezzo dei rappresentanti governativi inviati a negoziare a Bruxelles) che ci siamo accollati impegni e ancor più “ambiziosi obiettivi” che rischiano di sancire l’ulteriore devastazione dei paesaggi italiani e stavolta su vasta scala (“ambizioso”, “ambitious” è un aggettivo che ormai ricorre con la frequenza di un intercalare nei vari documenti, europei e nazionali, nella materia: un aggettivo che la logica giuridica imporrebbe di trattenere quando si formulano testi che vogliano essere davvero normativi, com’è buona regola per le aggettivazioni ridondanti).
In questi termini, occorre prima di tutto precisare cosa davvero, sul versante del paesaggio italiano, deve significare l’ancora troppo impreciso concetto di “transizione ecologica”: la produzione di “energie pulite” non deve infatti comportare lo stravolgimento del volto dei nostri territori (agire locale, ma pensare globale …). Occorre non generare gravi danni collaterali locali, certi e immediati, in una guerra globale dagli esiti futuri e assai complessi (e con gravi difficoltà di partenza, come indica l’indirizzo del contenimento del climate change insito in mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici: i primi due dei sei obiettivi ambientali del fondamentale regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 sulla tassonomia della finanza sostenibile).
Questa è in realtà l’urgenza, non già la prospettata modifica costituzionale. Ma ahimè nessuna norma viene immaginata per instradare gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili solo verso il brown field, le tante migliaia di capannoni abbandonati o meno che da tempo hanno devastato la gran parte delle aree e delle conurbazioni di tutta l’Italia. Continua insomma a prevalere la solita, usurata logica degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, per la quale l’agricoltura è di suo un disvalore da cancellare, sicché sono aggrediti in primo luogo e soprattutto i terreni agricoli, dove la proprietà è povera e debole, ma non le coperture dei manufatti delle imprese industriali e commerciali, pur se fallite e in liquidazione.
Se non si impongono questi previi limiti definitori all’attuale latitudine indeterminata della “transizione ecologica”, che ha assorbito la tutela dell’ambiente polarizzandola in senso industriale, è al massimo livello pericolosa l’inedita modifica dei principi fondamentali della Costituzione. Senza un tale previo chiarimento, dopo la modifica costituzionale risulterebbe addirittura coperto costituzionalmente un piano o un programma che decretasse la libera realizzazione di parchi eolici e fotovoltaici, oggi invece esposto a seri e fondati dubbi per contrasto con l’art. 9, secondo comma. Questo, e solo questo, sarebbe il risultato pratico di una così inutile, e soprattutto dannosa, modifica di un principio fondamentale della Costituzione.
Per questi motivi chi ha a cuore il volto amato della Patria, dunque la tutela del paesaggio, non può non essere preoccupato per quest’incauta proposta di modifica del principio fondamentalecostituzionale, utile solo a rafforzare il tentativo (in atto sotto l’usbergo degli “ambiziosi” obiettivi di ripresa e resilienza) di spazzar via ogni plausibile e giustificata resistenza al dilagare incontrollato di invasivi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme
Intervista di Roberto Conti a Valerio Onida
Giustizia insieme apre oggi un focus di riflessione sulla proposta referendaria in tema di eutanasia, coinvolgendo alcuni autorevoli studiosi della materia.
Si comincia con Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale, al quale seguiranno nei giorni successivi gli interventi di Andrea Pugiotto e Paolo Veronesi, entrambi professori ordinari di diritto costituzionale presso l'Università di Ferrara, Ida Nicotra, costituzionalista catanese, Giuseppe Cricenti, consigliere di Cassazione ed esperto bieticista ed infine di Antonio D'aiola, ordinario di diritto costituzionale a Parma.
Le domande
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato- sentenza n.242/2019 e ord. n.207/2018-. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art.579 c.p. e non sull’art.580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpito dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione ?
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art.580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n.242/2019?
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
Le risposte di Valerio Onida
1. Va subito detto che la proposta referendaria non si propone di intervenire nello spazio creato dalla Corte con la sentenza sul caso Antoniani-Cappato attraverso la parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale (illiceità penale dell’aiuto al suicidio), precisando legislativamente i criteri indicati dalla sentenza per rendere lecito l’aiuto; ma tende a disciplinare la diversa ipotesi di chi “cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”, rendendola penalmente lecita nei limiti descritti nella proposta. Cioè si depenalizzerebbe la condotta di chi - fuori dalle ipotesi oggi descritte nel terzo comma dell’art. 579 (minorenne, infermo di mente o in condizioni di deficienza psichica, consenso estorto con violenza o inganno), in cui già si applicano, e continuerebbero ad applicarsi, le norme penali sull’omicidio – compia un atto idoneo a sopprimere la vita di un altro con il consenso di questi.
Qualcosa cioè di ben diverso dall’“aiuto al suicidio” che è stato oggetto della sentenza della Corte, cioè di condotte tali da agevolare e assistere chi, trovandosi nelle condizioni estreme indicate dalla Corte (malattia irreversibile in fase terminale, sofferenze ritenute intollerabili, controllo di una struttura sanitaria pubblica), ed è in grado di esprimere un consenso libero e consapevole, chiede ed ottiene di essere aiutato a porre fine egli stesso alla propria vita. Si noti che non solo la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente nei limiti del nuovo art. 579, quale risulterebbe dalla approvazione del referendum, autorizzerebbe pratiche diverse da quelle suicidarie, in cui cioè (come avviene per esempio nella nota clinica svizzera cui si fa frequente riferimento, e a cui ha fatto ricorso anche Fabiano Antoniani nel caso portato all’esame della Corte) è l’aspirante suicida a compiere, sotto controllo medico, l’atto finale di soppressione della propria vita.
Qui si vorrebbe che fosse legalizzato non l’aiuto al suicidio, ma l’atto di soppressione della vita di chi consapevolmente vi consenta, trovandosi nelle condizioni previste. E soprattutto ciò avverrebbe senza il necessario ricorso delle condizioni che in base alla sentenza della Corte possono legittimare l’aiuto al suicidio: situazione di terminalità, malato che dipende da supporti vitali per la sopravvivenza. Basterebbe il consenso libero e informato del paziente.
Si tratta dunque di una ipotesi sostanzialmente diversa da quella di cui si è occupata la Corte, e che andrebbe a rendere lecita un’attività omicidiaria alla sola condizione del consenso consapevole e libero della vittima. Non si tratterebbe più di consentire, rinunciando ai supporti vitali, di essere aiutati a suicidarsi, ma di consentire a chiunque di sopprimere un altro essere umano purchè liberamente consenziente. A mio avviso così si valicherebbero i confini della Costituzione, che protegge la vita umana in ogni suo stadio, e dà prevalenza all’autodeterminazione dell’interessato solo quando si tratta di rifiutare consapevolmente interventi curativi o conservativi. Infatti, a termini dell’art. 32, nessuno può essere obbligato a ricevere trattamenti sanitari: e la legge n. 219 del 2017 ha precisato che ciò si estende ai cosiddetti trattamenti di sostegno vitale di persone in condizioni di malattia incurabile e terminale, che possono essere sostituiti, a richiesta dell’interessato, da interventi di sedazione profonda continua che sopprimono la coscienza e quindi la sofferenza, e preludono a più o meno breve termine alla morte dell’interessato.
2. La risposta alla domanda sull’ammissibilità del referendum dovrebbe dunque a mio avviso avere risposta negativa, trattandosi di eliminare in certe ipotesi la tutela legale della vita altrui, che è principio costituzionale (è come se all’accusato di un grave reato si consentisse di chiedere che gli venisse inflitta la pena di morte in luogo di qualsiasi altra pena, nonostante il divieto costituzionale).
In ciò che ho detto si trova la risposta ai quesiti di cui al n. 3: verrebbero ampiamente valicati i limiti (malattia inguaribile in fase terminale, dipendenza da supporti vitali, sofferenze intollerabili, consenso libero e consapevole) entro cui la Corte ha stabilito che la richiesta da parte dell’interessato di un aiuto al suicidio possa prevalere sulla tutela costituzionale della vita altrui; e dalla limitata depenalizzazione dell’aiuto al suicidio si passerebbe alla ben diversa ipotesi della depenalizzazione di ipotesi di omicidio del consenziente. Pertanto a mio avviso ciò dovrebbe precludere l’ammissibilità del quesito, essendo la risposta positiva ad esso tale da violare la Costituzione. Ciò che invece potrebbe e dovrebbe essere oggetto di un intervento legislativo che si innesti sull’art. 580 del codice è la diversa ipotesi dell’aiuto al suicidio di chi si trovi nelle condizioni indicate dalla Corte.
3. Le domande di cui ai numeri 5 e 6 trovano già risposta nei precedenti paragrafi. A mio avviso il quesito referendario formulato è inammissibile perché la normativa di risulta violerebbe i limiti entro i quali il rispetto della vita altrui è compatibile con forme (non di omicidio del consenziente, ma) di aiuto al suicidio in casi estremi, richiesto consapevolmente e liberamente dall’interessato: legittimando così condotte attive di omicidio del consenziente diverse da quelle contemplate dal terzo comma dell’art. 579 del codice vigente.
In ogni caso l’operazione legislativa proposta per via referendaria è sostanzialmente diversa da quella di riempimento del “vuoto” creato dalla sentenza n. 242 del 2019 in tema di aiuto al suicidio, legittimando vere e proprie forme di omicidio del consenziente, che diverrebbero lecite, purchè diverse da quelle contemplate dal terzo comma dell’art. 579.
“Vaccinazione e prodotto farmaceutico nel sistema della responsabilità civile da attività lecita”
Recensione di Paolo Maddalena al volume di Maria Rosaria Scotti
Il tema della responsabilità civile da attività lecita è, oggi, di grande attualità. La pandemia da coronavirus, i dubbi da molti sollevati sulla opportunità di sottoporsi alla trasfusione di un vaccino non ancora pienamente sperimentato, la pratica “obbligatorietà di fatto” di sottoporsi a questo trattamento sanitario, non imposto, ma fortemente sollecitato dalle Autorità, pongono il problema giuridico, non della libertà di scelta, che è stata assicurata, ma quello ben più concreto, del “rischio” che è intrinseco in questa specie di trattamento sanitario e della “risarcibilità” dei danni alla persona subiti da quei soggetti che si siano sottoposti alla vaccinazione.
Il tema che più sta a cuore all’Autrice è quello di dimostrare che nel caso in esame non è giuridicamente possibile parlare soltanto di “indennizzo” (cioè di un parziale “ristoro” economico), ma di vero e proprio “risarcimento “ di tutti i danni subiti.
La semplice proposizione del problema fa capire quanto ardua sia l’indagine da compiere, poiché in questo caso si tratta, si badi bene, di superare una giurisprudenza tuttora ancorata all’idea che il risarcimento del danno presupponga (diversamente dall’indennizzo) un “fatto illecito”, cioè una condotta riprovevole, in quanto posta in essere con dolo o colpa, in base al principio, molto risalente nel tempo, secondo il quale “nessun risarcimento senza colpa”, ovvero “qui suo iure utitur neminem laedit”. Una concezione, quindi, penalistica e sanzionatoria, peraltro di carattere soltanto “patrimonialistico”, e quindi conforme alla concezione “borghese”, e oggi “neoliberista”, del diritto.
Il lavoro, di una complessità e completezza scientifica più unica che rara, attraversa tutto ciò che dottrina e giurisprudenza hanno affermato, non solo sul piano specifico della responsabilità per atti leciti, ma anche e soprattutto a proposito degli innumerevoli problemi esistenti nella immensa area della responsabilità civile.
Nel trattare una materia di così eccezionale ampiezza, l’Autrice indica subito il file rouge che Ella intende seguire, in modo che il lettore non resti disorientato dalla complessità della trattazione: questo filo rosso è costituito dal convincimento secondo il quale “la norma integra un giudizio di valore, non una regola logica, poiché la realtà della vita ha la meglio sulla costruzione formale”.
Ciò premesso, la trattazione comincia con il mettere in evidenza come la giurisprudenza, sia quella costituzionale, sia quella di legittimità, siano fortemente ancorate al principio della “indennizzabilità” dei danni, anziché del loro “risarcimento”, non ostante l’articolo 35 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, prescriva l’intero risarcimento e non ostante il primo comma l’art. 117 della Costituzione sancisca il “rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. E tutto questo avviene, è bene sottolinearlo, con la citazione precisa e analitica delle varie tesi sostenute dalla dottrina e dalle numerose affermazioni giurisprudenziali.
Il primo argomento che l’Autrice pone in evidenza, a dimostrazione della sua tesi, è il grande rilievo che ha in dottrina il “diritto alla salute”, di cui all’art. 32 della Costituzione, in collegamento diretto con “i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, imposti dall’articolo 2 Cost.
Il “valore primario” e indiscutibile sancito per la salute della persona umana, e cioè per la sua integrità fisica e psichica, costituisce, insomma, un punto essenziale di ancoraggio per una nuova prospettiva della responsabilità civile, la quale comincia a essere considerata, non più soltanto dal punto di vista “patrimonialistico”, ma anche e soprattutto dal punto di vista “personalistico”. Si staglia così all’orizzonte l’importanza della “persona umana”, la quale richiede, ovviamente, un “giudizio di valore” (quello assunto come criterio direttivo dell’indagine), che non può non concretarsi in una valutazione di “priorità” della tutela dell’interesse alla salute e alla vita dell’uomo.
Arriva così, sulla base di detto criterio interpretativo, il primo colpo decisivo contro la teoria che vede la fonte della responsabilità civile aquiliana, di cui all’art. 2043 del codice civile, una “sanzione” contro il comportamento illecito dell’autore del danno. E viene conseguentemente spiegato il motivo di fondo del perché la migliorie dottrina ha spostato la sua attenzione dal “fatto illecito” al “danno”, con la conseguenza di dover ritenere che la “illiceità” segue e non precede il “danno”.
A questo punto appare evidente che la ricerca relativa al criterio di imputazione del danno, cioè del trasferimento degli effetti dannosi da un soggetto a un altro, debba necessariamente approdare ai principi etici contenuti nella nostra Costituzione, e cioè, fondamentalmente, al “principio di eguaglianza” di cui all’art. 3 Cost.
L’indagine, e questo è molto importante, si sposta così dall’astratto al concreto, comportando la necessità di una revisione dei fondamenti della responsabilità civile alla luce della mutata situazione economica e sociale ben diversa da quella esistente all’epoca dell’entrata in vigore del codice civile.
Viene pertanto in evidenza il problema del “rischio” che è insito nell’utilizzo degli strumenti offerti dallo sviluppo tecnologico. Si pensi ai rischi del trasporto aereo o dei treni a alta velocità, ai rischi conseguenti agli inquinamenti industriali e di altro tipo, e, perché no? ai rischi che comportano le vaccinazioni e i prodotti farmaceutici.
Allora lo sguardo si allarga. Non c’è più soltanto un problema di rapporto tra due soggetti uno dei quali ha arrecato danni patrimoniali all’altro, ma un problema di “ripartizione” del “rischio”, secondo la “valutazione” e il “bilanciamento” dei valori costituzionali in gioco, tenendo presente che i danni possono colpire, e di solito colpiscono, soggetti terzi, che nulla hanno a che vedere con le cause del danno subito.
Ne consegue che la dottrina comincia a distinguere tra “responsabilità per colpa” e “responsabilità per rischio”, addossando quest’ultima, in modo oggettivo, all’impresa, come si è affermato per i danni da inquinamento atmosferico.
In questo ambito una teoria molto valutata è quella dell’analisi economica del diritto, la quale individua la valutazione del rischio come elemento della individuazione del “costo” di impresa. In questo senso l’imprenditore è tenuto a valutare a priori quale sia la soluzione più conveniente, considerando il “rischio” di dover risarcire i danni, come un “costo” dell’impresa.
Ma il problema, come agevolmente si desume dal discorso fin qui condotto, non può risolversi nella sola prospettiva di addossare i danni al soggetto che in qualche maniera ne è stato causa, ma deve essere risolto in una prospettiva assai più ampia, che contempli non solo il produttore, ma anche il consumatore.
In questa più ampia prospettiva, assume una piena valenza il “principio di “eguaglianza”, che implica, a ben vedere, un giudizio “etico sociale”, in base al quale si ridefinisce anche il significato della “ingiustizia” del danno, visto non più nel comportamento del danneggiante, ma come effetto della “ripartizione del rischio”.
Restringendo a questo punto l’esame ai danni alla persona prodotti da vaccinazioni, trasfusioni o farmaci difettosi, riemerge il dato fondamentale del “valore assoluto” della “persona” e l’assioma inconfutabile secondo cui tale valore, essendo “assoluto” e “primario”, non sopporta alcun bilanciamento e merita l’integrale risarcimento del danno subito, che viene a avere il suo fondamento nell’art. 2 Cost., secondo il quale il nostro Stato comunità, la Repubblica, impone “doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”. Ne consegue che, una volta che la collettività ha accettato il “rischio” che alcuni trattamenti possano ledere la “salute” di singoli cittadini, essa deve assumersi anche l’onere di “risarcire integralmente” i danni alla salute subiti da singole persone a causa del’accettazione collettiva del rischio di cui si parla.
Si tratta di una conclusione alla quale l’Autrice perviene, come si è ripetuto, attraverso un esame approfonditissimo delle tematiche attinenti all’oggetto di trattazione. E ne è venuto fuori un libro che è una miniera inesauribile di informazioni e che dovrebbe circolare nelle Università e tra coloro che davvero vogliono approfondire il complicatissimo, ma affascinante, tema della responsabilità civile, nel quadro dell’attuale progresso tecnologico.
Potremmo aggiungere che, a nostro avviso, un altro terribile argomento si sta profilando all’attenzione degli studiosi: quello della cosiddetta “sostenibilità” del rischio prodotto dall’avanzare inarrestabile della tecnologia. giacché, molto probabilmente, si è già superato il limite naturale di questa sostenibilità.
Ma questo è un altro discorso.
Gli ossi di seppia nella coscienza civile e nella memoria di uno storico in disparte, dal “lato sinistro”
Intervista di Vincenzo Antonio Poso ad Adriano Prosperi
Adriano Prosperi è nato il 21 agosto 1939 a Lazzeretto, piccola frazione del Comune di Cerreto Guidi (Firenze). Ha studiato a Pisa, presso l’Università e la Scuola Normale Superiore, dove, negli stessi anni di Carlo Ginzburg e Adriano Sofri, è stato allievo di Armando Saitta e Delio Cantimori. Ha insegnato Storia moderna presso le Università della Calabria, di Bologna e di Pisa. Nel 2002 è stato chiamato a coprire la cattedra di Storia dell'età della Riforma e della Controriforma presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è Professore Emerito della Classe di Lettere e Filosofia. Dal 2001 è Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei (della quale è membro dal 1989).
Si è occupato delle istituzioni ecclesiastiche e delle idee religiose nel periodo che va dal tardo Medioevo sino alla prima età moderna, soffermandosi in particolare sul ruolo dei missionari, sulla storia dell'Inquisizione in Italia e sulle eresie, temi ai quali ha dedicato libri significativi: Tra evangelismo e Controriforma: Gian Matteo Giberti (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1968 e 2011); Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino,Einaudi,1996 e 2009); Eresie e devozioni, opera in 3 volumi (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010); L'eresia del Libro grande (Milano, Feltrinelli, 2000); L'Inquisizione Romana. Letture e ricerche (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003).
Con Vincenzo Lavenia e John Tedeschi ha curato, per otto anni, il Dizionario storico dell’Inquisizione (Pisa, Edizioni della Normale, 2010), opera monumentale in 4 volumi.
Tra i tanti volumi, che affrontano temi diversi, meritano di essere ricordati: Dare l'anima. Storia di un infanticidio (Torino, Einaudi, 2005), dove lo studio minuzioso della pratica dell’infanticidio è l’occasione per una ricostruzione del dibattito morale, teologico e scientifico intorno a questo tema; Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine (Torino, Einaudi, 2008), un’indagine sull'iconografia della giustizia; Delitto e perdono - La pena di morte nell'orizzonte mentale dell'Europa cristiana. XIV-XVIII secolo (Torino, Einaudi, 2013 e 2016); La vocazione (Torino, Einaudi, 2016), sulla formazione dei Gesuiti documentata da racconti di vita raccolti tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600;Lutero. Gli anni della fede e della libertà (Milano, Mondadori, 2017), una ricerca sull’esperienza religiosa del fondatore del protestantesimo; Un volgo disperso.Contadini d’Italia nell’Ottocento (Torino, Einaudi, 2019).
I temi civili e sociali sono stati affrontati in alcuni volumi (che raccolgono anche articoli pubblicati sulla stampa quotidiana): Cause perse. Un diario civile (Einaudi,Torino 2010); Le origini dell’intolleranza (Roma-Bari, Laterza, 2011); Identità, l'altra faccia della storia (Roma-Bari, Laterza, 2016).
Questi gli ultimi volumi: Il lato sinistro (Mauvais Livres, Roma, 2021), una raccolta di scritti di vario contenuto; Un tempo senza storia. La distruzione del passato ( Torino, Einaudi, 2021), una densa riflessione sul ruolo della memoria e della storia nella nostra tradizione, con una critica alla perdita della memoria collettiva, e Tremare è umano.Una breve storia della paura (Milano, Solferino, 2021), un racconto delle paure dell’uomo, che nasce dai tempi difficili che stiamo attraversando.
V. A. Poso Il “lato sinistro” della nostra intervista è preso a prestito dal titolo di uno dei Suoi ultimi libri, Il lato sinistro, pubblicato dalla nuova casa editrice romana Mauvais Livres, nella splendida collana Sassifraga diretta da Valerio Magrelli, che, come leggiamo nella seconda di copertina, raccoglie alcuni scritti risalenti a varie occasioni e rimasti per lo più inediti o confinati in sedi appartate, legati da sentimenti e ricordi personali di uno studioso nato sotto il fascismo e cresciuto del secondo dopoguerra che è stato spinto allo studio della storia da una volontà di riscatto e di giustizia sociale imparata dai protagonisti della resistenza al fascismo come Antonio Gramsci e Marc Bloch.
A. Prosperi La polarità destra-sinistra, come ha chiarito Robert Hertz, è un prodotto della cultura umana che oppone a ciò che è “retto”, cioè giusto e positivo, ciò che è “sinistro”, cioè negativo (la morte, per esempio). La negatività non rimane tale, ma obbliga a una rielaborazione che ricompone l’ordine a un livello superiore: così nel caso della morte, come ha dimostrato Hertz studiando culture primitive, la lacerazione del lutto occupa una fase temporale in cui il morto è sepolto sommariamente, ma la sua presenza è minacciosa, finché dalla sepoltura provvisoria lo si trasferisce a quella definitiva e la figura del defunto trova posto tra i morti, una classe d’età benigna e protettiva.
V. A. Poso Il titolo del libro sopra citato, quindi, si riferisce a temi di studio, non solo alle simpatie politiche dell’autore, che pure Lei non ha mai nascosto.
A. Prosperi Sì, è così. I due aspetti si incontrano nelle pagine su “I vivi e i morti”, presentazione di un ricco numero monografico di Quaderni Storici. Si volle reagire allora alla moda della tanatologia storiografica che accumulava sui tavoli degli studiosi molte opere di storici importanti, da Alberto Tenenti a Philippe Ariès, a Pierre Chaunu e via elencando. Si cercava di cogliere il mutare storico del pensiero della morte e del comportamento nei rituali delle esequie e nei testamenti, ma soprattutto nella visione della vita. Era una indagine su di un sentimento, ma finiva col tradursi in una filosofia della storia, dal disegno apologetico: era sotto accusa il presente della morte diventata “oscena”, nascosta, ultimo stadio rispetto all’epoca della morte confortata, in mezzo alla famiglia e a notaio e confessore.
Io avevo accettato l’impegno di costruire quel fascicolo non solo per dovere.
Poi, una volta maturato all’università l’allontanamento dal mondo contadino e dalla religione, la lettura dei saggi di Robert Hertz mi fece prendere coscienza di quello che era stato il mio rapporto con la morte e del fatto che era coi morti che avevo contratto un vincolo importante. Da allora tornai ancora un paio di volte su Hertz.
Ma intanto da lui avevo imparato che quello coi morti è un rapporto dei viventi che ne fonda la memoria e ne sorregge l’operare nel mondo. La morte è il “lato sinistro” che, come spiegava Hertz, è fondamentale nel trasformare la negatività della perdita in una forza positiva: così come la doppia sepoltura era il passaggio dal lutto profondo della fase immediatamente successiva alla perdita in un rapporto pacificato col morto entrato a far parte di un’altra classe d’età.
V. A. Poso In alcuni scritti e precedenti interviste abbiamo appreso delle origini contadine della Sua famiglia, giustamente rivendicate con orgoglio.
A. Prosperi Sì, io sono nato e cresciuto in una famiglia contadina toscana sul finire dell’epoca fascista, in una vecchia casa in cima a una collina tra il bosco e i campi, priva di acqua corrente e luce elettrica, ma ricca di bellezze e di presenze naturali – grilli, rane, lucciole, notti di luminosissime stelle – nell’esperienza di una economia fatta di prodotti coltivati nella nostra terra, col latte munto da una nostra amatissima mucca. Mio padre e mia madre erano nati da famiglie di mezzadri toscani, da molte generazioni attivi in questo mestiere. Ma poco prima della mia nascita acquistarono una casetta e un piccolo appezzamento di terra che coltivarono con le loro mani. Poterono definirsi “coltivatori diretti”. La differenza fondamentale coi mezzadri era – mi spiegò mia madre che aveva fatto anche l’operaia in un tabacchificio - la libertà da ogni padrone.
V. A. Poso È in questa piccola società contadina toscana che viene coltivato il primo sentimento, quello religioso, non meno di quello politico, antifascista.
A. Prosperi Quella religiosa è un’esperienza che le generazioni successive non hanno avuto. In quel contesto di anni di guerra e occupazione tedesca e di precarietà della vita minacciata ogni giorno da bombardamenti e da rastrellamenti, accadde anche a me come a quasi tutti i bambini italiani di passare attraverso l’esperienza di una educazione cattolica. Nel mio caso, come per tutti i figli di contadini, quell’esperienza venne filtrata dal contesto di una cultura segnata in profondità dal rapporto diretto con le realtà naturali e dalla sua radice materialista: in quel contesto il contrasto fra il diavolo e il buon Dio era rappresentato da discussioni quotidiane fra i difensori e i negatori dell’esistenza di Dio, con connessioni con le scelte politico-sociali sotterranee, ma vivissime sotto il fascismo e che maturarono dopo la liberazione.
Nel piccolo borgo di artigiani (ciabattini soprattutto) dove feci le mie prime esperienze scolastiche era fortissimo l’anticlericalismo e il fanatismo politico, che dal fascismo passò in toto al comunismo. Frequentare la chiesa era una scelta minoritaria, di opposizione. La mia tradizione familiare era nettamente antifascista, di tendenza comunista e anticlericale nella componente maschile, socialista e cattolica in quella femminile. Tra un padre comunista già nella clandestinità, ma saggio e tollerante, e una madre molto mitemente credente in una minoritaria religiosità prevalentemente femminile – consolazione di donne contadine povere e private dei figli dalla guerra, speranza di una giustizia divina per i sofferenti ingiustizie – aderii d’istinto alla parte materna.
Negli anni di guerra e occupazione tedesca la vista dei morti di stragi e le paure quotidiane rendevano attuali le “Massime eterne” di Sant’Alfonso de’ Liguori che mi sembra di vedere ancora nella tasca del grembiule di mia nonna. E di religione si discuteva molto tra me e i miei parenti contadini, divisi tra i due rami della mia famiglia: da una parte, uno zio materno amante della lettura e profondamente religioso, dall’altra la numerosa parentela del lato maschile politicamente anarchica più che comunista, materialista e anticlericale. Con parenti e vicini si discuteva molto sull’esistenza di Dio e sulla Chiesa.
V. A. Poso Una famiglia contadina, ma con grande attenzione alla cultura…
A. Prosperi La cultura vi era tenuta in gran pregio, come strumento di riscatto sociale: mi resta nella memoria incancellabile una frase di Antonio Gramsci molto amata da mio padre: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza». Nel segno di quella citazione, con cui mio padre ribatté alle critiche del partito quando decise di iscrivermi alla scuola media, iniziò per me nel 1950 l’esplorazione delle scuole esistenti oltre il confine delle classi elementari, un limite allora quasi invalicabile per i figli delle classi popolari. Non per caso ci fu la reazione critica e punitiva (aumento della tassa di famiglia) del sindaco stalinista. Per me, prima della scuola c’era stato l’apprendistato degli anni di guerra e dell’occupazione tedesca; con le stragi e i rastrellamenti, sotto l’opposta minaccia dei bombardamenti aerei alleati e delle vessazioni degli occupanti. Si imparava rapidamente a vivere nel contesto strano e pieno di emozioni di un mondo che regrediva al livello elementare della lotta quotidiana per la sopravvivenza. Allora, liquefattasi senza residui la presenza dello Stato, restava solo quella della Chiesa parrocchiale. L’interesse che ho dedicato nei miei studi alle origini tridentine e al radicamento in profondità della Chiesa cattolica nella società italiana deve qualcosa alle impressioni di allora che intanto fecero di me un adolescente tormentato da problemi religiosi.
La scoperta della grande letteratura russa iniziò da una precoce lettura di “Delitto e castigo” e proseguì dopo le scuole medie diventando un’esperienza anche religiosa della mia adolescenza.
Invece dalla pratica religiosa mi distaccai quando con le elezioni politiche del 1953 – quelle della “legge truffa” – mi trovai davanti al tentativo della gerarchia ecclesiastica di trasformare i membri dell’azione cattolica in membri dei “comitati civici” democristiani.
Solo con la fine delle scuole medie e del liceo ero uscito da una esperienza del cattolicesimo che era stata intensa e maturata in un contesto speciale.
V. A. Poso È, quindi, un omaggio anche alle Sue origini contadine il libro del 2019 sul «Volgo disperso», che rappresenta una felice eccezione nel Suo percorso di studi?
A. Prosperi Solo in modo indiretto. Il mio libro, una piccola apertura sul paesaggio immenso e poco studiato delle condizioni dei contadini nell’800 italiano, non vuole essere un piagnisteo sull’ingiustizia sociale e sulle sofferenze irreparabili di un popolo. È nato dalla scoperta che oggi l’ingiustizia rinasce nell’Italia dei campi dove gli eredi dei contadini di ieri sfruttano in modo ancora più selvaggio un popolo di senza diritti: esuli, immigrati, “boat people”, mentre la servitù domestica e la cura di anziani e malati è affidata a donne che hanno abbandonato i loro figli e i loro vecchi per guadagnarsi la vita, né più né meno di quello che facevano allora le contadine che andavano “a balia”.
V. A. Poso Come ha vissuto l’esperienza della Liberazione? Qual è stata la Sua liberazione?
A. Prosperi L’ho raccontato in una testimonianza del libro «Il lato sinistro» come contributo a scoprire la realtà dimenticata di quella società. La mia liberazione avvenne il 2 settembre del 1944; è stato un evento visto dal basso, dalla prospettiva di una vecchia casa contadina in collina sul limitare di un bosco.
Quel giorno l’esercito alleato, a lungo attestato sul confine della riva sinistra dell’Arno, avanzò oltre quel limite e arrivò anche nel nostro paese. Erano attesi da giorni. La notte prima nessuno dei molti abitanti della collina aveva dormito tranquillo. Si trattava di circa due decine di sfollati dalle città vicine, di diversa cultura e condizione sociale, uniti a quel pugno di contadini che ci risiedevano da sempre, condividendo tutto con loro e maturando relazioni anche intense e durevoli di solidarietà umana e politica. Il piccolo nucleo della mia famiglia – una madre, una nonna – dormì non sui letti consueti, ma su un giaciglio di coperte stese per terra in cantina, a due passi dal rifugio scavato dietro la casa, dove mio padre faceva la guardia, con le armi a portata di mano.
Si temevano i colpi di coda di sbandati tedeschi, franchi tiratori, fascisti in fuga. Il grosso degli occupanti si era ritirato, ma prima, il 23 agosto, aveva lasciato un ultimo segnale di sangue chiudendo in una morsa di ferro la vicina area di boschi, acque e terre emerse del Padule di Fucecchio dove si nascondevano sfollati e contadini: qui, nelle paludi e tra gli alberi, avevano rastrellato e ucciso 176 persone. Dopo un giorno segnato dallo sgranarsi delle mitragliatrici e delle pistole, mentre se ne levava il fumo tra le nebbie di una pesante calura estiva, la sera si erano avute, affannose e terrificanti, le notizie della strage e si erano conosciuti molti nomi dei morti – tanti amici, parenti, conoscenti. Erano circolate notizie confuse ingigantite dal terrore – descrizioni di donne violentate e sventrate, di neonati usati come bersagli di tiro a segno. Non si parlò allora del fatto che coi soldati tedeschi c’erano stati nazisti italiani che li avevano guidati e avevano partecipato alla mattanza. Ma la cronaca quotidiana ci aveva predisposti al terrore. Un episodio: poco tempo prima della liberazione, c’era stata l’irruzione sull’aia di casa di una banda di SS ubriache: avevano sequestrato e portato via un gruppo di uomini. Avevano sequestrato anche mio padre, che era corso con pistole in pugno per difendere la famiglia, ma aveva fatto appena in tempo a nascondere le armi quando aveva visto il numero e le armi dei nemici. Si era poi insperatamente salvato, era tornato vivo dopo una notte trascorsa nel buio e nel terrore a scavarsi la fossa, e dopo una mattina di ricerche affannose, di appelli al comando tedesco. Quando non ci si sperava più, l’intervento di un maresciallo polacco della Wehrmacht aveva bloccato l’esecuzione capitale o la deportazione, appena in tempo. Altri non ebbero la stessa fortuna: si raccontava a bassa voce la storia della loro scomparsa, la deportazione, l’uccisione.
Intanto arrivavano voci sull’avanzata degli alleati, nell’aria passavano squadriglie di aerei dell’aviazione alleata. Gettavano volantini, rotoli di filamenti luccicanti, qualche volta bombe. Un’intera piccola borgata contadina era stata cancellata da un bombardamento, vi erano morti donne e bambini. Ma questo non ci impediva di guardare a quegli aerei con speranza e di attendercene la liberazione. E così giunse il 2 settembre 1944, il superamento della linea dell’Arno. Quello che ricordiamo come data della liberazione è un giorno simbolico. Niente in quell’Italia era identico da un capo all’altro del paese. Le voci dell’avanzata alleata si moltiplicarono. Il rombo dei carri armati li annunciò. Mio padre con altri uomini andò incontro a loro. Noi – donne, vecchi e bambini, famiglie di sfollati in cima alla collina tra i campi – guardavamo da lontano. Ecco che da una collina vicina una mitragliatrice tedesca cominciò a sgranare colpi verso gli alleati. Tutti corremmo d’istinto nel rifugio scavato dietro la casa. Appena in tempo: gli alleati avevano piazzato un cannone in cima all’abitato vicino e spararono cinque colpi. Ma sbagliarono l’obbiettivo: colpirono proprio la nostra casa. Mio padre lo vide, lo seppe, corse disperato: e ci trovò vivi nel rifugio. La casa era per metà in piedi, la parte bassa era intatta.
Fu una festa attesa ansiosamente, vissuta sotto le bombe e conclusa nel più semplice e sereno dei modi: preparando il pasto per una mucca che i tedeschi non avevano requisito perché aveva la pancia gonfia, stava per partorire e questo li aveva schifati. Così, la prima cosa da fare fu preparare il foraggio per la mucca, tagliarlo con la falce. Lo facemmo tutti insieme. Un gesto abituale, come quello del giorno prima. Ma nello spazio di quelle ore tutto era cambiato. Era la prima sera di pace. Indimenticabile. Eravamo non solo vivi ma liberi. Lo si imparò a poco a poco, facendo cose semplici. Bisognava riparare la casa bombardata, alla meglio, coprire il tetto, gettar via i pochi arredi fusi dalle bombe, riorganizzarci negli spazi abitabili. Ma non è facile descrivere la forza del sentimento che rimase scolpito per sempre dentro di noi: era finita la paura, era cominciata la pace nel segno di un grande mutamento collettivo. Di regole, di persone.
V. A. Poso Iniziava, quindi, la stagione della libertà.
A. Prosperi Sì, e intanto era ricominciata anche la scuola, in un edificio pieno di simboli fascisti e con una maestra già moglie di un manganellatore. Ma i fascisti non c’erano più: i manganellatori più violenti sparirono, gli altri passarono in massa ai nuovi partiti e occuparono ancora uffici pubblici. Intanto il mondo sembrava essersi allargato a dismisura, era finita l’angoscia che serrava il cuore dentro quelle case indifese dove la morte entrava all’improvviso con la voce di un esercito occupante, con quella delle spie fasciste, dei profittatori, dei padroni. Scoppiò una grande passione politica, un’attesa di cambiamenti grandi e definitivi. Era la libertà – la grande, immensa sensazione che era finita la paura, che potevamo camminare, respirare, parlare da esseri liberi. Chi ha provato quella sensazione non la dimenticherà mai. Era quella, la Liberazione. E fu festeggiata con la partenza verso il Nord di tanti vicini e amici più grandi col Corpo volontari della Libertà, per quella che doveva essere la battaglia per la liberazione di Bologna.
V. A. Poso Nacque così, dalla Resistenza antifascista, la Repubblica democratica italiana: e questo non possiamo dimenticarlo o ritenerlo un dato storico che in qualche modo si possa superare.
A. Prosperi Sì, è questo anche il mio parere. La festa della Liberazione è il giorno della Repubblica italiana, il vero compleanno del nostro paese. Si tratta di riconoscerlo o di dichiararsi fuori dal patto costituzionale e dai valori che vi furono sanciti. C’è un dato storico e morale indiscutibile che tutti sanno o dovrebbero imparare a conoscere: l’Italia, quella in cui viviamo, nacque dal rifiuto dell’altra Italia, quella clerico-fascista alleata del nazismo, macchiata per sempre dall’infamia delle leggi razziali e dell’antisemitismo, morta o sparita nei violenti sussulti di agonia di una guerra mondiale scatenata al seguito del nazismo e nel sangue delle stragi nazifasciste di una guerra civile. Non ci può essere dialogo con chi tenta di cancellare questo atto di nascita della nazione. Ora, è un fatto che quel nemico esiste e finché esiste nemmeno i morti sono al sicuro: perché è su di loro, sulle ragioni della loro vita e delle loro lotte, che si vuole stendere il velo dell’ignoranza.
Da quanti anni dura questa campagna anti-antifascista che ha nella Festa della Liberazione il suo ossessivo bersaglio? È stata di volta in volta aggressiva o caramellosa, dura o dolcemente suadente. Ha diffamato e infangato i combattenti partigiani, ha chiesto una postuma uguaglianza di vittime e carnefici, si è vestita dei panni della modernizzazione, dell’abbandono dei vecchi miti, in nome di un paese che doveva “andare avanti”, “procedere oltre”, “superare” i vecchi miti, liberarsi dal pesante bagaglio della storia; ha scomodato tutti i luoghi comuni di una sociologia e di una storia dell’”identità” italiana come fenomeno di durata millenaria, fatto di folklore e di religione. L’ultima versione fu quella di rendere il capovolgimento della storia semplice come bere un bicchiere d’acqua. Bastava un’inezia, una mezza parola: si trattava di sostituire “Festa della Liberazione” con “Festa della Libertà”. La sostennero autorevoli editorialisti di giornali “moderati”, alla vigilia del 25 aprile 2009. Parola pericolosa e divisiva la prima, dissero; invece, la seconda univa tutti perché cancellava l’azione del liberarsi nell’indistinto di “libertà”, una di quelle parole, come ha scritto Marc Bloch, “che ogni epoca rimaneggia a suo piacere”. La proposta di “andare oltre” è in realtà una proposta di tornare indietro, di fare come se la storia che abbiamo vissuto non ci fosse stata. Chi la sostiene vuole fare degli italiani un popolo decerebrato, senza memoria e senza linguaggio. Propone una unificazione nel segno non di una memoria condivisa ma di una condivisa, generalizzata finzione. Si tratta solo di fare finta che non ci sia stata in Italia una guerra combattuta sul nostro suolo, tra le nostre case per colpa delle scelte di un regime sul quale gravava la vergogna indimenticabile delle leggi razziali.
V. A. Poso È la Resistenza antifascista l’identità storica della nostra Repubblica.
A. Prosperi Si dice, si deve dire: Repubblica italiana, nata dalla Resistenza antifascista. Necessario ripeterlo, con tutta chiarezza. L’atto di nascita di una realtà politica è quello, storico, in cui si prende coscienza del fatto che sono venuti meno i fondamenti antichi di quello che Ernest Renan definì il plebiscito di ogni giorno, il senso di appartenenza alla nazione. L’atto di nascita di una realtà politica è quello, storico, in cui si sciolgono i vincoli antichi per fissare le nuove regole del patto costituente. Quello che la Resistenza e la Liberazione hanno saldato è un patto tra generazioni guadagnato da una parte in lotta per tutti i cittadini, una realtà che è stata più volte baluginante come una luce incerta, un desiderio, una mancanza nella lunghissima tradizione culturale italiana: tutti sanno quante volte si è affacciato il senso della sua mancanza, costitutivo con Dante dell’atto di nascita della lingua e dell’idea di Italia, e poi il ricordo della grandezza romana, l’appello a virtù civili e militari antiche – da Petrarca a Leopardi passando per Machiavelli. Ma c’è stata una sola occasione in cui il rifiuto dell’assetto precedente e la volontà di fondarne uno nuovo ha trovato fondamento nella realtà di una lunga sofferenza e di una guerra di popolo per la propria sopravvivenza e per la propria libertà.
La guerra civile è stata una ribellione morale prima ancora che politica e sociale, la scelta di combattere “pro aris et focis”, per eliminare la guerra dalle case e dalle città e per fondare un nuovo ordine di giustizia sociale. È stato fra il 1943 e il 1945 che il popolo italiano ha sperimentato le condizioni di intollerabilità dell’ordine fascista-monarchico. È stato allora, non prima e non dopo, che si è reso necessario sciogliere con le armi i vincoli antichi, dichiararli non più esistenti perché l’Italia potesse assumere tra gli altri Stati del mondo il posto, distinto ed eguale, che le spettava.
V. A. Poso Come è nato il Suo incontro con la storia?
A. Prosperi L’incontro avvenne come approfondimento di interessi politici e sociali che mi spinsero a molte e disordinate letture precoci nate dalle vivissime discussioni politiche degli anni dell’occupazione e del dopoguerra nel mio contesto sociale. In questo la mia esperienza fu quella della mia generazione nel contesto toscano, pervaso da una vera febbre di confuse speranze, di miti (Stalin) e di furibonde battaglie di piazza. Vi circolavano quotidiani come L’Unità e Il Nuovo Corriere di Firenze diretto da Romano Bilenchi. Ricordo per esempio che mentre ero ancora nei primi anni di scuola elementare un fattore della fattoria Tozzini di Lamporecchio mi prestò il volume di Viktor Andrijovyč Kravçenko, “Ho scelto la libertà”, allora diffuso in funzione anticomunista. Fu allora che mi accadde di vedere issare la bandiera rossa sulla bica del grano del mio vicino e il padrone fascista tirare fuori la pistola per fargliela togliere. Col Liceo cominciai a ricevere una infarinatura meno superficiale di interessi e di letture. Ebbi buoni e onesti insegnanti. Quello che mi fece appassionare alla storia fu un professore di filosofia che al Liceo classico di Empoli ci tenne per un anno a leggere i frammenti dei presocratici e a introdurci alla storiografia classica tedesca. Conservo ancora un bellissimo ricordo di lui: si chiamava Carlo Gelli. Ma la storia scolastica mi sembrò noiosissima. Credo di aver capito confusamente in quegli anni che la storia è un maestro muto, bisogna porle delle domande. Solo così si può imparare, più o meno come accade coi veri maestri. Grandi maestri sono quelli che sanno tirare fuori le domande dalle menti come si tirano fuori esseri viventi che abitano già nel corpo materno secondo l’arte antica che fu definita non per caso col termine socratico di maieutica.
V. A. Poso E dopo gli studi liceali è approdato alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
A. Prosperi Questa fu effettivamente una svolta importante. Di recente un giornalista mi ha indicato come un caso eccezionale di uso della Normale come ascensore sociale. Curiosa idea: io potrei dire rovesciando la frase famosa dell’astronauta americano che quello fu un grande balzo per me ma un piccolo insignificante mutamento per la società del tempo che registrava allora sconvolgenti mutamenti di condizioni sociali. Penso ai successi politici e alle grandi fortune accumulate in quegli anni dei miei studi universitari da miei coetanei partiti da condizioni veramente miserabili, mentre io mi limitavo a sperare di diventare un insegnante.
Mi sono chiesto che cosa mi facesse apparire all’esame di ammissione un giovane dotato di qualche capacità. La premessa sta forse in un episodio delle mie fameliche e disordinate letture liceali. In un libro della Biblioteca comunale di Empoli, dove cercavo rifugio alla noia della scuola, riconobbi quelle esperienze del tempo di guerra in una magistrale descrizione della società medievale: notti buie e fredde, illuminate solo dalla luna e dalle stelle, precarietà dell’esistenza esposta all’incertezza dei raccolti e alla violenza degli uomini non frenata da nessuna legge, scarse e incerte notizie sul mondo passate di bocca in bocca e raccontate da viandanti e fuggiaschi. Il libro era «La società feudale» di Marc Bloch. E forse proprio a quel libro dovetti il voto favorevole del docente di Storia della Scuola Normale Superiore di Pisa, che mi aprì le porte di quella nobile istituzione quando andai all’Università. Quel docente si chiamava Arsenio Frugoni, primo di una lunga serie di grandi maestri che ebbi la fortuna di incontrare, un elenco che da solo basta a darmi la misura del molto che ho ricevuto e del poco che ho dato.
Il concorso mi fu suggerito dal preside del mio Liceo, il professore Sergio Cecchi di Empoli, insegnante di Greco e Latino, allievo del filologo classico Giorgio Pasquali. L’inserimento nel collegio mi fece incontrare con molti coetanei di diversissima provenienza e preparazione, ma legati da scambi intensi di idee e di interessi e subito spinti a impegnarsi in letture e ricerche per uno studio che mirava non a superare gli esami dell’università, ma ad affrontare la prova interna del “colloquio” che consisteva nella discussione di un elaborato di ricerca concordato con un docente, spesso interno. Avevamo allora alla Scuola un solo professore di Storia nella figura di Arsenio Frugoni, autore di ricerche di storia medievale e di storia dell’arte, affascinante per i suoi studi e per l’insegnamento. Potevamo contare sul giovane Giovanni Miccoli. E c’erano compagni più grandi di straordinaria intelligenza e cultura, venivano da tutta Italia. Da loro imparai moltissimo, prima di tutto a convivere negli spazi limitati di un collegio, ottima cura per un figlio unico uscito dalla solitudine della campagna.
All’Università insegnava Armando Saitta, di cui divenni allievo dopo un avvio incerto tra la filosofia (volevo studiare Hegel di cui non sapevo quasi nulla a parte i libri di Croce, ma su cui avevo letto un saggio di Alexandre Kojève che mi aveva affascinato) e la letteratura italiana (Alessandro Manzoni).
Armando Saitta era noto allora anche nelle scuole grazie alla diffusione del suo manuale di storia che faceva posto per la prima volta a temi come la storia della società e dell’economia e le rivoluzioni moderne, quella francese in particolare per i suoi rapporti col risorgimento italiano. Era un professore di fresca nomina, antifascista, faceva corsi e seminari intorno ai temi della tradizione giacobina e delle organizzazioni settarie e babuviste attive intorno a Filippo Buonarroti.
V. A. Poso Alla Normale trovò anche un ambiente fertile tra gli studenti che frequentava.
A. Prosperi Diciamo che la mia attenzione si rivolse soprattutto verso i colleghi più bravi. Il più importante dei quali era senza dubbio Carlo Ginzburg, oggi un grande storico, forse il più grande e non solo della nostra generazione ma soprattutto un intellettuale di grande respiro, pensatore inquieto dotato di una onnivora cultura e di una mente acutissima, capace di muoversi con agilità ai margini delle discipline più diverse. La nostra amicizia, nata in seguito, si riempì a tal punto di stimoli e discussioni da farmi sentire spesso sotto osservazione. "Cosa stai facendo ora?", era questa una sua domanda ricorrente e lievemente inquisitoria.
E c’erano tanti altri: ricorderò solo un compagno d’anno che lasciò presto la Scuola e intraprese una attività politica intrecciata a letture e studi, e rimasto poi sempre un grande amico: Roberto Barzanti. E c’erano precoci e preparatissimi ingegni. Tra i più giovani entrati dopo di me ci furono Adriano Sofri, immediatamente diventato popolarissimo, e Claudio Baiocchi, un matematico molto dotato che passava il tempo a giocare a poker.
A un certo punto ricordo che comparve Francesco Orlando, che aveva qualche anno più di noi, ed era lettore di francese. Mentre gli italiani scoprivano il “Gattopardo”, un libro di grande e immediato successo, ci lesse nella sua stanza il testo di un suo lungo ricordo di Tomasi di Lampedusa. Era la storia dell’incontro di un giovane con un vero maestro, un grande lettore e un personaggio che sembrava uscito da un’altra epoca, ma che dominava dall’osservatorio siciliano un mondo di idee che a noi mancava. Orlando leggeva con un forte accento siciliano e ci raccontava una figura straordinaria. Va detto anche che lui stesso apparve nell’orizzonte di quel mondo pisano come un viaggiatore in arrivo da terre lontane che parlava una lingua nuova. In una scuola che vedeva dominante ancora nel campo della letteratura la tradizione storicista crociana e gramsciana fu lui a importare - a suo rischio e pericolo - una raffinata applicazione metodologica del pensiero di Freud, un nome allora tabù sia per lo storicismo sia per il cattolicesimo. E c’era Sebastiano Timpanaro, il maestro senza cattedra. Si sedeva in fondo all'aula ad ascoltare. Poi lo ritrovavamo nella sezione “Carlo Cammeo” del PSI o in piazza, nelle manifestazioni politiche.
V. A. Poso Importante fu, poi, l’incontro con Delio Cantimori, Suo riconosciuto Maestro.
A. Prosperi Lo conobbi e seguii mentre facevo il terz’anno, fu allora che riprese a tenere un seminario alla Scuola.
Delio Cantimori fu Maestro anche di Carlo Ginzburg e di Adriano Sofri. Attendevamo i suoi seminari con religiosa venerazione. Faceva parte di un corpo docente che veniva a fare dei seminari in giorni semifestivi o comunque liberi dai loro impegni istituzionali. Fu così che potemmo ascoltare Augusto Campana, su vicende di epigrafi e scritture antiche da decifrare. Cantimori non era neppure sessantenne, ma sembrava già un vecchio con il pizzo, grande cappello in testa, cravatta nera alla Lavallière da anarchico romagnolo, giacca nera a mezza gamba. Scendeva dalla carrozza del fiaccheraio con due borse cariche di libri e lentamente si avviava verso l'aula. Pochi gli studenti. Tornava alla Scuola dopo il ’56, dopo aver abbandonato il Pci. Ci fece fare un seminario su Nietzsche e Burckhardt. Proponeva temi e testi e ci chiedeva che cosa preferissimo. Una volta mise ai voti due possibili corsi: uno dedicato al modo in cui lavorava Marx e l'altro su di un trattato latino sul cardinalato, edito negli anni di Machiavelli. Inaspettatamente prevalse quest'ultimo. Ricordo che Adriano Sofri rinunciò al seminario.
La personalità di Cantimori esercitò immediatamente un fascino speciale su noi studenti quando riprese a tenere in Normale i suoi seminari. Arrivava dopo la chiusura della sua seconda stagione di intellettuale politicamente impegnato, quella che lo aveva visto diventare traduttore del primo libro del Capitale di Marx e amico di Togliatti. circondato dalla fama di una vasta erudizione e di una cultura onnivora, che si esprimeva in un continuo lavoro di lettura e di discussione delle ricerche storiche emergenti nel panorama internazionale, alcune delle quali venivano da lui promosse presso le principali case editrici italiane, prima Sansoni poi Einaudi. Fedele al modello del seminario tedesco, non faceva lezioni “cattedratiche” ma guidava il lavoro comune di lettura di fonti storiche imponendo una disciplina intellettuale rigorosa e spronando all’impegno della ricerca con una capacità maieutica di cui non ho mai conosciuto eguali. Era dotato di antenne sensibilissime nel rapporto coi giovani, ai quali dava suggerimenti e aiuti con acuta percezione di quel che era utile per loro.
Quello che incontrai allora in Normale era lo storico che ritornava ai suoi studi giovanili sulla storia degli «Eretici italiani del Cinquecento» che lo aveva segnalato all’attenzione della storiografia internazionale sull’età della Riforma. Vi ritornava con un progetto che non poté portare a termine: lo studio della storia della vita religiosa italiana in età moderna. La religione era l’oggetto dei suoi studi: caso eccezionale e isolato in un paese dove, come lui stesso aveva avuto occasione di scrivere negli anni Trenta in una lettera a Roland H. Bainton, il termine indicava tutt’al più le pie devozioni cattoliche. Si trattava di affrontare una questione non solo ben nota per esperienza personale ma anche già incontrata nelle mie prime letture e che era nota a tutti noi in quegli anni: la presenza della Chiesa in Italia si era rivelata sempre più importante, per niente indebolita dalla sconfitta del fascismo col quale pure era stata alleata. Era sopravvissuta come realtà capace di tenere insieme il paese nella fase di implosione della monarchia liberale e del regime fascista, ma anche di dettare le regole alla nuova Repubblica con l’introduzione del Concordato del 1929 nel testo stesso della nuova Costituzione e di condurre contro i partiti della sinistra, quello comunista in specie, una battaglia durissima che arrivò fino alla scomunica fulminata dal Sant’Uffizio nel 1948. Tra le altre cose fondamentali, Delio Cantimori aveva scritto una lunga recensione del libro di Hubert Jedin, «Riforma cattolica o Controriforma?», su «Società», la rivista di elaborazione ideologica del Partito Comunista. Fu dunque lui il mio miglior tramite con gli studi della storiografia cattolica che Jedin aveva rinnovato.
V. A. Poso E fu un Maestro fondamentale per i Suoi studi.
A. Prosperi Sì, è stato per me (e non solo per me) una presenza importante, non solo negli anni di formazione ma anche in seguito, leggendo e rileggendo i suoi lavori. Ai miei inizi Delio Cantimori mi fornì suggerimenti e materiali per le mie ricerche e mi indirizzò a un suo assistente presso l’Università di Firenze che aveva appena terminato una vasta ricerca sull’episcopato italiano al Concilio di Trento: Giuseppe Alberigo. Sulla base della sua esperienza Alberigo mi propose di studiare in particolare l’opera del vescovo Gian Matteo Gilberti, l’uomo che aveva sviluppato negli anni Trenta del ‘500 una pionieristica opera di riassetto del governo della diocesi e al quale si era richiamato come proprio modello San Carlo Borromeo. Nacque così la mia tesi di perfezionamento presso la Scuola Normale e da qui derivò il mio primo libro. Per trovare la letteratura storica necessaria potei servirmi della nuova e già ricchissima biblioteca creata a Bologna di Giuseppe Dossetti e dai suoi seguaci, reduci da un impegno politico per togliere ai comunisti il comune di Bologna – impegno fallito. Fu un primo contatto col contesto intellettuale bolognese che doveva poi avere sviluppi. Ma quando la tesi fu pronta, Delio Cantimori, che ne era il relatore, morì improvvisamente. Il rapporto con lui rimase affidato ai libri e alle carte della sua ricchissima biblioteca, ceduta alla Scuola Normale dopo la sua morte e di cui mi fu dato l’incarico di riordinarla per l’apertura al pubblico. L’incarico fu importante per me perché quella era una biblioteca di strepitosa ricchezza, dove i libri parlavano anche di chi li aveva raccolti e letti attraverso una fitta serie di note marginali e di appunti su fogli volanti, poi sciaguratamente tolti e raccolti a parte. Vi si coglieva la personalità inquieta e tormentata dello studioso che aveva dedicato le sue indagini al mondo sotterraneo di eretici, di utopisti e di ribelli in rotta con ogni forma di comunione ecclesiastica: un mondo dove dalle radici della cultura umanistica (e nel dialogo con l’opera di Serveto) era maturato il distacco razionale dalle chiese tutte dell’età della Riforma.
L’interesse profondo dedicato dallo storico allo studio di questo capitolo decisivo della storia della libertà religiosa e la sua assidua ricerca intorno alle esperienze e alle idee di religione richiamano per me una immagine che gli fu cara, quella delle anime del celebre mito platonico in cerca della Pianura della Verità.
Mi rimase dal suo insegnamento una viva curiosità per tutto quanto era rimasto ai margini della sistemazione cattolica tridentina e aveva trovato nell’Inquisizione il suo più determinato avversario: il mondo di idee e di attese di un rinnovamento profondo della religione e della società che trovò espressione nell’evangelismo delle correnti riformatrici italiane e spagnole del primo ‘500, dalla figura di Miguel Servet a quella di Juan de Valdés fino a certi aspetti dell’ambiente dei gesuiti. Su questi temi mi ritrovai a lavorare in collaborazione con Carlo Ginzburg, nel tentativo di decifrare le stratificazioni di un celebre opuscolo italiano del ‘500, il trattatello «Del beneficio di Cristo».
V. A. Poso In cosa consiste l’approccio innovativo di Delio Cantimori nello studio degli «eretici italiani»?
A. Prosperi La sua figura e l’avvio dell’opera di storico dopo studi dotti e importanti di germanista – ma anche un impegno politico e ideologico di intellettuale di formazione mazziniana che aveva aderito al fascismo e aveva guardato con simpatia alle correnti radicali del nazionalismo post-bellico tedesco e a figure come Carl Schmitt - furono segnati dalla pubblicazione di “Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche” (1939), la ricostruzione di una tradizione intellettuale e religiosa italiana che sviluppando temi dell’umanesimo del ‘400 maturò il distacco dalle chiese cristiane tutte, come pure dalla religione in quanto fede in un dio trascendente e nella immortalità dell’anima umana, in conseguenza della negazione della divinità di Cristo e approdando a una posizione – quella dei “sociniani” - portatrice di idee di libertà religiosa e di tolleranza.
V. A. Poso Sono stati gli studi sugli eretici del cinquecento di Delio Cantimori che hanno portato a coltivare gli interessi di ricerca, poi sviluppati in tanti libri?
A. Prosperi In realtà, io volevo studiare la storia della Chiesa cattolica nell’età della Riforma protestante. Con l’aiuto e i consigli di Cantimori mi dedicai a ricerche sul tema della controversia terminologica Riforma cattolica/Controriforma e successivamente, come ho detto, a indagini d’archivio su un vescovo italiano del ‘500, Gian Matteo Giberti, che poterono svolgersi grazie all’aiuto generoso di Armando Saitta e in dialogo con la giovane storiografia cattolica di studiosi come Giuseppe Alberigo e Paolo Prodi, lavorando nel loro “Centro di Documentazione” di Bologna fondato da Giuseppe Dosssetti, ma anche col loro Maestro, lo storico del Concilio di Trento Mons. Hubert Jedin.
Io ho dedicato diverse ricerche e letture di storia per rispondere a una domanda fondamentale: volevo capire le forme storiche assunte dalla religione cattolica nel suo tradursi in cultura, istituzione, potere. Potrei riassumere sinteticamente la risposta evocando un autore e un testo che hanno avuto grande importanza per me: la leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij. Negli scritti giovanili di Carlo Levi su religione e contadini e poi in quelli di Ernesto De Martino ho trovato intuizioni e indicazioni di ricerca che mi hanno fatto intravedere qualcosa che oscuramente avevo vissuto e mi hanno permesso di fare i conti col razionalismo e il pensiero liberale di Croce. Ma questo rimase nel fondo confuso della mia ricerca.
Intanto mi inserii nel lavoro concreto di studio secondo le regole del mestiere, cercando di mettere a fuoco strumenti e questioni come mi si offrivano nella bottega artigiana dove mi era capitato di entrare. Partii dal campo storiografico della rivoluzione religiosa del ‘500, la Riforma, allora animato dalla discussione sui termini “Riforma cattolica” e “Controriforma”, aperta nell’immediato dopoguerra dallo scritto dello storico cattolico mons. Jedin e dalla ampia e positiva recensione dell’allora intellettuale comunista Cantimori su “Società”.
V. A. Poso Una domanda è d’obbligo sulla polemica, che per molti anni è rimasta accesa sulla figura di questo studioso definito fascista-comunista, per alcuni aspetti politicamente controversa.
A. Prosperi Quello che conoscemmo era reduce, come ho accennato, dall’uscita senza clamore dal Partito Comunista dopo i fatti dell’Ungheria del 1956. Le polemiche sui suoi trascorsi politici lo spinsero a pubblicare un articolo di ricostruzione su quali fossero state le sue letture negli anni del fascismo e del nazismo: un esame di coscienza importante quanto isolato nell’ambito di una generazione di docenti e intellettuali che era stata tutta – a parte gli esuli come Gaetano Salvemini – conquistata dal fascismo. Quell’esame si chiudeva con la conclusione che allora leggeva tutto quello che c’era da leggere sulla Germania e sul mondo, ma non aveva capito nulla. È un documento del carattere tormentato e inquieto che sta dietro la sua bibliofilia e l’erudizione illimitata fotografata dalla vastissima biblioteca che costituisce ancora oggi l’ossatura fondamentale della Biblioteca della Scuola Normale.
Cantimori fu lettore precoce di Marx. Nel secondo dopoguerra curò insieme alla moglie Emma Mezzomonti l’edizione della traduzione del Manifesto di Marx e Engles e del primo libro del "Capitale". Fu Emma Mezzomonti, infatti, ad avvicinarlo al Pci. Emma era una donna straordinaria, una intellettuale comunista membro del gruppo dirigente clandestino dotata di grande coraggio e intelligenza. La sua figura è rimasta nell’ombra fino a tempi recenti. Adesso è uscita da poco una bella ricerca di Massimo Mastrogregori che le rende finalmente giustizia. Quanto a Cantimori, anche se fu lettore attento di Croce e personalmente molto legato a Gentile, non amava la cultura liberale. Per lui era la cultura delle anime belle. Cantimori era interessato al realismo della politica e ai rapporti di forza. La vaporosa idealità gli era estranea.
Non parlava del suo passato; non amava parlare di sé. Ma era un uomo tormentato dai suoi errori. Come pure tormentate erano le sue lezioni. Parlava a voce bassissima e spesso si mangiava le parole. Ma aveva la vocazione autentica dello studioso. Anche nei suoi scritti sulla Germania degli anni del nazismo, passati al setaccio da Luisa Mangoni, c’era la volontà di capire.
V. A. Poso Dopo Pisa, che cosa ci fu?
A. Prosperi Erano anni di grandi tensioni politiche e sociali. Io non volevo fare il professore, o almeno non il cattedratico d’università. Pensavo di dedicarmi all’insegnamento liceale. Rifiutai posti di “assistente”, posizione comodissima, in luoghi ottimi: Pisa stessa, Roma. Finii invece con l’accettare l’invito a collaborare con Paolo Prodi che avevo conosciuto a un convegno di commemorazione di Cantimori e che mi aveva colpito. Il suo invito mi portò a insegnare in una specie di scuola superiore, la Facoltà di Magistero di Bologna: tanti maestri e maestre di tutta la regione, tante lezioni e tanti esami da fare. Bologna mi piacque molto, vi portai mia moglie e vi vivemmo quasi per vent’anni. Fu in quel contesto che lavorai moltissimo come insegnante, entrando in contatto con una serie di studiosi di straordinaria qualità. Penso ai nomi di Carlo Poni, Piero Camporesi, Roberto Finzi e diversi importanti storici dell’arte. Lì mi raggiunse Carlo Ginzburg trasferitosi da Roma alla Facoltà di Lettere. Nacque a Bologna la rivista “Quaderni storici” con un programma di rinnovamento metodologico e una serie di proposte stimolanti che nascevano da riunioni di redazione molto animate che vi portavano Edoardo Grendi con altri storici dalla sua Genova.
Leggevo molto, scrivevo poco. Ma dalle letture di allora dovevano poi tornarmi davanti temi e letture che alimentarono la fase più distesa e ricca di tempo libero successiva al mio ritorno a Pisa. Proverò a esporne qualche punto.
La mia ricerca su Gian Matteo Giberti mi permise di capire come una diffusa sensibilità religiosa favorevole al ritorno al Vangelo fosse condivisa anche da parte dell’alto clero negli anni del sacco di Roma, ma venisse travolta e sostituita dalla durezza dei processi e delle scomuniche per il prevalere delle necessità di conservazione del potere papale capace di farsi sostenere dai fragili poteri statali su cui esercitò la sua egemonia. In seguito, fra i molti temi e figure storiche della religione ho approfondito specialmente quello della saldatura fra la violenza delle esecuzioni capitali e la giustificazione che le dette la fede nella sopravvivenza dell’anima. Così la diade dostoevskiana “Delitto e castigo” si tradusse per secoli nella trinità di delitto, castigo del corpo e perdono dell’anima.
Ho approfondito come ho potuto le funzioni storiche e l’uso sociale dei sacramenti e la mediazione di corpi scelti del clero, come i gesuiti. La funzione della confessione mi è apparsa decisiva nel mantenere e rafforzare il legame dei laici col clero e nel trasmettere la dottrina cattolica. In questo senso operò anche la predicazione popolare dei gesuiti. Ma anche la storia del battesimo e quella del Limbo mi hanno fatto entrare nella dimensione storica e sociale della teologia. La lettura di un documento d’archivio – il processo e la condanna di Lucia Cremonini nella Bologna del ‘700 – mi spinse a cercare di capire perché ammazzare in piazza una giovane donna per avere ucciso il figlio era stata una grande esperienza collettiva di tipo religioso: allora si discuteva di aborto e l’Italia andava rapidamente allontanandosi dal cattolicesimo della Controriforma, che vi si era radicato sconfiggendo riformatori ed eretici anche con la violenza ma più ancora con gli strumenti della conquista delle plebi contadine grazie all’impiego della confessione e delle missioni più che all’inquisizione e ai roghi.
V. A. Poso Era assai fertile l’ambiente universitario e politico bolognese di quegli anni. E avrà incontrato sicuramente anche Romano Prodi.
A. Prosperi Sì, siamo stati colleghi nel primo nostro incarico di insegnamento universitario. Nell’ambiente di studio che frequentavo per le mie letture e cioè nella ricchissima biblioteca del “Centro di Documentazione”, in occasione dei seminari e alle conferenze di storia che vi si svolgevano, si incontravano personalità interessanti della cultura e della politica. Erano gli anni del Concilio Vaticano II e vi si ascoltavano teologi e sociologi di altri paesi, francesi in particolare. Dell’associazione di cattolici dossettiani che governava l’Istituto vi si incontrava spesso l' economista Nino Andreatta che aveva mostrato grande polso e intelligenza come rettore dell'Università di Trento e come fondatore dell'Università della Calabria dove io avrei di lì a poco dovuto trasferirmi. Ma intanto ebbi il mio primo incarico di insegnamento come docente di metodologia della ricerca storica presso la Facoltà di Scienze Politiche e lì conobbi un mio coetaneo molto intelligente, ma anche simpatico e divertente per le sue battute, Romano Prodi, allievo di Andreatta e il più giovane dei fratelli Prodi. Lo avrei ritrovato in seguito anche in altre occasioni. Lui, cattolico impegnato in politica come la maggior parte della sua vasta fratellanza, era iscritto alla DC. Conobbi anche Giorgio, fratello più anziano, oncologo e titolare di cattedra a Medicina, di intelligenza inquieta, saggista e scrittore legato a Umberto Eco. È un ricordo, questo, che mi aiuta a individuare i luoghi e le persone che per me rappresentarono allora l’ambiente più prossimo e mi dettero l’impressione che la Bologna rossa di cui si parlava molto nella politica e nella cultura di sinistra in Italia fosse soprattutto una realtà fatta di buona amministrazione e di civismo, ben radicata nel consenso della città e soprattutto delle campagne, ma meno stimolante e aperta sul futuro di quel mondo cattolico giovanneo che si appassionava nel collaborare all’elaborazione dei decreti conciliari e attirava giovani da tante altre parti a studiare i vangeli e la vita di Gesù (come Mauro Pesce e Giancarlo Gaeta) e a portare avanti una ricerca personale di tipo etico, come Pier Cesare Bori, nomi cari ai miei ricordi che dovevo da allora in poi incontrare e soprattutto leggere molto spesso. Quanto a Romano, ne ho poi seguito da lontano la carriera politica , con grande stima personale per l’insolito misto di rigore morale e intellettuale unito a lucidità e creatività nel programma politico. Dietro di lui mi pare sempre di vedere quella straordinaria "fraterna societas" discesa dalla collina reggiana, solida come la sua terra e capace di affermarsi con la propria intelligenza senza mai cedere ai vizi e alla corruzione del potere. Di tutto questo ebbi un modello nel fratello maggiore di Romano e suo mèntore politico, il mio amico e Maestro Paolo.
V. A. Poso Lei ha vissuto gli anni della contestazione studentesca e operaia che a Pisa aveva trovato anche la base teorica, nelle c.d. «Tesi della Sapienza» che furono elaborate proprio nel Palazzo della Sapienza, sede dell’Università di Pisa. Quali sono i Suoi ricordi dell’epoca?
A. Prosperi Feci in tempo a vederne solo gli inizi mentre stavo lasciando Pisa per Bologna. Mi attirarono e mi coinvolsero per la volontà di uscire dal torpore del lungo dopoguerra democristiano e di creare un collegamento fra le lotte di studenti e operai. Ma fu a Bologna nel 1977 che mi trovai a vivere una vera e propria situazione di guerra cittadina, scoppiata nel marzo in seguito all’assassinio del giovane Francesco Lorusso appartenente al movimento di “Lotta continua”, da parte di un carabiniere. Fu un anno drammatico, vide la radicalizzazione di uno scontro che sfociò nella scelta per la clandestinità e il terrorismo di membri della sinistra extraparlamentare. Furono gli “anni di piombo” come li definì un celebre film della regista Margarethe von Trotta.
V. A. Poso Siamo arrivati agli anni di «Lotta Continua» che ebbe in Adriano Sofri il suo capo politico indiscusso. Sofri, studente di storia, frequentava Scuola Normale Superiore dove aveva conosciuto, insieme a Lei, Carlo Ginzburg, Umberto Carpi, ed altri. Abbiamo sentito spesso parlare della vostra amicizia.
A. Prosperi Con Adriano Sofri nacque a Pisa, quando eravamo studenti, l’amicizia che ancora oggi ci lega. Lo rividi a Bologna diventato lucido e efficace leader nazionale di un movimento. C’era stato a Pisa un altro protagonista tra i più lucidi della intensa stagione di discussioni di quel periodo: Gianmario Cazzaniga, col quale pure divenimmo amici. Quell’intensa stagione di assemblee e dibattiti era stata preceduta dalle manifestazioni del giugno 1960 contro il governo Tambroni clerico-fascista, a cui partecipai. Ero allora iscritto al Partito Socialista come appartenente alla corrente “bassiana”. Fu un risveglio dell’antifascismo per la generazione giovane. Nacquero iniziative di studio della storia contemporanea – una disciplina che proprio allora per iniziativa di Armando Saitta entrava tra le discipline storiche dell’ordinamento universitario. Seguivo amici molto più politicizzati di me, come Roberto Barzanti e Sebastiano Timpanaro: Questi era un vero mito intellettuale e politico anche per il suo rifiuto della carriera accademica che ci appariva allora come una scelta personale di vita, una vera contestazione del potere accademico.
V. A. Poso Una domanda obbligata sul «Processo Sofri» come sin dall’inizio fu chiamato il processo per l’omicidio del Commissario Luigi Calabresi. I fatti sono noti, non stiamo qui a ripeterli. Carlo Ginzburg, innocentista convinto, scrisse anche un libro (Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi, 1991; nel 2020 ripubblicato, come seconda edizione, dalla casa editrice di Macerata, Quodlibet) sul processo di primo grado nella prospettiva auspicata di incidere, positivamente (ma così non fu) sul giudizio di appello: « … un raffinato esercizio di close reading delle circa tremila pagine di incartamenti processuali; una ricognizione squisitamente filologica […] incentrata sugli errori, le inverosimiglianze, le contraddizioni, le anomalie e le gravi illogicità che costellano tanto le deposizioni e gli interrogatori di Marino quanto le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Milano…», prendendo a prestito le parole di Giacomo Micheletti nella sua recensione in occasione della riedizione di Quodlibet ( Carlo Ginzburg e l’ «affaire Sofri», in La Balena Bianca, 1° giugno 2020).
A. Prosperi Non ho mai creduto alla colpevolezza di Adriano Sofri che continuo a giudicare come una vendetta per l’articolo su Lotta Continua sul delitto Calabresi. La sentenza lo colpì su basi del tutto insignificanti – la dichiarazione di un “pentito”. Durante il processo Sofri redassi un documento che ricordava come le dichiarazioni rese dai “pentiti” fossero state ritenute non attendibili perfino dall’Inquisizione Romana agli inizi del ‘600 nei processi per stregoneria. Quel documento fu firmato tra gli altri da Salvatore Settis e da Carlo Ginzburg che ebbe a citarlo nel suo libro “Il giudice e lo storico”.
V. A. Poso Traendo spunto proprio dal libro di Carlo Ginzburg in cosa consistono, e in cosa differiscono, il metodo dello storico e il metodo del giudice?
A. Prosperi Dal libro di Ginzburg, severo e appassionato, si impara molto. Posso sintetizzare brevemente così: il giudice nel processo può porre le sue domande e conoscere cose che allo storico restano nascoste perché non può interrogare i protagonisti ricreando la scena del delitto, ma deve limitarsi a risposte fornite a domande di altri leggendole nelle fonti scritte, come piegandosi dietro le spalle dell’inquisitore medievale per leggere il suo verbale.
V. A. Poso Non è, quindi, solo un problema di perimetro dell’indagine, ma anche di potere e di ruolo del giudice nella società.
A. Prosperi Il potere del giudice e il suo ruolo nella società sono immensamente superiori a quelli dello storico. Da qui anche l’attrazione della politica e il rischio della corruzione. Un rischio che è sempre presente, accanto all’altro, quello di diventare gli strumenti del potere com’è accaduto alla magistratura italiana sotto il fascismo. Il racconto che si legge nel recente volume di Edmondo Bruti Liberati sulla storia della magistratura italiana (Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari-Roma, Laterza, 2018) del delirio di entusiasmo con cui i magistrati italiani accolsero il Mussolini delle leggi razziali fa pensare molto alle forme di corruzione della giustizia e delle conseguenze per il paese che ne subisce gli effetti: l’Italia post-fascista l’ha scoperto a sue spese perché quella magistratura ha attraversato senza pagare pegno alcuno la crisi del fascismo e l’origine della repubblica.
V. A. Poso La conoscenza del diritto non può prescindere dalla conoscenza della storia, che è anche conoscenza del presente, quest’ultima spesso delegata all’informazione giornalistica, quando invece sarebbe compito dello storico.
A. Prosperi Mi chiedo da tempo effettivamente come si possa affrontare la responsabilità di giudicare e mi sono spesso trovato a considerare il lavoro dello storico come una scelta dettata da insicurezza e dal desiderio di non commettere errori che pesino su persone viventi. Ma l’importanza del potere di giudicare mi si affacciò alla mente grazie alla nascita di una corrente intellettuale critica nei confronti del diritto di punire che si raccolse allora intorno a una rivista intitolate “Dei diritti e delle pene” e a figure di studiosi di grande rilievo, come Mario Sbriccoli.
V. A. Poso Quanto ha pesato il potere della Chiesa sulla storia d’Italia?
A. Prosperi Machiavelli diceva che la Chiesa non possedeva sufficiente forza per unificare, ma aveva il potere e il peso politico sufficiente per impedire ad altri di farlo. È un filo che seguendolo fino ad oggi aiuta a capire molte cose della storia di noi italiani. È una tesi che mi ha portato numerose critiche sia da destra che da sinistra.
V. A. Poso Una tappa fondamentale della Sua ricerca è rappresentato dal Dizionario dell’Inquisizione che, dopo l’intenso lavoro di otto anni, vede la luce per le Edizioni della Normale, nel 2010, peraltro, con opera meritoria, reso disponibile open access.
A. Prosperi Era stato Armando Saitta a immaginare la costruzione di un grande schedario di fonti inquisitoriali dedicato a giudici e vittime. Vi avevamo collaborato in molti. Ma la ostacolavano la frammentarietà delle fonti disponibili e la difficoltà di concepirla come un’opera a stampa. L’esperienza mi era rimasta in mente. L’idea del “Dizionario” nacque grazie all’ingresso dell’informatica nel lavoro di ricerca, ma soprattutto grazie alla generosità e all’intelligenza di giovani collaboratori e di sperimentati studiosi. Ricordo in particolare l’impegno eccezionale dei due grandi costruttori di un’opera monumentale, l’allora giovane Vincenzo Lavenia e il maturo generosissimo John Tedeschi. Ma tanti altri sono i nomi che dovrei fare, penso ad esempio a Chiara Franceschini autrice di un magnifico quaderno dedicato all’iconografia dell’inquisizione. Bellissima fu l’esperienza di un lavoro collettivo che vide il contributo del tutto gratuito di una folla di storici di ogni nazionalità.
V. A. Poso Si tratta, in effetti, di un’opera monumentale e possiamo dirlo con le parole con le quali è stata presentata al grande pubblico dei lettori nel catalogo delle Edizioni della Normale.
«Il Dizionario storico dell’Inquisizione, di cui non esiste esempio allo stato attuale in nessuna lingua, vuole essere lo strumento scientifico di informazione più ricco e completo sulla storia dei tribunali dell’Inquisizione, dalle origini alla loro abolizione, e comprende tanto l’Inquisizione medievale organizzata e controllata da Domenicani e Francescani, quanto le Inquisizioni spagnola e portoghese con le loro diramazioni in America e in India e, infine, il “Sant’Uffizio dell’Inquisizione” papale, cioè il tribunale centrale diretto dal papa, creato nel 1542 a Roma e rimasto attivo in forme diverse fino al Concilio Vaticano II.
Le voci, redatte in un linguaggio accessibile per un lettore di media cultura, riguardano persone, istituzioni e metodi attinenti al tema: dai pontefici romani ai giudici locali agli inquisiti (non solo i casi più celebri come Giordano Bruno e Galileo Galilei ma anche tutti quei casi di eretici, streghe, maghi che sono stati finora portati alla luce dalla ricerca), dalle figure di reato (eresia, bestemmia, apostasia, sollicitatio ad turpia, poligamia, astrologia giudiziaria e così via) alla letteratura di istruzioni per gli inquisitori (manuali e trattati, lettere circolari) alla società che circonda e sorregge il tribunale e ne sfrutta i privilegi: dai “familiari” alle compagnie dei Crocesignati. Le singole voci segnalano sinteticamente la bibliografia di riferimento che, raccolta nell’appendice dell’opera, costituisce il più aggiornato strumento di consultazione bibliografica sull’argomento».
C’è differenza tra l’inquisizione italiana e quella spagnola?
A. Prosperi Quella romana era più blanda. Basti pensare all’istituto della confessione. Spesso bastava che l'eretico si pentisse perché fosse perdonato o pagasse un prezzo molto basso. La confessione quasi sempre si trasformava in delazione. L'inquisizione poteva così conoscere dubbi e convinzioni eterodosse, l’intero panorama sociale dell’eresia, controllarla e debellarla. La scelta del nicodemismo, celare le proprie idee e aderire esteriormente al potere, è un tratto che diverrà tipico del costume italiano. V. A. Poso Noi ci rivolgiamo allo storico per conoscere la verità dei fatti, ma non sempre è così.
A. Prosperi La verità storica si riferisce alla verità di fatto. Una certa cosa è avvenuta un certo giorno. La storiografia dell’800 ha inseguito la verità massima: cercare i documenti e in virtù di essi raccontare la Storia.
Mentre nel '900 si affaccia la scienza del falso: il falso diventa il centro di una storia possibile. Marc Bloch analizzò a fondo il fenomeno, in particolare in quel suo libro bellissimo sui Re taumaturghi. Erano i sovrani di Francia che praticavano il rito della guarigione dalle scrofole degli ammalati. E i nostri Savoia impararono da quel modello quando favorirono la devozione per la Sacra Sindone.
Dopo si è passati al finto, alla storia delle rappresentazioni mentali. Intendo dire che, prima ancora che nella realtà, la storia, a volte, nasce nella nostra testa. Solo successivamente diviene un fatto storico.
Le leggi razziali furono la conseguenza storica, dunque tragicamente reale, di un paradigma immaginario: che l'ebreo fosse per natura un essere infido e il suo sangue marcio.
V. A. Poso Nei «Tribunali della coscienza» viene indagato l’uso della confessione come strumento di controllo sociale a fianco dell’Inquisizione e nel suo rapporto con l’inquisizione.
A. Prosperi Quel libro fu il punto d’arrivo di molte ricerche minori che avevo portato avanti durante gli anni bolognesi, con discussioni e confronti con Carlo Ginzburg e soprattutto con Paolo Prodi, fervente cattolico e studioso impegnato nella vita religiosa e politica degli anni del Concilio Vaticano II. Ricordo soprattutto i suoi studi sul papato e su temi insoliti e originali come la storia del giuramento e quella del rapporto tra etica e economia.
Il problema ai miei occhi era l’origine e il consolidarsi dell’egemonia papale sulla società italiana. Non lo si poteva spiegare solo con la violenza dei roghi dell’inquisizione, ma con la costruzione di una rete di alleanze con gli altri poteri politici, con nuove istituzioni e con l’esercizio della persuasione. Qui la svolta data all’uso della confessione diventata anticamera dell’inquisizione fu decisiva. Per non parlare dell’opera svolta da presenze come i direttori di coscienza o i parroci di villaggio.
V. A. Poso Su questo tema sono state espresse opinioni discordanti; mi riferisco ad esempio a Massimo Firpo e Giovanni Romeo.
A. Prosperi Ho presente quelle di Giovanni Romeo, che fra l’altro negò il ricorso alle cosiddette spontanee comparizioni, che conosceva benissimo. Non mi pare che Massimo Firpo abbia espresso riserve, piuttosto ha segnalato temi che meritavano maggiore sviluppo. Comunque ambedue erano stati invitati a collaborare, ma avevano declinato l’invito.
V. A. Poso I Suoi studi sul Concilio di Trento, in linea di continuità o quanto meno in sintonia con la ricerca degli storici Giovanni Miccoli e Giuseppe Alberigo, ai quali va aggiunto anche Paolo Prodi, dimostrano come la Chiesa abbia costruito e consolidato l’egemonia sulla società italiana.
A. Prosperi In realtà, anche se ai miei tempi la discussione tra gli storici era stata ricondotta alla interpretazione del Concilio di Trento – per gli uni (i cattolici) strumento di una riforma cattolica della società, per gli altri strumenti di una Contro-riforma - la complessità della situazione italiana era tale che fin dal mio lavoro su Giberti preferii parlare di Evangelismo per definire il quadro degli orientamenti molto aperti e incerti anche dei vescovi e di ambienti intellettuali italiani. Inoltre mi fu presto chiaro che non il Concilio, ma l’Inquisizione era stata lo strumento creato dal papato per combattere la dissidenza e l’incertezza religiosa.
V. A. Poso «Dare l’anima. Storia di un infanticidio». Come è nata l’idea di questo libro?
A. Prosperi Ero stato colpito da un fascicolo dell’archivio criminale di Bologna detto del “Torrone”, dove la protagonista era una ventenne bolognese processata ai primi del’700 per infanticidio e mandata a morte. Si parlava molto di aborto allora nella società italiana. Ma quello che mi premeva capire in quel libro era quando e perché alla tradizione antica e medievale che considerava l’embrione e il feto una parte delle viscere materne si fosse sostituita la nozione di “persona”. Scavare nella storia dei concetti in apparenza più trasparenti e ovvi permette di capire che la lingua che parliamo è una fonte storica importante e che la lettura del filologo più severo e attento è uno strumento fondamentale della ricerca storica.
V. A. Poso «Giustizia Bendata» è l’immagine della giustizia. Cito direttamente dal Suo libro: «Tutti sanno quanto sia radicato nelle abitudini della nostra cultura il bisogno di rappresentarsi idee, esigenze, istituzioni con immagini simboliche e quanto sia importante fra tutte le altre quella della giustizia. Al di là dei casi concreti, delle figure di reato e delle regole scritte, al di là delle istituzioni e dei poteri, l’immagine riassume e fissa un profilo ideale di ciò che ci si attende, che si desidera o che si teme. E fra tutte le immagini simboliche quella della giustizia possiede per sua natura un primato, recando con sé uno speciale patrimonio di emozioni e di valori e una capacità di accendere i sentimenti dei singoli come quelli delle masse. Giustizia: un sistema di leggi e di tribunali, un complicato assetto istituzionale di uomini, di poteri e di ruoli, una complessa macchina dove rituali carichi di tradizione e norme razionali continuamente aggiornate definiscono delitti e pene».
A. Prosperi Il caso dell’immagine della giustizia, segnalato da un grande storico come Mario Sbriccoli, mi si offrì come la chiave per capire il perché di due tradizioni iconografiche nella storia di un’immagine simbolica così importante nel rapporto tra potere e pubblico. Lo studio sull’iconografia mi permise di ripercorrere la divisione cattolici-protestanti in materia di giustizia penale come rappresentata dal mondo cattolico e dalla Germania protestante.
Al centro del percorso disegnato nelle pagine di questo libro c’è, appunto, la benda sugli occhi, un attributo dell’immagine simbolica della giustizia come donna. In una celebre poesia di Edgar Lee Masters se ne fa uso per criticare la cecità delle corti e l’arbitrarietà delle sentenze, ma la benda rappresenta, nell’iconografia ufficiale, la garanzia dell’imparzialità e dell’incorruttibilità dei giudici. Di questo attributo viene qui ricostruito l’atto di nascita nel 1494, la rapida diffusione nel contesto dell’età della Riforma protestante e la fortuna successiva. Indagando le ragioni di tanta e così rapida fortuna (che non toccò però l’Italia) se ne è individuata quella fondamentale nella potente suggestione religiosa della narrazione evangelica di Gesú bendato e deriso: un modello di sofferenza e di perdono che dette nuovo impulso alla figura della dea Giustizia trasmessa dal paganesimo antico alla cultura dell’Europa occidentale. Risulta evidente, dalla ricostruzione dei percorsi dell’immagine, che in essa si sono incontrati e sovrapposti temi diversi e spesso conflittuali: la domanda di misericordia, la speranza nel risarcimento ultraterreno per tutte le vittime dell’ingiustizia, la promessa di incorruttibilità dei giudici, la protesta contro gli errori della giustizia umana. Dopo l’attesa medievale del Giudizio universale, l’esigenza della giustizia imparziale dominata dallo sguardo di Dio trovò la sua incarnazione nell’asserita investitura divina dei poteri politici e religiosi. Per dare poi vita nel Settecento all’idea del tribunale della pubblica opinione come espressione sostitutiva dell’antico simbolo dell’occhio di Dio. Ma nel mondo contemporaneo la spettacolarizzazione di crimini e processi si accompagna a una crisi della giustizia che sembra destinata a rendere nuovamente attuale e problematico il simbolo della benda.
V. A. Poso L’importanza della Compagnia di Gesù e della «vocazione» lo ha portato ad indagare sulla formazione dei Gesuiti, anche per l’impatto che questi hanno avuto sulla società civile.
A. Prosperi Questa è stata una ricerca che mi ha permesso di capire la radice profonda del successo della Compagnia nel reclutare un’élite di giovani e giovanissimi adepti, con un meccanismo basato sul desiderio adolescenziale di cambiare il mondo. Qualcosa che si ritrova anche nelle forme del reclutamento di iscritti tra i giovani da parte del P.C.I. nell’Italia del dopo Liberazione. Da questo punto di vista non c’è niente di più eloquente dell’autopresentazione di Giangiacomo Feltrinelli alla sezione bolognese del P.C.I. riportata da suo figlio nella biografia del padre (Carlo Feltrinelli, Senior Service, Milano, Feltrinelli, 1999).
V. A. Poso In «Delitto e perdono» Lei affronta il tema della morte per via di giustizia e pone interrogativi anche sull’efficacia della pena di morte.
A. Prosperi Si è trattato del tema di indagine che ha accompagnato a lungo le mie letture e ricerche, almeno da partire dagli anni ’60 del secolo scorso. All’origine ci fu la questione politica della crescita di una domanda collettiva di restaurare in Italia la pena di morte, una reazione alla violenza degli anni ’60. Partecipai a un convegno indetto a Bologna per Amnesty International da Pier Cesare Bori. Davanti a noi relatori si apriva Piazza Maggiore, a sinistra vedevamo svettare in cima al campanile di Santa Maria della Vita l’insegna dell’antica confraternita dei confortatori dei condannati a morte. La relazione che vi svolsi fu sviluppata con una ricerca documentaria e di storia delle mentalità veramente appassionante che mi fece scoprire fra l’altro la straordinaria biblioteca antica raccolta dai membri di quella confraternita e che fu alimentata dalle ricchezze incredibili degli archivi e delle biblioteche dell’Italia padana. Rovesciando il titolo del celebre romanzo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, questo libro, di cui la versione ultima è quella pubblicata due anni fa da Harvard University Press, propone la ricostruzione del legame di lunga, plurimillenaria durata instaurata dal cristianesimo col potere di uccidere legalmente grazie alla trasformazione dell’assassinio legale in una cerimonia edificante in cui il condannato non è più un esecrato criminale e i suoi delitti si trasformano in peccati. Come un peccatore pentito confessa le sue colpe e riceve i conforti religiosi con la confessione e il perdono di tutti i peccati, diventando un santo martire. Così la lacerazione sociale si ricompone e l’ombra insaziata del morto anzitempo diventa un innocuo benevolo antenato.
La pena di morte, per quanto inutile se non addirittura controproducente perché invoglia il malfattore a giocarsi la vita su di una carta estrema piuttosto che a cercare di riabilitarsi, oggi sembra in via di progressiva scomparsa. Permane come un problema, mentre un grande problema è il fallimento della pena del carcere, diventato un luogo di avviamento alla criminalità per l’uso che ne viene fatto. Il caso italiano è particolarmente grave, come si è visto nelle scene selvagge delle violenze di polizia sui carcerati quando è stato imposto il lockdown per il virus.
V. A. Poso Come definisce l’eresia e chi sono gli eretici?
A. Prosperi Generalmente si usava la categoria di “eretico” a partire dalla condanna di un tribunale ecclesiastico. Benedetto Croce scrisse che solo la Chiesa poteva indicare l’uso corretto della definizione perché era lei che aveva creato quella categoria. Invece la ricerca di Cantimori aveva ricostruito un filone di convinzioni e scelte religiose dove l’eresia era la scelta di ribellarsi a ogni chiesa. Nel Dizionario dell’Inquisizione non si è fatto uso di questa distinzione perché lo scopo era quello di mettere a disposizione dei lettori uno strumento informativo redatto da studiosi competenti e fondato sulle fonti esistenti. Personalmente ho dedicato un libro (L’eresia del Libro grande) alla ricostruzione di una figura e di una corrente d’opinione che possono essere definiti eretici radicali, anche se non appartengono se non marginalmente al filone cantimoriano.
V. A. Poso Un pisano eretico: Galileo Galilei. La Chiesa ha saldato tutti i suoi debiti?
A. Prosperi La questione si è riproposta quando la vicenda storica dell’Inquisizione si è riaperta con la decisione di Papa Wojtyla di aprire l’archivio romano del Sant’Uffizio agli storici. È stato un modo per consegnare al passato la grande frattura fra la Chiesa di Roma e la scienza moderna. Diciamo che la Chiesa ha sommato questa sconfitta a una serie di battaglie perdute contro la civiltà moderna che adesso portano il nuovo Papa a percorrere a grandi passi una strada che fino a ieri sarebbe stata giudicata ereticissima. Va detto che l’errore della Chiesa nacque dall’aver sottratto il testo della Bibbia alla lettura trasformandolo in un documento intoccabile, vietato ai laici. Fu una scelta per tutelare il potere papale ed ecclesiastico sui popoli e per difendersi dalla Riforma protestante che ne aveva fatto il fondamento della fede cancellando il potere del Papa e del corpo ecclesiastico.
Pietro Redondi scoprì un documento che lasciava intravedere dietro l’accusa di copernicanesimo quella di negazione della presenza di Cristo nell’ostia consacrata. All’epoca di Galileo quello del materialismo e del dubbio radicale sulla trascendenza era l’orizzonte intellettuale degli “spiriti forti”, dei libertini eruditi. Ma su questa strada non sono emerse altre prove a confortare l’ipotesi.
V. A. Poso Perché è importante la figura di Martin Lutero al quale ha dedicato il saggio del 2017?
A. Prosperi Lutero porta nella storia occidentale il caso di un monaco sconosciuto che semplicemente con la forza della fede e con l’obbedienza alla sua coscienza mette in moto una grande e rivoluzionaria trasformazione degli assetti politici e religiosi europei, fondando l’appartenenza religiosa individuale sulla fede e scindendo il cristiano dal suddito.
V. A. Poso La peste e il processo agli untori di manzoniana memoria non sono solo un ricordo del passato.
A. Prosperi Lo studio della “Colonna infame” di Alessandro Manzoni mi aveva accompagnato fin dall’inizio dei miei studi storici. Rileggendola in tempi recenti ho scoperto un piccolo dato: nella prima redazione del romanzo “Fermo e Lucia” Manzoni aveva citato una frase sul periodo del Terrore ricavata da uno scritto di Josef Garat, girondino e ministro della giustizia durante la Rivoluzione francese che fu condannato a morte da un tribunale popolare, ma si salvò perché la svolta di Termidoro portò al patibolo Robespierre e non lui. Nel raccontarlo in un libro di memorie pubblicato proprio allora, Garat scrisse che in quei tribunali popolari si condannava a morte sull'onda di una convinzione che non aveva bisogno di prove: «Il a été fait par des hommes de bien... des inculpations qui n’ètoient ni vraies ni vraisemblables».
Questa la peste, il diffondersi di sindromi collettive di un complotto simili a quella che nel '600 aveva portato a credere negli untori.
Così nel suo commento alla vicenda milanese degli untori in realtà Manzoni volle indicare il pericolo sempre incombente nella storia di movimenti di massa scatenati dalla paura e dalla sindrome paranoica del complotto.
V. A. Poso Nella attuale situazione di pandemia che ormai da oltre un anno stiamo vivendo, spesso è stata evocata la «peste nera». Lo ritiene un richiamo adeguato da profondo conoscitore anche di questo evento?
A. Prosperi A suo modo anche la peste nera è stata una peste globale e ha avuto in Italia la sua prima esplosione con una plurisecolare vicenda di risvegli dell’epidemia in tutta Europa. Tutte cose che oggi sembrano ripetersi, compresa la lunga durata del pericolo. Inoltre quella del ’300 con le sue premesse e conseguenze (economiche, politiche, culturali) ci offre uno specchio per prepararci a un futuro che sarà tutto fuorché facile. Anche allora la peste arrivò dall’oriente: lungo la via della seta fino al Mar Nero e a Caffa, da dove se la portarono dietro, con topi e pulci, le navi genovesi veicoli del commercio mondiale dell’epoca. La cronaca ha ricostruito l’arrivo delle navi nel porto di Messina nel 1347 e il primo contagio della peste che, dal sangue dei topi era passata nel loro, attraverso i morsi delle pulci. Un passaggio da specie a specie, simile a quello così ben descritto da David Quammen nel libro “Spillover” e che è stato compiuto dal coronavirus.
V. A. Poso Nel 2010 alcuni Suoi articoli apparsi in gran parte su «La Repubblica» sono stati raccolti da Michele Bettini e Michele Olivari in un libro intitolato «Cause perse», con riferimento alla situazione italiana degli anni precedenti. Quali sono le cause che abbiamo perso anche negli anni successivi?
A. Prosperi Ho interrotto la collaborazione con “Repubblica” quando il proprietario ne ha improvvisamente mutato per sue ragioni di convenienza affaristica l’ottimo direttore con una scelta brutale che ha mostrato fino a che punto il giornalismo italiano sia privo di autonomia. La generale mancanza di reazioni da parte dei giornalisti ne ha confermato l’attitudine servile. Tuttavia, oggi che l’indignazione si è diffusa contro l’avvelenamento criminale delle terre con i residui conciari, mi verrebbe voglia di ricordare che il problema nacque molti anni fa quando la Regione e i comuni (di sinistra) vararono il progetto di costruzione di una tubatura sotterranea per convogliare le acque della Valdinievole al depuratore della zona del cuoio. Nonostante la campagna che tentai di organizzare contro questo progetto la cosa è andata avanti e si sta completando adesso condannando l’area umida del Padule di Fucecchio – la più grande esistente in Italia - all’inaridimento. Così io e tutti coloro che si unirono a me per protestare, scoprimmo quanto radicati fossero i legami tra l’apparato di potere locale e regionale, tutto di sedicente sinistra, con gli industriali del cuoio. Ricordo che quando nel 2010 denunziai un episodio di interramento di tonnellate di sostanze velenose delle concerie nei prati del Padule suscitai solo l’irritazione dell’amministrazione regionale nella persona dell’assessore all’ambiente.
V. A. Poso Per l’Italia nutre un tiepido ottimismo o è sempre pessimista?
A. Prosperi Le mie opinioni sono ben poco importanti. Il futuro è sulle ginocchia di Giove. Siamo passati da un informe populismo pieno di buone intenzioni alla crescita esponenziale delle destre neofasciste in un contesto dove quello che si percepisce è un disordinato e confuso flusso di correnti di paura e di sfiducia collettiva, di mitologie irrazionali che danno spazio all’ascesa di capi improvvisati e irresponsabili, pronti a tutto pur di farsi portare al potere. Sono i frutti del neoliberismo, meglio definito capitalismo della sorveglianza” da Shoshana Zuboff. Ma la storia come la politica sono campi di forze e luoghi di scontro soggetti a mutamenti continui. L’unica cosa chiara è che alle lotte politiche e sociali antiche oggi si impone qualcosa che va al di là dell’orizzonte ristretto della specie umana. L’aggressione alle altre specie che forse è stato all’origine del virus (se non è stato creato in un laboratorio cinese di guerra biologica) e lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra come organismo vivente hanno creato un ’emergenza ambientale estrema che impone scelte drastiche se non vogliamo vedere la fine a tempi definiti e non lontani della nostra specie e del mondo che abitiamo. E intanto colpisce la differenza maggiore della pandemia rispetto alle epidemie storiche. L’umanità intera deve sottostare a una disciplina collettiva per combattere la pandemia: e la diffusa reazione che si registra è quella della disobbedienza e di una preoccupazione per la difesa della libertà dell’arbitrio individuale contro poteri che ci impongono limitazioni intese a tutelare la salute del gregge. Così l’epoca della presunta globalizzazione lascia il posto a nuove profonde divisioni. E la storia va avanti.
V. A. Poso «Un tempo senza storia. La distruzione del passato» è il titolo del Suo libro pubblicato da Einaudi agli inizi di quest’anno dove ribadisce l’importanza della storia e della memoria in rapporto con la storia, l’importanza del passato per il futuro, con una critica al nostro «presentismo».
A. Prosperi Anche in questo caso credo che ci sia stata la dissoluzione delle forme democratiche del conflitto per effetto dell’avanzata del capitalismo finanziario. Fallita la prospettiva marxista, lo stato leviatano non garantisce più la protezione dei suoi cittadini perché gli investimenti finanziari si spostano dove la forza lavoro costa meno. L’unità del mondo è una realtà per lo sfruttamento, non per le forme del potere né per i sistemi sociali né, in ultima sostanza, per gli esseri umani.
La fragilità italiana ha sofferto più e prima di altri Paesi l’avanzata di un populismo e di pulsioni di una destra neoliberista e fascistoide per effetto della frettolosa liquidazione della base del Partito Comunista da parte di dirigenti rapidamente convertiti, e della crisi profonda della DC dopo il “sacrificio rituale” di Aldo Moro. C’era una via diversa che non passasse attraverso la Milano da bere e il cinismo di Craxi? Di fatto, sotto le macerie del muro di Berlino si è sepolto tutto un patrimonio di lotte e di conquiste e da allora in poi l’unica parola d’ordine è stata simile a quella celebre di François Guizot: “Arricchitevi!”. Ma la società italiana non aveva investito gli anni buoni nel rafforzare e sanare infrastrutture e promuovere l’avanzata della formazione culturale dei giovani. Una bella ricerca sociologica di Mario Caciagli ha dimostrato che la percentuale dei laureati fra il 1945 e il 2000 era rimasta quasi la stessa. È un dato che un acuto commentatore politico come Sabino Cassese sottolinea spesso.
V. A. Poso In una intervista ha evidenziato che «Il tanto parlare di memoria è frutto di un disagio davanti alla storia, spesso di un tentativo di giocare a carte truccate».
A. Prosperi È così. Si pensi da quanto tempo dura la retorica dell’identità come una specie di marchio ereditario, istinto di appartenenza a una terra e a un sangue. La memoria è una facoltà preziosa e fondamentale della psiche umana, ma è anche esposta all’influsso del contesto e alle modificazioni del tempo. Verificare a distanza di tempo una testimonianza verbalizzata molti anni prima è un facile esperimento per gli storici. Io l’ho fatto sui ricordi dei testimoni de visu di una strage tedesca del 23 agosto 1944: il contenuto di una dichiarazione verbalizzata a pochi giorni di distanza dall’eccidio era stato nettamente modificato cinquant’anni dopo per effetto dei racconti fatti e ascoltati all’interno della comunità. Non per niente Maurice Halbwachs aveva parlato dei “quadri sociali della memoria”.
Non si è aspettata la scomparsa dei testimoni per cancellare la memoria della Shoah. La distruzione delle prove da parte del Terzo Reich ha trovato un seguito nel tentativo, da parte di governi e forze politiche e anche di professori di storia, di costringere con tutti i mezzi quel passato a “passare”. Lo dimostra la grottesca versione della storia recente nel documento approvato dal Parlamento europeo che cito nel mio libretto. Col tempo però quella certezza della verità storica della Shoah si è fatta sempre più salda, i negazionismi sono stati sbugiardati nei dibattiti civili e in sedi giudiziarie. L’importanza morale e civile delle testimonianze dei sopravvissuti è stata certamente grandissima. Ma anche dopo la loro scomparsa possiamo sperare che la coscienza e la conoscenza della Shoah sopravvivano.
V. A. Poso Forse è la risposta dell’ottimista inguaribile che non rinuncia a nutrire illusioni.
A. Prosperi La vera risposta l’ha data un testimone, Primo Levi, quando ha scritto: «È accaduto, può accadere ancora». E noi lo sappiamo perché sta di nuovo accadendo da anni sotto i nostri occhi. La differenza sta nel fatto che la prima volta ciò che accadeva è stato nascosto nel silenzio e nel buio. I treni carichi di umanità da sfruttare e distruggere passavano nella notte, le ceneri dei forni crematori venivano disperse. Ma è pur vero che la gente non voleva vedere quei treni, alle stazioni quasi nessuno si avvicinava a dare un bicchiere d’acqua a bambini, donne e vecchi che vi morivano di sete. Erano stati abituati a pensare che esistevano razze umane e forme di umanità inferiori pericolose e indegne di vivere. Oggi il mondo dei dannati della terra e del mare muore di freddo e di violenze alle nostre frontiere, annega nel Mediterraneo sotto lo sguardo di spettatori e di cineoperatori. E con la pandemia si è aperto lo scenario di popoli interi esposti al virus dall’egoismo dei paesi ricchi nell’uso dei vaccini.
V. A. Poso La pandemia, comunque, molte cose ha cambiato, anche per la prospettiva storica. Può essere, questa tragedia, anche l’occasione per ripensare le disuguaglianze. Non crede?
A. Prosperi Lo spero e me lo auguro.
V. A. Poso Lei ha sempre avuto una attenzione particolare al fenomeno delle migrazioni e dell’integrazione. Pensa che ci sarà davvero una inversione di rotta nelle politiche sulla sicurezza messe in campo negli ultimi anni?
A. Prosperi Io posso ragionare sulla base delle mie esperienze e delle mie letture. Che sono quelle di mutamenti fortissimi, imprevedibili dalla prospettiva del paese dove vide la luce la mia generazione – un paese poverissimo, invaso da eserciti occupanti, avvelenato in profondità dal fascismo razzista e antisemita. Chi mi avesse chiesto a quale futuro mi preparassi chissà cosa avrei risposto. La vita si rinnova di generazione in generazione e io sono obbligato a sperare nel futuro in nome e per conto di chi mi succederà, che ha il volto adorabile di figlie e nipoti.
V. A. Poso Il terrorismo internazionale ha manifestato sempre una base religiosa come suo elemento caratterizzate. Quanto è importante l’analisi storica per comprendere e risolvere questo fenomeno?
A. Prosperi Storia vuol dire etimologicamente “ricerca”. È uno strumento fondamentale per conoscere l’agire umano nel mondo, passato e presente. E grazie alla svolta segnata da Marc Bloch oggi si fa storia degli errori, delle credenze, degli inganni deliberati come di quelli autoindotti. Molto del terrorismo come realtà contemporanea nasce dalla matrice storica del terrore giacobino, come ha raccontato di recente un libro dello storico Francesco Benigno. Ma esiste anche un terrorismo novecentesco di poteri economici che vogliono decerebrare l’umanità per dominarla. E qui solo la lotta politica e sociale può offrire un argine adeguato.
V. A. Poso A questo punto una domanda è d’obbligo: cosa significa essere di sinistra, soprattutto oggi? È una identità politica che dobbiamo conservare e ricostruire, per certi versi?
A. Prosperi La sinistra politica nasce nel Parlamento inglese dalla collocazione materiale dell’opposizione alla forza di governo e rimane tradizionalmente il posto dei partiti d’opposizione fautori del cambiamento. Essere di sinistra vuol dire non contentarsi dello stato delle cose, non piegarsi ai rapporti di forza esistenti e alla ingiustizia nella distribuzione delle risorse. Vuol dire soprattutto coltivare e mantenere vive le tre grandi idee dell’89: libertà, uguaglianza, e soprattutto fraternità.
V. A. Poso Come vede il futuro dell’Università italiana, soprattutto dopo questa tragica esperienza della pandemia?
A. Prosperi Sono uscito da tempo dall’università e se dovessi esprimere giudizi cadrei in banalità superficiali. Sono però consapevole del mutamento che con gli anni è entrato a far parte dell’esperienza dei giovani e dell’università dove si incontrano. E il futuro promette altri cambiamenti. Intanto c’è questa specie di terra di nessuno che si deve attraversare – una scomparsa delle biblioteche e degli archivi del tutto insensata, una didattica a distanza penosa e piena di difetti. Forse, anzi certamente una nuova storiografia sostituirà quella in cui ci siamo formati.
Una cosa va detta: una sciagurata riforma dell’università ha portato all’arroccamento di ogni professore nella propria sede e alla chiusura per chi viene da fuori e minaccia la pacifica successione dell’allievo prediletto – un fatto micidiale perché la ricerca si fonda sulla libertà intellettuale e non sul servilismo cortigianesco dell’“allievo” come unico erede. Anche perché il governo del sistema universitario è stato ingessato in norme cervellotiche da un organismo di nomina politica che ha sostituito al confronto della qualità intellettuale degli studi presentati dai candidati un conteggio di “titoli” dove si valuta l’editore, il luogo e la lingua delle pubblicazioni e non si deve leggere nulla del contenuto. E ancora: dopo il Covid-19 è facile prevedere una accelerazione dell’ascesa di università telematiche che è già in atto e il suo uso “à gogò” per mascherare deficienze e abbandonare del tutto il rapporto triangolare docente-libro-studente. Bisognerà in primo luogo dimenticare l’insulsa retorica dell’“eccellenza” che si è rivelata utile a giustificare la mediocrità di sedi e di finanziamenti, ma anche la vacuità dell’egemone pedagogismo che nella scuola ha sostituito pannicelli tiepidi di buone intenzioni alla solidità del sapere, per non parlare di una spaccatura fra nord e sud aggravata dalla crisi economica e sociale in atto.
Bisognerà poi ricostruire scuola e università tornando intanto alla norma costituzionale del concorso, eliminando la peste dei concorsi riservati. Un aspetto positivo che ha attenuato la falcidia di laureati bloccati dall’assenza di sbocchi è stata l’apertura internazionale del mondo degli studi che ha permesso a tanti giovani di valore di non finire disoccupati a vendere pizze. Ma i dati del ritorno di fiamma dell’emigrazione che questa volta ha impoverito l’Italia di giovani di qualità suonano allarmanti per la già difficile collocazione del nostro paese nel contesto europeo. Da noi solo cambiando radicalmente la logica nefasta dei partiti e più ancora delle televisioni come uffici di collocamento e puntando sulla qualità e la severità degli studi si potrà dotare il paese di una burocrazia e di apparati amministrativi e dirigenziali capaci di funzionare rimettendo in vita il vincolo necessario tra indirizzi di governo e funzionamento delle istituzioni, drammaticamente in crisi in questa fase.
V. A. Poso Nel Suo ultimo libro «Tremare è umano» mette a nudo le nostre paure, partendo dalla pestilenza e dai complottismi. Come è nata l’idea di questo libro?
A. Prosperi Non è stata un’idea, solo l’esercizio quasi obbligato del prendere appunti nel chiuso della mia abitazione su di un fenomeno di dimensioni globali ed epocali che minacciava le vite di tutti. Nelle cronache correnti mi colpiva il ritorno di fenomeni antichi accanto a differenze importanti. Il risultato è stato molto poco significativo, ma non ho resistito a chi mi ha chiesto di pubblicarne un rapido rifacimento.
V. A. Poso Oggi vive la stagione della vecchiaia. Ci pensa?
A. Prosperi è un’esperienza importante, un regalo gratuito come i tanti che ho ricevuto dalla natura e soprattutto dalle persone che ho avuto la fortuna di incontrare. Penso specialmente alla donna che ha condiviso con me questa lunga esistenza e alle figlie che ho avuto. E poi sono arrivati la mia nipotina Sofia e l’ancora piccolissimo Lorenzo.
La vecchiaia dovrebbe essere il tempo della saggezza a quanto dicono, ma non è così. Benedetto Croce scrisse una delle sue ultime riflessioni, ricordando una figura della sua Napoli che se ne stava quietamente al sole e a chi gli chiedeva che cosa facesse rispondeva: “Imparo a morire”. Mi piacerebbe imitarlo. Penso spesso a mio padre, alla sua frase preferita parlando della morte negli ultimi anni: “Io non sono egoista della vita”. Non erano solo parole, lo dimostrò coi fatti. In realtà la vita continua anche nell’estrema vecchiaia a essere il flusso disordinato di cose e di pensieri, di scoperte e di errori che è stato fino ad allora. Ci si aggira in circuiti abituali e si annusa l'aria. Per me, il mutamento storico rimane lo spettacolo più straordinario di tutti, nelle letture e nell’osservazione delle cose e delle persone. La rilettura integrale della Recherche di Marcel Proust che ho fatto in quest’ultimo periodo mi ha emozionato. Che cosa rimane in profondità, come si può riassaporare il sapore di momenti della vita sfuggiti alla dimenticanza? In generale posso affermare che quello che ho sperimentato è stato qualcosa di mai visto prima nelle epoche precedenti. L’accelerazione del cambiamento è stata inaudita, come quella del motore atomico che allontana l’astronave dalla terra. Del mio passato non è sopravvissuto quasi nulla. Nella casa dove sono cresciuto c’erano ancora gli attrezzi da lavoro scolpiti sui portali delle cattedrali medievali. Un altro mondo. Pensavo allora che la vecchiaia si iscrivesse in un processo naturale. I nostri nonni mi sembravano invecchiare e morire come alberi. Per dirla ironicamente la vecchiaia arriva a nostra insaputa. Non si distingue dalle altre età. La camuffiamo. La allontaniamo. La rimuoviamo. Siamo inevitabilmente circondati dalla tuta spaziale della percezione del nostro esistere come quello di esseri immortali. Gli altri possono morire ma noi siamo come Dante Alighieri, viaggiatori in un mondo di morti e morituri che sono capaci solo di pensare di continuare a vivere tra coloro che questo tempo chiameranno antico. Dimenticando il numero dei nostri anni. Poi di colpo arriva la fine, più o meno lunga più o meno dolorosa. Ma a questo ci pensano i medici, gli unici professionisti della morte a cui si chiede oggi il conforto e l’aiuto che ai tempi di Dante si chiedeva all’uomo di Dio. E intanto il mutamento incessante e sempre più veloce del mondo umano ci offre di continuo la possibilità di continuare a lavorare, di comunicare con gli altri, di nutrire ambizioni e cadere nelle illusioni della vita come se non fossimo sempre più vecchi. Con tanti saluti alla saggezza.
V. A. Poso In conclusione, una domanda personale. Da storico di professione dei fenomeni di religione e della chiesa qual è il Suo pensiero rivolto alla fede? In cosa può credere un non credente?
A. Prosperi Tutti crediamo in qualcosa che va al di là dei nostri sensi: per esempio nell’amore, nell’amicizia, perfino nella giustizia. Francesco Guicciardini scrisse in uno dei suoi pensieri che la fede sposta davvero le montagne. Come lui, anch’io ho conosciuto nella vita e nella storia tanti pensieri e tante imprese di credenti e non. Ho conosciuto uomini di fedi diversissime, dall’indimenticabile Gino Strada troppo presto scomparso a uno dei miei maggiori amici, Pier Cesare Bori. Quanto alla sopravvivenza del mio io, non ci credo e non la desidero. Per me come per i miei morti prego con le parole di Montale «il compiersi di questa vita ch’essi ebbero, inesplicata e inesplicabile».
V. A. Poso Molte grazie, Professore, per questo affresco di ricordi e di storie, che ha voluto condividere non solo con i lettori della rivista Giustizia Insieme.
Lei ha sofferto la diseguaglianza e ha cercato, anche con gesti semplici, di combatterla.
Lazzeretto, dove è nato, è il nome emblematico del luogo dove venivano seppelliti i morti per la peste del 1630, raccontata anche da Alessandro Manzoni, ne I Promessi Sposi, dopo essere stati allontanati dal borgo di Cerreto Guidi e lì ricoverati per evitare il contagio della sua popolazione.
Forse tutto ha origine da quella emarginazione.
Esclusione di prestazioni pubbliche per indegnità. Alti e bassi della Corte Costituzionale
di Roberto Bellè
La Corte Costituzionale, in due pronunce tra loro ravvicinate, affronta il delicatissimo tema del diritto, per chi stia scontando al di fuori dal carcere condanne per gravi reati (mafia, terrosirmo, strage), di fruire di benefici assistenziali, allorquando si trovi in stato di bisogno e la questione in ordine alla legittimità della sospensione del reddito di cittadinanza nei riguardi di chi sia sottoposto a misure cautelari personali. Secondo l'A. la Consulta, definendo in modo divergente le due questioni, avrebbe evocato in modo molto significativo i principi solidaristici dell'ordinamento, ma al contempo avrebbe declinato il principio di ragionevolezza secondo percorsi argomentativi ritenuti in concreto non del tutto convincenti.
Sommario: 1. Le sentenze – 2. L’asse motivazionale della sentenza n. 137 – 3. Gli assi motivazionali della sentenza n. 126: l’ostacolo agli obiettivi di reinserimento lavorativo – 4. (segue): misure cautelari e pericolosità – 5. Che dire?
1. Le sentenze
Corte Costituzionale 21 giugno 2021, n. 126, ha rigettato la questione di costituzionalità della norma (art. 7-ter, comma 1, lettera c-bis, d.l. 4/2019, n. 4 quale introdotto in sede di conversione) sul reddito di cittadinanza che ne sospende l’erogazione a chi sia sottoposto a misure cautelari personali in ambito penale e ciò anche nei casi in cui i reati rispetto ai quali le misure vengono disposte non siano poi tali, in caso di condanna definitiva, da comportare la revoca del beneficio, che resta dunque sospeso solo nel periodo della misura cautelare.
Corte Costituzionale 2 luglio 2021, n. 137 si è invece occupata del combinato disposto dell’art. 2, commi 58 e 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) secondo cui il giudice, con la sentenza di condanna per i reati di cui agli articoli 270-bis, 280, 289-bis (reati in ambito di terrorismo), 416-bis, 416-ter (reti di stampo mafioso) e 422 (strage) del codice penale, dispone la sanzione accessoria della revoca di alcune prestazioni (indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili), dichiarandone l’illegittimità nella parte in cui tale revoca riguardi anche persone che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere.
Entrambe le pronunce muovono dall’inquadramento dei limiti ai benefici da esse considerati, che risalgono a quelli che vengono individuati come requisiti di “onorabilità” o di “indegnità” riconnessi alle misure penali considerate.
Tuttavia, mentre la sentenza n. 137 ritiene che la violazione del patto consociativo che sta alla base dei reati considerati dalla norma (mafia, terrorismo, strage) non possa essere tale da sopprimere le misure assistenziali che si configurano come indispensabili per la salvaguardia di condizioni di vita accettabili, la sentenza n. 126 esclude per varie ragioni che analoghe esigenze possano rendere illegittima la sospensione del reddito di cittadinanza nei confronti di chi sia sottoposto a misura cautelare personale.
Non si può negare che l’analisi in controluce delle due pronunce lasci una sensazione di insoddisfazione di fondo, che va meglio razionalizzata.
2. L’asse motivazionale della sentenza n. 137
Le conclusioni della sentenza n. 137 sono indubbiamente forti, perché la rottura del patto consociativo che deriva dai reati in essa considerati è gravissima. Purtuttavia, allorquando la motivazione, dopo avere evidenziato tale aspetto, piega sulla pervasività del dovere di solidarietà e di assistenza, richiamando gli artt. 2, 3 e 38 della Costituzione, essa, facendo perno sul nucleo intangibile della dignità umana, è senza alcun dubbio convincente. Il passaggio fa infatti risuonare con significativa concisione le corde fondamentali dell’ordinamento costituzionale, attraverso cui si fuga l’istintiva reazione di stupore che può derivare dall’accostamento tra la gravità della responsabilità e la risposta assistenziale dell’ordinamento.
Così come convincente è il consequenziale raffronto tra chi, essendo detenuto, riceva dalla struttura carceraria quel minimo intangibile per la salvaguardia di condizioni di vita primarie e chi, scontando la pena in regime alternativo alla detenzione, può avere necessità di misure di sostegno necessarie al medesimo fine.
L’asse motivazionale potrebbe fermarsi qui, ma la Corte aggiunge – a parere di chi scrive meno felicemente per quanto si dirà di seguito – che l’assetto quale conseguente al proprio intervento sarebbe “presumibilmente coerente con la stessa volontà del legislatore”, in quanto “è ben possibile” che, per tali reati, “il legislatore abbia pensato alla sola detenzione in carcere come regime di espiazione della pena”, senza curarsi di disporre deroghe per i casi in cui l’età avanzata, le condizioni di salute o la collaborazione con la giustizia, consentano l’accesso a misure alternative alla detenzione.
Minore persuasività che sta non certo nelle condizioni giustificative della pena alternativa al carcere ivi indicate, quanto nel richiamo, non scevro da ambiguità per come formulato, ad un pensiero del legislatore non radicato su riscontri tangibili e quindi destinato ad alimentarsi, essenzialmente ed almeno sul piano del testo motivazionale, del solo pensiero della Corte stessa.
Sia ben inteso, non si vuol negare che tale assunto possa in concreto anche essere vero, non potendosi di certo dire che il legislatore dei nostri tempi sia esente dall’operare al di qua o al di là delle intenzioni dei testi quali infine varati.
Si vuol però sottolineare, per quanto si andrà ancora a dire, la formulazione autogiustificativa di esso.
3. Gli assi motivazionali della sentenza n. 126: l’ostacolo agli obiettivi di reinserimento lavorativo
Nella pronuncia sul reddito di cittadinanza il percorso, svolto in coerenza con il precedente di Corte Costituzionale 23 giugno 2020, n. 122, è più articolato e si esprime, per i profili che qui più interessano, attraverso due assi motivazionali.
Tralasciato, per la scarsa presa argomentativa, l’assunto per cui la sospensione in ambito di reddito di cittadinanza non avrebbe una ragione “punitiva” (e può anche starci, non essendo regolata come pena in senso stretto), ma neppure “sanzionatoria”, il primo asse motivazionale muove dalla considerazione per cui il reddito di cittadinanza è misura non destinata soltanto alla pura assistenza dei beneficiari, risultando riconnesso inscindibilmente, nella connotazione propria dell’istituto quale attuata nel nostro ordinamento, ad un percorso formativo e di inclusione finalizzato al reinserimento nel mondo lavorativo.
Percorso che - dice la Corte – “può essere ostacolato o addirittura impedito dalla misura cautelare”, sicché l’esclusione dal beneficio “si ricollega agli obiettivi dell’intervento legislativo” ed è quindi espressione della discrezionalità attribuita al legislatore che – il passaggio va sottolineato – “non si presenta affetta da quella irrazionalità manifesta ed irrefutabile” che richiederebbe la declaratoria di illegittimità costituzionale.
L’argomentazione presenta, a parere di chi scrive, elementi di fragilità.
Il caso concreto che aveva suscitato la proposizione della questione è quello di persona assoggettata alla misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282-bis cod. proc. pen., in relazione a fatti riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 del codice penale.
È intanto da escludere che una siffatta misura sia tale, data la naturale limitatezza territoriale dell’inibizione, da “impedire” un qualche percorso di reinserimento nel mondo lavorativo, mentre è vero che si possono determinare “ostacoli” ad esso.
Si devono però considerare due cose, una di fatto e l’altra di diritto, tra loro convergenti e che la Corte non pare considerare.
Da un primo punto di vista gli ostacoli sono del tutto eventuali e destinati a manifestarsi nella sola (palesemente limitata) misura in cui qualunque reinserimento lavorativo sia territorialmente incompatibile con la misura cautelare in concreto applicata; da altro punto di vista l’impianto normativo del reddito di cittadinanza non prevede soltanto un percorso di reinserimento lavorativo, ma prevede anche, in presenza di bisogni complessi multidimensionali, un più articolato percorso, elaborato attraverso un “patto per l’inclusione sociale”, sicché il sistema è organizzato attraverso una significativa varietà ed elasticità adattabile a molteplici casi concreti (v. art. 4, commi 12, 13 e 13 d.l. 4/2019 anche in relazione alle valutazioni plurime di cui all’art. 5 d. lgs. 147/2017 cui è fatto rinvio); non essendovi neppure necessità di spiegare che la rieducazione a maggior ragione deve poter intervenire allorquando condanna ancora non vi sia (art. 27 Cost.), ma la misura cautelare applicata sia sintomo già palese di bisogno di assistenza multidimensionale.
Perché, viene da chiedersi, non si è – a differenza di quanto accaduto nell’altra pronuncia, allorquando si è considerata la differenza tra pene scontate in carcere o meno – distinto tra misure obiettivamente compatibili con il reinserimento lavorativo (tali essendo tutte le misura diverse dalla detenzione in carcere o domiciliare) ed altre misure del tutto uniformemente caratterizzate dal non essere custodiali (divieto di espatrio, obbligo o divieto di dimora, allontanamento dalla casa familiare o divieto di avvicinamento), soprattutto non considerando che lo stesso legislatore ha predisposto, come si è detto, strumenti di grandissima flessibilità al riguardo?
Ed ancora, è compatibile la mancanza di tali valutazioni, con la conseguente affermazione dell’assenza di una “manifesta e irrefutabile” irrazionalità, o quest’ultima affermazione, anche in questo caso, basta a sé stessa come tale?
4. (segue): misure cautelari e pericolosità
Un secondo passaggio motivazionale di interesse è quello con la Corte Costituzionale, ricollegandosi alla propria precedente sentenza n. 122/2020 ritiene che non si determini violazione del principio di ragionevolezza in quanto – si sintetizza coordinando la pronuncia n. 122 con la n. 126 qui in esame – la sottoposizione a misure cautelari e la conseguente sospensione del reddito di cittadinanza si giustificherebbe per il fatto che la valutazione legislativa si fonderebbe “su un giudizio sulla pericolosità del soggetto insita nell’applicazione della misura cautelare” (così la sentenza n. 122), sicché la sospensione, “sebbene opinabile, appare coerente con il contesto normativo disegnato dal legislatore”, anche perché “con la cessazione della misura cautelare cessa anche quel pericolo concreto ed attuale che legittima la sospensione” (così la sentenza n. 122 in parte qua espressamente richiamata dalla sentenza n. 126).
La Corte qui giunge ad una valutazione di opinabilità della scelta legislativa, ma non approfondisce i motivi di tale pur percepita caratteristica per sondarne la ragionevolezza o meno.
Ed allora: se la pericolosità è ritenuta dal giudice penale tale da poter essere evitata attraverso misure non detentive, perché un beneficio assistenziale, coniugato con misure di reinserimento a quel lavoro su cui addirittura la Repubblica si fonda, deve esser perduto per una pericolosità che non c’è e comunque non impedisce, come si è detto, l’attuazione di percorsi di accentuata elasticità previsti proprio dallo stesso legislatore?
Perché quella reazione istintuale al reato che è stata magistralmente governata dalla sentenza n. 137 con il richiamo a principi inalienabili anche per chi si è posto pesantemente in contrasto con il patto sociale, non può esserlo di fronte ad un legislatore che a tale istinto si abbandona, senza fondamento in un reale pericolo e quando gli strumenti da lui stesso predisposti consentirebbero parimenti di assicurare la salvaguardia dei medesimi diritti ed al contempo di ciò che sta la Costituzione pone fondamento (art. 1) di quello stesso patto sociale ?
È vero quanto precisa la Corte, ovverosia che “a colui che si veda sospendere il beneficio economico non sarebbe preclusa la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di accedere ad altre forme di assistenza sociale prevista dall’ordinamento, per le quali la presenza di misure cautelari non costituisce causa ostativa”. Ma, se quei presupposti non ricorrano ed il bisogno pertanto persista, perché l’esclusione da un trattamento che lo stesso legislatore (art. 1 d.l.4/2019) definisce “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro” ?
Non si potrebbe affermare, parafrasando i termini utilizzati nella sentenza n. 137, che è possibile che il legislatore pensasse alle misure cautelari detentive e non a quelle che non sono in contrasto con l’impianto del beneficio quale da lui stesso predisposto? Visto che poi non tutti i reati, ma solo alcune ipotesi (sostanzialmente riguardanti – le coincidenze a volte sono micidiali - reati di mafia, terrorismo o strage, ovverosia proprio quelli rispetto ai quali al condannato non detenuto la sentenza n. 137 apre l’accesso ad altri benefici) comportano la revoca del beneficio in caso di condanna definitiva.
Il tutto senza contare che la sospensione per effetto della misura cautelare penale fa perdere definitivamente il beneficio, per il periodo ad essa corrispondente, non essendo previste (coerentemente con la natura non solo reddituale del beneficio) modalità di recupero ex post ove poi l’indagato risultasse innocente.
5. Che dire?
Gli interrogativi di cui sopra sono posti per la premura di risposte, su temi così delicati come quelli affrontati dalle due sentenze, che orientino convincentemente gli operatori e, soprattutto, i cittadini, rispetto all’uniformità delle scelte di sistema del legislatore, attraverso un impiego rigoroso del parametro di ragionevolezza.
Nel titolo del presente commento si è fatto riferimento ad “alti e bassi” che non riguardano l’esito alterno delle decisioni, in sé considerato, ma il diverso tenore delle valutazioni che esse suscitano e rispetto alle quali si è stati chiamati ad esprimere la propria opinione.
Alto è il richiamo a quei principi inalienabili che non consentono la negazione a nessuno dei diritti fondamentali: non lo si nasconde, la riflessione sul passaggio che, in poche righe della sentenza n. 137, esprime il concetto, è emozionante, da brividi, per il portare esso a contatto diretto con i fondamenti – anche dialogici e di apertura all’altro – su cui si regge la nostra comune convivenza; e per la profonda umanità che si cela dietro a quei principi, tanto più ove si ragioni sulle fattispecie, apparentemente destinate a muovere ad opposta reazione, rispetto alla quale essi sono stati applicati dalla Consulta.
Meno alta (il “basso” del titolo esprime ovviamente solo la contrapposizione logica), è la fuggevolezza delle argomentazioni a più riprese svolte sulla (assoluta in quanto svolta senza tertium comparationis) ragionevolezza o non ragionevolezza (di cui la discrezionalità del legislatore è solo l’altra faccia della medaglia) delle scelte normative. Anche su questo, invece, vi è bisogno di parametri saldi. Si è certamente esigenti nel chiederlo – perché molte sono le ragioni che possono giustificare la perentorietà non meglio spiegata, non ultima la continuità con il precedente – ma lo si avverte come necessario, per poterci serenamente riconoscere sempre e comunque in quello che siamo, in quello che vogliamo.
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