Il Covid, la distribuzione delle risorse e la cura degli anziani
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Una strage non casuale - 2. Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse - 3. L’ineludibile responsabilità morale - 4. Alternative drammatiche - 5. La vita degli anziani è “degna di essere vissuta”?- 6. Ciò che è utile e ciò che è importante - 7. Il rischio dell’interpretazione - 8. Due indicazioni.
1. Una strage non casuale
Tra le questioni sollevate dal Covid, ha sicuramente un posto di rilievo quella del suo impatto sugli anziani e delle responsabilità che la società ha nel tutelarne la salute. È noto che, soprattutto nella prima fase della pandemia, la mortalità è stata frequente soprattutto tra le persone di età avanzata. In questo ha avuto certamente un peso decisivo la loro maggiore fragilità. Ma non è questa l’unica spiegazione. Ve n’è almeno un’altra, legata al tema che qui affrontiamo.
Da uno studio recente, di cui ha dato notizia il «Corriere della Sera» del 21 ottobre scorso, apprendiamo che in Italia - nel periodo più drammatico della pandemia, tra il 14 marzo e il 25 aprile del 2020, e nella regione dove essa è esplosa con maggiore virulenza, la Lombardia - gli over 70 erano circa la metà dei ricoverati. Questa percentuale però si abbassa drasticamente al 22% (poco più di uno su cinque!) quando si vanno a vedere i numeri di coloro si trovavano in terapia intensiva e fruivano, perciò, di cure più efficaci. E ciò, malgrado in poche settimane si fosse riusciti ad aumentare il numero di posti-letto in questi reparti da 720 a 1761.
La strage degli anziani che ha così fortemente colpito l’opinione pubblica non è stata dunque un caso. Essa è stata anche il frutto di una tendenza a selezionare i casi clinici in base ai dati anagafici, privilegiando nelle cure i più giovani rispetto ai vecchi.
La ricerca riguarda solo la regione lombarda. Ma è probabile che i risultati non sarebbero molto diversi se analoghi studi venissero condotti su altre regioni. In un momento in cui il dilagare del virus ha creato ai sanitari drammatici problemi di scelta, l’età ha sicuramente costituito – un po’ dovunque - un criterio importante per decidere a chi dare la precedenza nelle cure. Ma è legittimo questo, da un punto di vista sia morale che giuridico? Con quali parametri si deve decidere l’ammissibilità di un paziente a trattamenti sanitari salva-vita?
2. Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse
Il problema, in realtà, non è nuovo. Ben prima del Covid, io stesso avevo già avuto modo di occuparmene, come membro (dal 1999 al 2002) del Comitato Nazionale di Bioetica. Anche perché, in quella occasione, ho fatto parte - con Giovanni Berlinguer (che era allora il presidente del Comitato) ed Eugenio Lecaldano (noto docente di filosofia morale) - di un piccolo sottogruppo di lavoro dedicato all’equità nell’allocazione delle risorse.
È questo l’ambito in cui la società può e deve assumersi le proprie responsabilità in materia di salute e in cui, di conseguenza, entra in gioco il problema dell’equità. Infatti, non ogni disuguaglianza, in questo ambito, è riconducibile ad una iniquità. Non lo sono quelle dovute a scelte personali (per esempio, al fumo). Non lo sono quelle legate a malattie o fragilità congenite. Non lo sono quelle legate alla particolare identità di genere, maschile e femminile. E non lo sono neppure quelle dipendenti dall’età.
Il problema dell’equità nell’allocazione delle risorse entra in gioco là dove si tratta di disuguaglianze evitabili con un intervento da parte del sistema sanitario. Ad esso spetta garantire a tutti - se lo vogliono, e tenuto conto dei fattori sopra indicati - la possibilità di godere di quel grado di salute che è alla loro portata.
Le difficoltà nascono dal fatto che le risorse non sono illimitate e dunque, spesso, non bastano per rispondere ai bisogni. Negli studi dedicati a questo tema si suol dire che esse sono “scarse”. In realtà la presunta scarsità è in molti casi un effetto degli sprechi a cui esse sono soggette, nei singoli paesi e a livello internazionale. Si aggiungano a ciò le disfunzioni, dovute ad incompetenza o a disonestà, che a volte si riscontrano nel servizio sanitario, a tutti i livelli. Infine, vi sono le conseguenze di una distribuzione iniqua, a monte, della ricchezza, che mette un certo numero di persone e alcuni paesi in condizione di avere assai più di quanto sarebbe loro strettamente necessario e impedisce ad altri di raggiungere gli standard minimi.
Quali che ne siano la cause, resta vero, però, che, di fatto, i mezzi a disposizione per curare la salute delle persone non bastano, spesso per tutte. È qui che si pone la domanda sui criteri da seguire nella loro utilizzazione.
Qui ci occuperemo del problema solo in riferimento all’Italia e al trattamento sanitario degli anziani. Ma è bene non dimenticare che il Covid lo ha posto anche a livello internazionale e per altre categorie di persone.
3. L’ineludibile responsabilità morale
Chiamando in causa l’equità, si riconosce che i criteri di cu si parlava non scaturiscono automaticamente e asetticamente dalle competenze scientifiche e tecniche del medico. Una ipotesi, quest’ultima, che scaricherebbe le persone, sia nell’ambito sanitario che in quello politico, da ogni responsabilità morale nel fare delle scelte e permetterebbe loro di invocare, per giustificarle, dei puri e semplici dati di fatto.
In realtà non è così. Certamente i dati di ordine sanitario sono la base indispensabile per ogni decisione, ma è l’interpretazione che noi ne diamo a risultare, in ultima istanza, decisiva. Da qui l’ineludibilità della questione etica e del ricorso a una valutazione di equità di cui il singolo dottore, ma anche l’intero sistema sanitario, deve farsi carico, a volte drammaticamente.
Dove per equità non si può intendere una astratta uguaglianza di trattamento. È vero che, secondo l’art. 3 della nostra Costituzione, «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ma questa uguaglianza non può comportare una omologazione. L’equità, nell’ambito sanitario come in qualunque altro, suppone la considerazione delle diverse situazioni esistenti nella realtà.
Prima si diceva che non ogni differenza nel godimento della salute è una ingiustizia, perché molte di esse non dipendono dalle strutture sanitarie. È il momento di richiamare questa formula anche a proposito delle cure che queste sono tenute a prestare ai singoli pazienti. Basti pensare alle particolari esigenze poste, per le donne, dall’assistenza alla maternità. Opportunamente è stato osservato da qualcuno che la massima ingiustizia consisterebbe proprio nel trattare in modo uguale situazioni diverse.
Peraltro, il criterio di una uguaglianza materiale, nel caso dell’utilizzazione di risorse limitate, è reso inapplicabile già per il semplice fatto che è impossibile metterle a disposizione di tutti i richiedenti.
4. Alternative drammatiche
È chiaro, a questo punto, che delle scelte sono inevitabili. Mai come in questo caso sarebbe immensamente più comodo eluderle, rimettendosi a criteri tecnici (in questo caso medici) puramente oggettivi, o a una soluzione etica (la pura e semplice uguaglianza) che non comporti decisioni inevitabilmente dolorose. Ma i tentativi in questa direzione che abbiamo preso in esame sono risultati fallimentari. Dobbiamo dunque chiederci quali criteri morali di scelta nell’utilizzazione delle risorse sanitarie sono ipotizzabili. Sarà nell’ambito di questo quadro che metteremo a fuoco il problema della cura degli anziani.
Alla questione così posta si possono dare diverse soluzioni, ma tutte sono discutibili. Lo si vede proprio in riferimento al ricovero in terapia intensiva, nell’ipotesi - purtroppo non remota - che i posti siano insufficienti per tutti i malati.
Se ad essere malato di Covid è il direttore sanitario della struttura, o uno dei medici che contribuiscono a farla funzionare, sarebbe equo – anche per il bene degli altri pazienti – garantire prima di tutto la loro guarigione? O ricadremmo in fondo in una logica corporativa per cui i medici si preoccupano innanzi tutto della salute dei propri colleghi?
Più in generale, bisogna tener conto del ruolo sociale, politico, culturale dei pazienti che hanno bisogno delle cure? Bisogna preferire chi, in base ad esso, appare più necessario alla comunità? O magari chi lo è stato e, in base a meriti passati, avrebbe diritto alla riconoscenza della società?
Oppure bisognerà prescindere dal fatto che si tratti del presidente della Repubblica, di un premio Nobel, di un famoso regista, e dare la precedenza al comune cittadino, in base ad altre plausibili motivazioni?
E la madre di quattro bambini piccoli deve essere ammessa alla terapia intensiva a preferenza di una single senza figli? Oppure siamo davanti a una logica ormai superata, che valorizza la donna in funzione della maternità ignorandone altri aspetti egualmente importanti?
E ancora, sarebbe ragionevole privilegiare un ricco industriale che prometta di fare all’ospedale una generosa donazione, con cui sarà possibile approntare nuovi padiglioni e nuovi posti letto per la lotta contro la pandemia, oppure questo configurerebbe un cedimento a logiche economiciste?
E se già in passato questo ricco industriale ha finanziato con le sue offerte l’ampliamento del reparto di terapia intensiva in cui ora chiede di essere ricoverato? Ancora una volta, in questo caso specifico, ritorna la domanda: può avere un peso, in situazioni come queste, la gratitudine?
Infine – ed è forse questa l’alternativa più drammatica –, bisogna privilegiare chi ha migliori possibilità di guarigione, oppure, al contrario, chi, per la maggiore gravità delle sue condizioni, corre maggior pericolo di morte?
Come si vede, è molto difficile dare una risposta univoca e indiscutibile a questi interrogativi. La coscienza, anche dopo aver optato per una soluzione, ne resterà comunque inquietata. Molti medici e operatori sanitari ne hanno fatto l’esperienza.
5. La vita degli anziani è “degna di essere vissuta”?
Si situa in questo contesto problematico la questione delle cure da dedicare agli anziani, a fronte di pazienti più giovani e dunque, presumibilmente, con maggiori aspettative sia in termini di durata che di qualità di vita.
Per quanto riguarda il primo punto - la durata, solitamente espressa nella formula «maggior speranza di vita» - esso è spesso considerato decisivo. Ma veramente questo concetto puramente quantitativo è adeguato a decidere di dare la precedenza nelle cure a qualcuno rispetto ad un altro? Se fosse così, la discriminazione degli anziani sarebbe inevitabile. Ma è sicuro che – per riprendere un esempio fatto prima - la salute del nostro presidente della Repubblica, ormai ottantenne e dunque con minore «speranza di vita», vada considerata per ciò stesso meno importante di quella di una persona più giovane?
Una seconda osservazione, più di fondo, verte sulla formula “qualità della vita”, spesso tirata in ballo, nel dibattito bio-medico, per sostenere che alcuni esseri umani – non solo anziani: anche disabili, malati di mente, menomati ogni genere – non sarebbero in grado di condurre un’esistenza pienamente umana.
In realtà, non è possibile misurare il valore della vita delle persone. Dunque, non si possono imporre modelli universali per stabilire quali sono le condizioni che rendono una vita “degna di essere vissuta”. Nessuno può decidere se la qualità della vita di un altro sia tale da renderla priva di dignità e di senso.
Oggi spesso, nella nostra società freneticamente attivista e produttivista (esasperazioni patologiche della umana esigenza di agire e di produrre), gli anziani sono spesso messi ai margini, perché “in pensione” dal punto di vista lavorativo e “inutili” da quello produttivo. Si aggiunga a questo il fatto che, nella attuale situazione delle famiglie, è diventato sempre più difficile prendersi cura di loro. Da qui il proliferare della “case di riposo”, anticamera del cimitero, dove il massimo che l’ospite possa sperare è qualche rara visita dei figli.
È sufficiente questo quadro per sostenere che la vita di queste persone “non è degna di essere vissuta”? O non bisognerebbe, al contrario, chiedersi se davvero il valore di una esistenza dipenda da ciò che una persona “fa”, piuttosto che da ciò che “è”? Certo, sotto il primo profilo si può calcolare la sua utilità. Ma è sicuro che “utile” coincida – come spesso oggi si tende a credere – con “importante”?
6. Ciò che è utile e ciò che è importante
A insinuare il dubbio dovrebbe bastare la considerazione che ciò che è utile non può mai valere per se stesso, perché “serve” a raggingere qualcos’altro, mentre ciò che è importante vale in sé e per sé. La bellezza di un’opera d’arte non “serve” a niente. Lo stesso vale per l’essere umano, che non può mai venire ridotto al suo essere “utile”, perché ha in se stesso, a di là del suo status, una misteriosa grandezza, che prescinde dal suo ruolo economico, sociale o politico.
È nella logica dei totalitarismi, da una parte, e di un capitalismo estremo, dall’altra, che le persone siano solo strumenti di cui il potere o l’economia si serve. E c’è da chiedersi se il fatto che oggi si sia persa la differenza tra “utilee” e “importante” – per esempio a proposito della vita degli anziani – non sia l’indizio inquietante di un totalitarismo culturale, funzionale al neo-capitalismo, che non ha bisogno di lager e di polizia segreta, perché agisce direttamente sulle menti e le induce a vedere la realtà e gli altri in un’ottica strumentale che ne distorce radicalmente il significato.
Una simile logica, peraltro, non trova alcun appiglio nella nostra Costituzione. Abbiamo già avuto modo di ricordare l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E l’art. 32 dice chiaramente che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», senza fare alcuna distinzione in base ad altro criterio che la dignità inviolabile di ogni essere umano.
Questo significa che non è possibile stabilire parametri generali che implichino una selezione automatica dei pazienti in base a un unico criterio, sia quello dell’età, sia qualsiasi altro. Gli esseri umani non sono semplicemente “parti” del mondo, fungibili tra loro e sacrificabili al bene del tutto. Ogni persona è in se stessa un mondo – già Aristotele diceva che l’anima è in qualche modo tutto – e perciò il suo valore è incommensurabile.
Perciò, se non vogliamo rassegnarci alla riduzione della nostra società a una succursale di Squid Game, dove la lotta per la sopravvivenza privilegia spietatamente i più forti, dobbiamo respingere la discriminazione aprioristica degli anziani, sia, in generale, nella gestione della nostra vita sociale, sia, in particolare, nella distribuzione delle risorse del sistema sanitario.
Qualcuno potrà insinuare che sono condizionato dalla mia personale esperienza. Sono io stesso un anziano, e sono stato gravemente malato di Covid, con conseguente ricovero in ospedale. Per quindici giorni sono stato anche in terapia intensiva. Devo dire però, per la verità, che la mia esperienza non è stata quella di chi deve lottare contro la discriminazione né, tanto meno, ho avuto mai il timore di rubare il posto a qualcuno più giovane o più meritevole. Il letto di fronte al mio è stato occupato solo al tredicesimo giorno, quando già stavo per essere riportato tra i pazienti “non in pericolo di vita”. Una condizione felice di cui, purtroppo, altri miei coetanei non hanno goduto in altre situazioni e in altri momenti.
7. Il rischio dell’interpretazione
Queste riflessioni sono decisive, ai miei occhi, per escludere la legittimità etica e giuridica di un ricorso aprioristico, nell’utilizzazione delle risorse sanitarie, al parametro fondato sull’età anagrafica. Troppo poco, forse, per chi vorrebbe precisi criteri positivi a cui affidarsi, ma abbastanza per chi, come il sottoscritto in questo articolo, aveva l’obiettivo, più modesto, di delineare la problematica relativa al trattamento degli anziani nel tempo della pandemia.
Pure, da quanto detto, forse è possibile trarre anche delle indicazioni generali per quanto riguarda la gestione dei mezzi di cura in una situazione di emergenza. In realtà ogni criterio univoco sull’ordine di priorità appare inadeguato. Di fronte alla alternative drammatiche sopra indicate, si tratta di affrontare il caso concreto utilizzando una combinazione di elementi di valutazione diversi e in grado di suggerire, con la loro combinazione, la soluzione più accettabile – o la meno inaccettabile – per la coscienza. L’età anagrafica potrà essere allora tenuta in considerazione, ma dovranno esserlo anche il ruolo sociale e politico, la condizione familiare, i debiti della società verso una persona, la gravità delle condizioni del malato e, per altro verso, le possibilità di successo dei mezzi da usare.
Certo, questo approccio al problema è un duro colpo per chi cerca regole sicure e rassicuranti. Qui si prospetta una interpretazione responsabile e sempre nuova delle singole situazioni, e interpretare è sempre un rischio. Ma non è forse la vita stessa a costituire un rischio?
8. Due indicazioni
Esclusa ogni “ricetta”, non voglio per questo rinunziare a offrire delle indicazioni in chiave propositiva. Una riguarda specificamente la cura degli anziani, l’altra il problema generale delle risorse da destinare alle cure mediche.
Si è parlato molto della solitudine che ha reso più triste l’agonia e la morte di tanti vecchietti colpiti dal Covid. Ma la pandemia ha solo messo in luce l’emarginazione a cui, in una società efficientista, sono condannate le persone che si trovano al di fuori dei circuiti lavorativi e produttivi. Nelle culture arcaiche i vecchi erano considerati depositari di una saggezza preziosa per la vita di tutta la comunità e soprattutto per i più giovani. Oggi spesso vengono confinati in istituti specializzati, come un fardello di cui sopportare il peso e, nella maggior parte dei casi, non hanno più alcun ruolo nella vita dei figli e dei nipoti.
Non è un caso, allora, che la nostra società soffra di una cronica difficoltà nel capire e valorizzare la tradizione. Che non è il culto del passato come tale, ma la capacità di ricordarlo e di rapportarsi ad esso per leggere più profondamente il proprio presente e progettare il futuro. Alla liquidazione degli anziani corrisponde non solo una perdita di memoria, ma la difficoltà, dei singoli e delle comunità, di cogliere il senso della propria storia e di esserne i continuatori.
Il Covid, evidenziando la triste situazione di tanti anziani, può essere allora un’occasione per prendere coscienza di una deriva che è molto anteriore e che forse vale la pena di contrastare, a livello personale e sociale.
Una seconda indicazione si ricollega alla considerazione da cui siamo partiti parlando del problema della presunta “scarsità” delle risorse. Dicevamo prima che in realtà siamo noi, o almeno i governanti che ci siamo scelti democraticamente, a determinarla. Le scelte drammatiche fatte in questi mesi sono state il frutto di un sistema che spesso ha sacrificato la priorità della sanità pubblica a favore di spese oggettivamente meno urgenti, dal punto di vista delle persone, come per esempio quelle militari.
È chiaro che qui il discorso si allarga ben oltre i confini nazionali, perché è anche vero che non si può pensare di rinunziare unilateralmente ad armamenti che potrebbero essere necessari alla difesa del Paese, senza tener conto dei propri impegni internazionali e senza un analogo sforzo di disarmo a livello planetario.
Ma proprio perché la pandemia ha coinvolto tutti i continenti, senza eccezione, essa può essere l’occasione per una riflessione di analoghe proporzioni, che porti a rivedere alcune logiche perverse della politica in funzione di esigenze umane primarie, come quelle della salute e della salvaguardia della vita. Se non vogliamo che la prossima pandemia ci costringa di nuovo a sacrificare i nostri nonni.
Il Covid, oltre a metterci a dura prova – anzi forse proprio per questo – può rimetterci in discussione e insegnarci qualcosa – e non solo sul nostro rapporto con gli anziani. Abbiamo visto che non ci sono ricette. Solo spunti di riflessione. Anche riflettere è un rischio. Ma forse ne vale la pena.