Sommario: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione della III Sezione n. 5921/2022 – 2. La nuova soluzione adottata dalla Plenaria n. 10/2023 - 3. Qualche appunto critico sull’idea di farne una questione tra sezioni dello stesso giudice – 4. Una motivazione alternativa.
1. Il caso e l’ordinanza di rimessione della III Sezione n. 5921/2022
Ricevuta dal Tar Sicilia sezione staccata di Catania una sentenza di rigetto del ricorso, la difesa del ricorrente intesta l’appello al Consiglio di Stato e poi sempre al Consiglio di Stato indirizza il modulo di deposito telematico.
Assegnato l’appello alla IIIª Sezione, in esito all’udienza di discussione il giudice constata che l’impugnazione doveva essere all’evidenza proposto avanti al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia.
La regola – una volta tanto - è sicura.
Già lo diceva l’art. 40 della legge istitutiva del Tribunali amministrativi regionali, che a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1975, suona nel senso che contro ogni sentenza del Tar per la Sicilia l’appello “è portato al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana”.
La disposizione è stata poi ribadita dall’art. 4, comma 3, del d. lgs n. 373/2003 (recante Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato): “In sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”.
Quanto al Codice del processo amministrativo, l’art. 6, comma 6, non potrebbe essere più chiaro: “Gli appelli avverso le pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione”. E così ancora l’art. 100 del Codice si cura di tener ferma “la competenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per gli appelli proposti contro le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”.
Se la regola è sicura un po' meno sicure sono però le conseguenze di questo singolare errore.
La IIIª Sezione, con l’ordinanza n. 5921/2022, ricorda infatti che la dimensione problematica della questione era già stata portata nel 2013 all’attenzione dell’Adunanza plenaria con una ordinanza di rimessione della stessa Sezione.
Vero è che la giurisprudenza largamente maggioritaria sosteneva che la fase di gravame in simili casi dovesse necessariamente chiudersi con una sentenza di inammissibilità dell’appello pronunciata dal Consiglio di Stato, rincarando poi la dose con la precisazione (per il vero a quel punto un poco superflua) che il potere di impugnazione si era irrimediabilmente consumato[1].
Tuttavia, un precedente del 2009 aveva invece espresso l’avviso che “nel caso di specie trovi comunque applicazione la disposizione contenuta nell’articolo 50 c.p.c., a norma del quale, in caso di pronuncia di incompetenza del giudice adito, la causa prosegue davanti al giudice competente qualora sia tempestivamente riassunta nel termine fissato dalla sentenza (di incompetenza) ovvero di sei mesi dalla stessa”[2].
L’Adunanza plenaria, con la sentenza 22 aprile 2014 n. 12 aveva però rispedito il dubbio al mittente facendosi scudo dell’orientamento in allora prevalente presso il giudice civile. La Cassazione, con un orientamento che si potrebbe definire parentetico[3], in quegli anni propendeva infatti per l’idea che l’individuazione del giudice dell’appello non ponesse una questione legata alla nozione di competenza propria dell’art. 50 c.p.c. Per conseguenza, non trovando applicazione la meccanica della riassunzione a seguito di declinatoria prevista da quella norma, il giudizio d’appello non avrebbe che potuto chiudersi con una sentenza di inammissibilità. Secondo la Plenaria n. 12/2014 un siffatto orientamento avrebbe dovuto trovare ancor più pacifica applicazione nel caso dell’appello nel processo amministrativo, posto che il criterio di collegamento con il Consiglio di giustizia piuttosto che con il Consiglio di Stato qui dipendeva dal giudice a quo. Un criterio che secondo la Plenaria andava ricostruito nei termini di una attribuzione funzionale più che non di competenza.
Ma ecco che a qualche anno di distanza la IIIª Sezione vede molto bene che i tempi sono maturi per sparigliare le carte.
Nel 2016 le Sezioni Unite, recuperando il più risalente e consolidato orientamento, sono infatti tornate ad insegnare che “l’appello proposto dinanzi ad un giudice diverso da quello indicato dall'art. 341 cod. proc. civ. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame”[4].
Nel sollecitare un nuovo esame della questione alla Plenaria, l’ordinanza di rimessione non manca di osservare che la stessa Cassazione ha dato pure rilievo al fatto che la translatio iudicii ha conquistato anche il difetto di giurisdizione[5] come pure i rapporti tra giudici ed arbitri[6]. Quand’anche pertanto si reputasse che il giudice non correttamente evocato in appello ponga un tema di carenza di attribuzione giurisdizionale[7], cionondimeno i benefici effetti della translatio ben potrebbero applicarsi.
Infine, la IIIª Sezione osserva che ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 24 dicembre 2003, n. 373, le due sezioni del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana sono definite quali “Sezioni staccate del Consiglio di Stato”, “con la conseguenza che più che di impugnazione erroneamente proposta “ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo” si tratterebbe di appello proposto a diversa Sezione dello stesso giudice”.
Per mero inciso, nel formulare il quesito posto alla Plenaria il giudice non ha invocato l’applicazione in fase d’appello delle norme del processo amministrativo sulla translatio tra i Tribunali amministrativi regionali – vale a dire l’art. 15, comma 4, c.p.a. -, ma ha richiamato il meccanismo della riassunzione a norma dell'art. 50 cod. proc. civ. La Plenaria è stata infatti interpellata per sapere “se l'appello proposto dinanzi al Consiglio di Stato avverso una sentenza del Tar Sicilia (sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) configuri una ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione e di conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza, ovvero valga ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al competente Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell'art. 50 cod. proc. civ.”.
2. La nuova soluzione adottata dalla Plenaria n. 10/2023
Nel formulare un responso che è certamente innovativo, la sentenza dell’Adunanza plenaria che qui si segnala trae il destro dall’unico spunto dell’ordinanza di rimessione che le consenta di non dire a chiare lettere che il costrutto giuridico su cui si appoggiava la stessa Plenaria del 2014 era sbagliato.
Il caso andrebbe molto semplicemente e solo deciso traendo i debiti corollari dal principio affermato dalla legge che configura le sezioni del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana quali sezioni staccate del Consiglio di Stato, non senza tuttavia subito appresso osservare che le sezioni del Consiglio di Stato con sede in Roma non possono decidere la causa “poiché la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo è inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale”.
Ed ecco allora quali corollari la Plenaria viene ora a trarre da questa premessa: “per evitare il differimento della definizione del giudizio, la Presidenza del Consiglio di Stato deve trasmettere alla Segreteria della Sezione staccata di Palermo l’appello proposto al Consiglio di Stato avente sede in Roma, proposto avverso una sentenza del TAR per la Sicilia. Qualora l’appello sia stato però assegnato dalla Presidenza ad una delle Sezioni del Consiglio di Stato, rilevano i principi generali desumibili dall’art.15, commi 2 e 4, del codice del processo amministrativo, sicché la Sezione avente sede in Roma non può decidere in sede cautelare e con ordinanza deve dichiarare la propria incompetenza, affinché il giudizio possa essere riassunto innanzi alla Sezione staccata”.
Si enuncia poi così il seguente principio di diritto “l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato”.
Sennonché, va notato, curiosamente poi la stessa Adunanza plenaria demanda al Presidente del Consiglio di Stato di assegnare l’appello alla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Curiosamente, si diceva, perché qui l’appello era all’evidenza già stato assegnato alla IIIª Sezione, che non a caso era giunta ad un’ordinanza di rimessione in esito all’udienza di discussione celebratasi a circa tre anni di distanza dal gravame. Vi era allora da attendersi che, facendo coerente seguito alle sue stesse parole, nel caso si dovesse applicare il principio di cui al comma 4 dell’art. 15 c.p.a. e che quindi a mettere in moto il processo verso il Consiglio di giustizia fosse un’ordinanza declinatoria della competenza, con onere delle parti di un atto di riassunzione.
3. Qualche appunto critico sull’idea di farne una questione tra sezioni dello stesso giudice
Questa sentenza è sicuramente influenzata dalla volontà di non confutare in modo aperto l’argomentare della Plenaria del 2014. Tuttavia tale preoccupazione ha prodotto il risultato di una pronuncia assai criptica che elude gli interrogativi giuridici posti dall’articolata ordinanza della IIIª Sezione.
Ciò posto, e per quanto la constatazione possa apparire banale, su almeno un punto occorre uscir dal vago.
Avendo la Plenaria affermato che l’art. 15 del c.p.a. è applicabile alla fattispecie, norma che anzi viene addirittura detto racchiudere un principio generale, con consequenziale onere di declinare la competenza “affinché il giudizio possa essere riassunto” presso il CGARS, nessun dubbio può sussistere in merito a due conseguenze intimamente connesse.
La translatio iudicii può operare anche in questo peculiare caso. Ex necesse – e contrariamente a quanto sembrerebbe forse ventilare la stessa Plenaria nel dichiarare il principio di diritto – l’appello non potrà più essere dichiarato inammissibile per difetto di competenza una volta giunto in Sicilia. E ciò per la semplice ragione che una tale pronuncia sarebbe possibile solo a decidere l’appello fosse il Consiglio di Stato con sede in Roma, mentre non lo è più una volta che l’appello sia transitato (e nemmeno importa come) al giudice competente.
Ferma questa conclusione, l’idea che per risolvere la questione assuma valore dirimente la possibilità di configurare il Consiglio di giustizia quale sezione del Consiglio di Stato non sembra del tutto convincente.
Se infatti con questo si volesse dire che trattandosi di rapporto tra sezioni il caso debba necessariamente subire un trattamento giuridico diverso dal caso del difetto di competenza, si verrebbe a dire una cosa se non proprio errata, almeno eccessiva.
La configurazione di un regime del rapporto tra sezioni sensibilmente diverso da quello dei rapporti di competenza, e financo per ipotesi da riguardarsi come un problema di pura specificazione organizzativa, è certo possibile. Ma spetta al legislatore configurarlo come tale[8].
Ebbene nel caso che occupa non sembra proprio che le norme giuridiche rilevanti arrivino a questo esito.
Basti considerare che l’art. 10 del d.lgs. n. 373/2003 stabilisce che “Le questioni inerenti alla competenza del Consiglio di giustizia amministrativa in sede giurisdizionale sono rilevabili anche d'ufficio”. La stessa norma al comma 5 stabilisce che è devoluta all'Adunanza plenaria in composizione integrata “la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”.
D’altro canto è la stessa Plenaria qui in commento ad affermare che quella del CGARS è una competenza funzionale inderogabile. Stando così le cose, l’idea di ricorrere ad una misura presidenziale organizzatoria quando l’appello non è stato ancora assegnato a sezione ed al trattamento sulla declinatoria di competenza se invece è stato assegnato, non riesce a persuadere del tutto. Ove si tratti di risolvere un dubbio di disciplina, il trattamento processuale, infatti, necessariamente segue (e non precede) al fenomeno nella sua dimensione statica. E se dalle norme emerge che questo fenomeno è di un rapporto di competenza funzionale, il suo trattamento processuale non può essere divaricato a seconda di una contingenza così episodica.
Del resto non sarà del tutto superfluo ricordare che stando all’art. 47 c.p.a. anche in merito al riparto tra diverse sezioni dei TTAARR, il regime processuale della competenza vince sempre sul trattamento del riparto tra sezioni quando la causa spetta ad una data sezione per un criterio che lo stesso legislatore definisce di competenza funzionale inderogabile (art. 14 c.p.a.)[9].
Anzi, l’idea che qui rileva è resa molto bene proprio dal linguaggio che il legislatore adotta al comma 1 dell’art. 47 c.p.a., da cui si comprende che in taluni casi la ripartizione di controversie tra sezioni è da considerarsi “questione di competenza”.
In definitiva, il fatto che il Consiglio di giustizia amministrativa sia una sezione del Consiglio di Stato non è del tutto privo di rilievo, ma va recuperato in una prospettiva diversa da quella eletta in questa occasione dalla Plenaria.
4. Una motivazione alternativa
Per chi conosca la storia della translatio iudicii, viene pressoché spontaneo risolvere in senso favorevole il dubbio sulla possibilità di farne utile applicarne nel caso che occupa.
Nel contesto processuale italiano, la translatio si può dire sia stata, se non proprio inventata, quantomeno imposta grazie a Mortara inizialmente proprio nel campo dell’appello a giudice incompetente, benché con coerenza da Mortara stesso ritenuta applicabile anche al giudizio di primo grado[10].
Non a caso chi scriveva di appello a giudice incompetente appena dopo l’emanazione del nuovo codice di procedura civile non poteva non notare che l’art. 50 stava lì a rafforzare l’orientamento precedente e favorevole alla tesi mortariana[11].
La giurisprudenza civile moderna che ogni tanto devia da quell’antica dottrina è probabilmente influenzata da una lettura superficiale di un noto contributo di Attardi[12]. Attardi infatti giungeva sì a negare l’interferenza tra l’art. 50 c.p.c. e l’appello, ma muovendo dall’idea che l’impugnazione fosse un proseguimento del processo ancora pendente e per la verità già presso il giudice dalla legge investito della funzione di gravame. Ricostruito quindi l’appello come atto di mero impulso processuale, la sua inefficacia se rivolto al giudice sbagliato derivava semplicemente dal fatto che l’atto di mero impulso, per avere un qualche effetto, deve essere inserito in quel dato e preciso processo. Ma Attardi stesso non esitava ad ammettere che concependo invece l’appello come giudizio autonomo si doveva arrivare a tutt’altra conclusione. E d’altro canto l’idea di appiattire l’impugnazione a mero atto di impulso processuale non ha convinto nemmeno i processualcivilisti[13].
Ora, tornando all’invenzione di Mortara occorre ricordare che il ricorso alla meccanica della translatio in fase d’appello nacque da due concomitanti convinzioni che ne spiegano anche il significato più profondo.
Mortara non era persuaso da una soluzione, molto ricorrente nella giurisprudenza dell’epoca, che accordava in questo caso l’interruzione del termine per appellare. Contemporaneamente era però convinto del fatto che l’appello, purchè proposto ad un giudice di grado superiore a quello appellato, fosse in tutto e per tutto un appello valido. Una validità concepita anche in una direzione specifica, come intrinseca attitudine a preservare dalla decadenza. La possibilità di far trasmigrare l’appello al giudice competente purché entro il termine di perenzione si pose allora come una modalità per declinare l’effetto che altra dottrina chiamava conservativo dell’appello a giudice incompetente, come soluzione che surrogava quella dell’interruzione del termine per appellare, al contempo evitando di dover trarre dal concetto di impedimento della decadenza tutto il dovuto[14].
Ed in effetti l’aspetto più intrigante dei moderni approdi della transaltio iudicii, come pure del trattamento recentemente imposto dalla Corte costituzionale in tema di disciplina della nullità della notifica nel processo amministrativo[15], sta proprio in una nota comune che esce da questi episodi di affermazione dell’effetto conservativo del termine di un atto processualmente viziato e che per certi versi recupera questo antico approccio.
La espressa previsione di una sanatoria processuale non è essa stessa la sola ragione dell’effetto dell’atto. È piuttosto l’intrinseca idoneità di esso ad incidere sulla decadenza che, prima o poi, si deve sfogare nella necessaria introduzione, anche solo per via interpretativa, di una sanatoria processuale.
Ma fortunatamente per risolvere il caso riapprodato alla Plenaria non occorre impegnare un tema così complesso.
Già Oriani, all’indomani da Corte cost. n. 77/2007 suggeriva alla giurisprudenza civile di rimeditare l’orientamento inaugurato nel 2005 dalla Cassazione e propenso a non applicare l’art. 50 c.p.c. all’appello[16]. L’avrebbe imposto anche solo il forte richiamo della Corte costituzionale verso una visione del processo, propria dell’insegnamento di Virgilio Andrioli travasato in più di una pronuncia della medesima Corte[17], quale strumento funzionale a stabilire torto e ragione e perciò proteso per quanto possibile verso una pronuncia di merito. Ed è quello che fatalmente è avvenuto con le richiamate Sezioni Unite del 2016 che non hanno mancato di dare grande risalto a questo aspetto.
Ebbene alla luce di tali concomitanti coordinate la vera domanda da porsi è allora se nel processo amministrativo esista una norma che vieti la transaltio tra il Consiglio di Stato ed il Consiglio di giustizia. E poiché tale norma non c’è, mentre certamente esistono disposizioni che disciplinano la translatio per incompetenza in primo grado, l’unico modo corretto per il giudice di condursi secondo Costituzione è quello di adoperarsi privilegiano la via del merito. Nel caso, il percorso per assecondare questa via meno esposto alla critica di un uso disinvolto delle norme processuali esistenti, è proprio quello di fare applicazione alla fase d’appello di quelle stesse disposizioni sulla declinatoria di competenza e successiva translatio nel giudizio avanti al Tar. Poco conta dire se ciò avvenga poi in virtù del c.d. rinvio interno o perché tali norme esprimono un principio generale.
In questo contesto, se proprio si vuole, l’interesse per il fatto esaltato dalla Plenaria che vede nel Consiglio di giustizia una sezione del Consiglio di Stato sta in ciò.
Nessuno potrà sognarsi di dire che l’errore nell’individuazione della sede qui trasmodi in un errore sul mezzo di impugnazione[18]. Appello era, appello rimane.
[1] Contrariamente alla vulgata giurisprudenziale, tale orientamento non sembra però addebitabile alla decisione dell’Adunanza plenaria n. 21/1978. Chi si curi di leggere quella motivazione noterà infatti che la Plenaria nell’occasione si concentrò tutta sul tema della competenza del Consiglio di giustizia a decidere anche gli appelli su sentenze rese dal Tar Sicilia su ricorsi contro provvedimenti emessi da organi centrali dello Stato in materie estranee alla sfera di interessi della Regione. Vero è che chiudendo la decisione, con poche righe la Plenaria riconobbe la scusabilità dell’errore e si premurò di accordare la rimessione in termini affinché l’appello potesse essere riproposto al Consiglio di giustizia amministrativa. Ora, si potrà certo dire che il rimedio della rimessione in termini per errore scusabile presuppone che la translatio non si applichi. Ma addebitare ad una motivazione che decide di accordare la rimessione e nulla argomenta in punto di translatio di essere la capofila di un orientamento negativo quanto alla sua applicazione al caso, pare francamente discutibile. Piuttosto, semmai si può ricordare che nel contesto dell’abrogata legge Tar un quesito come quello che ora si pone sarebbe stato fortemente condizionato dal fatto che la translatio non operava nemmeno in primo grado per i casi di incompetenza c.d. assoluta (o funzionale), come si poteva desumere dall’art. 34, comma 2, l. Tar che per tali ipotesi accordava la rimessione in termini per errore scusabile.
[2] Cons. Stato, sez. V, 21 luglio 2009, n. 4580.
[3] L’altalenare degli orientamenti della cassazione in punto di appello a giudice incompetente è ben ricostruito da Cass., Sez. Un., 14 settembre 2016, n. 18121, dove si ricorda che l’orientamento favorevole all’applicazione della translatio era prevalente fino a Cass., sez. III., 10 marzo 2005, n. 2709, che invece si pose a capofila di un filone propenso a ritenere che l’art. 50 c.p.c. fosse del tutto escluso in materia di appello.
[4] Cass., Sez. Un., n. 18121/2016.
[5] Grazie a Corte cost. n. 77/2007.
[6] Grazie a Corte cost. n. 223/2013.
[7] Nella dottrina del processo civile si tratta di una tesi che vanta autorevoli sostenitori, sebbene declinata con linguaggio non sempre coincidente. Cfr. E. Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1949, II, 1, 82, secondo cui l’individuazione del giudice d’appello pone un tema non di competenza, ma di attribuzioni istituzionali. Di mancanza di giurisdizione si parla invece in M. T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, VI ed., Milano, 1964, I, 282; P. D’Onofrio, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957, I, 581.
[8] Per inciso il Consiglio di Stato dovrebbe essere più consapevole di altri del fatto che l’essere sezioni dello stesso giudice non basta a decidere la questione. Viene immediato ricordare che nel torno di tempo in cui alla IV ed alla V sezione vennero affidate competenze diverse dalla riforma del 1907, fu proprio il Consiglio di Stato, animato dall’idea che le due sezioni dessero vita a giurisdizioni speciali nettamente distinte, a ritenere – contro l’avviso pressochè unanime della dottrina – che non vi potesse essere alcuna sorta di translatio nel caso di ricorso rivolto alla IV anziché alla V sezione, ma solo rimessione in termini per errore scusabile. In arg. si rilegga F. D’Alessio, Rapporti e conflitti fra le due sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, Milano, 1912.
[9] Per un’analisi dell’art. 47 c.p.a. si veda ora L. Piscitelli, Commento sub art. 47, in Falcon-Cortese-Marchetti, Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 495 ss.
[10] Per l’origine dell’istituto della translatio, nonché per l’analisi della dottrina di Mortara in argomento, sia consentito richiamare A. Squazzoni, Declinatoria di giurisdizione ed effetto conservativo del termine, Milano, 2013 a cui si fa rinvio anche per gli ulteriori temi qui solo evocati.
[11] V. Andrioli, L’appello avanti a giudice incompetente e l’art. 450 c.p.c., in Giur.it., 1946, I, 2, 241.
[12] A. Attardi, Sulla traslazione del processo dal giudice incompetente a quello competente, in Riv. dir. proc., 1951, 142 ss. in part. 160 ss.
[13] Per una critica alla tesi di Attardi, cfr. G. Tarzia, Opposizione a decreto ingiuntivo davanti a giudice incompetente, in Giur. it., 1963, I, 2, in part. 125 ss.; A. Saletti, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981, 75 ss. Favorevoli ad applicare l’art. 50 c.p.c. all’appello, tra altri, E.T. Liebman, Corso di diritto processuale civile, Milano, 1952, n. 139, p. 217; A. Massari, Del regolamento di giurisdizione e di competenza, in E. Allorio (diretto da), Commentario al codice di procedura civile, Torino 1973, I, 609; S. Chiarloni, Appello. I) Diritto processuale civile, Enc. giur., Roma, 1988, II, § 7, p. 4; tra i più recenti, A. Carratta, Incompetenza del giudice d’appello e translatio iudicii: la parola alle sezioni unite, in Giur. it., 2016, 1615 e ss.
[14] In un regime processuale, come quello del c.p.c. del 1865, dove il diritto di appellazione della sentenza, in carenza di notifica, era soggetto a prescrizione, il concetto di impedimento della decadenza tecnicamente inteso (ossia secondo alla regola che poi si esprimerà nell’art.2967 dell’odierno codice civile) se applicato al caso dell’appello a giudice incompetente avrebbe comportato il passaggio dal termine di decadenza a quello prescrizionale. Lo ricorda, nel contesto di una tesi critica agli insegnamenti di Mortara, G. Scaduto, Sugli effetti c.d. conservativi della domanda davanti a giudice incompetente, in Studi di diritto processuale in onore di Chiovenda, Padova, 1927, in part. 747-748. Per ragioni intuibili tale soluzione non trovò riscontro in giurisprudenza (né per il vero in dottrina).
[15] Corte cost. n. 148/2021 annotata da chi scrive in questa Rivista, e con nota di E. Romani, Il regime della rinnovazione delle notificazioni nulle e il declino del principio di autoresponsabilità processuale, in Dir. proc. amm., 2022, 119 e ss.
[16] R. Oriani È possibile la «translatio iudicii» nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, in Foro it., 2007, I, 1013 ss., in part. 1025.
[17] L’affermazione più nitida, come noto, rimonta a Corte cost., n. 220/1986 (rel. Andrioli): “Il giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano - siano esse attori o convenuti - ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice”.
[18] Non è qui il caso di intrattenersi sul tema delle difficoltà di coniugare la tecnica della vera translatio quando l’errore cade sul mezzo di impugnazione. Basti notare che in qualche caso sembra che mezzo e giudice si identifichino. Eclatante e curioso l’esempio fornito da Cass., 16 gennaio 2004, n. 590, in Foro it., Rep. 2004. Contro una sentenza del giudice di pace si propose un preteso ricorso per Cassazione avanti al Tribunale (!) pretendendo poi di riassumerlo rivolgendosi alla Corte di cassazione. Per qualche indicazione sul tema, sia consentito rinviare ancora a A. Squazzoni, Declinatoria, cit., 164 ss.