Il colibrì
Recensione di Dino Petralia
Nel ritmo sincopato di un’alternanza di tempi e di età diverse dei personaggi, il film si sforza di riportare ad unità il racconto, quasi ad imitare il potente battito d’ali del colibrì capace di fermare il volo in un frammento statico di riflessione e contemplazione. Un frammento però, o al più una somma di frammenti che riconduce il volo - e il film - ad un’addizione che ne sottrae l’enfasi narrativa e ne allontana la meta, costringendo lo spettatore ad un’attenzione ricostruttiva non sempre agevole.
Marco Carrera, professionista affermato e borghese benestante, esporta in un’evasione sentimentale verso una deliziosa adolescente, figlia di una coppia di francesi vicini di casa, la dolorosa crudezza di un retroterra familiare d’origine, diviso e divisivo, traducendola nel tempo, da adulti e pur lontani, in assoluta ragione di vita, unione catartica non per superare ma per convivere con le dolenti fragilità della moglie Marina, resa isterica dall’indifferenza coniugale del marito, colpevole a suo dire di avere fin troppo creduto alla (inesistente) fedeltà della moglie; un’indifferenza neppure scalfita dai contemporanei drammi di casa, il confessato - e provocatoriamente reattivo - tradimento di lei e un probabile disturbo di crescita della figlia Adele.
Protagonista assoluta del film è dunque la placida quietezza di Marco (un formidabile Pierfrancesco Favino), transitata indenne anche ad un pericoloso scambio di persona con un terrorista al passaggio della frontiera francese, che non è flemma né apatia ma inconsapevole ingenuità del mondo, innocenza difensiva allenata nel singhiozzo esistenziale di un destino spesso avverso - da bambino e da ragazzo l’urlata reciproca incomprensione dei genitori, il suicidio della sorella, gli eterni dissapori con il fratello Giacomo, infine da adulto la morte dell’unica figlia - e che per paradosso lo favorisce nell’amicizia solo da lui affettuosamente offerta ad un coetaneo iettatore (l’Innominabile) che da giovane gli fa scansare morte sicura per la caduta dell’aereo sul quale avrebbe dovuto viaggiare, conducendolo poi da adulto ad una ricca vincita al poker.
Una sottomissione agli eventi, quella di Marco, capace tuttavia di generare una vibrazione vitalizzante grazie ad un eccentrico e generoso psicoanalista - un sempre credibile Nanni Moretti - che vien fatto irrompere “a freddo” nella sua vita col proposito di addestrarlo alla verità dei fatti e ai loro rischi. Un ravvedimento silenzioso sublimato poi nella scelta finale di Marco, ormai irrimediabilmente malato, di chiudere tutto in un’eutanasia di vita e d’indifferenza alla vita.
Dalle pagine del libro omonimo di Sandro Veronesi al film - come sempre accade, due opere distinte e autonome - transita ancora, delicatamente accennato e con tramite narrativo diverso, il tema del rapporto padre-figlia: il cordone materno trasfigurato nel filo immaginario che la piccola Adele avverte dietro di se e che adesso la lega al padre diverrà un beffardo antagonista che ne chiuderà per sempre la giovane esistenza precipitando la ragazza dalle montagne appesa al filo di caduta dei rocciatori.
E nel silenzio della morte che tutto chiude e tutti accomuna, nell’eco delle note avvolgenti di I’ll be seeing you di Billie Holiday e del ritmo rockeggiante di London calling (the Clash), un poetico finale fa dominare a schermo oscuro quel candido fischiettare che papà Marco aveva insegnato alla piccola Adele per scacciare i fantasmi del buio.
Fanno da sfondo al film, nel consueto stile di una regia da sempre attenta ai riflessi sociali dell’opulente banalità del vivere borghese, alcuni passaggi scenici - case, ville, auto e feste - appositamente innestati per marcarne l’intima debolezza esistenziale.