COVID 19 e la questione fiscale (italiana): note minime per un cambiamento necessario
di Enrico Manzon
Sfuggire alle tasse è l’unica impresa intellettuale che offra ancora un premio
John Maynard Keynes
SOMMARIO: 1. Considerazioni generali; 2. Equità e dialogo procedimentale; 3. Un imperativo: aggredire con –vera- determinazione l’evasione tributaria; 4. Misure di giustizia; 5. Osservazioni finali
1. Considerazioni generali
L’enorme calamità umana e sociale che si è abbattuta prima sulla Cina, poi sull’Italia e quindi sul Mondo intero, è ancora nel suo pieno, drammatico, svolgimento.
Una forte esigenza di benessere psicologico individuale e collettivo, spinge tuttavia a guardare oltre l’attuale emergenza ed a pensare al nostro futuro, di persone, di collettività umane.
In questo orizzonte si stagliano problemi complessi, ma si pone anche la necessità del coraggio nell’innovazione, auspicabilmente senza dimenticare le “lezioni” del passato, prima di tutto quelle dello scorso secolo, le cui tragedie sono ancora vive nella nostra memoria, tanto quanto le grandi rivincite che la civiltà -l’humanitas- si sono prese su di esse.
E’ infatti dalle epidemie, dalle guerre, dai fallimenti dei sistemi economici del secolo breve che possiamo ricavare gli insegnamenti che servono per affrontare e vincere le sfide che abbiamo davanti, anche se è chiaro che gli stessi rimedi -politici, economici e sociali- che per quegli eventi sono stati impiegati devono inevitabilmente essere ri-pensati ed adattati alla modernità della società digitale.
Ma tornando all’emergenza sanitaria ed alle sue conseguenze umane ed economiche, in Italia e nel Mondo appare evidente la grande diversità dei sistemi di sanità dei singoli Paesi ed al termine di questa drammatica emergenza, contabilizzandone i danni umani ed economici, sarà inevitabile che di questi sistemi venga attualizzato il ranking ed, allo stesso tempo, sarà interesse e, speriamo, pretesa di tutti gli abitanti del Pianeta che nei vari livelli decisionali politici vengano tratte coerenti conclusioni e fatte le scelte necessarie per la più ampia tutela del fondamentale diritto umano alla vita ed alla salute.
Bisognerà quindi riflettere in profondità sui “modelli sanitari”, sulla loro configurazione ed implementazione: in termini ancor più chiari si porrà -a livello planetario- la questione del finanziamento delle attività di tutela della salute individuale e collettiva.
E’ ragionevole prevedere che questo diverrà il nuovo focus della discussione, il terreno di scontro privilegiato, tra chi sostiene le ragioni del “privato” e chi quelle del “pubblico”.
Al fondo, si porrà in ogni caso una “questione fiscale” ossia si dovrà decidere sui livelli di tassazione delle ricchezze nazionali per sostenerne -in via ordinaria e di medio-lungo periodo- gli oneri finanziari.
Ovvio che questo policy making, che è prima di tutto un policy thinking, avrà sicuramente profili tutt’affatto diversi nei vari angoli del pianeta, variandone radicalmente le basi teoriche, dai capitalismi di stato (Cina, Russia) alle economie “liberali”, ma anche tra queste.
Nei Paesi anglosassoni (USA, GB) il problema sarà quello del livello della “tassazione formale”, posto che da Reagan e Thatcher in poi la scelta è stata quella di “tassare poco e spendere poco”, peraltro non avendo mai avuto gli Stati Uniti un sistema di sanità pubblica inteso nel senso europeo moderno ed avendo fortemente ridimensionato il Regno Unito il proprio.
In molti Paesi dell’UE, sicuramente in quelli principali, l’eventuale decisione di potenziamento, anche in senso finanziario, del sistema sanitario potrà essere assecondato da un debito pubblico compatibile e da un finanziamento fiscale reso possibile dalle dimensioni del prelievo globale e dalla sua relativa efficienza.
In Italia questa situazione è esattamente rovesciata: il nostro debito pubblico è enorme sia in termini assoluti che di rapporto con il PIL ed il tasso di efficienza della leva fiscale è tradizionalmente insoddisfacente e complessivamente iniquo.
Appare quindi chiaro che, per poter adeguare il nostro sistema di sanità pubblica “universale” alle nuove sfide che la globalizzazione ci impone e più in generale per far ripartire l’economia nazionale dopo i danni ingenti della pandemia in atto, servono risorse che possiamo attingere dal mercato dei capitali in misura affatto limitata, pena un rischio concreto di dèfault, salve misure straordinarie a livello UE (eurobonds), allo stato solo preconizzate, ma ancora lontane e per nulla scontate.
Pertanto la “via italiana” dovrà necessariamente contare, oltre l’emergenza, sul prelievo tributario, alla cui inefficienza dovremo per forza porre rimedio. Bisognerà dunque agire con determinazione sul “livello sostanziale” della tassazione o meglio sullo scarto, impressionante, tra questo livello e quello “formale”.
In altri, ancor più chiari termini, essenzialmente, non potremo più permetterci un’evasione fiscale che, secondo le stime maggiormente prudenziali, ad almeno 100 miliardi di euro ogni anno. Significativamente questo valore economico è appena inferiore a quello della spesa sanitaria nazionale (nel 2019, 115 miliardi di euro).
Occorre perciò pensare “cosa e come fare” per almeno ridurre questo enorme deficit di cultura sociale e di finanza pubblica, così da ottenere, anche per questa via, le risorse per fare quello che serve alla comunità, nella sanità e nell’ economia.
Ovviamente si tratta di una questione complessa causata da radici profonde, anche ed ampiamente “extrafiscali”, che perciò ha molte angolature e risposte, nessuna semplice né semplificatrice ed è con questa, peraltro banale, consapevolezza che cercherò di illustrare qualche idea per ragionarci sopra, mi auguro non, troppo, banalmente.
Preciso peraltro che le mie riflessioni, oltre che necessariamente sommarie, sono in ogni caso limitate ai profili di diritto tributario, escluse pertanto analisi che guardino ai –pur fondamentali- aspetti etici, politici ed economici della questione medesima, rimanendo fuori dal limitato “campo visivo” di questo piccolo contributo in particolare ogni considerazione sul versante del debito e della spesa pubblici, dei loro limiti e della necessità dell’ efficientamento della seconda.
Ciò non solo per ragioni di spazio, ma essenzialmente a causa dell’assenza di una adeguata “competenza”, che mi impedisce di scrivere su ciò che non conosco ad un livello superiore a quello di una persona di media cultura.
2. Equità e dialogo procedimentale
Da sempre riuscire a far pagare le tasse non è né può essere solo “affare di bastone”, ma è comunque -allo stesso tempo e forse prima ancora- “affare di carota”.
In ogni caso, il punto di partenza, anche giuridico costituzionale, di ogni ragionamento sul dovere contributivo è l’equità fiscale.
Concetto che vuol dire più cose: prima di tutto, sicuramente, eguaglianza, principio supremo della Costituzione, che si declina –comunemente- nell’eguale trattamento normativo di situazioni uguali, nel diverso trattamento normativo di situazioni diverse.
Partiamo da qui.
Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ne prendo uno, a mio giudizio, particolarmente significativo: la tassazione dei redditi da lavoro, che è una delle forme più socialmente diffuse e finanziariamente più importanti di imposizione tributaria.
Domanda: è conforme al principio di uguaglianza tassare nella stessa misura il reddito di lavoro dipendente e quello di lavoro autonomo, quello di lavoro dipendente pubblico e quello di lavoro dipendente privato?
Apparentemente sì, posto che, parafrasando il mercante di Venezia, “un euro è un euro”, ma, se si vuole approfondire senza preconcetti “ideologici”, no, perchè si tratta proprio di situazioni tutt’affatto diverse.
Pensiamo alla stabilità delle relative “fonti reddituali”. Alta quella del dipendente pubblico assai inferiore quella del dipendente privato, ancora più bassa quella del lavoratore autonomo. Va subito soggiunto che a ciò è inversamente proporzionale la chance di inadempimento fiscale volontario, essendo limitata quella del dipendente pubblico (solo se fa un altro lavoro), più elevata quella del dipendente privato (c.d. “fuori busta”), ancor più elevata quella del lavoratore autonomo (omessa registrazione di compensi).
Se queste proposizioni sono vere, allora la corretta applicazione del principio di uguaglianza richiede una diversa misura di tassazione di queste fonti reddituali così radicalmente differenziate sul piano “genetico-qualitativo”.
In questo senso le tecniche normative sono più d’una.
Differenziare le aliquote d’imposta porrebbe qualche problema di costituzionalità. Senz’altro meno problematico e più efficace è invece utilizzare la tecnica della detrazione di imposta, peraltro già da tempo risalente impiegata dal legislatore tributario italiano (art. 13, dPR 917/1986-TUIR).
A mio giudizio tuttavia va esattamente ribaltata la logica delle vigenti disposizioni, che è di netto (e costituzionalmente inspiegabile) favore per il lavoro dipendente rispetto a quello autonomo, senza alcuna discriminazione tra pubblico e privato.
La mia idea è che si potrebbe introdurre una detrazione per lavoro autonomo ed una per lavoro dipendente privato, modulate in senso inversamente progressivo ossia decrescenti all’aumentare della base imponibile netta, parametrate secondo modelli attuariali sul rischio di impresa quindi di licenziamento/ammortizzatore sociale per il lavoratore dipendente privato e di cause esogene (malattie) di contrazione reddituale per il lavoratore autonomo.
Questo sarebbe appunto un modo per attuare il principio di “equità fiscale”, disinnescando uno dei temi classici di contrapposizione tra i contribuenti persone fisiche: in particolare, dipendenti pubblici che hanno il reddito sicuro e garantito vs lavoratori autonomi che eguali garanzie non hanno e quindi si “difendono” evadendo le imposte e vs dipendenti privati che non hanno alcuna effettiva garanzia di tutela del posto di lavoro, tanto più con il precariato diffuso del XXI secolo.
Ovviamente la minor tassazione, per applicazione della detrazione, a parità di reddito, andrebbe accordata ai lavoratori autonomi solo qualora abbiano pienamente rispettato gli “indici di affidabilità fiscale”.
Comunque sia, alla base di questo e di analoghi ragionamenti di politica fiscale, sta l’assioma, non credo affatto “illuministico”, che un fisco più equo possa, ragionevolmente, diventare un fisco “più accettato” e che perciò possa ambire ad essere più rispettato.
Altra questione è poi quella di “come si paga” ossia dei rapporti formali/procedimentali tra gli enti impositori ed i contribuenti.
E’ indubitabile che su questo piano negli ultimi anni, a partire dalla legge 212/2000 (statuto dei diritti dei contribuenti), si è fatta molta strada, dall’accertamento con adesione agli interpelli, generale e speciali.
Certamente si può fare di più, soprattutto ed essenzialmente sul piano del contraddittorio procedimentale, trattandosi di uno strumento essenziale di compliance fiscale, che notoriamente ancora non è un principio generale dell’azione amministrativa tributaria italiana. Quindi tale principio deve essere generalizzato anche ai “tributi non armonizzati”, essendolo allo stato solo per quelli “armonizzati” (IVA, tributi doganali, accise).
Peraltro è anche sul terreno dei rapporti fisco/contribuente che si è fatto apprezzare il “modello agenziale” di gestione dei tributi introdotto con la riforma di inizio secolo, rivelandone le potenzialità derivanti da una notevolmente maggiore flessibilità organizzativa rispetto al tradizionale “modello ministeriale”.
Quindi, in conclusione sul punto, chiedere il “giusto” e parlare molto prima di agire: questi dovrebbero essere i principi di base dell’azione amministrativa di attuazione dei tributi.
3. Un imperativo: aggredire con –vera- determinazione l’evasione tributaria
Tuttavia, il problema del “contribuente infedele” non si risolve solo con l’equità e la compliance. E’ perciò inevitabile che lo Stato e gli altri enti impositori debbano mostrare anche il “volto delle armi” ossia far valere la forza della legge, costituzionale e tributaria.
In questa direzione, la prima via è senz’altro quella dell’istruttoria amministrativa ossia dell’azione accertatrice degli enti impositori.
Va detto che per quanto riguarda le c.d. “grandi imposte” statali (IRPEF, IRES, IVA) i margini di miglioramento sono molto ampi. C’è ancora troppo approccio burocratico nell’attività di verifica delle agenzie fiscali e della GdF, troppa dipendenza da statistiche “viziate” dalla prevalenza del credito ’”accertato” sul credito che poi si consolida effettivamente ed ancor più sul credito “riscosso”.
Così si mira a raggiungere risultati sostanzialmente fasulli, che servono ai giornali e non alle casse dello Stato. Ed infatti negli anni le percentuali di effettivo recupero dei tributi evasi si sono mantenute su livelli del tutto insoddisfacenti, molto lontani dai ricorrenti reboanti comunicati sul recupero dell’evasione fiscale.
Si tratta dunque di cambiare radicalmente il sistema dei controlli e degli accertamenti, soprattutto dei loro targets, certamente con l’aiuto dell’informatica, sempre più rilevante, senza però dimenticare che gli applicativi non funzionano da soli e vanno indirizzati con l’intelligenza umana.
Una seconda via è sicuramente quella normativa, i cui steps di partenza generali sono piuttosto chiari: semplificazione e codificazione.
Vi è infatti una pressante necessità di chiarezza dei quadri normativi, dal generale al particolare, dai procedimenti attuativi delle imposte alla strutturazione delle medesime.
Poi però bisogna anche riconfigurare almeno in parte il repertorio dei tributi, ovviamente all’interno dei vincoli di diritto unionale, primario e derivato, quindi, sostanzialmente, quello dei tributi “non armonizzati” ossia essenzialmente quelli diretti.
In questa grande sottocategoria, che poi costituisce, assieme all’IVA, la fonte principale del gettito erariale proprio, appare necessario spostare –sensibilmente- il peso dell’imposizione dal reddito al patrimonio.
Si tratta indubbiamente di un’operazione alquanto delicata, ma altrettanto necessaria, per ragioni allo stesso tempo di equità e di efficienza del prelievo fiscale.
E’ infatti indubbio che il patrimonio è “reddito risparmiato” (da qualcuno) e tendenzialmente già tassato, che perciò rischia di essere tassato due volte.
Non è tuttavia sempre così, poiché è evidente che l’ammontare storico dell’evasione fiscale, piccola o grande che sia stata, da qualche parte sarà pur finito, nelle banche e nelle finanziarie dei paradisi fiscali, nelle campagne o nei palazzi italiani o nel capitale finanziario/di rischio delle imprese, piccole e grandi, italiane.
In ogni caso il (possesso del) patrimonio è un indice sicuro di “capacità contributiva”, molto più attendibile ad esempio, di quello evanescente dell’IRAP, che pure è imposta che il suo gettito, per nulla irrilevante, ormai da quasi 25 anni lo dà.
Dunque è mia opinione che, pensare ad una patrimoniale diffusa, a “bassa intensità”, ma a gettito rilevante per il bilancio dello Stato, come forma di prelievo ordinario, non può essere affatto considerato quasi un’ ”eresia comunista”, quanto piuttosto come un’idea di politica fiscale utile e ben fondata sulla Costituzione.
Del resto, per tornare per un attimo alle premesse sulle prospettive ingenerate dalla pandemia, nell’immediato futuro questo tipo di imposta dovrà essere messa nell’agenda del Governo italiano che dovrà portarci fuori dalla difficile situazione economico finanziaria dei prossimi mesi ed anni (speriamo non troppi).
Sempre sul piano della produzione normativa necessaria per un vero “cambio di passo” del Fisco italiano appare infine indispensabile –anche- una politica più severa nel campo del diritto penale tributario.
Trattandosi di misure della massima offensività per libertà e diritti fondamentali, è del tutto ovvio che bisogna discuterne con molta cautela.
Tuttavia bisogna partire da un assioma chiaro: non adempiere fedelmente ai propri doveri tributari è un fatto comunque grave e che può essere anche molto grave (entità del danno erariale; frodi).
Pensiamo solo all’emergenza sanitaria che viviamo: in questo particolarissimo momento storico risulta ancora più evidente che l’evasore fiscale che si avvale del sistema pubblico sanitario ottiene un servizio che, in misura più o meno rilevante, non ha pagato e che per lui pagano altri.
Allora non si tratta certo di emanare le classiche grida manzoniane, quanto piuttosto di equiparare, una volta per tutte, quoad poenam e relativi effetti penali, le condotte fiscalmente più gravi, in particolare le frodi, ai più gravi delitti contro il patrimonio, come la bancarotta fraudolenta o meglio ancora la rapina e l’estorsione.
Si sa che il deterrente penale ha i suoi limiti, ma fin qui in Italia ne siamo stati fin troppo distanti e bisogna perciò provare davvero a testarli, in un’ottica sanzionatoria che punti davvero all’effettività della pena.
4. Misure di giustizia
In questo quadro, è evidente che la giustizia debba avere un ruolo di maggior presenza e quindi di maggior peso.
Intendo, univocamente, la giustizia ordinaria, sotto due profili complementari.
Il primo, quello della giustizia penale.
Infatti, non basta rimodulare in senso più fermo le sanzioni. Bisogna potenziare l’azione di contrasto delle Procure e migliorare la competenza specialistica dei giudici.
In ordine all’azione di indagine preliminare appare necessario che si adottino le determinazioni organizzative idonee ad avere presso ogni ufficio del pubblico ministero un nucleo di magistrati specializzato nei reati tributari, sì che l’azione di polizia tributaria abbia il necessario impulso e coordinamento direttivo, in modo specificamente adattato alle peculiarità delle modalità di evasione fiscale che si concretizzano nei singoli territori.
Tale forma organizzativa deve essere interfacciata “a specchio” in quella dei tribunali, ma anche delle Procure generali e delle Corti di appello.
Il consolidamento dell’organizzazione degli uffici deve essere accompagnato dall’intensificazione dell’attività formativa della Scuola superiore della magistratura, sia in sede territoriale sia in sede centrale.
Ma il penale non basta affatto. Appare infatti ormai improcastinabile una radicale riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria “civile”.
Come non ci possiamo più permettere 100 miliardi euro all’anno di evasione fiscale, correlativamente nemmeno ci possiamo più permettere una giurisdizione sulle conseguenti liti affidata a giudici non specificamente attrezzati ed addirittura nemmeno impiegati in via esclusiva a “tempo pieno”.
In altri termini, l’indispensabile potenziamento dell’azione amministrativa (e finanche penale) di affermazione concreta dell’obbligo di contribuzione fiscale non può più rimanere nelle mani di un apparato giudiziario privo di un’accettabile solidità ordinamentale e professionale.
Insomma, ad un’azione amministrativa più forte e decisa deve corrispondere un giudice ugualmente forte, quale imprescindibile garanzia e presidio sia dei diritti dei contribuenti sia dell’interesse dello Stato-comunità all’acquisizione delle risorse che gli occorrono.
Dunque, la magistratura ordinaria non può più sottrarsi dal dovere di fare la sua parte anche in questo negletto settore di giustizia, per la semplice ragione che la collettività nazionale ne ha la necessità, da tempo peraltro evidente, ora impellente.
5. Osservazioni finali
“Il contribuente è uno che lavora per lo Stato senza essere un impiegato statale” (Ronald Reagan); “Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti” (Margaret Thatcher).
Mi auguro che il COVID 19 se ne vada via presto dalle nostre vite, ma che non si dimentichi di portare con sé la “filosofia” espressa in queste due frasi e la realtà storica che ne è stata la sciagurata conseguenza, efficacemente espressa in quest’altra: “I ricchi non sono come noi: loro pagano meno tasse” (Peter De Vries).
Se in particolare in Italia si invoca e si sente la necessità di “ripartire tutti assieme” da questo brusco e drammatico stop della nostra vita comunitaria, a mio avviso “assieme” vuol dire solidaristicamente, come è scritto nel principio supremo dell’art. 2 della Costituzione.
“Ripartire” non è peraltro una parola vuota, ma un insieme di comportamenti, privati e pubblici, molti dei quali implicano l’impiego di risorse economiche: per la sanità e per lo sviluppo.
Queste risorse devono venire –in Italia principalmente- dall’assolvimento del dovere di tutti coloro che appartengono alla comunità nazionale di darle in base alla loro capacità contributiva ed in modo uguale, secondo gli altri fondamentali principi dettati dagli artt. 53 e 3 della Costituzione medesima.
Il contribuente non è infatti un “impiegato statale”, bensì di sé stesso, perché è lui che nasce, di norma, in un ospedale pubblico, che poi lo cura durante la sua vita; è lui che, di norma, si istruisce in una scuola pubblica; è lui che viaggia sulle strade pubbliche e che riceve protezione dalle forze di polizia; è lui che ha diritto di chiedere ed ottenere giustizia, anche fiscale, dalle istituzioni giudiziarie.
E non è poi affatto vero che la “torta” diverrà più piccola per tutti con la diminuzione del peso fiscale. Come le esperienze del liberismo dimostrano, diverrà più piccola solo per i meno ricchi, perché avranno meno servizi pubblici, in una parola sola meno welfare, mentre più grande sarà quella a disposizione di chi ha di più.
Ed infatti negli ultimi trent’anni di liberismo imperante le disuguaglianze sono aumentate a dismisura, ben oltre un accettabile limite etico.
Se dunque è all’ordine del giorno delle democrazie liberali una ripresa forte del ruolo dello Stato nell’economia e nella società, se lo deve essere anche in Italia, allora l’Italia deve prendere finalmente sul serio la questione fiscale.
E lo deve fare con equità, ma con giustizia.