Con l’augurio di Buon Natale a tutte le lettrici e a tutti i lettori.
“Pietro. Un uomo nel vento” di Roberto Benigni. Recensione
Dalla cornice unica dei Giardini Vaticani, nel cuore del luogo che custodisce le spoglie dell’apostolo, in chiusura dell’anno Giubilare, abbiamo assistito sulla RAI al monologo di Roberto Benigni dedicato alla figura di Pietro. Ma a volere ben vedere, dopo aver ascoltato l’attore per più di due ore che scorrono in un battere di ciglia, quello di Benigni non ci appare un monologo come tutti gli altri ai quali ci aveva abituato, non è un esercizio di brillante narratività, non un saggio della sua abilità istrionica: è il semplice racconto di qualcosa di accaduto, di un avvenimento raccontato con semplicità senza aggiungere nulla se non lo stupore dell’attore nell’essersi imbattuto in esso quasi inavvertitamente.
Ed è precisamente questo essersi imbattuto, questo innamoramento, questo contagio generato dall’incontro, ad animare il racconto. Pietro ci appare nella sua umanità piena: colui che sbaglia, fraintende, reagisce d’impulso, si addormenta quando non dovrebbe, scappa quando avrebbe voluto restare. Ma è proprio attraverso questa umanità imperfetta che si comprende il paradosso decisivo: il primo degli apostoli non è scelto per la sua forza, bensì per la sua debolezza, come direbbe Chesterton. Lo ricorda il cardinale Mauro Gambetti, parlando di un uomo “così importante e così dimenticato, nel quale ciascuno può riconoscersi”. Come osserva anche Lucio Brunelli su Avvenire nel sottolineare “l’umanità di san Pietro, con le sue fragilità e i suoi grandi slanci, umanità tanto simile alla nostra, eppure straordinaria perché straordinario fu per lui l’incontro con Gesù”. Benigni non costruisce un’agiografia: scava nell’umano. Si sofferma sui momenti in cui Pietro rivela tutta la sua vulnerabilità, dal sonno nel Getsemani al triplice rinnegamento, passando per quel miscuglio di coraggio e timore che lo accompagna per tutta la vita. È in questi episodi che l’attore trova la chiave per parlare non solo di Pietro, ma dell’uomo contemporaneo: “A quell’epoca ti torturavano, ti crocifiggevano, io avrei fatto lo stesso”, confessa, spezzando la distanza tra la storia sacra e la nostra quotidiana paura di non essere all’altezza. Il punto di maggior intensità arriva però quando il racconto giunge al dialogo sul lago di Tiberiade, dopo la risurrezione, quando Gesù chiede a Pietro se lo ama. Benigni recita la scena con pudore e trepidazione, mettendo in parallelo questo scambio con certi affetti familiari muti, ma profondissimi nei quali l’amore non è proclamato. Non è la dichiarazione perfetta, ma la risposta imperfetta che tuttavia decide un destino. È un momento teatrale di rara delicatezza, che diventa il cuore dell’intero spettacolo. Ci sembra di essere anche noi lì con loro, poco dopo il tramonto, con i piedi nudi sulla sabbia umida della riva del lago, mentre ascoltiamo lo scoppiettio della legna che brucia e osserviamo il fuoco che, a bagliori, illumina i volti di quei due giovani che si guardano intensamente. Ci sembra di vedere gli occhi di Pietro palpitanti, increduli, lucidi di commozione, che fissano il loro sguardo su quell’uomo che è morto ed è risorto e nel quale è impossibile non riconoscere il significato di tutte le cose. Con che parole si può descrivere un attimo così? Lo ha scritto bene Andrea Monda sull’Osservatore Romano: lo spettacolo “racconta soprattutto l’inadeguatezza delle parole di fronte all’amore stesso, al punto che tutta la rappresentazione sembra tendere verso l’impossibile: dire ciò che non si può dire, restituire con parole umane quello sguardo che Gesù posa su Pietro sulle rive del lago di Tiberiade e, simbolicamente, su ognuno di noi”. Benigni ha il merito di provare a trovare le parole adatte. L’esito è quello di riuscire a suscitare la nostalgia di un momento così. Perchè si può essere cristiani solo perché quello sguardo, di sguardo in sguardo, è giunto fino a noi. Ascoltando l’attore nella narrazione di quegli attimi proprio questo accade: desiderare che un momento così ineffabile, indescrivibile, decisivo accada a ciascuno di noi come è accaduto a Pietro.
Il monologo si chiude con un’immagine di rara potenza: Pietro che, salendo al luogo del martirio, non è più travolto dal vento della paura, e dell’incoerenza, ma da quello dell’amore, lo stesso vento che lo aveva chiamato sulle rive della Galilea e che ora lo accompagna verso il suo compimento. Benigni immagina il suo ultimo pensiero come un sussurro che attraversa i secoli e i millenni: «Sì, Signore, ti amo». Il successo televisivo e il riconoscimento istituzionale confermano che non si è trattato soltanto di uno spettacolo, ma di un gesto culturale raro: capace di unire parola alta e popolare, spiritualità e teatro, poesia e umanità. Uno spettacolo che mostra, a credenti e non credenti, come si possa parlare di fede senza fideismo, di amore senza indulgere al sentimentalismo, di fragilità senza cedere al cinismo. E soprattutto ricorda, con dolce fermezza, quello che chiunque ha sperimentato almeno una volta nella vita: “le cose vere della vita non si insegnano e non si imparano: si incontrano”; come accadde agli ignari pastori 2000 anni fa nel giorno che oggi, come ogni anno, ricordiamo.
