È ormai da più di un secolo - vale a dire dalla dichiarazione del Ministro degli Esteri britannico Balfour del 1917, in cui appare per la prima volta in un documento diplomatico il concetto di un “focolare” (home) ebraico in Palestina - che va avanti quella che lo scrittore israeliano Amos Oz ha definito anni fa una tragedia in senso greco, una situazione cioè in cui entrambe le parti in conflitto hanno valide ragioni da far valere a sostegno del proprio punto di vista, con la conseguenza che è maledettamente difficile venirne a capo. Matassa che, se non trattata, rischia di degenerare sempre di più, come l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 dimostra tristemente, con il pericolo che la violenza diventi la cifra inevitabile ed eterna della vita di quei due popoli.
Proviamo a capire come si è arrivati al punto in cui siamo. A mio parere, la migliore chiave di lettura è la parabola storica delle posizioni assunte nel tempo dalle due parti contrapposte rispetto alla possibile soluzione dei due Stati. Credo che si possano individuare tre fasi principali:
PRIMA FASE (1947-1978)
Nel 1947, l’ONU – con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale - propone la creazione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico, ma i Palestinesi e i Paesi arabi vicini non accettano tale soluzione e, per annientarlo, decidono di attaccare Israele (più disposto, viceversa, a seguire l’impostazione onusiana, a parte qualche frangia estremista). Gli Israeliani prevalgono e avviene l’esodo, per lo più forzato, di circa 750.000 Palestinesi dalle loro case (cd. Nakba, cioè catastrofe). In questo trentennio hanno luogo altre tre guerre (1956, 1967 e 1973), nonché gravi episodi di terrorismo (come l’uccisione di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972). Israele riesce ad accaparrarsi vaste parti di territorio, vale a dire la striscia di Gaza (che era sotto amministrazione egiziana), la Cisgiordania (che era sotto controllo giordano) e l’intera città di Gerusalemme (la cui parte orientale era in mano ai Giordani), da allora denominati dall’ONU “Territori Occupati” (definizione non accettata da Israele) con tutti gli obblighi giuridici connessi a tale situazione.
SECONDA FASE (1978-1995)
I Palestinesi – intanto organizzatisi formalmente nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a partire dal 1964 e guidati dal carismatico leader laico Arafat – cominciano ad accettare l’idea di rinunciare alla distruzione dello Stato israeliano e di vivere in due entità statuali distinte, tanto che – passando per gli Accordi di Camp David del 1978 (che portano alla pace tra Israele e l’Egitto) e la prima Intifada (rivolta) palestinese del 1987 - si arriva agli Accordi di Oslo del 1993. Questo è il momento di massima vicinanza ad una possibile risoluzione del conflitto, dato che essi prevedono, insieme al reciproco riconoscimento politico tra l’OLP (in rappresentanza del popolo palestinese, pur ancora privo di uno Stato) e Israele, alcuni principi negoziali basati sul ritiro israeliano da aree della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e sul diritto palestinese all'autogoverno attraverso la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Si giunge dunque faticosamente all’accettazione del diritto all’esistenza di Israele e si pongono le premesse per la creazione di un vero Stato palestinese. Purtroppo, il meccanismo negoziale messo in piedi non ha successo, a causa del sabotaggio degli estremisti di entrambe le parti (soprattutto l’assassinio, da parte di un fanatico sionista di destra, del Premier israeliano Yatzik Rabin nel 1995, artefice degli Accordi di Oslo insieme ad Arafat).
TERZA FASE (1995-2025)
Prevalgono a poco a poco in entrambi gli schieramenti coloro che si oppongono alla soluzione delle due entità statuali, decisi invece ad instaurare il proprio Stato su tutto il territorio conteso dal fiume Giordano al mare. Tale cambio di atmosfera fa naufragare anche due successivi importanti tentativi (arenatisi in particolare sulla questione del ritorno dei rifugiati nelle loro case in Israele e sullo status di Gerusalemme): uno al Vertice di Camp David del 2000 , in cui un Arafat improvvidamente rigido, forse anche per timore di essere assassinato dagli estremisti islamici, rifiuta le offerte negoziali del Premier israeliano Ehun Barak; l’altro con riferimento all’“Iniziativa di pace araba” elaborata dai Sauditi nel 2002, malauguratamente non accettata da Israele, anche perché spaventato dalla maggiore violenza della seconda Intifada palestinese iniziata nel 2000 e poi proseguita fino al 2005. In sostanza, dal 1996 in poi comincia a farsi gradualmente strada nella dirigenza israeliana la nuova idea che non sia più necessario accettare uno Stato palestinese accanto ad Israele (vale a dire la formula “terra in cambio di pace”) e che si debba invece puntare ad uno Stato ebraico inglobante anche i “Territori Occupati” (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme) privando i Palestinesi di un loro territorio, in parte spingendoli ad emigrare in Giordania, in parte assorbendoli in uno Stato a guida ebraica. Tale nuovo approccio si è appunto incarnato nel Premier Benjamin Netanyahu, in carica dal 1996 al 1999, poi dal 2009 al 2021 e infine dal 2022 a oggi. Netanyahu ha basato la sua strategia su una massiccia e inarrestabile politica di nuovi insediamenti illegali di coloni nei territori occupati e su un’ambigua tolleranza nei confronti della fazione islamista radicale palestinese di Hamas (nata negli anni Ottanta e rafforzatasi nel tempo, fieramente contraria a ogni ipotesi di compromesso con Israele e impadronitasi di Gaza dopo l’abbandono della striscia da parte israeliana nel 2005), allo scopo di indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese (al potere in Cisgiordania) e così vanificare la soluzione dei due Stati, accettabile solo per quest’ultima fazione. In pratica, Netanyahu ha alimentato la divisione tra i gruppi palestinesi per poter dire che la dirigenza palestinese non era d’accordo sugli obiettivi da raggiungere e dunque indisponibile per un negoziato serio. Si è al tempo stesso illuso di poter gestire indefinitamente Hamas - consentendo tra l’altro il passaggio di ingenti fondi del Qatar verso la striscia di Gaza – nella convinzione che tale fazione si sarebbe accontentata di arricchirsi e di governare la striscia senza creargli problemi reali, diventando così la sua polizza assicurativa contro la soluzione dei due Stati. In questo modo, mirava a far apparire l’opzione di un solo e grande Stato a controllo ebraico come l’unica soluzione realisticamente possibile. Ma la sua parallela strategia di allacciare relazioni con i Paesi arabi scavalcando i Palestinesi (tramite gli Accordi di Abramo del settembre 2020, favoriti dalla prima Amministrazione Trump e stipulati con le monarchie degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, nonché il graduale avvicinamento all’Arabia Saudita ) ha fatto comprendere ad Hamas e al suo sponsor ideologico iraniano che tale evoluzione rischiava di provocare la loro emarginazione nel mondo musulmano (a vantaggio dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata dal vecchio leader Abu Mazen) e il consolidamento definitivo della posizione di Israele nella regione, rendendone impossibile la cancellazione. Si è pertanto verificato un cortocircuito che il 7 ottobre 2023 ha fatto scoppiare tutto il meccanismo in mano a Netanyahu, rivelando il fallimento del suo progetto politico. Hamas – verosimilmente assistita tecnicamente dall’Iran e da Hezbollah – si è preparata nell’ombra per due anni, mentre il Premier israeliano si cullava nell’erronea certezza di avere sterilizzato il gruppo estremista, abbassando di conseguenza la guardia nei suoi confronti (anche perché la sua attenzione era rivolta in quel momento alle massicce proteste interne contro la riforma giudiziaria da lui caldeggiata per evitare i processi relativi alle gravi accuse di corruzione rivoltegli in patria). In realtà, ha semplicemente ottenuto il risultato di incattivire i miliziani terroristi di Hamas, spingendoli a radicalizzarsi e disumanizzarsi sempre di più, come dimostra il comportamento incredibilmente barbaro adottato nel corso del loro feroce attacco.
A quel punto, Israele si è trovato di fronte a uno dei dilemmi più difficili della tormentata storia del Paese. Da un lato, aveva la necessità di riaffermare con forza la propria credibilità di deterrenza sia di fronte ai nemici (per intimorirli) sia di fronte ai propri cittadini (per rassicurarli), dall’altro doveva tutelare la propria immagine internazionale. Poteva scegliere una via mediana, atta a dimostrare la propria forza in maniera ragionevole e proporzionata (per esempio con bombardamenti di alcuni giorni come rappresaglia immediata e poi omicidi mirati dei capi politici e militari di Hamas), chiedendo al contempo il supporto dell’ONU per negoziare uno scambio tra i circa 200 ostaggi israeliani e i prigionieri palestinesi nelle proprie carceri, preservando in qualche modo il ruolo di vittima aggredita. Viceversa - anche per l’interesse personale di Netanyahu ad una guerra lunga, che gli consentisse di rinviare i processi a suo carico e restare in sella – il Governo estremista da lui guidato ha scelto una reazione del tutto sproporzionata facendo migliaia di vittime civili (con altissima percentuale di bambini) e ricorrendo addirittura all’arma della fame. Israele è così caduta in pieno nella trappola di Hamas, che aveva posto in essere azioni particolarmente odiose proprio per provocare Tel Aviv e spingerla ad un comportamento bellicoso ed aggressivo che avesse l’effetto di isolarla sul piano mondiale, facendola apparire come uno Stato violento e inumano, incurante di macchiarsi di crimini di guerra e contro l’umanità, se non addirittura di genocidio (spetterà alla Corte di Giustizia Internazionale, su impulso del Sudafrica e di altri Paesi, decidere formalmente se ricorrono gli estremi per configurare tale gravissimo reato, come peraltro recentemente ritenuto da una Commissione indipendente nominata dall’ONU).
Dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e dei mesi successivi, che hanno incendiato il Medio Oriente (con l’estensione delle ostilità anche a Libano, Siria, Yemen e Iran), appare ormai chiaro che la “madre di tutti i problemi” era e rimane la questione israelo-palestinese, frettolosamente archiviata una dozzina di anni fa nell’illusione che sarebbe svaporata da sola come per magia. Pertanto, per risolvere il “puzzle” mediorientale, si deve ripartire dalla ricerca di una definitiva soluzione politica di tale annosa questione. La maggior parte dei Governi di tutto il mondo ha indicato la formula dei due Stati come la soluzione auspicabile dello spinoso problema. Ma tale approccio, che resta senza dubbio lo sbocco più razionale ed equo, si scontra al momento con due ordini di difficoltà: la continua erosione del territorio che andrebbe spartito per via negoziale, a causa dell’espansione degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania; la radicalizzazione delle due popolazioni, che sembrano mostrare al momento meno fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica fianco a fianco, a causa di un radicato processo di disumanizzazione della controparte. D’altro canto, le soluzioni alternative a quella dei due Stati sarebbero:
-uno Stato unico binazionale, con pari diritti per ebrei e palestinesi, che , pur idealmente valida, appare ancor meno realizzabile dei due Stati, alla luce della aumentata diffidenza reciproca tra le due popolazioni, senza contare che gli Israeliani sarebbero destinati a perdere la partita demografica nel lungo termine;
-uno Stato unico di natura ebraica, con i Palestinesi cittadini di serie B, che esporrebbe Tel Aviv a serie accuse di “apartheid”, con probabili conseguenti pesanti sanzioni da parte della comunità internazionale (senza dimenticare il già citato futuro problema demografico) Tanto più che la vicenda di Gaza ha fatto cadere per la prima volta il tabù sinora imperante della tolleranza e impunibilità di qualsivoglia azione israeliana, derivante dalla drammatica vicenda della Shoah, aprendo la strada a provvedimenti punitivi recentemente adottati da vari Stati, nonché al riconoscimento, seppure simbolico, dello Stato palestinese da parte di un rimarchevole numero di Paesi occidentali);
-uno Stato ebraico senza i Palestinesi di Gaza e Cisgiordania, espulsi e trasferiti nei Paesi vicini, che costituirebbe una seconda Nakba (cacciata) dopo quella del 1948 (sogno del Governo di estrema destra di Netanyahu), con tutti gli strascichi di odio che ne conseguirebbero, perpetuando un clima di violenze e attentati nell’area;
-una Confederazione composta da Israele, Giordania e neonato Stato palestinese (inclusivo di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est), ipotesi che sta acquistando un certo favore tra gli osservatori, in quanto intermedia tra l’opzione dei due Stati e quella dello Stato unico binazionale. Tale formula consentirebbe in sostanza di soddisfare, da un lato, l’esigenza di auto-determinazione dei Palestinesi e, dall’altro, la necessità di sicurezza di Israele, garantita da un controllo congiunto insieme alla Giordania sulla nuova entità palestinese, al fine di prevenirne una deriva estremista ed aggressiva. Ma è tutto da appurare se le tre parti in causa siano convinte della bontà di tale approccio…
In questo intricato quadro, si è adesso inserito con prepotenza il fattore Trump al suo secondo mandato, con il suo stile dirompente ed eccentrico rispetto al comportamento politico a cui il mondo si era abituato negli ultimi 80 anni. Il nuovo Presidente USA sta infatti inoculando nel contesto mondiale una massiccia dose di aggressività spiazzante e pragmatismo affaristico, prestandosi ad accuse di pericoloso disprezzo del diritto interno e internazionale.
Ciò detto, va ammesso che il suo caparbio attivismo sta smuovendo le acque sia nel conflitto ucraino (con scarsi risultati per il momento), sia nel conflitto israelo-palestinese, dove è invece riuscito ad ottenere – tramite il suo Piano di Pace in 20 punti e pressioni mai viste prima sulle parti - una tregua che ha fermato o quantomeno ridimensionato la furia omicida a danno della popolazione di Gaza, consentendo al tempo stesso la liberazione degli ostaggi israeliani e la scarcerazione dei prigionieri palestinesi. Ai fini pratici, poco importa se le motivazioni hanno le proprie radici prevalentemente nel suo narcisismo patologico (aspirazione al Premio Nobel per la Pace) e nella sua avidità venale (contratti lucrosi con i ricchi Paesi del Golfo). Naturalmente, la tregua è solo il primo e più facile passo del Piano proposto, che prevede nelle fasi successive il disarmo di Hamas (vero e spinosissimo nodo del problema) e un’articolata “governance” della striscia, non esente tra l’altro da critiche di neo-colonialismo (un “Board” internazionale guidato dal Presidente Trump, un Comitato di gestione con tecnocrati palestinesi e una forza militare multinazionale di stabilizzazione, propedeutici al subentro a data non stabilita di un’Autorità Nazionale Palestinese rinnovata). Purtroppo, l’Amministrazione Trump maneggia gli strumenti diplomatici in maniera goffa e spesso improvvisata, per cui l’esito positivo del suo tentativo è tutt’altro che certo e la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro, tanto più che la seconda fase del suo Piano sta procedendo troppo lentamente, con il rischio che Hamas riconsolidi il suo potere sul terreno, divenendo più rigida, e i Ministri israeliani estremisti convincano Netanyahu a riprendere la guerra. Ma in realtà – dato l’immobilismo della precedente Amministrazione USA e la ormai inesistente influenza europea nell’area – l’azione di Trump è l’unico elemento di speranza presente sul tavolo, anche perché è riuscito a porre i Paesi arabi della regione di fronte alle proprie responsabilità, spingendoli ad andare oltre le semplici dichiarazioni ideologiche di principio per rendersi disponibili ad impegnarsi in prima persona, soprattutto facendo una effettiva pressione su Hamas.
A ben vedere – anche se l’attuale tentativo di Trump dovesse malauguratamente fallire - la responsabilizzazione dei Paesi del Golfo (in particolare Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), spalleggiati da Egitto e Giordania, potrebbe costituire un cambio di paradigma utile e forse cruciale nel medio e lungo termine, in vista di ulteriori tentativi di soluzione del problema. Sono infatti proprio questi i Paesi che possono godere della fiducia di entrambe le parti e in grado di andare incontro a molti dei loro concreti interessi. Sono in realtà gli unici attori capaci di spingere i due contendenti ad individuare un meccanismo di convivenza (auspicabilmente la creazione di due entità indipendenti, ovvero soluzioni creative che vi assomiglino) sufficiente a rassicurare Tel Aviv quanto alla sua sicurezza e i Palestinesi quanto alla loro auto-determinazione.
Da una parte, Israele - tramite i Paesi del Golfo - può anzitutto ottenere il riconoscimento generalizzato del proprio diritto ad esistere da parte degli Stati che la circondano (sulla scia della già menzionata "Iniziativa di pace araba " proposta nel 2002 proprio da Riyadh, dato il ruolo di leadership anche religiosa svolto dall’Arabia Saudita). Questo fortissimo e prioritario interesse può convincere Tel Aviv ad accettare una qualche forma di entità palestinese, considerato che tale sviluppo costituisce la "conditio sine qua non" di Riyadh per aderire agli Accordi di Abramo (in quanto le masse arabe e islamiche non perdonerebbero un tradimento della causa palestinese), spianando appunto la via della definitiva normalizzazione tra Israele e mondo arabo/islamico. In secondo luogo, ciò aprirebbe la strada ad un aumento esponenziale dei rapporti economici di Tel Aviv con i Paesi della regione, dal punto di vista commerciale, tecnologico e turistico, regalando ad Israele una supremazia pacifica di fatto, con benefici per tutti. Inoltre, i Paesi del Golfo hanno un proprio vitale interesse alla pace e alla stabilità nell’area, unica condizione che consente loro di prosperare grazie alla produzione energetica, agli investimenti esteri, ai trasporti marittimi ed aerei, nonché al turismo proveniente da tutto il mondo. Da ultimo , si creerebbe un vasto fronte politico di contenimento del comune avversario Iran. In conclusione, solo il Golfo può offrire un pacchetto così ricco e appetibile a Tel Aviv.
Dall’altro lato, i Palestinesi possono trovare nei Paesi del Golfo – appoggiati da Amman e Il Cairo - dei mediatori in cui avere piena fiducia, condividendone la stessa mentalità, fattore che facilita il dialogo e la comprensione reciproca. Infine, la potenza di fuoco finanziaria di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti rappresenta una forte garanzia per la sopravvivenza di una futura entità palestinese (aiuti cruciali che verrebbero sicuramente condizionati ad un’attitudine pacifica nei confronti di Israele). Gli Emiri del Golfo sono anche gli unici a poter imporre il necessario cambio nella leadership palestinese, facendo emergere personalità più oneste e carismatiche (magari convincendo Tel Aviv a liberare Marwan Barghuthi, il cd. “Mandela” palestinese), favorendo al tempo stesso un‘evoluzione politica più moderata di Hamas (non eliminabile tout court, godendo nei sondaggi dell’appoggio di almeno un 20% dei consensi).
Se invece, nonostante tutti i vantaggi sopraelencati di un compromesso ragionevole, a Tel Aviv dovessero prevalere su ogni altra cosa gli impulsi messianici e irrazionali al possesso della terra (con la cacciata di tutti i Palestinesi da Gaza e Cisgiordania) e/o la parte palestinese non fosse capace di elaborare – sotto una leadership più credibile - una posizione unitaria incentrata sul diritto di Israele alla propria esistenza, il ciclo di violenza non si interromperebbe, condannando all’instabilità tutto il Medio Oriente. Episodi traumatici come quello del 7 ottobre 2023 - se non ancora peggiori – rischierebbero di ripetersi all’infinito, imponendo una condizione di timore e orrore perpetuo. E questo non è certamente ciò che le due popolazioni, israeliana e palestinese, meriterebbero. Spetterà peraltro a loro decidere i propri destini al momento in cui – in un prossimo futuro – avranno la possibilità di recarsi alle urne per scegliere i rispettivi rappresentanti.
