Illegittima proroga ex lege della concessione balneare e reato di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”. Cronaca di un finale annunciato (nota a Cass. pen. 22 aprile 2022 n. 15676)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri - 3. La decisione della Cassazione - 4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Alla vigilia di un nuovo intervento del legislatore che, ancora una volta, sembra ignorare la necessità di una compiuta riforma delle concessioni demaniali marittime, da troppo tempo solo preannunciata[i], la Cassazione penale, con la sentenza 22 aprile 2022, n. 15676 ha scritto un altro capitolo della saga dei “Bagni Liggia” di Genova.
Si tratta di un finale ‒ infausto per il concessionario, come meglio si dirà nel prosieguo ‒ che una parte della dottrina[ii] aveva preconizzato come possibile effetto delle sentenze c.d. gemelle dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in materia di concessioni balneari (nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021)[iii], nonostante le “rassicurazioni” date sul punto dal Supremo consesso della giustizia amministrativa.
La vicenda, che la stessa Cassazione non esita a definire “annosa”, trae origine da un provvedimento di sequestro preventivo sul tratto di arenile occupato dallo stabilimento balneare, fondato sull’ipotesi di reato di “abusiva occupazione di spazio demaniale” (art. 1161 cod. nav.) che punisce “chiunque arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo”.
Le considerazioni che seguono vengono rese a prima lettura, senza pretese di esaustività o completezza, al limitato scopo di fornire un immediato inquadramento delle questioni giuridiche più rilevanti che rivengono dalla recentissima decisione della Cassazione e che sono di sicuro interesse sotto il profilo non solo del diritto penale, ma anche amministrativo.
2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri
Per quanto è possibile ricostruire dagli atti di causa e dalla documentazione consultabile liberamente online, nel caso di specie l’imprenditore aveva ottenuto nel 1998 una concessione c.d. balneare con efficacia sino al 31 dicembre 2009. Il giorno prima dello spirare di tale termine era stato emanato il d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 (pubblicato il medesimo giorno) che aveva prorogato il termine di durata “delle concessioni in essere”, sino al 31 dicembre 2012[iv].
Il Comune di Genova aveva quindi comunicato all’interessato dapprima l’operatività della proroga ex lege (n. 25 del 2010) sino al 31 dicembre 2015 e, con atto successivo, la perdurante efficacia del titolo in forza del d.l. 194/2009[v].
Una prima richiesta di sequestro, formulata dalla Procura nel 2018 sul presupposto dell’inefficacia della concessione a seguito dello spirare del termine originariamente indicato nel titolo (31.12.2009), era stata rigettata dal Giudice per le indagini preliminari che aveva ritenuto sussistente ‒ anche in virtù degli atti adottati dal Comune ‒ un affidamento dell’imprenditore sulla perdurante validità del titolo concessorio[vi]. Anche il Tribunale del riesame aveva confermato il rigetto della misura cautelare reale ravvisando l’insussistenza del fumus in relazione all’elemento materiale della condotta in ragione della non disapplicabilità in malam partem delle disposizioni nazionali di proroga ex lege ancorché violative del diritto Ue[vii].
La decisione di riesame era però annullata con rinvio dalla Cassazione (sez. III, sentenza n. 25993 del 12 giugno 2019).
In primo luogo, secondo la Corte, la proroga sino al 31.12.2020 prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, poteva trovare applicazione esclusivamente per le concessioni nuove (e, dunque, per “quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla L. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2011”) e non anche per i provvedimenti ‒ come quello rilevante nel caso di specie – adottati prima di tale data.
La distinzione è frutto dell’interpretazione che il giudice penale propugna[viii] in relazione ad una norma che, al contrario, sembrava applicabile a tutte le concessioni efficaci alla data di entrata in vigore del d.l. n. 194/2009 (30 dicembre 2009)[ix].
In ogni caso, secondo la Cassazione, dalla disapplicazione della norma nazionale in contrasto con la disciplina europea, derivavano l’insussistenza di un titolo concessorio legittimamente prorogato e, dunque, la rilevanza penale della condotta del concessionario[x].
Ad avviso della Corte, tale soluzione interpretativa non dava luogo ad “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”[xi].
Il Tribunale del riesame[xii], in funzione di giudice del rinvio, si uniformava a tali principi di diritto e disponeva il sequestro del tratto di arenile su cui insiste lo stabilimento balneare, sicché su tale decisione si formava un “giudicato cautelare”.
Con altro provvedimento del 2021[xiii], il GIP estendeva il vincolo anche all’immobile insistente sull’area demaniale oggetto del primo sequestro, ma revocava poi la misura cautelare, tanto sull’arenile, quanto sull’immobile, ritenendo che l’indagato fosse incorso in un errore incolpevole[xiv].
In particolare, nel provvedimento di dissequestro, il GIP, sebbene abbia ritenuto sussistente l’elemento oggettivo del reato contestato (in quanto il provvedimento concessorio originario non sarebbe mai stato legittimamente prorogato), negava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato ipotizzato[xv].
Ma la decisione del GIP era annullata dal Tribunale del riesame con ordinanza impugnata dall’indagato ed oggetto del giudizio che ha dato luogo alla sentenza che brevemente si commenta.
3. La decisione della Cassazione
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha ripercorso e fatto proprio l’itermotivazionale del proprio precedente dianzi richiamato (sent. n. 25993/2019).
Esula dagli scopi di queste considerazioni l’analisi critica del percorso logico giuridico seguito dalla Corte nelle due decisioni. Ci si limita, tuttavia, ad osservare, che, secondo il Collegio, l’occupazione del bene demaniale in forza di una concessione legittimamente rilasciata e (ancorché illegittimamente) prorogata dalla legge e dall’autorità amministrativa (in forza di tale legge), è equiparabile alla condotta di chi “arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo” (art. 1161 cod. nav.). Nell’affermare tale principio, la Cassazione richiama un orientamento che tende ad accomunare la situazione in cui il soggetto occupi il bene in forza di una concessione dichiarata (dalla legge e dall’amministrazione) ancora esistente, ma la cui persistenza è ritenuta illegittima per violazione del diritto Ue, a quella in cui il titolo sia radicalmente assente o pacificamente scaduto.
Per tal via, dalla disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto Ue (o del provvedimento applicativo della norma interna), finiscono per derivare effetti pregiudizievoli, sotto il profilo della responsabilità penale, per il cittadino.
Tale opzione ermeneutica, tuttavia, è in contrasto con il principio enunciato dalla Cassazione pen. Sez. un. (n. 22225/2012) in forza del quale “non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato. (…) In definitiva, l'utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale”.
In tale occasione le Sezioni unite ebbero modo di richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, secondo la quale, in ossequio ai principi generali del diritto, di “legalità della pena” e di “applicazione retroattiva della pena più mite” ‒ che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, sono parte integrante dei principi generali del diritto comunitario[xvi] ‒ “l’obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni”[xvii].
La Cassazione penale, nella sentenza n. 15676/2022, peraltro, propugna un’interpretazione che contrasta anche con il principio enunciato dalla Corte di giustizia ed in forza del quale gli effetti diretti di una direttiva ‒ non tempestivamente o non correttamente trasposta ‒ possono essere invocati solo dal singolo nei confronti dello Stato e non anche di altri individui (c.d. “effetto diretto verticale”); mentre, all’opposto, non possono essere fatti valere dallo Stato ‒inadempiente nel dare attuazione alla direttiva ‒ contro soggetti non tenuti alla sua applicazione (c.d. “effetto verticale inverso”)[xviii].
La sentenza che si commenta, dunque, si discosta dall’insegnamento della Corte di giustizia e delle Sezioni unite ed attribuisce al cittadino ‒ ancorché solo in relazione all’applicazione della misura cautelare ‒ una responsabilità penale in un contesto in cui il valore della certezza dell’ordinamento appare smarrito.
4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021
A questo punto, qualche osservazione va svolta in relazione alla interessante lettura che la Suprema Corte ha fornito delle Sentenze gemelle nn. 17 e 18/2021 dell’Adunanza plenaria che il ricorrente aveva indicato quale “fatto sopravvenuto” idoneo a superare il giudicato cautelare (§ 9 e ss.).
Nell’argomentare della Cassazione, l’orientamento della giurisprudenza penale in forza del quale il giudice deve disapplicare le norme interne di proroga contrastanti con l’ordinamento Ue, con ogni conseguenza sotto il profilo della penale responsabilità del titolare della (illegittima) concessione, pare oggi trarre nuova linfa dall’autorevole ricostruzione operata dall’Adunanza plenaria.
Proprio a voler ulteriormente fondare, attraverso l’avallo del massimo consesso della giustizia amministrativa, gli approdi già (autonomamente) raggiunti, la Cassazione sunteggia alcuni passi delle sentenze gemelle[xix].
Ma da queste sentenze la Cassazione d’un tratto prende le distanze, quando giunge al cuore della questione: quali siano le conseguenze della illegittimità comunitaria della norma interna rispetto all’eventuale responsabilità penale del concessionario.
In proposito, l’Adunanza plenaria era pienamente avvertita dell’impatto sistemico che la propria decisione avrebbe potuto determinare sicché, sia pure a livello di obiter dictum, aveva ritenuto che non sussistesse un “rischio correlato alle possibili ripercussioni che una simile non applicazione potrebbe generare in termini di responsabilità penale dei concessionari demaniali, i quali, secondo una certa impostazione, venute meno le proroghe ex lege, si troverebbero privi di titolo legittimante l’occupazione del suolo demaniale, così incorrendo nel reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo previsto dall’art. 1161 cod. nav. Tale timore è, infatti, privo di fondamento, atteso che ad una simile conclusione ostano incondizionatamente i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale. Detti principi, come riconosciuto anche dalla Corte di giustizia U.E., fanno parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri e come tali sono parte integrante dello stesso ordinamento comunitario (ed in ogni caso rappresenterebbero comunque controlimiti interni al principio di primazia). Ne discende che la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem” (§ 37).
Come è noto, il principio di irretroattività della legge penale impedisce al legislatore di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che contenga una nuova incriminazione (art. 25 Cost.), mentre l’articolo 2, comma 1 c.p. vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge di tale contenuto.
È pacifico, infatti, che non possa sorgere alcuna responsabilità penale per condotte realizzate nella vigenza di una norma extra penale (che integri il precetto della norma “in bianco” incriminatrice) successivamente dichiarata incostituzionale, anche qualora dalla dichiarazione di incostituzionalità astrattamente derivi la rilevanza penale della condotta pregressa[xx].
Nel caso che ci occupa, tuttavia, il contrasto della norma nazionale sussiste non già rispetto alla Costituzione (nel qual caso opera un sistema di controllo di legittimità accentrato in capo alla Corte costituzionale), ma rispetto al diritto Ue. In tale seconda ipotesi il contrasto non solo è oggetto di controllo diffuso anche da parte del giudice comune, chiamato a disapplicare la norma interna anticomunitaria; ma, come è noto, può – recte deve – essere accertato da qualunque soggetto dell’apparato dello Stato, compresa la p.A.
Proprio in ragione della immediata disapplicabilità della norma interna in contrasto con il diritto Ue, il vizio che affligge il provvedimento applicativo di tale norma non può considerarsi “sopravvenuto”: esso, infatti, è originario non solo quanto alla decorrenza, ma anche quanto alla sua riconoscibilità da parte dell’Amministrazione e, in seconda battuta, da parte del giudice.
L’illegittimità comunitaria di una norma di legge (o di un atto amministrativo) nazionale sussiste ab origine, sicché se la condotta, astrattamente lecita sulla base della norma o del provvedimento illegittimi, assume rilevanza penale alla luce di una preesistente norma incriminatrice, non può ritenersi che la declaratoria di illegittimità comunitaria della norma o del provvedimento e la conseguente disapplicazione, comportino direttamente una patente violazione del principio di irretroattività della legge penale.
Sembra alludere a questa dinamica concettuale la Corte di Cassazione allorché, nella sentenza n. 25993/2019 (che ha condotto alla formazione del giudicato implicito nella vicenda che ci occupa), afferma che dalla disapplicazione del diritto nazionale non deriva “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”.
Gli è che da un lato il Consiglio di Stato ‒ per supplire all’inerzia di un legislatore sempre più assente e incapace di fornire risposte appaganti alla domanda di certezza proveniente dalla società civile e dal mercato ‒ ha provato ad indicare anche al giudice penale (non meno che al Parlamento ed alle Amministrazioni) la via maestra per una disciplina pretoria e (si spera) temporanea del settore, in attesa dell’auspicata organica riforma da introdurre secondo le regole previste dall’ordinamento per la produzione di diritto di origine legislativa; dall’altro lato, tuttavia, la Cassazione ha esercitato con pienezza l’autonomia che l’ordinamento le garantisce e ‒ in un ideale dialogo a distanza con il Consiglio di Stato, che da sempre contraddistingue il rapporto dialettico tra le due giurisdizioni ‒ si è discostata dal percorso suggerito, optando per una ricostruzione che ha come ineludibile approdo la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.
Tuttavia, in questo percorso ermeneutico, la Cassazione si è discostata anche dai principi che meritoriamente le Sezioni unite avevano dettato per garantire che la primazia del diritto dell’Unione ‒ che nell’obbligo di interpretazione conforme e di disapplicazione trova uno dei suoi pilastri ‒ non comportasse un inaccettabile arretramento sul versante dei principi fondamentali di legalità, tassatività ed irretroattività della pena.
Ad una declaratoria di insussistenza del fumus per l’adozione della misura cautelare la Corte sarebbe potuta pervenire anche seguendo il diverso percorso dell’insussistenza dell’elemento psicologico, richiamando i criteri e i parametri rilevanti in punto di errore scusabile, enucleati dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza 24 marzo 1988, n. 364) per delineare i confini dell’ignoranza inevitabile della legge penale con effetti esimenti della relativa responsabilità[xxi].
Ma la Cassazione ha ritenuto che non sussistessero nel caso di specie né “un comportamento positivo degli organi amministrativi”, né “un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale” che potessero indurre nell’indagato “il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto”.
Tale affermazione non può essere pienamente condivisa.
Anzitutto avrebbe meritato ampia considerazione il susseguirsi di leggi di proroga, introdotte dall’ordinamento anche dopo che la Corte di giustizia in Promoimpresa [xxii] aveva dichiarato la contrarietà delle proroghe rispetto alle regole dell’Unione. Siffatta pervicacia del legislatore ‒manifestata da ultimo con l’art. 1, comma 682, l. n. 145/2018 ‒ non poteva non ingenerare nel cittadino, anche nel più avveduto ed informato operatore economico, il convincimento della piena legittimità della scelta ordinamentale adottata dal Parlamento, con la conseguenza che, in presenza di un titolo concessorio legittimo ed efficace, non sussistesse una situazione di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”.
Per altra via, è innegabile che, in riferimento alle concessioni balneari, la questione dell’obbligo per le Amministrazioni di disapplicare il diritto interno violativo di una direttiva europea self executing (oggetto proprio della rimessione all’Adunanza plenaria) risultava dibattuta non solo in dottrina, ma anche in giurisprudenza, realizzandosi per tal via quel “gravemente caotico (…) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari” che la Corte costituzionale considera idoneo a determinare l’errore scusabile.
Infine, la condotta tenuta dall’Amministrazione avrebbe probabilmente meritato una diversa valutazione da parte del giudice penale.
Nella sentenza in commento, infatti, la Corte richiama il proprio insegnamento secondo il quale “la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta”[xxiii]; ma ritiene tale principio non applicabile nel caso di specie (§15).
Ad avviso del giudice di legittimità, infatti, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo della colpa, deve ritenersi non sufficiente “un mero ‘atteggiamento acquiescente’ tenuto dall’Amministrazione nei confronti dell’indagato, atteso che in assenza di un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a ingenerare uno scusabile convincimento di liceità del comportamento, la buona fede non può essere desunta da un mero fatto negativo, quale, appunto l’acquiescenza della p.A. nei confronti dell’indagato”.
Sembra, tuttavia, che la suprema Corte abbia valutato unicamente il provvedimento concessorio dell’11 giugno 2008 (la cui irrilevanza ai fini dell’errore scusabile era già stata delibata dalla Cassazione con sentenza n. 10218/2020), senza attribuire alcun rilievo alle successive note nelle quali il Comune (nel 2011 e nel 2016) dava atto del perdurare dell’efficacia della concessione per effetto delle sopravvenute proroghe ex lege[xxiv].
Non può, peraltro, escludersi che la Cassazione sarebbe potuta giungere ad un diverso approdo, qualora l’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 avesse riconosciuto efficacia autoritativa (e non, dunque “meramente ricognitiva dell’effetto prodotto dalla norma”) e natura provvedimentale agli atti con i quali le Amministrazioni hanno sovente (ed in modo ambiguo) comunicato agli interessati le proroghe perfezionate a seguito delle riforme legislative che si sono susseguite[xxv].
È innegabile, infatti, che dinnanzi ad un atto che costituisce manifestazione del potere (che, in una prospettiva istituzionale, l’ordinamento affida proprio all’Ente) di produrre, nel singolo caso concreto, l’effetto delineato, genericamente e per tutti i casi consimili, ex lege, difficilmente il giudice penale avrebbe potuto disconoscere la sussistenza di un comportamento positivo degli organi amministrativi (inverato in quel provvedimento) idoneo ad ingenerare l’errore scusabile dell’indagato.
In altri termini, qualora l’Adunanza plenaria, con minore sforzo “creativo”, avesse riconosciuto la natura provvedimentale della “proroga”, la posizione del concessionario ne sarebbe risultata rafforzata: certamente in sede amministrativa (per l’operare dei limiti introdotti dalla legge all’esercizio dell’autotutela, a quel punto necessario per rimuovere gli effetti della proroga), ma anche in sede penale, in virtù della rilevanza della condotta dell’Amministrazione in relazione alla configurabilità di un errore scusabile.
5. Osservazioni conclusive
Le considerazioni svolte portano a ritenere la decisione della Cassazione penale irragionevole nella misura in cui finisce per scaricare sul privato tensioni accumulate nel corso di anni in un settore in cui troppo a lungo l’interesse economico degli operatori nazionali ha ostacolato un’organica riforma che tenesse in debito conto da un lato le reiterate sollecitazioni provenienti dall’ordinamento Ue ‒ intento, come è naturale, a garantire il corretto dispiegarsi delle regole della concorrenza ‒ dall’altro l’interesse pubblico alla valorizzazione ed alla tutela del bene demaniale.
L’inerzia del legislatore è stata accompagnata dalla ritrosia delle Amministrazioni nella disapplicazione del diritto interno in favore delle regole pro-concorrenziali di derivazione europea e da una faticosa e meritoria opera del giudice amministrativo, chiamato a fornire risposte di giustizia in un quadro di estrema incertezza ordinamentale derivante (anche) dalla sovrapposizione di regole nazionali ed europee.
Se è vero che il giudice penale costituisce sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici (si pensi, in via esemplificativa, alla protezione dell’ambiente, della salute, del patrimonio culturale, non meno che all’ordinato assetto del territorio), la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati[xxvi], non può ammettersi che sia “il rigore della legge penale a favorire, a colpi di sanzioni inflitte ai privati”[xxvii] quella certezza giuridica negata da un’Amministrazione inerte, nel concorso con un legislatore distratto o, peggio, ostaggio di interessi di parte.
Né può ammettersi che il cittadino che abbia confidato nella piena legittimità dell’assetto di interessi delineato da un atto amministrativo ‒ che più correttamente si dovrebbe qualificare come provvedimento ‒ applicativo di una norma di legge pienamente vigente, si trovi esposto alle conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento, massime quando si tratti di conseguenze rilevanti sul piano penale, per effetto da un lato di un esercizio dell’azione penale che ‒ a fronte di una situazione di conclamata illegittimità che riguarda migliaia di concessioni balneari in tutta Italia ‒ non può che essere episodico (e per ciò stesso afflittivo solo per i concessionari indagati); dall’altro lato di un’interpretazione che il giudice, volta a volta investito della controversia, fornisca della fattispecie, anche disattendendo gli insegnamenti dettati dagli organi di vertice dei plessi giurisdizionali nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.
Ancora una volta, disposizioni introdotte nell’evidente intento di favorire gli operatori economici rischiano di rivelarsi vere e proprie trappole per questi, che paiono chiamati dall’ordinamento a ricercare sotto la propria esclusiva responsabilità, una certezza giuridica sempre vagheggiata ‒ ma troppo spesso smarrita nei sentieri tortuosi di una giurisprudenza che approda a soluzioni sempre diverse, mutevoli ed imprevedibili.
Sembra di poter concludere che abbiamo di fronte, anche in questo caso, gli effetti esiziali che la conclamata crisi della certezza giuridica produce sul piano della tutela dei diritti non meno che dello sviluppo dell’economia, in un ordinamento connotato dalla graduale recessività del diritto di origine “legislativa”, dalla pluralità ed atipicità delle fonti, dalla debolezza del legislatore, dalla troppo frequente inadeguatezza dell’Amministrazione ad assolvere alla propria funzione istituzionale e finanche da gravi aporie che si registrano all’esito di una deriva creazionista della giurisprudenza che, almeno nei suoi esiti più estremi, resta da scongiurare[xxviii].
In tale contesto occorre che il legislatore, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più avveduta, eserciti ‒ nel settore delle concessioni balneari, ma non solo ‒ in modo pieno le proprie prerogative e si faccia carico del compito di individuare regole certe in grado di produrre quell’effetto di stabilizzazione nomica che concorre a governare la complessità della società post-moderna.
[i] Cfr., XVIII legislatura, d.d.l. di iniziativa governativa, AS 2469, “legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”attualmente all’esame delle commissioni. I contenuti essenziali di una legge generale sulle concessioni marittime ‒ che tenesse in debito conto le esigenze di gestione e valorizzazione del bene pubblico, gli interessi degli utenti, quelli dei concessionari e del mercato ‒ erano stati delineati da V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al Mare. Atti del Convegno di Sestri Levante, 15-16 giugno 2019, Torino 2019, 67 ss.
[ii] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Dir. soc., 2021, 355-356.
[iii] Le sentenze hanno immediatamente destato l’interesse della dottrina. Tra i primissimi commenti si segnalano quelli raccolti nel numero speciale di Diritto e società, n. 3/2021, nonché, per limitarsi a quelli apparsi in questa rivista, F.P. Bello,Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 24 novembre 2021; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, 30 dicembre 2021; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116), 27 gennaio 2022; F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 28 gennaio 2022; M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, 16 febbraio 2022.
[iv] Si riporta di seguito il testo originario dell’art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009: “il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2012 è prorogato fino a tale data”. A seguito della legge di conversione (26 febbraio 2010, n. 25) il termine della proroga era stato fissato al 31.12.2015; con d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella l. 17 dicembre 2012, n. 221, il termine è stato ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2020.
[v] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “va puntualizzato che il Comune di Genova ha rilasciato in favore del Galli ben due provvedimenti successivi per legittimare la proroga dell’efficacia della sua concessione (entrambi presenti in copia fra gli atti allegati alla richiesta del P.M.): il primo in data 18 novembre 2011, con il quale la licenza (…) viene prorogata fino al 31.12.2015 in forza della l. 25/2010, e il secondo in data 29.11.2016, con il quale il medesimo titolo concessorio viene qualificato come ‘già instaurato e pendente in base all’art.1, comma 18, d.l. 194/2009’ (…) e ne viene pertanto riconosciuta la perdurante validità ‘non risultando ancora emanata la predetta normativa di revisione e riordino della materia’: con il che, nei fatti, l’efficacia del titolo viene differita fino al 2020”.
[vi] Tribunale di Genova, ufficio GIP, decreto del 2 ottobre 2018.
[vii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “di fronte a uno Stato che, nonostante l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria per la vigenza di norme in contrasto con principi di rango sovranazionale, ha adottato plurime leggi con le quali ha protratto nel tempo l’efficacia di titoli concessori che dovrebbero considerarsi spazzati via dalla normativa comunitaria, occorrerebbe richiamare lo Stato alle sue responsabilità piuttosto che scaricare sul concessionario l’obbligo di uniformarsi spontaneamente, peraltro senza che nemmeno gliel’abbia intimato l’Autorità concedente, come nel caso in esame, alla normativa sovranazionale”.
[viii] Secondo Cass. pen. n. 25993/2019, “le disposizioni ex lege 194 del 2009 si riferiscono esclusivamente alle concessioni nuove, ovvero a quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla l. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2001. Una diversa ed inammissibile interpretazione porterebbe a ritenere che il legislatore abbia abrogato espressamente la disciplina della proroga automatica introdotta nel 1993, in quanto in contrasto con la normativa europea, salvaguardandone comunque gli effetti e, in tal modo, operando in contrasto con la disciplina comunitaria (Sez.3, n.29763 del 26/03/2014, Rv.260108)”.
[ix] Nel senso dell’applicabilità della proroga ex d.l. n. 194/2009, specie in relazione alla (non) configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., militano numerosi argomenti: a) anzitutto il tenore letterale della disposizione che, con formulazione assai ampia, faceva riferimento alle “concessioni in essere” alla data di entrata in vigore del decreto; b) un’interpretazione sistematica, considerato che successivamente il legislatore ha previsto una proroga generalizzata delle concessioni esistenti (art. 1, commi 682 e 683 l. n. 145/2018); c) il principio enunciato dalla Cassazione penale a sezioni unite ed in forza del quale, come a breve meglio si preciserà, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria possono conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (sentenza 8 giugno 2012, n. 22225).
[x] Cass. pen. n. 25993/2019, § 7: “va disapplicata la normativa di cui all’art. 24, comma 3-septies, d.l. 24 giugno 2016, n. 113, conv. in l. 7 agosto 2016, n. 160, laddove la stessa, stabilizzando gli effetti della proroga automatica delle concessioni demaniali marittime prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25, contrasta con l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (c.d. direttiva Bolkestein) e, comunque, con l’articolo 49 TFUE. (Sez.3, n.21281 del 16/03/2018, Rv.273222, cit.)”.
[xi] Cass. pen. n. 25993/2019, § 8.
[xii] Ordinanza del 12 luglio 2019.
[xiii] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, decreto dell’8 novembre 2021.
[xiv] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, ordinanza del 3 dicembre 2021.
[xv] Secondo quel Giudice, infatti, il concessionario “si era trovato ‘ostaggio’ di un pervicace e contrastante atteggiamento dei pubblici poteri”: da un canto il Comune nel 2011 aveva espressamente concesso la proroga ex d.l. 194/2009; dall’altro il legislatore, ancorché violando il diritto Ue, aveva disposto due successive ulteriori proroghe. Osserva il GIP che l’indagato era incorso in errore scusabile “generato dall’ingannevole informazione/disposizione prodotta da fonti qualificate”. Per altra via il giudice evidenzia l’irragionevolezza di una soluzione interpretativa secondo la quale “nonostante una pubblica amministrazione che l’autorizzava a proseguire nel rapporto concessorio, applicando non una ma addirittura due leggi statali di proroga” l’indagato avrebbe dovuto disattendere la proroga e rendersi ‒ dato questo non trascurabile ‒ inadempiente agli obblighi derivanti dalla concessione.
[xvi] Corte di giustizia Ue, grand. Sez., sentenza 3 maggio 2005, in cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, Berlusconi; sentenza 16 giugno 2005, in causa C- 105/03, Pupino.
[xvii] Corte di giustizia Ue, sentenza 5 luglio 2007, in causa C-321/05 Kofoed, § 45.
[xviii] Sul punto, nell’ambito di una vasta dottrina, cfr., E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, cit.
D’altro canto, la Corte costituzionale, con sentenza 28 gennaio 2010, n. 28 aveva affermato il principio secondo il quale “l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale”.
[xix] Al § 11 della sentenza Cass. pen.15676/2022, si ripercorrono le argomentazioni sviluppate dall’Ad. plen., spec. ai § 14, 16, 24, 25 delle sentenze gemelle.
[xx] Addirittura, in deroga al principio per il quale l’efficacia retroattiva della sentenza della Consulta si arresta dinnanzi ai rapporti già regolati in via definitiva dalla legge incostituzionale, l’art. 30, comma 4, della l. n. 87/1953 dispone che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.
[xxi] Su questa linea si era attestato il GIP nel provvedimento di dissequestro del 3 dicembre 2021, ponendo in rilievo come l’indagato si fosse trovato di fronte “all’univoco atteggiamento di un legislatore che reiteratamente prorogava le concessioni demaniali e [ad] una p.A. che non dava corso alla richiesta di proroga dal medesimo presentata, proprio facendo applicazione delle proroghe legislative (…) confortato di essere nella medesima situazione di altri numerosi ‘colleghi’, la cui concessione scaduta non era prorogata in via amministrativa, al pari della sua, in virtù delle proroghe legali anzidette”. Si segnala, peraltro, che secondo il Tribunale del riesame (ord. del 9 novembre 2018) “il punto cruciale sembra essere proprio la connotazione ‘arbitraria’ o ‘abusiva’, in sostanza contra legem, dell’occupazione dell’area demaniale (…) profilo che, pur inerendo precipuamente all’elemento materiale del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., si riflette pur sempre sul relativo elemento piscologico, trattandosi di dolo specifico che sorregge la condotta e che sembra prescindere, all’evidenza, da ogni possibile caratterizzazione della stessa in termini colposi; non si vede, per vero, come sia possibile commettere un atto qualificato dal legislatore come ‘arbitrario’ (nel precetto) e ‘abusivo’ (nella rubrica) serbando un atteggiamento psicologico indotto da un errore, per di più sulla normativa vigente e nemmeno sul fatto: la contravvenzione in parola sembra, dunque, dolosa per natura, apparendo una contraddizione insanabile quella tra ‘arbitrarietà’ della condotta ad essa sottesa e l’eventuale colpa nella relativa consumazione”.
[xxii] Corte di giustizia del 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa.
[xxiii]Cass. pen., sez. I, 15 luglio 2015 n. 47712. In quel caso la Corte aveva ritenuto scusabile l’errore dell’imputato, che, nel denunziare all’Amministrazione l’arma ereditata dal padre, non aveva indicato le munizioni in suo possesso, in ciò indotto da una nota dell'ufficio di p.s.
[xxiv] Cfr. supra nota 5 e la ricostruzione sul punto operata dal Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxv] Per la tesi secondo la quale la volontà (di disporre la proroga) espressa dalle leggi che si sono susseguite negli anni necessitava di una concreta attuazione per il tramite di un atto amministrativo di natura provvedimentale (e per alcune considerazioni sulle conseguenze di siffatta impostazione in ordine ai limiti della necessaria autotutela da esercitarsi in relazione a tali atti), sia consentito il rinvio a P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela, in Dir. soc., 2021, 583 ss. Sulla “nuova autotutela” all’indomani della l. n. 124/2015, cfr., nell’ambito di una vasta dottrina, cfr. F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015; M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli 2016, 125 ss.; Id., Autotutela, in Il libro dell’anno del Diritto 2016, Roma 2016.
[xxvi] È interessante osservare, in proposito, che nella vicenda che ci occupa, il Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 13 luglio 2019, convalidava il sequestro dando esecuzione alla sentenza Cass. pen. sez. III, n. 25993/2019, e tuttavia restitutiva gli atti al P.M. perché svolgesse accertamenti investigativi in ordine all’eventuale condotta penalmente rilevante (ex artt. 323, 328 e 361 c.p.) derivante dal “comportamento delle Autorità amministrative (Agenzia del Demanio, Capitaneria di Porto e Comune di Genova) che mostrano di aver tollerato per circa un decennio la consumazione dell’illecito penale in esame ad opera dell’indagato”.
[xxvii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxviii] Sul tema dell’incertezza delle regole e del creazionismo giurisprudenziale nell’ordinamento amministrativo moderno si v. per tutti M.A. Sandulli, Ancora sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici, in Federalismi.it, 23 maggio 2018; Id., I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, ivi, 21 novembre 2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.; Id., La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione giustizia, n. 1/2021, 38 ss. Il tema è stato oggetto di analisi ed approfondimento durante il convegno di studi sul tema “I materiali della legge nella teoria delle fonti e nell’interpretazione del diritto”, Roma, Palazzo Spada, 20 aprile 2022.