ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’assegno di divorzio: un punto di equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà
di Rita Russo
Sommario: 1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio - 2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico - 3. Considerazioni conclusive.
1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24250 dell’8 settembre 2021, ribadisce e specifica i principi già affermati dalle sezioni unite della Corte nel 2018[1], secondo le quali l'assegno di divorzio non ha solo una funzione assistenziale, diretta a mantenere per il coniuge divorziato lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche una funzione perequativo-compensativa. Se in sede di divorzio si accerta squilibrio economico tra i due coniugi e che uno dei due è rimasto privo di occasioni di lavoro e di carriera per essersi dedicato alla famiglia, contribuendo così al benessere economico del gruppo familiare, ma sacrificando le proprie possibilità di entrate economiche autonome, questo contributo deve essere ricompensato.
In tal modo sono state accolte le esigenze di modernizzazione del tradizionale orientamento giurisprudenziale, negli anni oggetto di critiche da parte della dottrina, secondo il quale l'assegno di divorzio aveva una funzione essenzialmente assistenziale, una sorta di prolungamento dei doveri di assistenza materiale e morale che caratterizzano il matrimonio, ritenendosi che il suo scopo fosse di assicurare la conservazione del tenore di vita matrimoniale. Una idea dell'assegno divorzile che nel tempo è stata superata, man mano che ci si è resi conto che la solidarietà non è mero assistenzialismo e che va bilanciata con il principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve organizzarsi con i propri mezzi e non dipendere dagli altri.
Seguendo questa linea, l’ordinanza n. 24250/2021 afferma che, sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base alla disciplina sull'assegno divorzile, oltre che nell'ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall'uno all'altro coniuge, "ex post" divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa. Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l'assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali - che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio - al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale.
Si tratta di un intervento che aggiunge un ulteriore tassello alla faticosa ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà post-coniugale[2].
La sentenza delle sezioni unite del 2018 ha infatti lasciato aperte diverse questioni. Sono stati espressi dubbi sulla reale portata innovativa della sentenza, e su quanto la funzione assistenziale, storicamente ritenuta prevalente sulle altre, possa realmente diventare recessiva rispetto alla funzione perequativo-compensativa: in altre parole se le due funzioni dell'assegno di divorzio debbano ritersi equivalenti oppure se l'una sia prevalente sull'altra[3]. Inoltre, il criterio del tenore di vita, apparentemente abbandonato, riemerge nel momento in cui deve quantificarsi in concreto il valore dell’impegno domestico e familiare che ha comportato la rinuncia alla carriera. Il coniuge che abbia rinunciato ad una carriera professionale avviata e sicura può senz’altro pretendere un riconoscimento di questo sacrificio, come è altresì ragionevole che quello che non ha rinunciato ad una specifica professionalità abbia meno da pretendere. È stato però osservato che se c'è un "lavoro casalingo" da retribuire, esso andrà monetizzato sulla base di una valutazione solidaristica che tenga conto delle reali condizioni reddituali e patrimoniali del coniuge forte e non in base a criteri estrinseci. Il che significa che l'assegno non potrà parametrarsi automaticamente né all'entità del potenziale reddito che il coniuge avrebbe percepito qualora si fosse dedicato all'attività di cui era - in atto o in potenza - capace, né al costo del lavoro domestico, dovendosi tener conto, al contrario, che in virtù dei principi solidaristici e della lettera stessa della legge, l'assegno deve essere misurato sul reddito del coniuge forte[4].
Del resto, lo stesso art. 5 della legge sul divorzio impone che l’assegno sia proporzionato alle sostanze ed ai redditi del soggetto obbligato, diversamente, più che una funzione solidaristica avrebbe una funzione risarcitoria, forse anche in termini punitivi, il che porrebbe qualche problema di compatibilità con i principi fondamentali che regolano lo scioglimento del matrimonio.
Il divorzio, in Italia, non è né una conseguenza della colpevole violazione dei doveri coniugali, né un recesso per mutuo dissenso, quanto piuttosto la presa d’atto che la comunione materiale morale di vita tra i coniugi si è dissolta e non si può ricostituire, in base ad indici normativi predeterminati, dei quali quello statisticamente più rilevante è il decorso del tempo (oggi breve) nella condizione di coniugi legalmente separati.
La funzione risarcitoria dell'assegno di divorzio è quindi residuale ed è appena accennata dalla stessa normativa, la quale stabilisce che nella quantificazione dell'assegno può tenersi conto delle ragioni della decisione. In verità, nella formulazione dell’art. 5 della legge sul divorzio neppure la funzione perequativo-compensativa ha un così grande risalto, mentre è piuttosto evidente la funzione assistenziale, insita nel fatto stesso che si preveda un assegno periodico.
Di ciò è consapevole la Corte di legittimità che afferma, nell’ordinanza in esame, che l'assegno risponde, anzitutto, ad un'esigenza assistenziale, che le sezioni unite non hanno affatto inteso cancellare e danno invece per scontata. Ed ancora che la misura dell’assegno deve essere stabilita in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l'assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell'autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Infine, l’ordinanza in esame considera anche la funzione perequativa dell’assegno, ma senza entrare specificamente nel dettaglio del parametro utilizzabile, limitandosi a ripetere ancora una volta la formula della compensazione del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali.
È questo infatti il nodo non ancora sciolto dalla giurisprudenza, e che difficilmente, almeno allo stato della vigente legislazione, potrà essere sciolto: una vera e propria perequazione tra le posizioni dei due coniugi, che consenta ad entrambi di ricominciare ciascuno la propria vita in posizione di parità, richiederebbe non tanto la attribuzione di un assegno periodico, quanto la ripartizione del patrimonio o la corresponsione di un capitale una tantum. Il che porta l'interprete a interrogarsi sulla effettiva modernità del nostro sistema e sulla sua capacità di fornire risposte tanto rapide quanto, nella realtà dei fatti, è rapida la dissoluzione e la ricostituzione dei legami familiari. Quand’anche i coniugi abbiano accettato il regime legale della comunione dei beni -che però è un regime derogabile- né in sede di separazione né in sede di divorzio si procede alla divisione dei beni comuni; sebbene la comunione legale si sciolga nel momento in cui i coniugi vengono autorizzati a vivere separati dopo l'esito negativo del tentativo di conciliazione, il processo di divisione dei beni comuni segue la via ordinaria e non è il giudice della separazione né il giudice del divorzio ad operare questa ripartizione, salvo che non debba recepire un accordo delle parti sul punto[5].
2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico
La previsione normativa che il coniuge separato o divorziato debba corrispondere all'altro un assegno periodico si lega, anche per ragioni storiche, all'idea che il coniuge economicamente più debole abbia diritto a conservare un certo tenore di vita, e che debba essere l’altro a provvedervi, assioma che a sua volta è un retaggio dell’idea che la moglie debba essere mantenuta dal marito.
Nel nostro ordinamento, mentre l'istituto della separazione legale è previsto nel codice civile e quindi vanta una nobiltà di antica data, il divorzio è relativamente recente. È naturale pertanto che il legislatore degli anni ‘70 nel regolare dei rapporti economici tra gli ex coniugi si sia ispirato, in certa misura, alle regole già stabilite per la separazione, istituto che originariamente aveva una funzione eminentemente conservativa dello status matrimoniale, in vista di una possibile ed auspicata riconciliazione; mentre oggi la separazione è essenzialmente un mezzo per conseguire il divorzio.
La funzione conservativa della separazione si invera(va) anche nel riconoscimento del diritto del coniuge economicamente debole a mantenere lo stesso tenore di vita, diritto fondato sulla persistenza del dovere di assistenza morale e materiale, che si attua(va) tramite una continuativa assistenza da parte dell’altro, tenuto a corrispondergli ogni mese una somma di denaro; in altre parole, una dipendenza economica a tempo indeterminato, ovvero, secondo alcuni detrattori dell’istituito, una rendita parassitaria. Non diversamente si è ragionato in tema di assegno di divorzio, pur se si è fatto riferimento non già alla persistenza del dovere di assistenza materiale e morale -incompatibile con lo scioglimento del vincolo - bensì alla trasformazione di questo dovere nella cosiddetta solidarietà post-coniugale. Ciò spiega perché inizialmente la funzione dell'assegno divorzile era considerata eminentemente assistenziale, mentre oggi si inizia a mettere in discussione anche la stessa funzione assistenziale dell'assegno di separazione, nonostante la giurisprudenza di legittimità continui ad affermare che l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale e che esso è correlato al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, diversamente dall’assegno divorzile, svincolato da detto criterio[6]; anche se poi questa indipendenza dal criterio del tenore di vita trova un suo limite, come sopra si è detto, nella necessità che anche l’assegno di divorzio sia comunque parametrato ai redditi ed alle sostanze del soggetto obbligato.
La progressiva valorizzazione del principio di autoresponsabilità nonché il progressivo perdersi della funzione conservativa della separazione e l’accentuarsi della sua funzione di “anticamera” del divorzio, unitamente alla riduzione dei tempi necessari per conseguirlo, inevitabilmente comporta che in tutta una serie di casi la differenza tra assegno di separazione e assegno di divorzio, netta in teoria, rischia di sfumare e non di poco nella pratica. Il coniuge separato deve essere consapevole che la separazione è una condizione tendenzialmente di breve durata e che nella maggior parte dei casi non prelude a una riconciliazione bensì allo scioglimento del vincolo, in seguito al quale l'assegno di divorzio sarà riconosciuto sulla base di presupposti diversi oppure non sarà riconosciuto affatto. Ciò a maggior ragione nel momento in cui sarà attuata pienamente la riforma preannunciata dalla legge delega numero n. 206 del 2021, che prevede la possibilità di proporre contestualmente la domanda di separazione e divorzio.
Queste regole, e la loro lettura evolutiva, sono poi da inquadrare nella attuazione del principio di parità morale e materiale dei coniugi, il quale richiede che il sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale, il che significa che chi ha maggiori risorse economiche deve condividerle con chi ne ha di meno.
È stato correttamente osservato che parità e solidarietà si coniugano con il principio di autoresponsabilità, in particolare ove ci si ponga nella prospettiva del divorzio. L’assunzione del principio di autoresponsabilità può avvenire alla sola condizione che sia assicurata tra i coniugi, o quasi ex coniugi, quale base di partenza per la futura vita separata una effettiva perequazione in ordine alla partecipazione a quella complessiva economia familiare cui ciascuno abbia contribuito nel corso della convivenza, ponendosi il rimedio alle sperequazioni venutesi a determinare eventualmente nella situazione patrimoniale delle parti, in dipendenza delle scelte comuni in ordine alla conduzione della vita familiare[7].
Il che ci riporta a quello che è il limite stesso della previsione di un assegno periodico, poiché esso non può riequilibrare in senso pieno ed intero le posizioni dei due coniugi se non in un'ottica di periodica assistenza e sostegno economico nella quotidianità. Ciò potrebbe non essere pienamente satisfattivo delle esigenze del coniuge economicamente più debole che voglia rendersi indipendente ed ispirare la propria vita futura al principio di autoresponsabilità. Ad esempio, l’ex coniuge che privo di redditi propri al momento del divorzio, volesse raccogliere i frutti della sua collaborazione familiare domestica e monetizzarli, al fine di investirli in una attività imprenditoriale o artigianale che costituisca una fonte di reddito, potrebbe non essere in condizioni di conseguire questo risultato, perché la corresponsione del capitale (una tantum) è possibile solo su accordo tra le parti. Inoltre, la divisione dei beni comuni, ammesso che ci siano beni comuni, è un procedimento lungo, che richiede tempo ed investimento di risorse economiche a meno che, anche in questo caso, non vi sia un accordo tra le parti.
Allo stesso modo la previsione dell'assegno periodico, quale che sia la sua funzione, si può rivelare insoddisfacente per le esigenze del coniuge economicamente più forte che, divorziando, pur se è consapevole di dovere destinare una parte del suo reddito e del suo patrimonio a sostegno del coniuge economicamente più debole, vorrebbe ragionevolmente quantificare ex ante queste obbligazioni anche al fine di sapere quanto potrà investire nella ricostituzione di nuovi legami familiari.
3. Considerazioni conclusive.
A legislazione invariata e finché si prevede che sia l'assegno periodico il mezzo principale di regolazione rapporti tra ex coniugi, il superamento della prospettiva assistenzialistica può avvenire valorizzando la funzione dell'autonomia privata, anche attraverso la negoziazione assistita.
Non si può negare infatti che da tempo sia in atto un procedimento di de-giurisdizionalizzazione dello scioglimento del matrimonio, intesa come restituzione del matrimonio all’area dell’autonomia privata.
Il matrimonio dei coniugi senza figli da tutelare si può sciogliere oggi in virtù di due dichiarazioni di volontà rese a distanza di sei mesi l’una dall’altra davanti all’ufficiale di stato civile (legge162/2014). Si scioglie inoltre, anche nel caso in cui i coniugi abbiano figli, in virtù di un procedimento di natura essenzialmente privatistica (negoziazione assistita). Infine, gli uniti civilmente (legge 76/2016) accedono direttamente al divorzio dopo avere preannunciato la loro intenzione di porre fine all’unione all’ufficiale di stato civile.
La più recente legislazione valorizza quindi l'importanza dell'autonomia privata anche nella fase di scioglimento del vincolo e non soltanto in quella della regolamentazione degli effetti di detto scioglimento. Non sarebbe pertanto in contrasto con questo percorso di progressiva riduzione della funzione di controllo dell'autorità giudiziaria, una maggiore apertura al riconoscimento di efficacia e validità degli accordi che le parti possono stipulare per riequilibrare le situazioni di disparità economica.
Occorre però fare i conti con la nostra giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che sono nulli gli accordi in vista di un futuro divorzio e che l’assegno una tantum in sede di separazione non vale come anticipazione di assegno di divorzio [8].
Tuttavia, ciò non impedisce che si tenga conto, in sede di divorzio, delle attribuzioni permanenti (un immobile, un capitale) che sono state fatte nel giudizio di separazione, sicché il coniuge che svolgeva attività domestica può arrivare al divorzio dotato di mezzi (più o meno) adeguati[9].
A maggior ragione, se le attribuzioni patrimoniali hanno un intento di sistemazione dei rapporti economici della coppia, e finalità compensative; poiché le attribuzioni in sede di separazione consensuale sono a vario titolo, potrebbe in futuro configurarsi la possibilità di compensare anticipatamente, in via consensuale, anche quello che è stato l’impegno del coniuge nella vita matrimoniale.
Gli assetti economici della separazione servirebbero in questo caso non soltanto ad assicurare al coniuge economicamente più debole il mantenimento sia pure temporaneo del tenore di vita matrimoniale, ma anche a porre le basi per una razionale distribuzione delle risorse economiche in vista del divorzio.
In questi termini, la previsione di consentire alle parti di presentare con un unico ricorso la domanda di separazione e la domanda di divorzio, per quanto possa apparire a prima vista una forma di divorzio immediato introdotta per la via processuale anziché come istituto di diritto sostanziale, ha tuttavia quantomeno il pregio di spingere le parti a dichiarare manifestamente le loro intenzioni e cioè dire se nella loro separazione prevale l’aspetto conservativo o quello dissolutivo.
Ciò potrebbe consentire - una volta che si decida di giocare a carte scoperte - di dare spazio ad accordi di adeguata sistemazione dei rapporti patrimoniali dei coniugi, avendo ben chiare le prospettive su ciò che può essere giudizialmente riconosciuto ed in quali tempi.
[1] Cass. sez. un. n. 18287 del 11/07/2018: “All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”.
[2] V. anche Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 04/09/2020, n. 18522; Cass. civ. Sez. I Ord., 02/10/2020, n. 21140
[3] CASTELLANI G. La ricerca di un equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Famiglia e Diritto, 2021, 10, 904
[4] SESTA M. “L'assegno di divorzio: in viaggio di ritorno al tenore di vita?” in Famiglia e Diritto, 2022, 1, 79
[5] A lungo di è dibattuto sulla ammissibilità dei trasferimenti immobiliari in sede di separazione e divorzio e soltanto di recente la questione è stata risolta, in termini positivi, da Cass. sez. un. n. 21761 del 29/07/2021.
[6] Cass. civ. sez. I n. 17098 del 26/06/2019; Cass. civ. sez. I, n. 5605 del 28/02/2020.
[7] QUADRI E. La quarta stagione del divorzio: le prospettive di riforma, in Divorzio 1970-2020
[8] Si veda Cass. civ. sez. I n. 2224 del 30/01/2017; Cass. civ. sez. I, n.4424. del 21/02/2008,
[9] Si vada ad es. Cass. civ. sez. I n. 15064 del 09/10/2003 “Diversa è l'ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno "una tantum", potendo le parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l'accordo è valido per l'attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell'altra”.
Tatuaggi e concorsi per l’arruolamento nelle forze armate (nota a Consiglio di Stato. 16 febbraio 2022 n. 1167)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi - 3. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La sentenza che si annota affronta il tema del “tatuaggio[1]” considerato nella sua relazione con il concetto di decoro dell’uniforme.
La questione origina dall’esclusione dell’appellante dal concorso per il reclutamento di 2165 volontari in ferma prefissata quadriennale per l’anno 2015 nell’Esercito italiano, nella Marina Militare e nell’Aeronautica Militare, indetto con il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, quarta serie speciale, n. 95 del 5 dicembre 2014.
La stessa veniva esclusa per non aver superato una prevista prova fisica e, in particolare, per il mancato superamento delle prove dei piegamenti sulle braccia e, avverso tale determinazione negativa, la predetta appellante ha proposto ricorso giurisdizionale dinanzi al T.A.R., con richiesta di misure cautelari, anche monocratiche.
Con decreto presidenziale veniva sospeso il provvedimento di esclusione e con successiva ordinanza collegiale veniva confermata la misura interinale di sospensione del provvedimento di esclusione.
Successivamente, in esecuzione dell’indicata ordinanza cautelare, l’attuale appellante è stata nuovamente convocata dalla Commissione di concorso per essere sottoposta ai previsti accertamenti psico-fisici nuovamente esclusa per la presenza di un tatuaggio posto sulla cute del lato sinistro del collo, ritenuto non compatibile con i requisiti concorsuali.
L’ornamento, posizionato sul collo, veniva ritenuto non compatibile con i requisiti previsti dalla procedura concorsuale; in ragione di tale vulnus, anche questa, successiva, esclusione veniva gravata dall’appellante con ricorso per motivi aggiunti.
Successivamente, il TAR adito si pronunciava dichiarando l’improcedibilità in quanto non vi era stata impugnazione della graduatoria finale del concorso ritualmente pubblicata.
Si proponeva, dunque, appello all’interno del quale veniva mossa censura visto che la dichiarazione di improcedibilità per la mancata impugnazione del Decreto dirigenziale pareva erronea in quanto con quest’ultimo provvedimento veniva approvata la graduatoria relativa alla seconda immissione nell'Esercito come VFP 4, mentre l’appellante rientrava nella prima immissione di VFP 4 e venivano altresì riproposti tutti i motivi non esaminati dal giudice di prime cure.
Nel merito della questione del tatuaggio e, per quanto rileva in questa sede, l’appellante ha individuato un grave vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, derivante dall’esclusione direttamente collegata alla presenza della figurazione cutanea, poiché, dal canto suo, l’esistenza non poteva comportare ex se l'esclusione dal concorso essendo necessario a tal fine che esso sia deturpante o contrario al decoro dell'uniforme o ancora possibile indice di personalità abnorme.
Ancora, si spiegava come nel caso di specie il tatuaggio consisteva in “un piccolo e quasi invisibile tatuaggio in prossimità dell'orecchio sinistro e dell'attaccatura dei capelli, il quale non presenta certamente le caratteristiche suindicate” censurando, comunque, le mancate valutazioni di merito da parte dell’Amministrazione visto che l’appellante era già in cura, da molti mesi, per un trattamento laser chirurgico volto all'eliminazione definitiva del tatuaggio in questione.
Inoltre, l’appellante sottolinea come il tatuaggio in questione era già impresso sulla sua pelle all'atto del primo arruolamento, momento in cui non ha comportato effetto alcuno, né in detta sede nè in relazione al prolungamento della rafferma dei VFP1.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, si è determinato per il rigetto del ricorso in quanto la pronuncia, oggi in nota, precisa che anche se il ricorso non fosse stato improcedibile sarebbe stato comunque infondato nel merito circa la legittimità dell’esclusione dell’appellante per la presenza del tatuaggio sul collo che, in quanto visibile, rappresenta elemento di inidoneità.
2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi
La rilevanza che assumono i tatuaggi nell’ambito dei concorsi per le forze armate è pregnante.
Tale rilevanza va posta in relazione alla famigerata uniforme, ovvero l'insieme dei capi di vestiario, corredo ed equipaggiamento che contraddistinguono gli uomini e le donne delle Forze Armate.
Tatuaggio ed uniforme costituiscono dunque una sorta di ossimoro, poiché se è vero che il vestiario e gli accessori costituiscono l’elemento distintivo della funzione dei pubblici poteri dei quali sono investiti i militari e le forze dell’ordine tutte nello svolgimento del proprio servizio; il tatuaggio appare come una sorta di “neo” capace di inquinare e svilire quella che è la funzione che l’uniforme figura, altresì, l’appartenenza a una specifica Nazione e a una determinata Forza Armata, ricordandone la Storia e le tradizioni sia di una che dell’altra: l’uniforme rappresenta, dunque, la sintesi della storia e delle tradizioni dell’organizzazione militare.
Sono numerosissime le pronunce giurisprudenziali che negano l’accesso alle Forze Armate per la presenza di segni più o meno evidenti per le ragioni ripercorse dalla pronuncia in commento che si muove sulla granitica scia disegnata dai massimi organi della G.A[2].
Orbene, i Giudici di Palazzo Spada richiamano quanto previsto dal Bando di Concorso (pubblicato in G.U. Serie Speciale n.95 del 5/112014) il quale prevede che la commissione dovrà giudicare inidonei i concorrenti che presentino tatuaggi allorquando, per la loro sede ovvero per la raffigurazione risultino contrari al decoro dell’uniforme.
Pertanto, risulta irrilevante la posizione del tatuaggio quando rappresenta una forma di disonore delle istituzioni ovvero indice di personalità inidonea; se invece, il tatuaggio è posizionato in una parte del corpo scoperta dalla divisa è in ogni caso elemento di inidoneità per l’accesso alle forze armate.
Invero, ormai, consolidata giurisprudenza ritiene che il tatuaggio sia causa di esclusione ove esso sia posizionato nelle parti del corpo scoperte dalla divisa anche qualora esso non rappresenti un disonore per le istituzioni[3]. In tali ipotesi, la commissione non detiene alcuna discrezionalità, non dovendo eseguire alcuna valutazione, bensì dovendo esclusivamente prendere atto degli esiti di un mero accertamento tecnico[4].
Altresì è meritevole di attenzione il punto della pronuncia relativo alla circostanza che il tatuaggio dell’appellante sia in via di rimozione.
Ciò che conta e rileva, secondo il giudice adito, è la presenza visibile del tatuaggio al momento della proceduta concorsuale e in quel preciso momento che la valutazione si cristallizza e, tale accertamento, non è pervaso da discrezionalità alcuna dunque in nessun caso può essere valutato il percorso di rimozione intrapreso[5].
A tale scopo è necessario il richiamo ai principi generali che regolano i concorsi pubblici per cui i requisiti recati nella lex specialis debbono essere posseduti al termine della presentazione delle domande. Ebbene anche se nell’ipotesi della verifica dei requisiti psicofisici tale termine è posticipato al momento della visita medica (momento effettivo di accertamento) non si può riconoscere valenza a fatti ultronei intervenuti successivamente[6].
In tale fattispecie, infatti, la commissione medica è chiamata alla verifica circa la riconducibilità della situazione di fatto accertata nella fattispecie astratta che disciplina le cause di esclusione.
Pertanto, nel caso che ci occupa, la commissione non ha fatto altro che segnalare la presenza del tatuaggio in una zona non coperta dall’uniforme e, pertanto, rientrante nelle ipotesi di inidoneità prescritte, rendendo superfluo qualsivoglia valutazione sulla entità ovvero significato dello stesso[7].
L’esigenza della non visibilità del tatuaggio, per collegarci al concetto di ossimoro, è strettamente collegata alla visibilità dell’uniforme, necessità che raggiunse l’apice durante il periodo napoleonico: i soldati dell’imperatore corso iniziarono a indossare copricapi sempre più ingombranti e accessori oltremodo luccicanti, il tutto per acquisire un aspetto tanto più imponente e maestoso quanto era più alto il grado del milite.
3. Riflessioni conclusive
La posizione della giurisprudenza è chiara e consolidata sull’inidoneità recata dai tatuaggi nell’ambito dei concorsi per l’accesso nelle forze armate.
Con sentenza n. 658/2020 i Giudici di Palazzo Spada ritenevano irrilevante la rimozione in corso d’opera del tatuaggio, costituendo anche il residuo del tatuaggio sbiadito (ma ancora visibile) legittima causa di esclusione dal concorso.
Difatti, il “residuo di un tatuaggio”, in via di rimozione non lo rende invisibile bensì elemento valutabile dalla commissione medica che senz’altro accerta la causa di esclusione. Né tanto meno è ipotizzabile la possibilità di posticipare la visita medica al momento della completa rimozione del tatuaggio poiché contrasterebbe con il generale principio di imparzialità e di parità di trattamento dei candidati.
È pur vero però che si scorge una inversione di rotta nella giurisprudenza più recente che non ritiene “sufficiente la mera visibilità di un tatuaggio per giustificare l’esclusione di un candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio risulti deturpante dell’immagine del militare o possa risultare indicativo di personalità abnorme. Sebbene, quindi, la presenza di un tatuaggio su una parte del corpo non coperta dall’uniforme sia rilevante al fine della valutazione di idoneità, si deve escludere l’automatismo tra la visibilità del tatuaggio e l’esclusione dal concorso per l’accesso al Corpo di polizia penitenziaria, essendo necessario che la Commissione di concorso, esercitando la propria discrezionalità tecnica, valuti se il tatuaggio, oltre che visibile, costituisca causa di non idoneità in quanto deturpante o contrario al decoro per le istituzioni ovvero in quanto indicatore di personalità abnorme”[8].
Dunque, aver impresso sul proprio corpo una raffigurazione di qualsivoglia entità o specie non comporta, o non dovrebbe comportare ex se l’inidoneità ai concorsi relativi all’accesso delle Forze Armate.
Come detto, gli uomini e le donne che indossano la divisa rappresentano un’istituzione a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica e per tanto sono chiamati a possedere requisiti più stringenti rispetto a quelli richiesti per gli altri concorsi pubblici.
La disciplina è chiara nella previsione dell’inammissibilità dei candidati che abbiano tatuaggi su parti del corpo non coperti da divisa nonché nelle ipotesi di raffigurazioni che chiaramente rappresentino un disonore per l’uniforme indossata nonché evidenzino una personalità abnorme.
È l’amministrazione al momento delle verifiche che deve accertare esclusivamente la presenza di segni scoperti dalla divisa ed eventualmente valutare la portata di tatuaggi che si collocano in zone coperte dalla stessa.
È forse il caso di inquadrare in modo più stringente le ipotesi di inammissibilità derivante da tatuaggi?
[1] Tatüàggio s. m. [dal fr. tatouage, der. di tatouer «tatuare»]. – 1. a. Deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei, ottenuta mediante segni indelebili prodotti per puntura dall’inserzione sotto la cute di sostanze coloranti senza alterare la superficie epidermica. Per estens., il disegno ottenuto sulla pelle mediante tale pratica in treccani.it.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01/04/2016, n. 1300 E’ legittimo il provvedimento di esclusione dal concorso a posti di vice revisore tecnico di Polizia giudiziaria a carico di una candidata in ragione di un tatuaggio disegnato sul polpaccio della gamba destra e non copribile dalla gonna della divisa.
[3] Ex multis T.A.R. Roma, (Lazio), sez. I, 22/09/2016, n. 9903 “La presenza di un tatuaggio in zona visibile è sufficiente per giustificare l’esclusione del candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio in questione possa risultare deturpante o indicativo di personalità abnorme”.
[4] Sul punto si veda Cons. Stato Sez. IV, 09/03/2020, n. 1690; Cons. Stato, sez. IV, 3 ottobre 2019 n. 6640; Cons. Stato, Sez. IV, 18/03/2011 n. 1690.
[5] v. T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 12/05/2015, n. 6860 “Non può essere reputato deturpante un tatuaggio, peraltro in fase di rimozione, di centimetri 4×5 che raffiguri un motivo floreale. La non immediata percepibilità visiva della presenza di un tatuaggio non consente di ritenere che la sua presenza risulti in contrasto con il prototipo di figura istituzionale, il che rende irragionevole e sproporzionata – rispetto alle finalità presidiate dalla disciplina di riferimento – l’esclusione del ricorrente dal concorso”.
[6] Di tale avviso, Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2020, n. 658; Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2020, n. 4109; Cons. Stato Sez. II, 01/09/2021, n. 6155.
[7] Sul punto T.A.R. Salerno, (Campania), sez. I, 03/03/2015, n. 463
Il tatuaggio costituisce legittima causa di esclusione dalle procedure concorsuali indette per l’assunzione di personale militare o, comunque, in divisa, solo quando le dimensioni o i contenuti dell’incisione sulla pelle siano rivelatori di una personalità abnorme, ovvero quando questa sia oggettivamente deturpante della figura o incompatibile con il possesso della divisa medesima. Quindi è onere dell’Amministrazione fornire, all’atto della esclusione, concreta e puntuale motivazione in ordine alle ragioni per le quali, di volta in volta, il tatuaggio sia stato ritenuto preclusivo dell’assunzione o incompatibile con il possesso della divisa.
[8] Cfr. TAR Lazio sez. V n. 2063/2022
La revisione prezzi nei contratti pubblici: disciplina legale eccezionale, discrezionalità della stazione appaltante e rimedi civilistici (nota a T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 10 marzo 2022, n. 239)
di Saul Monzani
Sommario: 1. La connotazione codicistica del contratto d'appalto: in particolare, l'allocazione del rischio in capo al soggetto appaltatore. Le peculiarità del contratto pubblico di appalto. - 2. L'istituto della revisione dei prezzi nella normativa più recente sui contratti pubblici. - 3. L'attuale disciplina “eccezionale” in tema di revisione dei prezzi nei contratti pubblici. - 4. Conclusioni: riconoscimento legale della revisione prezzi e residua discrezionalità della stazione appaltante.
1. La connotazione codicistica del contratto d'appalto: in particolare, l'allocazione del rischio in capo al soggetto appaltatore. Le peculiarità del contratto pubblico di appalto.
In ambito civilistico, il contratto d'appalto, così come descritto dall'art. 1655 c.c., prevede che l'appaltatore assuma l'impegno di svolgere una certa attività “con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio”1. Ciò implica che, in via generale, il corrispettivo pattuito sia fondamentalmente invariabile, restando a carico dell'appaltatore ogni evenienza che possa capitare dopo la stipulazione del contratto. Le uniche eccezioni a tale principio sono costituite dalla possibilità di chiedere la revisione del prezzo nei casi di aumento, o diminuzione, del costo dei materiali o della manodopera in misura superiore al decimo del prezzo convenuto e per effetto di circostanze imprevedibili o di difficoltà di esecuzione non previste dalle parti (art. 1664 c.c.), nonchè dall'ipotesi di risoluzione del contratto oppure di modifica delle condizioni di esecuzione dello stesso nei casi di eccessiva onerosità sopravvenuta eccedente l'alea normale del contratto per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili (1467 c.c.).
Per quanto riguarda i contratti pubblici, invece, storicamente, si è evidenziata una maggiore sensibilità del legislatore ad intervenire, soprattutto in caso di situazioni di mercato eccezionali determinate da eventi su larga scala, quali guerre ed inflazione, al fine di consentire la revisione dei prezzi a vantaggio degli operatori impegnati nell'esecuzione di contratti d'appalto con la pubblica amministrazione2.
In tale ambito, l'istituto della revisione dei prezzi è stato considerato rivestire, da un lato, “la finalità di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse...e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte; dall'altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto”3.
Così individuata la ratio dell'istituto oggetto del presente commento, occorre anche rilevare, sempre in via generale, come la giurisprudenza amministrativa abbia comunque “modellato” il meccanismo della revisione prezzi di un contratto pubblico d'appalto al fine di preservare un certo equilibrio tra interessi della stazione appaltante e quelli degli operatori, evitando uno sbilanciamento a favore di questi ultimi; ciò in coerenza con il modello legale del contratto d'appalto che, come poc'anzi evidenziato, presuppone comunque l'allocazione di un fisiologico margine di rischio in capo all'appaltatore (e non certo l'azzeramento sostanziale dello stesso).
Così, si è statuito che l'inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo negli atti di gara non comporta anche il diritto all'automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto l'interesse legittimo a che l'Amministrazione svolga un'adeguata istruttoria a seguito della richiesta di revisione al fine di accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, nella prospettiva “di pervenire ad un corretto bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato”4. In tema, si registra la presa di posizione anche della giurisdizione ordinaria, la quale ha avuto modo di ribadire che “il diritto dell'appaltatore alla revisione dei prezzi sorge solo quando, a lavori compiuti, la pubblica amministrazione adotti un espresso provvedimento attributivo della revisione e determini il compenso revisionale spettante all'appaltatore il quale, fino a tale momento, è portatore di un interesse legittimo pretensivo, sicché...non vi è un diritto dell'appaltatore di pretendere la revisione,... poiché l'ammontare della revisione potrà essere determinato solo quando la pubblica amministrazione avrà deciso se ed in che misura corrisponderla”5.
L'individuazione della posizione giuridica fatta valere dall'operatore richiedente la revisione dei prezzi ha, evidentemente, una diretta conseguenza sulla determinazione della giurisdizione rispetto all'eventuale contenzioso che ne può derivare. Sul punto, come è noto, il disposto di cui all'art. 133, comma 1, lett. e), n. 2 del Codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha ricondotto le controversie in tema di revisione del prezzo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In tema, la giurisprudenza ha specificato che nel caso in cui sia in contestazione esclusivamente l'espletamento di una prestazione già puntualmente prevista nel contratto e disciplinata in ordine all'an e al quantum del corrispettivo, così che la controversia incardinata dall'appaltatore ai fini della percezione del compenso revisionale ha ad oggetto una mera pretesa di adempimento contrattuale comportando l'accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo, si ricade nell'ambito della giurisdizione ordinaria. Diversamente, qualora la posizione fatta valere dall'appaltatore tragga origine dall'attivazione della clausola di revisione del prezzo, essa dovrà essere riconosciuta sulla base dell'istruttoria condotta dei competenti organi tecnici dell'Amministrazione, rendendo pertanto configurabile l'esercizio di un potere di supremazia in capo all'ente appaltante che costituisce estrinsecazione di un apprezzamento discrezionale. Quest'ultimo viene svolto attraverso l'attività istruttoria, così che l'esercitata pretesa nella fase procedimentale degrada al mero rango di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione dei giudici amministrativi6.
Inoltre, tornando all'impostazione giurisprudenziale circa l'istituto revisionale nei contratti d'appalto pubblici, si è sottolineato come gli istituti volti al riequilibrio del sinallagma contrattuale non assumano affatto, come già accennato in precedenza, “come obiettivo l’azzeramento del rischio di impresa connesso alla sopportazione in capo all’appaltatore dell’alea contrattuale normale riconducibile a sopravvenienze, quali l’oscillazione generale e diffusa dei prezzi”, dovendosi fare riferimento, ai fini in esame, “non già ad aumenti di costi di fattori della produzione prevedibili – anche dal punto di vista della loro consistenza valoriale – nell’ambito del normale andamento dei mercati relativi”, bensì al fatto di aver fornito la prova “rigorosa”, non circa il “maggior costo sostenuto rispetto a quello ipotizzato in sede di offerta”, ma in merito alla “sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nei costi”7. In tale ottica, si è aggiunto che “risulterebbe singolare un’interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l’appaltatore dall’alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività”8.
2. L'istituto della revisione dei prezzi nella normativa più recente sui contratti pubblici.
Il previgente Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, se, da un lato, escludeva la revisione prezzi nonchè l'applicazione dell'art. 1664 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta per i lavori pubblici affidati dalle stazioni appaltanti, stabilendo il criterio del “prezzo chiuso” (ovvero quello risultante dall'offerta aggiornato al tasso di inflazione se superiore ad una certa soglia), dall'altro lato, contemplava anche una fattispecie in deroga per cui qualora il prezzo di singoli materiali da costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, subissse variazioni in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento rispetto al prezzo rilevato dal Ministero delle infrastrutture nell'anno di presentazione dell'offerta, si poteva dare luogo a compensazioni, in aumento o in diminuzione, per la metà della percentuale eccedente il dieci per cento. Inoltre, sempre il previgente Codice, stabiliva, all'art. 115, l'obbligo da parte delle stazioni appaltanti di inserire nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture una clausola di revisione periodica del prezzo.
Diversamente, l'art. 106, comma 1, lett. a) del Codice vigente, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, dispone in maniera uniforme per lavori, servizi e forniture, che “I contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti9. Esse non apportano modifiche che avrebbero l'effetto di alterare la natura generale del contratto”. Viene poi stabilita una regola specifica per gli appalti di lavori, la quale prevede la possibilità di revisione solo in caso di variazioni in misura eccedente il dieci per cento dei prezzi originari e comunque nei limiti della metà del relativo importo, così riferendosi più alle modifiche dei costi dei singoli materiali che assumendo quale parametro di riferimento l'intero importo contrattuale10.
Ne deriva che nel quadro normativo vigente, viene rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante la decisione di inserire, o meno, negli atti di gara, la possibilità di revisione dei prezzi, così come di stabilire la relativa disciplina.
Sul punto, si è chiarito che, con particolare riferimento ai servizi e forniture, “la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina, ma opera solo se prevista dai documenti di gara, con la conseguente inapplicabilità del principio di inserimento automatico delle clausole relative alla revisione prezzi e di sostituzione delle eventuali clausole contrattuali difformi11.
Ciò sta a significare che la stazione appaltante ben potrebbe non prevedere alcuna clausola di revisione dei prezzi o sottoporre tale possibilità a limiti o condizioni.
Nello stesso senso si è espressa anche la dottrina, la quale ha sottolineato come relativamente alla revisione dei prezzi, il nuovo Codice abbia operato un’autentica rivoluzione, “precludendo qualsiasi automatismo”, con l’effetto di attuare un “ripristino in via generale del rischio a carico dell’appaltatore” proprio in quanto “in difetto di indicazione sin dagli atti di gara di una precisa disposizione in materia di revisione periodica del prezzo, l’appaltatore non può formulare alcuna pretesa in corso di esecuzione”12.
Tale impostazione è stata ritenuta compatibile anche con il diritto euro-unitario: infatti, si è ritenuto che “il diritto dell'Unione consente a norme di diritto nazionale di non prevedere la revisione periodica dei prezzi dopo l'aggiudicazione di appalti”13.
Ciò posto, si tratta di verificare se la facoltatività della clausola di revisione prezzi nell'ambito dei contratti pubblici sia in qualche modo “temperata” dalla possibilità da parte dell'operatore di ricorrere comunque ai rimedi civilistici, la cui applicazione era espressamente esclusa, con particolare riferimento all'art. 1664, comma 1, c.c., dal previgente Codice.
Sul punto, partendo proprio dal presupposto per cui il vigente Codice dei contratti pubblici non ha riprodotto l'espressa esclusione circa l'applicazione della norma predetta, si è giunti a ritenere che, ove gli atti di gara non prevedano alcuna clausola di revisione dei prezzi (o addirittura contemplino una previsione di esclusione della revisione dei prezzi), torni a potersi applicare la norma di cui all'art. 1664 c.c.14.
La stessa sentenza oggetto precipuo del presente commento ha escluso che, pur in presenza di una espressa esclusione negli atti di gara di ogni ipotesi di revisione del prezzo, l’impresa appaltatrice rimanga sprovvista di mezzi di tutela nel caso in cui si verifichi un aumento esorbitante dei costi del servizio in grado di azzerarne o comunque di comprometterne in modo rilevante la redditività: nel corso del rapporto, infatti, anche in presenza di una previsione escludente della legge di gara, qualora si verifichi un aumento imprevedibile del costo del servizio in grado di alterare il sinallagma contrattuale rendendo il contratto eccessivamente oneroso per l’appaltatore, questi può sempre esperire il rimedio civilistico di cui all’art. 1467 c.c., chiedendo la risoluzione del contratto di appalto per eccessiva onerosità sopravvenuta, alle condizioni previste dalla norma in questione, tra cui, lo squilibrio complessivo del rapporto contrattuale (e non già riferito ad aumenti di singole voci dello stesso)15.
3. L'attuale disciplina “eccezionale” in tema di revisione dei prezzi nei contratti pubblici.
Da ultimo, prendendo atto degli “aumenti eccezionali dei prezzi di alcuni materiali da costruzione”, come conseguenza del contesto di grave crisi internazionale sul piano politico ed economico, oltre che a seguito della pandemia da Covid-19, l'art. 1-septies del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, convertito nella legge 23 luglio 2021, n. 106 (relativamente all'anno 2021) ha introdotto temporaneamente una disciplina derogatoria di quanto previsto nel vigente Codice dei contratti pubblici, in base alla quale la revisione dei prezzi relativi ai contratti pubblici in corso è ammessa, indipendentemente dalle previsioni degli atti di gara, tramite compensazioni determinate dall'incremento dei costi dei materiali superiori ad una certa soglia, come rilevati in appositi decreti del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile (MIMS),per ciascun periodo di riferimento16.
In sostanza, secondo il meccanismo ora in commento, la compensazione è determinata applicando alle quantità dei singoli materiali impiegati nelle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore dei lavori, ovvero annotate sotto la sua responsabilità nel libretto delle misure, le variazioni dei relativi prezzi, con riferimento alla data dell'offerta, eccedenti l'otto per cento, come rilevate dall'apposito decreto.
Inoltre, è stato previsto che le stazioni appaltanti provvedono alle compensazioni dovute secondo quanto appena illustrato nei limiti del cinquanta per cento delle risorse appositamente accantonate per imprevisti nel quadro economico di ogni intervento, fatte salve le somme relative agli impegni contrattuali già assunti, nonché utilizzando le eventuali ulteriori somme a disposizione della stazione appaltante per lo stesso intervento e stanziate annualmente. Possono, altresì, essere utilizzate le somme derivanti da ribassi d'asta, qualora non ne sia prevista una diversa destinazione sulla base delle norme vigenti, nonché le somme disponibili relative ad altri interventi ultimati di competenza della medesima stazione appaltante e per i quali siano stati eseguiti i relativi collaudi ed emanati i certificati di regolare esecuzione nel rispetto delle procedure contabili della spesa e nei limiti della residua spesa autorizzata.
A fronte dell'incremento, talvolta gravoso, delle necessità finanziarie rispetto a quanto originariamente previsto ed impegnato, la normativa in questione ha previsto la possibilità per le stazioni appaltanti, in caso di insufficienza delle risorse individuate come sopra, di accedere ad un fondo per l'adeguamento prezzi costituito presso il Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili.
Per quanto riguarda, invece, l'anno 2022, è intervenuto di recente il d.l. 17 maggio 2022, n. 50 (c.d. Decreto “aiuti”) il quale, abrogando la normativa di poco precedente di cui all'art. 25 del d.l. 1° marzo 2022, n. 17 conv. nella l. 27 aprile 2022, n. 34, ha posto una ulteriore disciplina in tema di revisione prezzi con riguardo alle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore lavori ovvero dal medesimo annotate nel libretto delle misure, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022.
Ebbene, in base a quest'ultima normativa, la revisione dei prezzi, sempre muovendo dal presupposto degli “aumenti eccezionali dei prezzi dei materiali da costruzione” e relativamente ad appalti pubblici di lavori le cui offerte siano state presentate entro il 31 dicembre 2021, è accordata dalle stazioni appaltanti, “anche in deroga alle specifiche clausole contrattuali”, sulla base dei prezzari regionali (da aggiornarsi entro il 31 luglio 2022) e, nelle more, incrementando fino al venti per cento le risultanze dei prezzari regionali aggiornati al 31 dicembre 2021. Ebbene, sempre in base alla disciplina ora in commento, i maggiori importi derivanti dall'applicazione dei prezzari aggiornati sono riconosciuti dalle stazioni appaltanti, al netto dei ribassi formulati in sede di offerta, nella misura del novanta per cento e nei limiti delle risorse disponibili. Per quanto riguarda le somme eventualmente riconosciute dalle stazioni appaltanti nelle more dell'aggiornamento dei prezzari, è previsto che le medesime, anche in deroga a quanto previsto negli atti di gara, procedano ai relativi conguagli rispetto ai valori aggiornati in occasione del pagamento degli stati di avanzamento dei lavori afferenti alle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore lavori, ovvero dallo stesso annotate nel libretto delle misure, successivamente all'adozione del prezzario aggiornato.
Inoltre, sempre in tema di normativa “eccezionale”, occoore ricordare come l'art. 29 del d.l. 27 gennaio 2022, n. 4 (conv. dalla legge 28 marzo 2022, n. 25), al fine “di incentivare gli investimenti pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento dell'emergenza sanitaria globale derivante dalla diffusione del virus SARS-CoV-2”, abbia disposto l'obbligo, fino al 31 dicembre 2023, di inserire negli atti delle procedure ad evidenza pubblica, clausole di revisione del prezzo.
La stessa norma prevede, in particolare, per i lavori, che, in deroga al Codice dei contratti pubblici, le variazioni di prezzo dei singoli materiali da costruzione, in aumento o in diminuzione, sono valutate dalla stazione appaltante soltanto se esse risultino superiori al cinque per cento rispetto al prezzo rilevato nell'anno di presentazione dell'offerta, anche tenendo conto di quanto previsto dal decreto del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. In tal caso si procede a compensazione, in aumento o in diminuzione, per la percentuale eccedente il cinque per cento e comunque in misura pari all'ottanta per cento di detta eccedenza, nel limite delle risorse disponibili. E' stato inoltre precisato, nella medesima sede, che sono esclusi dalla compensazione i lavori contabilizzati nell’anno solare di presentazione dell’offerta.
Quest'ultimo punto delle norme ora in commento riproduce l'impostazione giurisprudenziale, cui aderisce anche la sentenza che ha dato spunto al presente commento, per la quale “la revisione dei prezzi in tanto è concepibile in quanto si riferisca alle annualità di contratto successive alla prima”17 ovvero, in altri termini, si riprende il concetto per cui “l'aggiornamento del corrispettivo contrattuale...non riguarda, per sua stessa natura, il primo anno di riferimento della prestazione, ma comprende necessariamente il corrispettivo riferibile a tutte le annualità contrattuali successive al primo anno”18.
4. Conclusioni: riconoscimento legale della revisione prezzi e residua discrezionalità della stazione appaltante.
In definitiva, per i noti motivi legati al contesto globale post-pandemico e alla situazione di tensione geopolitica internazionale in atto, l'istituto della revisione prezzi è tornato a rivestire un aspetto di grande attualità nel panorama della disciplina in tema di contratti pubblici, in concomitanza con l'acuirsi della tendenza inflattiva relativa soprattutto, ma non solo, al cospicuo aumento del costo delle materie prime19.
Entro tale cornice, si inseriscono i recenti interventi legislativi che hanno riguardato, in primo luogo, i contratti (aventi ad oggetto lavori pubblici) in corso, rispetto ai quali si è operata una sorta di riconoscimento legale della spettanza in capo all'operatore della revisione prezzi, sia pure entro certi limiti, attraverso una procedura predeterminata e con riferimento a rilevazioni effettuate dal Ministero competente o dalle regioni. In questi casi, pertanto, sembre essere stato introdotto un vero e proprio diritto, più che un mero intersse legittimo, dell'appaltatore alla revisione del prezzo riferito ai materiali oggetto della ricognizione ministeriale.
In altri termini, nelle situazioni rientranti nelle casistiche individuate dalla normativa vigente, la compensazione in aumento a favore degli appaltatori (così come, in astratto, anche quella in dimunizione) viene effettuata, secondo la procedura prevista, in deroga al Codice dei contratti pubblici che, come visto, ammette la possibilità di revisione solo se espressamente contemplata negli atti di gara, nonchè indipendentemente dalla formulazione di questi ultimi, ovvero anche se essi, per ipotesi, dovessero contenere, al contrario, clausole di esclusione della revisione prezzi (pienamente legittime in base alla disciplina “ordinaria” del Codice vigente). Inoltre, il riconoscimento della compensazione, nelle ipotesi ora in considerazione, sembra prescindere dall'onere in capo all'appaltatore interessato di fornire prova del carattere eccezionale dell'aumento e della sua consistenza: ciò proprio in quanto è lo stesso Ministero, o la regione, ad avere accertato d'ufficio la sussistenza di tali circostanze.
Sempre per quanto riguarda gli appalti di lavori in corso alla data di entrata in vigore della l. 23 luglio 2021, n. 106, paiono rimanere nell'alveo della discrezionalità della stazione appaltante le eventuali richieste di compensazione formulate dagli operatori che riguardino materiali non ricompresi nella ricognizione “istituzionale”. In tali ipotesi, la posizione giuridica soggettiva dell'appaltatore sembra tornare ad essere riconducibile all'interesse legittimo a che la stazione appaltante svolga un'adeguata istruttoria in relazione alla prova, di cui è onerato l'operatore stesso, circa l'entità della variazione di costo rispetto a quanto esposto nella propria offerta e la sua eccezionalità nel senso della imprevedibilità.
Per ciò che attiene, invece, alle procedure pubblicate dopo l'entrata in vigore del d.l. 27 gennaio 2022, n. 4, il legislatore ha, più semplicemente, ripristinato, in via temporanea fino al 31 dicembre 2023, l'obbligo di inserimento negli atti di gara di clausole di revisione del prezzo, lasciando così alla stazione appaltante la discrezionalità di “modellare” l'effettivo contenuto di siffatte previsioni, almeno nel caso di servizi e forniture, pur delineando in maniera più precisa la fisionomia del meccanismo di revisione per quanto riguarda i lavori, i quali, come illustrato, sono oggetto anche dell'ulteriore e più recente disciplina di cui al d.l. 17 maggio 2022, n. 50.
In ogni caso, laddove resti demandato alla stazione appaltante definire il contenuto delle clausole di revisione dei prezzi, appare comunque doveroso, in ossequio alla illustrata giurisprudenza che si è espressa in tema, esigere dall'operatore che richiede la revisione la prova “rigorosa” circa la sussistenza di circostanze “imprevedibili” che abbiano determinato aumenti nei costi.
Il tutto fermo restando, secondo quanto di recente puntualizzato dalla sentenza oggetto precipuo del presente commento, il ricorso ai rimedi civilistici, perlomeno a quello di cui all'art. 1467 c.c., il quale, come già rilevato, si riferisce ai casi, straordinari e imprevedibili, di squilibrio complessivo del sinallagma contrattuale, e non all'aumento di singole voci di costo.
Maggiormente problematica, invero, appare la possibilità di invocare, nell'ambito di un contratto pubblico, il disposto di cui all'art. 1664 c.c., e ciò in quanto tale eventualità sembrerebbe in grado di vanificare l'eventuale intento di una stazione appaltante, riconosciuto come legittimo secondo il disposto del vigente Codice dei contratti pubblici e fatta salva la disciplina eccezionale poc'anzi illustrata, di escludere la revisione prezzi, in modo da tenere fermo il quadro economico-finanziario originariamente previsto20. In altre parole, nel momento in cui gli atti di gara contengano una clausola di esclusione della revisione del prezzo, risulterebbe singolare, al di fuori del periodo eccezionale ora in corso, ritenere che essa possa essere comunque essere invocabile nell'ambito di un contratto pubblico per effetto della disciplina civilistica.
1 In tema, tra i tanti, si v. D. Rubino, G. Iudica, Dell'appalto, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Libro quarto, Bologna-Roma, 1992, 229 ss.
2 In tema, per ulteriori approfondimenti, cfr. M. Zoppolato, A. Comparoni, Revisione dei prezzi, in Aa.Vv., Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, t. IV, Milano, 2019, 67 ss., ivi ulteriori riferimenti.
3 Cons. St., sez. V, 16 giugno 2020, n. 3874, in www.giustizia-amministrativa.it. Nello stesso senso, tra le altre, Cons. St., sez. III, 20 agosto 2018, n. 4985, ivi; Cons. St., sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337, ivi; Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2295, ivi; Cons. St., sez. III, 4 marzo 2015, n. 1074, in Foro amm., 2015, 701; Cons. St., sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994, in Foro amm.CdS, 2008, 2097; Cons. St., sez. III, 19 luglio 2011, n. 4362, ivi, 2011, 2366; Cons. St., sez. V, 14 maggio 2010, n. 3019, ivi, 2010, 1045. Di recente, nei termini illustrati, si v. T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 4 novembre 2021, n. 11309, in Foro amm., 2021, 1777; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 7 luglio 2021, n. 211, ivi, 1178.
4 Così, Cons. St., sez. III, 6 agosto 2018, n. 4827, in www.giustizia-amministrativa.it. Nel medesimo senso anche Cons. St., sez. III, 19 giugno 2018, n. 3768, in Foro amm., 2018, 965; Cons. St., sez. III, 9 gennaio 2017, n. 25, ivi, 2017, 20. Di recente, sul punto, cfr. T.A.R. Lazio Roma, sez. III-quater, 15 febbraio 2022, n. 1818, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 14 gennaio 2022, n. 63, ivi; T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 15 luglio 2021, n. 4902, in Foro amm., 2021, 1206.
5 Cass. civ., sez. I, 3 ottobre 2018, n. 24096, in Foro amm., 2019, 778.
6 Così, di recente, Cass. civ., Sez. un., 8 febbraio 2022, n. 3935, in Guida al diritto, 2022, 8. In tema, sempre di recente, si v. anche Cass. civ., Sez. un., 22 novembre 2021, n. 35952, in Giust. Civ. Mass.
7 T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 18 febbraio 2021, n. 435, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso conforme anche Id., sez. IV, 26 gennaio 2022, n. 178, ivi; sul punto si v. anche T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 3 luglio 2020, n. 504, in Foro amm., 2020, 1482, in cui si è puntualizzato ulteriormente che se il meccanismo in questione “deve prevedere la correzione dell'importo previsto ab origine in esito al confronto comparativo — per prevenire il pericolo di un'indebita compromissione del sinallagma contrattale — il riequilibrio non si risolve in un automatismo perfettamente ancorato ad ogni variazione dei valori delle materie prime (o dei quantitativi), che ne snaturerebbe la ratiotrasformandolo in una clausola di indicizzazione. In sostanza, è onere dell'appaltatore fornire la prova che nel corso del rapporto contrattuale i prezzi delle materie prime sia aumentato, a causa di circostanze eccezionali e imprevedibili, in misura tale da erodere in modo significativo l'utile di impresa derivante dalla commessa, compromettendo la capacità dell'imprenditore di far fronte compiutamente alle prestazioni oggetto dell'appalto”. Sul punto si v. anche Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2016, n. 10165, in Guida al diritto, 2016, 40, 59, la quale ha sottolineato che “Anche in tema di appalti pubblici il contratto di appalto comporta che l'appaltatore assume il compimento di un'opera con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione proprie e a proprio rischio”.
8 Così, Cons. St., sez. III, 25 marzo 2019, n. 1980, in www.giustizia-amministrativa.it.
9 Il riferimento è da intendersi all'art. 213, comma 3, lett. h-bis), dei vigente Codice dei contratti pubblici, il quale affida ad ANAC, al fine di favorire l’economicità dei contratti pubblici e la trasparenza delle condizioni di acquisto, il compito di elaborare apposite linee guida, fatte salve le normative di settore, inerenti l'elaborazione dei costi standard dei lavori e dei prezzi di riferimento di beni e servizi, avvalendosi a tal fine, sulla base di apposite convenzioni, del supporto dell'ISTAT e degli altri enti del Sistema statistico nazionale, alle condizioni di maggiore efficienza, tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica amministrazione, avvalendosi eventualmente anche delle informazioni contenute nelle banche dati esistenti presso altre Amministrazioni pubbliche e altri soggetti operanti nel settore dei contratti pubblici.
10 L'art. 106 in commento del Codice fa, poi, salva l'applicazione della norma di cui all'art. 1, comma 511, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, la quale si riferisce ai contratti pubblici relativi a servizi e forniture ad esecuzione continuata o periodica stipulati da un soggetto aggregatore nei quali sia stata inserita una clausola di revisione e adeguamento dei prezzi collegata o indicizzata al valore di beni indifferenziati. In tale fattispecie, è previsto che nel caso in cui si sia verificata una variazione nel valore dei predetti beni che abbia determinato un aumento o una diminuzione del prezzo complessivo in misura non inferiore al dieci per cento e tale da alterare significativamente l'originario equilibrio contrattuale, come accertato dall'autorità indipendente preposta alla regolazione del settore relativo allo specifico contratto ovvero, in mancanza, dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, l'appaltatore o il soggetto aggregatore hanno facoltà di richiedere una riconduzione ad equità o una revisione del prezzo medesimo. In caso di raggiungimento dell'accordo, i soggetti contraenti possono, nei trenta giorni successivi a tale accordo, esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 1373 c.c. Nel caso, invece, di mancato raggiungimento dell'accordo le parti possono consensualmente risolvere il contratto senza che sia dovuto alcun indennizzo come conseguenza della risoluzione del contratto, fermo restando quanto previsto dall'art. 1467 c.c. Le parti, inoltre, sempre secondo la specifica normativa ora in commento, possono chiedere all'autorità che provvede all'accertamento di cui al presente comma di fornire, entro trenta giorni dalla richiesta, le indicazioni utili per il ripristino dell'equilibrio contrattuale ovvero, in caso di mancato accordo, per la definizione di modalità attuative della risoluzione contrattuale finalizzate a evitare disservizi.
11 In tal senso, Cons. St., sez. III, 19 giugno 2018, n. 3768, in www.giustizia-amministrativa.it.
12 M. Zoppolato, A. Comparoni, op. cit., 97.
13 Corte di giustizia Ue, sez. IX, 19 aprile 2018, in C-152/17, in Foro amm., 2018, 544, resa con riferimento ai settori speciali ma il cui enunciato di principio appare valido anche nei settori ordinari. In senso conforme, di recente, si v. anche Cons. St., sez. IV, 4 aprile 2022, n. 2446, in Guida al diritto, 2022, 15.
14 M. Zoppolato, A. Comparoni, op. cit., 94. Sulla applicabilità dell'art. 1664 c.c. ai contratti di appalto pubblici si v. Cass. civ., sez. I, 6 marzo 2018, n. 5267, in Giust. Civ. Mass., 2018; Corte d'Appello L'Aquila, 3 novembre 2020, n. 1480, in www.dejure.it.
15 Secondo la giurisprudenza l'eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto può essere invocata, ai sensi dell'art. 1467 c.c., quando l'originario assetto di interessi sotteso al contratto abbia subito un'alterazione tale da rendere eccessivamente gravosi gli obblighi gravanti su uno dei due contraenti per effetto di fattori eccezionali e imprevedibili di natura oggettiva che le parti non hanno avuto la possibilità di ponderare al momento dell'instaurazione del rapporto: così, di recente, Trib. Firenze, sez. II, 13 agosto 2021, n. 1737, in Guida al diritto, 2022, 2; sempre nella medesima prospettiva, ribadendo la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale, si è precisato che “il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l'intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza”: così Corte d'Appello Roma, sez. II, 29 maggio 2020, n. 2565, in www.dejure.it.
16 La rilevazione dei prezzi riguardante il primo semestre del 2021 è avvenuta con decreto MIMS del 11 novembre 2021, mentre quella relativa al secondo semestre 2021 è intervenuta con decreto MIMS del 5 aprile 2022.
17 Cons. St., sez. II, 17 marzo 2021, n. 2298, in Foro amm., 2021, 474.
18 Così, T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 19 agosto 2019, n. 4362, in Foro amm., 2019, 1349; nello stesso senso, si v. anche T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 25 settembre 2017, n. 1518, ivi, 2017, 1932, nonché Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2016, n. 11577, in Giust. Civ. Mass., 2016.
19 Il Presidente di Anac così si è espresso nel comunicato del 22 febbraio 2022: “In questo momento...bisogna avere clausole di adeguamento dei prezzi che tengano conto dei costi reali, indicizzando i valori inseriti nel bando di gara. Altrimenti rischiamo di vanificare lo sforzo del Pnrr, perché le gare di appalto andranno deserte, o favoriranno i “furbetti” che punteranno subito dopo l’aggiudicazione a varianti per l’aumento dei prezzi. Molto meglio stabilire dei meccanismi trasparenti e sicuri di indicizzazione, così da favorire un’autentica libera concorrenza e apertura al mercato plurale, e serietà in chi si aggiudica l’appalto”.
20 In senso favorevole all'applicabilità dell'art. 1664 c.c. ai contratti di appalto pubblici si v. la giurisprudenza citata alla nota n. 14 mentre nel senso della specialità della disciplina sui contratti pubblici rispetto a quella civilistica, con conseguente prevalenza della prima, cfr. Cons. St., sez. V, 21 luglio 2015, n. 3594, in www.giustizia-amministrativa.it.
Presiedo una sezione e risolvo problemi
Intervista di Antonella Marrone ad Alessandra Salvadori
La realtà di un semidirettivo di tribunale, tra ricerca di soluzioni per il lavoro quotidiano dei colleghi, attenzione per il loro benessere organizzativo e generale ossessione per le valutazioni di professionalità. Antonella Marrone, giudice di tribunale, intervista Alessandra Salvadori, presidente a Torino.
1. Quale è stata l’istanza più profonda che ti ha spinta ad aspirare ad un ruolo semidirettivo?
Ho presentato domanda per un posto di presidente di sezione presso il tribunale ove lavoravo perché desideravo applicare alcuni accorgimenti organizzativi utili a migliorare il modo di svolgere i nostri compiti.
Quando, circa trent’anni fa, ho preso possesso nella mia prima sede ho subito notato che i miei colleghi, molti dei quali erano davvero preparati e bravissimi sotto il profilo giuridico, prestavano scarsissima attenzione agli aspetti organizzativi del nostro lavoro. Fin da subito ho cercato di introdurre qualche piccola modifica migliorativa. Ad esempio, ho proposto e, con il tempo, ho ottenuto un minimo di ripartizione tra noi di alcune delle materie più specialistiche (appello lavoro, sezione agraria, riesame e prevenzione). Un’altra questione che mi stava molto a cuore era riuscire ad evitare di fissare tutti i fascicoli davanti al collegio penale alla stessa ora o, almeno, evitare di citare tutti i testimoni della giornata alle ore 9 e seguenti. Sono andata via da quel tribunale dopo quattro anni e mezzo senza essere riuscita a modificare quella prassi consolidata che costringeva tante parti e testimoni a lunghe e spesso infruttuose attese.
Credo che tutto abbia avuto origine da lì. Non appena ho potuto fissare in autonomia le mie cause ho cercato di fare grande attenzione agli orari e a molti altri aspetti di pianificazione. Ho, tra l’altro, sperimentato come la gestione in sequenza delle cause del mio ruolo monocratico fosse uno strumento utilissimo per ridurre i tempi mantenendo inalterata la qualità delle decisioni. Aspiravo al ruolo semidirettivo perché particolarmente interessata a poter incidere concretamente sulle modalità di attuazione del servizio, avendo la possibilità di mettere in pratica su ampia scala qualche cambiamento proficuo.
2. Quando hai fatto domanda per un posto da semidirettivo quale ruolo ha svolto la auto-valutazione circa la tua capacità di gestione dei rapporti con e tra le persone?
Prima di presentare la domanda da semidirettivo ho attentamente riflettuto sulle mie caratteristiche, cercando di comprendere se fossero tali da rendermi davvero idonea a svolgere quel ruolo per il quale stavo per propormi.
La mia auto-valutazione circa la capacità di gestire i rapporti con e tra le persone ha avuto un ruolo decisivo. Sono convinta che essa rappresenti un requisito fondamentale per chiunque sia chiamato a coordinare un qualsiasi gruppo di lavoro. In base alla mia ormai lunga esperienza personale, il buon andamento di una sezione è legato al clima emotivo e ai rapporti interpersonali molto più di quanto si sia portati a credere: è di gran lunga preferibile un presidente un po’ meno organizzato, che però mantiene una situazione armoniosa tra i colleghi, rispetto a qualcuno che sia preparatissimo ed efficientissimo, ma che non riesca a risolvere le tensioni o, addirittura, finisca per crearle.
3. Tra tanti adempimenti di tipo organizzativo-formale un semidirettivo ha modo di occuparsi e preoccuparsi di ogni suo singolo Giudice e del suo benessere all’interno della sezione?
Il ruolo del semidirettivo, diversamente da quello del direttivo, è strettamente legato ai non molti colleghi della sezione. Egli deve occuparsi del benessere di ogni magistrato della sezione ed è, a mio parere, tenuto a trovare il tempo per farlo. Ovviamente, non vi è la necessità di un monitoraggio capillare e continuo. Tuttavia, è indispensabile prestare la massima attenzione anche ai minimi segnali di disagio e difficoltà. A volte basta poco. In qualche occasione, prima ancora di procedere a riequilibrare i ruoli proponendo variazioni tabellari, è sufficiente occuparsi di redigere in prima persona qualche provvedimento o sentenza in più del proprio collegio od offrirsi per qualche turno particolarmente scomodo, altre volte basta semplicemente dare ascolto. Non so dire se io sia riuscita a garantire il benessere di ciascuno dei giudici delle sezioni con cui ho lavorato. Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Certamente io posso assicurare di averci sempre provato.
Aggiungo, in linea generale, che questa attenzione al singolo oggi è possibile e doverosa proprio perché il numero dei semidirettivi è adeguato e ciascuno deve confrontarsi con pochi magistrati. Non credo che sarà ancora così laddove si proceda a ridurlo.
4. Quanto conta la produttività dei Giudici in termini numerici dal tuo punto di vista?
Come magistrati prestiamo un servizio. Quanto riusciamo a fare è certamente molto importante. Una decisione che arriva dopo troppo tempo è sempre almeno in parte insoddisfacente. Tuttavia, io credo che in questi ultimi anni sia maturato tra noi uno strisciante malinteso senso di efficienza che ci ha portato a dare troppo risalto ai numeri.
A fronte di una imponente domanda di giustizia, non accompagnata da adeguati incrementi delle risorse, noi magistrati siamo stati colpiti dalla sindrome dell’addetto allo sportello. Cerco di esemplificare cosa intendo: in un supermercato o in ufficio postale i vertici stabiliscono il numero degli addetti e i loro turni e ciò consente di tenere aperto un solo sportello, si forma la coda, la gente attende per ore e si lamenta del disservizio, la “colpa” agli occhi degli utenti è dell’unico addetto che sol per questo viene tacciato di essere troppo lento. Nel caso dei magistrati, il Ministro della Giustizia non manda risorse adeguate, il legislatore continua a fare riforme a costo zero, i processi durano troppo e la “colpa” ricade sul giudice che fissa udienze lontane.
Tutti noi siamo stati messi sotto pressione da questa situazione e abbiamo cercato di uscirne aumentando la produttività. Lo abbiamo fatto, doverosamente, cercando di recuperare efficienza attraverso accorgimenti organizzativi, ma il margine di miglioramento non è enorme e, dunque, gli sforzi restano insufficienti. Tuttavia, fino a quando il magistrato crea arretrato potrà sempre essere giustificato dalla impossibilità oggettiva di far fronte a un carico eccessivo, quando – come purtroppo sta accadendo da anni - si adegua alle pressioni di “fare in fretta” e lavora non soltanto in modo maggiormente efficiente, ma anche trascurando la qualità, diventa indifendibile. Soltanto la qualità può garantire ai magistrati la loro legittimazione a poter decidere sulla vita degli altri. Una sentenza può non essere scritta in modo perfetto dal punto di vista linguistico e non deve essere un dotto trattato, ma deve essere frutto di una decisione pienamente ponderata e deve fondarsi su corrette ragioni di fatto e di diritto; l’istruttoria non dovrebbe essere ipertrofica, ma nemmeno può essere sommaria. Insomma, dobbiamo trovare un punto di equilibrio che consenta di coniugare qualità e quantità.
In sintesi, ritengo che i numeri siano importanti, ma che ad essi non si possa sacrificare tutto il resto.
Aggiungo che il ruolo del semidirettivo e del direttivo a mio parere è anche quello di assumersi la responsabilità e il carico emotivo – che spesso è la ragione principale del disagio dei colleghi – di gestire l’arretrato.
5. È compatibile tutta la laboriosa attività organizzativa che ti è richiesta con l’ordinario esercizio della giurisdizione?
Un semidirettivo ha di regola la possibilità di svolgere sia l’attività giurisdizionale sia le attività organizzative che di volta in volta gli vengono richieste.
Ogni sezione ha però peculiarità diverse. Ci sono sezioni, mi limito a parlare del settore penale, che conosco, per le quali lo sforzo organizzativo è minimo (mi riferisco al riesame e alla Corte d’Assise) e altre sezioni in cui è maggiore, ma sempre ampiamente compensato da un esonero parziale. Ci sono, poi, congiunture in cui è particolarmente difficile riuscire a conciliare i due aspetti. In questi anni – sono presidente di sezione dal febbraio 2016 – ho affrontato situazioni molto diverse tra loro. L’avvio di una sezione nuova, che è partita in via sperimentale previo esame, profilazione e catalogazione di circa 8000 fascicoli di citazione diretta, che costituivano l’arretrato accumulato fino a quel momento, è stato un lavoro molto impegnativo reso possibile solo perché ci siamo dedicati in due (l’altro presidente di sezione è un collega eccezionale) e perché per almeno un paio di mesi abbiamo ridotto notevolmente l’attività giurisdizionale e aumentato il tempo di lavoro a livelli non sostenibili a lungo.
Ho poi riorganizzato la sezione misure di prevenzione, nel momento in cui si sono succeduti intervenuti legislativi e innovazioni giurisprudenziali di grande rilevanza, riuscendo comunque a svolgere il lavoro giurisdizionale a pieno ritmo.
Segnalo che, per la mia esperienza, lo svolgimento dell’attività giurisdizionale da parte di un semidirettivo è fondamentale perché gli consente di non scollarsi dalla realtà dei colleghi con cui lavora e di comprendere in concreto le dinamiche di quei particolari servizi che è chiamato a coordinare. Sarei quindi assolutamente contraria ad esoneri totali o maggiori al già previsto limite del 50%.
6. Cosa pensi dell’attuale sistema di valutazione dei giudici? Lo ritieni idoneo a far emergere ciò che a tuo parere davvero è fondamentale per la valutazione di professionalità di un magistrato oppure andrebbe modificato? In tal caso, cosa andrebbe modificato?
Questa domanda la trovo difficilissima. Ritengo che l’altra ossessione che – insieme a quella per i numeri – ha accompagnato questi ultimi decenni è stata cercare di effettuare valutazioni sempre più precise e approfondite dei magistrati.
Comprendo la posizione degli esterni. Noi magistrati appariamo e veniamo raccontati come una categoria di privilegiati che non ha orari o altri vincoli e che spesso esercita senza impegno e in modo arbitrario i suoi enormi poteri. È normale che si pensi che attraverso controlli, pagelle, esami e dando risalto al merito per l’attribuzione di incarichi si possano ricondurre i magistrati entro binari di maggiore adeguatezza, inducendoli a lavorare tanto e bene. Tuttavia, la situazione è molto più complessa. Non possiamo dimenticare che il sistema precedente all’ultima riforma ordinamentale, che poteva a prima vista sembrare il trionfo delle spinte corporative interessate a sbarazzarsi di ogni controllo e della meritocrazia, era strumentale a realizzare una magistratura orizzontale ed egualitaria, conforme al precetto costituzionale secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni. Dietro ogni meccanismo di merito e selezione, purtroppo, si cela l’idea che esistano magistrati superiori e magistrati inferiori. Ecco che, più che favorire una crescita di qualificazione professionale e culturale dell’intera categoria, il sistema meritocratico ha contribuito a far riemerge l’idea pericolosissima di “carriera”.
Inoltre, mi sembra che nonostante i defatiganti tentativi di effettuare ricorrenti e penetranti valutazioni non si riesca a far emergere i tratti davvero essenziali.
La soluzione non è per nulla agevole: non si può ovviamente rinunciare a qualsiasi controllo e valutazione, ma continuare secondo la via intrapresa (addirittura si parla di pagelle con valutazioni scolastiche) non potrà che acuire gli effetti collaterali, nettamente superiori a quelli positivi, già verificatisi.
Forse un sistema semplificato di valutazione periodica che si limiti a richiedere di indicare esclusivamente se vi siano vere criticità potrebbe essere più proficuo dal punto di vista del messaggio culturale sotteso, oltre che maggiormente snello ed efficace.
7. Ora che svolgi un ruolo da semidirettivo, mi consiglieresti di tentare di fare altrettanto? E perché?
Se ti piace organizzare, cercare soluzioni, farti carico dei problemi altrui e se ti senti pronta a relazionarti con gli altri, te lo consiglio vivamente. Ritengo la mia esperienza di presidente di sezione complessivamente molto arricchente e stimolante e penso che potrebbe esserlo anche per te. Devo avvisarti però che anche se il ruolo semidirettivo è fonte di grandi stimoli e soddisfazioni, se svolto con coscienza comporta anche tanto impegno e tanti problemi. A volte, quando devo solo scrivere sentenze, mi sento così rilassata e libera.
Per questo non so ancora se vorrò ripetere la mia esperienza alla scadenza degli otto anni e se presenterò una nuova domanda da semidirettivo. Dipenderà dal contesto in cui potrei operare e, soprattutto, dall’energia e dall’entusiasmo che sentirò di avere ancora tra un paio d’anni.
C. cost. n. 111 e l’incostituzionalità dell’art. 344 bis c.p.p.* di Giorgio Spangher
Con la recente sentenza n. 111 la Corte costituzionale ha dischiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 568, c. 4, c.p.p., per violazione degli artt. 24, c. 2, e 111, c. 2, Cost., in quanto interpretato nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse ad impugnare, il ricorso per cassazione proposto avverso sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
Con questa decisione i giudici costituzionali hanno evidenziato l’illegittimità della sentenza delle Sezioni unite con la quale si era dichiarato che nell’ipotesi di sentenza predibattimentale d’appello, pronunciata in violazione del contraddittorio, con la quale, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, c. 2, c.p.p.
Com’è noto, la sentenza era stata oggetto di una “spezzatura” all’interno del Collegio riunito che, infatti, aveva visto la sostituzione del relatore originario.
L’impostazione non era stata condivisa dalla prima sezione della Cassazione che – ai sensi dell’art. 618, c. 1 bis, c.p.p., aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite.
Il presidente del Collegio riunito, ritenendo di confermare l’assunto della sentenza, aveva restituito gli atti alla prima sezione che ha sollevato l’incidente di costituzionalità ora accolto dalla Corte costituzionale.
L’impostazione fatta propria dalle Sezioni Unite muoveva dalla premessa che a fronte di una nullità assoluta, connessa a difetto di contraddittorio, in relazione alla mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p., l’invalidità e la regressione del processo soccombono di fronte all’ipotesi di estinzione del reato, in relazione al valore costituzionale della durata ragionevole del processo.
Anche a prescindere dalla rinuncia alla prescrizione, il rinvio per un nuovo giudizio dovrebbe escludersi in presenza dei necessari accertamenti di fatto finalizzati al riconoscimento dell’operatività dell’art. 129 c.p.p. mentre in presenza di una evidente prova di innocenza questa sarebbe applicabile dalla stessa Cassazione.
Diverso si è configurato dapprima l’approccio della sezione prima della Cassazione e poi della Corte costituzionale.
Invero, per il Supremo Collegio, la sentenza predibattimentale di cui all’art. 649 c.p.p. non può essere emessa nel giudizio d’appello, rendendosi necessaria la pienezza della giurisdizione ed il conseguente contraddittorio tra le parti, avviato dall’atto d’appello da loro proposto. La questione prospetta questioni, qui non affrontate in caso di appello del p.m. nei confronti di una sentenza di proscioglimento.
Mentre con la sentenza delle Sezioni Unite questa valuta la necessità dell’annullamento o meno, alla luce dei suoi poteri, prescindendo dalla mancanza del contraddittorio in fase di atti preliminari il giudizio d’appello (e conseguentemente anche in limine al giudizio di secondo grado) ove il collegio non si sia pronunciato in fase preliminare stante l’inoperatività dell’art. 469 c.p.p., la prima sezione e la Corte ritengono necessario che in ordina all’operatività dell’art. 129 c.p.p. sia necessario comunque il contraddittorio.
Punto centrale delle riflessioni è il rapporto tra durata ragionevole del processo (e sottostante economia processuale) e diritto al processo giusto da parte dell’imputato, evidenziato anche dal fatto che alla difesa sarebbe sottratto un grado di giudizio.
Non possono non essere riprodotti alcuni passaggi della motivazione di C. Cost. n. 111.
La nozione di “ragionevole” durata del processo (in particolare penale) è sempre il frutto di un bilanciamento delicato tra i molteplici – e tra loro confliggenti – interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo, in maniera da coniugare l’obiettivo di raggiungere il suo scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo.
Il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale delineato proprio dall’art. 111 Cost.
Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata. In realtà, non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24, c. 2, Cost.: diritti garantiti da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto espansivo dell’art. 6 Cedu e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
I principi dettati sia dall’art. 111, c. 2, Cost., sia dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848, delineano, così, la ragionevole durata come canone oggettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia e come diritto delle parti, comunque correlati ad un processo che si svolge in contraddittorio davanti ad un giudice imparziale.
Verosimilmente, non potendo operare anche nel contraddittorio l’art. 461 c.p.p. sarà necessario aprire il dibattimento e verificare la situazione di operatività o meno dell’art. 129 cpv. c.p.p..
Queste affermazioni devono ora confrontarsi con le implicazioni della declaratoria di improcedibilità del giudizio di impugnazione con quello d’appello in particolare, anche alla luce del mancato richiamo della declaratoria di cui all’art. 344 bis c.p.p. nell’art. 129, primo e secondo comma, c.p.p.
E’ opinione diffusa che la declaratoria di improcedibilità sia emessa de plano dal giudice per effetto del decorso infruttuoso Invero, si ritiene che la stessa impedisca ogni decisione di segno diverso sotto vari profili, esclusa forse solo la confisca obbligatoria.
Sono note le questioni connesse al riconoscimento o meno di una causa di inammissibilità e gli effetti a fini civilistici Ora è indubitabile che la decisione della Corte costituzionale apre scenari nuovi rispetto a queste questioni, soprattutto in relazione all’operatività dell’art. 129 c.p.p., suscettibili di superare le riferite conclusioni, rendendosi tuttavia necessaria la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale non potendo la questione essere risolta solo per via interpretativa, rendendosi necessari molti “passaggi” argomentativi.
Sembrerebbe che con la delega il legislatore voglia farsi carico di alcune di queste questioni, soprattutto quella relativa al cpv. dell’art. 129 c.p.p. riconoscendone l’operatività.
Tuttavia, è chiaro che una simile previsione aprirebbe il vaso di Pandora delle ricadute, degli effetti, delle implicazioni dell’art. 344 bis c.p.p. già prospettate per gli altri profili di questioni di costituzionalità.
* in tema L'art. 344 bis c.p.p.: questioni di incostituzionalità e criticità applicative di G. Spangher
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