Un Presidente alla Corte edu. Guido Raimondi guarda al passato, al presente e al futuro del giudice europeo dei diritti umani.
di Roberto Conti
Guido Raimondi, tornato in Corte di Cassazione come Presidente di sezione, ha accettato di ripercorre su Giustizia Insieme la recente esperienza, prima di giudice, poi di Vice Presidente e quindi di Presidente, alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Lo ha fatto a tutto campo, da uomo e giurista raffinato, toccando con estrema semplicità e naturalezza alcuni dei temi nodali- e per questo più problematici- che ruotano attorno al ruolo ed alla funzione della Corte edu, ma anche guardando alle sfide che quell’organo di giustizia internazionale sarà chiamato ad affrontare nell’epoca del post Covid-19.
Innumerevoli gli spunti che escono da questo colloquio informale, trasformato in un prezioso affresco dalle risposte di Raimondi che, oltre a ripercorrere alcune delle questioni più rilevanti esaminate dalla Corte edu, non ha mancato di soffermarsi sulle tecniche di decisione, sui meccanismi di formazione delle pronunzie e sulle relazioni personali maturate a Strasburgo, svelando aspetti forse inediti al grande pubblico.
Una Corte europea che dalle parole del suo presidente emerito esce più umanizzata e soprattutto legata inscindibilmente ai giudici nazionali, con i quali condivide il dovere di leale cooperazione al servizio dei diritti.
Se poi si guarda al complesso dei diritti convenzionali, di prima e di ultima generazione, resi viventi dalla giurisprudenza della Corte edu, ci si accorge non solo della loro ineludibilità e straordinaria attualità anche nei tempi incerti dell’emergenza, ma anche di quanto essi rappresentino ben più di una semplice sommatoria di singole posizioni giuridiche soggettive. Si tratta, a ben considerare, di un mosaico capace di descrivere il patrimonio delle persone, sempre meritevole di essere garantito e protetto in modo concreto ed efficace, anche in tempo di pandemia.
È dunque il tempo della fedeltà ai principi ed ai valori fondanti dell'Europa che Raimondi finisce con l'auspicare vibratamente anche rispetto all'attuale contesto "eccezionale e bizzarro" nei quale siamo tutti sospesi, ma non meno consapevoli di dovere condurre la nave con fermezza e con tutti gli sforzi possibili verso l’unico porto sicuro immaginabile, quello dei diritti della persona, attorno al quale vanno coagulate le energie delle persone oneste che hanno a cuore le sorti dell’umanità.
Sommario:1. La pandemia e la Corte edu. 2.Il processo davanti alla Corte edu. 3. I diritti di matrice convenzionale. 4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie. 5. La Corte edu e le Corti nazionali. 6. La Corte edu e il Giudice Raimondi. 7. Riapprodo in Corte di Cassazione. 8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
1.La pandemia e la Corte edu
Guido, sembra in questo tempo risvegliarsi nella collettività il bisogno di protezione dei diritti fondamentali: circolazione, movimento, relazioni personali. Alcuni sostengono che questi diritti debbano comunque essere scavalcati dall’interesse alla salvaguardia della vita e della salute. Quanto questi diritti sono “disponibili” e qual è il ruolo del giudice nazionale, al quale spetta di interpretare la legge in modo convenzionalmente e costituzionalmente orientato?
Questo è un tempo effettivamente bizzarro ed eccezionale. Provvedimenti straordinari sono stati presi, con limitazioni importanti delle nostre libertà.
Noto che il dibattito sulla compatibilità di queste misure con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è già acceso. C’è chi ha preso posizione nel senso che le decisioni italiane sul blocco delle attività e sul confinamento a domicilio della popolazione avrebbero richiesto una deroga alla Convenzione europea ai sensi del suo articolo 15, che riguarda l’ipotesi di “…guerra o altra pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”.
Personalmente credo che, nonostante l’unicità della situazione e la mancanza di precedenti, il reticolo di protezione dei diritti fondamentali assicurato dalla Costituzione e dalla Convenzione, senza dimenticare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in una con il normale funzionamento del giudice delle leggi, delle corti europee e dei giudici nazionali, sia idoneo a rassicurare circa la solidità dello Stato di diritto e della democrazia anche nel presente momento. A tutti questi livelli è già possibile, e lo sarà in futuro, quando sperabilmente l’emergenza sarà alle nostre spalle, la verifica giurisdizionale della compatibilità delle misure prese – e quindi della loro effettiva proporzionalità – con questi parametri, che garantiscono la nostra libertà.
Certamente, ed è una preoccupazione già sollevata da molti, la sospensione di fatto dell’attività giurisdizionale per un tempo non trascurabile, con l’eccezione delle questioni urgenti, fa pensare, dato che è proprio la possibilità di contare su di una giurisdizione indipendente che garantisce lo Stato di diritto e la democrazia, come sottolinea la recente serie di sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea pronunciate relativamente al sistema giudiziario polacco. Confido dunque che l’attività giurisdizionale possa riprendere al suo ritmo normale il più presto possibile.
Ritengo che non vi sia un pericolo per la democrazia e che l’analisi giuridica sui provvedimenti di questi mesi potrà più opportunamente svilupparsi con la pacatezza che si accompagnerà al ritorno alla normalità. Per esempio, ho letto un intervento secondo il quale la condizione di noi tutti, cioè di persone confinate a domicilio, sarebbe da inquadrare come una privazione di libertà, che quindi chiamerebbe in causa l’art. 13 della Costituzione e l’art. 5 della Convenzione europea, piuttosto che l’art. 16 della Convenzione e l’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea, relativi alla libertà di circolazione. Se così fosse la violazione di nostri fondamentali diritti sarebbe flagrante, ma probabilmente non è così. In ogni caso possiamo fare affidamento su giudici credibili, a tutti i livelli che ho evocato, per le opportune verifiche.
A proposito della necessità di considerare i presenti avvenimenti con pacatezza, ho molto apprezzato un recente intervento di Tiziano Scarpa, Una rispettosa risposta a Giorgio Agamben, che invita noi tutti, replicando alle preoccupazioni espresse dall’illustre filosofo, a non precipitarci a considerare l’attuale situazione come il fallimento del sistema democratico ed il trionfo della barbarie.
Per rispondere alla domanda precisa, il ruolo del giudice nazionale, cioè del giudice interno, è fondamentale; dico un’ovvietà, essendo quest’ultimo il vero perno del sistema, anche nell’ottica della Convenzione europea, che è basata sul principio di sussidiarietà, che fa sì che nella complessiva considerazione del meccanismo europeo di protezione dei diritti umani primario sia il ruolo dei giudici domestici, dai quali in definitiva dipende la concreta realizzazione dei diritti, e secondario quello del giudice europeo.
Si è detto che i nostri padri costituenti non avevano preconizzato una situazione simile a quella che in questi mesi sta attanagliando il mondo. Si può traslare, secondo te, questo giudizio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sottoscritta nel 1950 a Roma?
Le due Carte sono quasi coeve. Come ho appena ricordato, i padri della Convenzione avevano pensato ad introdurvi un meccanismo derogatorio – l’articolo 15 – che permettesse agli Stati che si venissero a trovare in situazioni di guerra o di altro grave pericolo pubblico, di limitare le garanzie convenzionali. Quindi, in questo senso, avevano previsto la possibilità che la guerra o altre situazioni eccezionali potessero indurre gli Stati contraenti a ritenersi non più in grado, per un certo tempo, di assicurare l’intero livello di protezione previsto dalla Convenzione. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani credo che sia una previsione felice, perché permette agli Stati che si trovino ad affrontare situazioni estreme di non denunciare la Convenzione, ma di limitarne l’applicazione, entro confini precisi e sotto il controllo della Corte europea.
Detto questo, personalmente ritengo che il nostro Paese abbia fatto bene a non attivare la procedura dell’art. 15, così sottoponendosi al pieno controllo della Corte sull’applicazione di tutte le misure prese e su quelle a venire. Non c’è dubbio che delle criticità potranno emergere, per esempio, nel caso in cui le violazioni alle limitazioni degli spostamenti dovessero essere autonomamente qualificate come “penali” dalla Corte in applicazione dei c.d. criteri “Engel”, ci si potrà chiedere se la descrizione della fattispecie “incriminatrice” sia sufficientemente chiara e precisa così da rispondere alle esigenze dell’art. 7 della Convenzione (legalità dei delitti e delle pene), ma credo che questo faccia parte della “fisiologia” del sistema.
La tenuta delle garanzie democratiche durante la pandemia. Abbiamo tutti vissuto in prima persona misure particolarmente restrittive, di decisioni giudiziarie che hanno confermato, in via cautelare, tali misure addirittura derogando, in una vicenda decisa da una Corte britannica, in maniera esplicita all’art.15 CEDU. Ma in che misura l’art.15 giustifica uno “stato di eccezione”?
Come dicevo, l’applicazione dell’art. 15 avviene sotto lo stretto controllo della Corte. Perché il meccanismo dell’art. 15 sia attivato occorre una decisione del Paese interessato, decisione che deve precisare i limiti delle deroghe che si intendono adottare e che va notificata al Consiglio d’Europa. Evidentemente spetta in primo luogo allo Stato interessato valutare la sussistenza, al di fuori dell’ipotesi bellica, di “una pubblica emergenza che minacci la vita della nazione”, ma la Corte non si disinteressa della questione e, sebbene naturalmente rispettosa del “margine di apprezzamento” che indubbiamente spetta allo Stato specie in una materia così delicata, non mancherebbe di intervenire se si trovasse di fronte ad una valutazione arbitraria dello stesso Stato, con la conseguenza della piena applicabilità, quindi senza deroghe, delle garanzie convenzionali. Si deve dunque trattare di un pericolo reale. Non va poi dimenticato che ci sono alcuni diritti fondamentalissimi – il c.d. “nucleo duro” della Convenzione – che sono esclusi dal meccanismo derogatorio di cui all’art. 15. Si tratta, per esempio, del diritto alla vita (art. 2) e del diritto a non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti.
2.Il processo davanti alla Corte edu.
Il processo da remoto come effetto della crisi da Covid-19. Anche la Corte edu si è attrezzata a gestire la pandemia. In che modo?
Si, la Corte di Strasburgo si è attrezzata per lavorare “da remoto”, e lo ha fatto in piena trasparenza, pubblicando un comunicato stampa che contiene in dettaglio la descrizione di queste particolari modalità di lavoro. Il comunicato stampa è visibile sul sito della Corte al seguente indirizzo web: https://hudoc.echr.coe.int/eng-press#{%22itemid%22:[%22003-6677746-8882977%22]}.
Le funzioni della Corte sono assicurate nella misura del possibile. La Corte esamina regolarmente le richieste di applicazione di misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento.
Il processo è stato fin qui considerato come collegato, in termini spaziali, all’aula del Tribunale o della Corte. La modifica di questo assetto e la smaterializzazione del processo, realizzata con l’utilizzazione di un “mezzo” che serve al processo ma governato dal giudice pone questioni rilevanti dal punto di vista della tutela dei diritti di matrice convenzionale delle parti e dei loro difensori? Quali rischi intravedi rispetto alla tutela dei diritti delle persone e dei difensori dall’uso del processo da remoto, in ambito civile e penale?
Forse qui la mia risposta è influenzata dall’anagrafe, ma forse no. Non sono un laudator temporis acti nostalgico del “buon tempo antico”, che poi tanto buono non era. Credo che la giustizia debba servirsi di tutte le tecnologie disponibili per poter funzionare al meglio e che i giudici abbiano il dovere di tenersi al passo delle innovazioni portate dal progresso della scienza e della tecnica. Detto questo, credo che le esigenze del giusto processo siano assicurate in pieno quando vi è interazione reale, e non solo virtuale, dei suoi protagonisti. Riconosco che vi sono situazioni, come quella nella quale ci troviamo, nella quale l’alternativa all’uso delle tecnologie che permettono le riunioni “da remoto” sarebbe la paralisi della giustizia, e quindi credo che ora questa modalità di lavoro sia giustificata da un corretto bilanciamento dei diversi interessi in gioco. Ma permettimi di considerarla un male necessario.
Non si può escludere che taluni, parti o difensori, riterranno incisi i loro diritti convenzionali da queste modalità di funzionamento del processo, tanto da investire la Corte di Strasburgo delle relative questioni. Non mi azzardo a prevedere quale potrebbe essere la risposta della Corte europea, ma sono sicuro che sarà una risposta di buon senso.
Veniamo al processo innanzi alla Corte edu. Può considerarsi realmente giusto, dopo l’introduzione di filtri in entrata particolarmente rigorosi ed improntati ad un formalismo che a volte è sembrato inconciliabile con la prospettiva di effettività e di living instrument che irradia, a dire della stessa Corte edu, l’intera Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
Sì, il numero eccessivo di ricorsi ha spinto la Corte ad assumere un atteggiamento “difensivo” nei confronti della massa enorme di ricorrenti che premono alle sue porte. Quando si affronta questo argomento bisogna però tener ben presente la distinzione tra il livello amministrativo e quello giurisdizionale delle attività di filtro.
Dal punto di vista amministrativo, con la riforma dell’art. 47 del Regolamento, è stata effettivamente imposta ai ricorrenti l’esigenza di un elevato rigore formale nella redazione del formulario di ricorso. In particolare, chi intende proporre un ricorso è tenuto a contenere in spazi predeterminati e relativamente esigui la descrizione della fattispecie litigiosa, l’indicazione delle norme che si assumono violate e delle relative ragioni. Vero è che è possibile allegare un’appendice con un testo più lungo e dettagliato, ma il ricorso deve essere “autosufficiente”, cioè deve permettere ad un primo esame, da parte della Cancelleria, ed eventualmente poi, al livello giurisdizionale, del giudice unico, di stabilire, senza la necessità di leggere l’appendice, se esso sia palesemente inammissibile, per difetto di una delle condizioni di ammissibilità, compresa la manifesta infondatezza. Credo che questo rigore formale sia un sacrificio imposto ai ricorrenti giustificato dalla situazione in cui versa la Corte. Non va dimenticato, poi, che il rigetto” amministrativo” del ricorso non è senza rimedio, purché non sia decorso il termine convenzionale di sei mesi dalla decisione interna definitiva, perché il ricorrente potrà inviare un nuovo ricorso rispettoso delle prescrizioni formali richieste.
Sul versante “giurisdizionale” del filtro, cioè con riguardo al giudice unico, si era criticata l’assenza di motivazione delle decisioni di questa “parcellare” formazione di giudizio della Corte. A questo si è cercato di porre rimedio, per cui ora le decisioni del giudice unico contengono una sia pur scheletrica motivazione che permette al ricorrente – e al suo difensore – di comprendere le ragioni del rigetto.
Si tratta di misure che la Corte è stata costretta a prendere proprio per preservare – nei limiti del possibile – la propria capacità di dare risposte adeguate ai ricorsi meritevoli.
Un focus sui rapporti fra giudici e strutture interne della Corte edu? Ma chi scrive le sentenze della Corte? Qual è il processo decisionale che porta alla discussione del caso, prima, ed alla sua decisione, poi?
A differenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea, all’interno delle quali vi è un sistema di assistenti di studio, o di referendari, cioè di giuristi che assistono il giudice e sono scelti da lui o da lei, la Corte europea funziona con giuristi che sono inquadrati nella Cancelleria, sono organizzati in Divisioni strutturate su base “nazionale” (Divisione “italiana”, Divisione “francese” e così via) e non dipendono direttamente dai giudici, con i quali, però, essi sono evidentemente chiamati a collaborare strettamente.
I progetti di decisioni e di sentenze sono predisposti dai giuristi su istruzioni del giudice relatore. Normalmente il prodotto “quasi -finale” del relatore, cioè il progetto di decisione o di sentenza da presentare alla Camera, nell’ambito di una riunione di Sezione, è il frutto di diversi interventi sul testo effettuati in riunioni dirette o a distanza in via elettronica nel dialogo tra relatore e giurista. A livello di Grande Camera lo schema è lo stesso, ma la procedura è più complessa. Quanto nel progetto ci sia del relatore e quanto del giurista dipende ovviamente dalla personalità dell’uno e dell’altro. Non credo, sulla base della mia esperienza, che ci sia il rischio di prevaricazioni del giurista sul giudice, il quale ha il dovere di presentare alla formazione giudicante la soluzione che scienza e coscienza gli comandano di prediligere, se necessario imponendosi sul giurista, nel caso questi abbia una diversa opinione, sempre ovviamente in modo rispettoso. Il rispetto dei ruoli, che rimangono distinti, deve ovviamente funzionare nei due sensi.
A livello di Camera il progetto viene fatto circolare tra tutti i componenti della Sezione, compresi quelli che non sono chiamati in prima battuta a comporre il collegio giudicante, e che sono supplenti, almeno quindici giorni prima della data fissata per la camera di consiglio (le udienze pubbliche sono rarissime a livello di Camera). Tutti i giudici possono, prima della riunione, rivolgere domande al relatore e avanzare proposte, normalmente per via elettronica). In camera di consiglio il Presidente dà innanzitutto la parola al relatore, e poi al giudice “nazionale”, se diverso, quindi tutti i giudici che lo desiderano prendono la parola e la Camera delibera. Una volta presa la decisione, il testo del provvedimento viene letto e approvato collegialmente. Nel caso vengano richieste modifiche importanti, l’esame del caso può essere rinviato ad una riunione successiva. Per modifiche meno importanti si lascia al relatore la possibilità di proporre testi in via elettronica che vengono approvati senza la necessità di una riconvocazione formale (c.d. procedura di pigeon hole). In caso di sentenza, il Presidente raccoglie le intenzioni dei giudici che desiderano redigere un’opinione separata – concordante o dissenziente – e fissa il termine per il suo deposito. Al termine della deliberazione, la Camera può segnalare l’opportunità che la sentenza, o decisione, faccia l’oggetto, in ragione della sua importanza, di un comunicato stampa separato, ma la decisione su questo spetta al Presidente della Corte.
Quanto dura un processo innanzi alla Corte edu? Esistono delle regole, conoscibili dall’esterno, che fissano una durata massima dei processi? Esistono delle corsie preferenziali per alcune tipologie di ricorsi?
Questo è un punto dolente. I procedimenti della Corte, nonostante le misure prese, misure delle quali abbiamo parlato, per permettere alla Corte di eliminare rapidamente i ricorsi non meritevoli, sono troppo lunghi. Questa è una realtà che non bisogna nascondere. Non ci sono regole fisse sulla durata massima dei procedimenti. Nel giugno 2009 la Corte ha emendato il suo Regolamento introducendo una politica di esame dei ricorsi secondo criteri di priorità e non più secondo lo stretto ordine cronologico (art. 41). I criteri, che definiscono sette categorie di ricorsi, sono pubblici e sono consultabili al seguente indirizzo: https://www.echr.coe.int/Documents/Priority_policy_ENG.pdf.
Cosa puoi dirci sulla tutela cautelare convenzionale offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo- Quando ci si può rivolgere alla Corte in va urgente e quante chance di successo ha questa “strada”? Un processo, quello davanti alla Corte edu, di parti. Ma chi sono per la Corte edu i “terzi” che possono intervenire in quel giudizio e qual è la ratio di questo intervento?
Alla prima domanda rispondo in modo convintamente affermativo. La tutela cautelare è effettiva, anche se non può definirsi propriamente “convenzionale”, nel senso che le misure cautelari non sono previste dalla Convenzione. Questa situazione, per l’appunto, è stata per lungo tempo un fattore di debolezza di questa indispensabile forma di tutela. Fino alla sentenza della Grande Camera nel caso Mamatkulov e Askarov c. Turchia, del 2005, si riteneva che la mancata osservanza da parte di uno Stato convenuto di una misura provvisoria ordinata dalla Corte non integrasse, in sé, un’autonoma violazione, ma potesse al più considerarsi una circostanza aggravante in caso di “condanna” dello stesso Stato. Dal 2005 si ritiene invece che un tale comportamento integri una violazione, indipendente da quella denunciata con il ricorso, della norma che prevede il ricorso individuale, cioè l’art. 34 della Convenzione.
Indipendentemente dalla giuridica obbligatorietà della misura, è evidente che la collaborazione dello Stato nell’esecuzione delle misure provvisorie ha una fondamentale importanza per l’effettività di questo rimedio. Da questo punto di vista credo di poter dire, a conferma della mia opinione suquesto istituto, che i casi di mancata osservanza delle misure provvisorie, anche se purtroppo esistono, sono rarissimi.
La seconda domanda solleva questioni importanti. Le parti processuali davanti alla Corte europea sono solamente il ricorrente, o i ricorrenti, e lo Stato, o gli Stati, convenuti. È nei confronti di questi soggetti che l’art. 46 della Convenzione stabilisce il carattere obbligatorio delle sentenze della Corte. L’articolo 36 della Convenzione stabilisce da una parte il diritto di prendere parte alla procedura – orale e scritta – dello Stato di cui il ricorrente abbia la cittadinanza e, dall’altra, il potere del Presidente della Corte di invitare, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, un diverso Stato contraente che non sia quindi già parte della procedura o “ogni persona interessata diversa dal ricorrente” a sottoporre commenti scritti o a partecipare alle udienze.
Per questa seconda ipotesi, che è quella che riguarda i c.d. amici curiae, va detto che, anche se il Presidente della Corte è molto attento a non appesantire la procedura, l’alternativa apparente tra la partecipazione con commenti scritti e quella all’udienza, è stata superata, nel senso che in casi particolarmente importanti, soprattutto quando ad intervenire sono Stati contraenti, è stata consentita una partecipazione nella doppia forma; ad esempio, ciò è avvenuto davanti alla Grande Camera nel caso Lautsi c. Italia, relativo all’esposizione del crocefisso nelle scuole pubbliche del nostro Paese.
Nella maggior parte dei casi sono le ONG attive nella difesa dei diritti umani che richiedono di partecipare alle procedure della Corte.
C’è però una dimensione diversa, particolarmente importante, e che può avere dei riflessi nell’ordinamento interno dei Paesi interessati, con riferimento ad una futura possibilità di riapertura dei procedimenti giurisdizionali nazionali in seguito ad un’eventuale “condanna” della Corte, e che è quella della partecipazione alla procedura giurisdizionale europea delle parti del giudizio interno diverse dal ricorrente, cioè di persone che possono essere controinteressate rispetto a quest’ultimo. La prassi della Corte è nettamente orientata ad accogliere le richieste di partecipazione di tali parti. Un esempio è quello del caso Perna, un giornalista che era stato condannato per diffamazione su querela di un magistrato, Giancarlo Caselli. Una volta avviata la procedura europea, Caselli è stato ammesso a partecipare come “terzo interveniente”, ed è intervenuto anche all’udienza della Grande Camera, assistito dal suo difensore. Ovviamente in entrambe le situazioni si parla di “terzi intervenienti”, ma c’è una notevole differenza, giacché è difficile considerare le parti della procedura nazionale come veri “terzi” rispetto alla procedura europea.
L’effettività della tutela dei diritti di matrice convenzionale. Un canone che sta irradiando l’intero ordinamento interno. Come la descriveresti in poche parole?
Userei le parole della Corte, purtroppo impiegate per la prima volta in un caso italiano, Artico, una sentenza del 1980, in un caso in cui ad un imputato era stato assegnato un avvocato d’ufficio che aveva scandalosamente trascurato i suoi doveri difensivi. Al Governo italiano, che si era difeso facendo valere che con la nomina di un difensore le autorità avevano assolto il loro obbligo convenzionale di assicurare una difesa tecnica a chi era accusato di un reato, la Corte rispose che la Convenzione tutela diritti “concreti ed effettivi” e non “teorici ed illusori”. Queste parole tornano spesso nella giurisprudenza della Corte, a dimostrazione che quella dell’effettività dei diritti garantiti dalla Convenzione è una preoccupazione costante dei giudici di Strasburgo.
La teoria del consenso ed il margine di apprezzamento. Croce e delizia della giurisprudenza della Corte. E la certezza del diritto?
La certezza del diritto, o sécurité juridique, per usare l’espressione impiegata dalla Corte, è certamente un valore convenzionale di grandissima importanza, tale da oltrepassare l’ambito dell’art. 6 della Convenzione, e quindi del giusto processo, al quale inerisce, e porsi come idea fondante dello Stato di diritto, e quindi di una delle stesse premesse dell’intero sistema europeo di tutela dei diritti umani. La Corte insiste su questa idea, che per esempio à alla base della censura di situazioni nelle quali è dato assistere ad incertezze ed instabilità eccessive nella giurisprudenza delle Corti supreme, che così vengono meno al loro ruolo di guida delle giurisdizioni di un Paese, attentando, per l’appunto al valore della certezza del diritto.
Detto questo, non credo che la dottrina del margine di apprezzamento, con il suo corollario del consensus europeo, meriti critiche particolari. In fondo questa dottrina è rispettosa del valore della stabilità e della prevedibilità della stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La giurisprudenza può – e deve, almeno in certi casi – conoscere un’evoluzione. La prudenza della Corte nel decidere un cambiamento giurisprudenziale, e l’ancoraggio di quest’ultimo, per l’appunto, al consensus europeo, cioè alla constatazione di un’evoluzione sufficientemente diffusa nei sistemi giuridici interni dei Paesi contraenti, mi sembrano cautele poste esattamente a presidio del valore della certezza del diritto.
3. I diritti di matrice convenzionale
Il bisogno di Stato sociale che sembra emergere, in modo imponente, dopo la pandemia, quanta protezione potrà avere riconosciuta dalla CEDU e dal suo giudice ed in che termini?
Quello dei diritti sociali è un grande tema. I limiti che indubbiamente derivano dal testo convenzionale, che senza dubbio è dedicato a diritti c.d. “di prima generazione”, cioè di carattere civile e politico e non a diritti economici e sociali, per i quali esiste un separato strumento del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea del 1961, rivista nel 1996, non hanno impedito alla giurisprudenza della Corte di tutelare le c.d. “propaggini sociali” dei diritti civili e politici.
Con la sentenza nel caso Airey c. Irlanda, del 1979, che riguardava il caso di una signora che, dovendo iniziare una procedura giurisdizionale e non avendo i mezzi per pagare un avvocato, si doleva del mancato rispetto del suo diritto di adire il giudice, di cui all’art. 6 della Convenzione europea, la giurisprudenza della Corte europea ha fatto un passo in avanti. Al Governo irlandese, che si era difeso facendo valere la natura per l’appunto sociale e non civile o politica del diritto invocato dalla ricorrente, la Corte ha risposto che non vi sono “compartimenti stagni” tra le due categorie di diritti, per cui se misure di carattere sociale sono necessarie per l’effettivo esercizio di uno dei diritti previsti dalla Convenzione, lo Stato contraente è tenuto ad adottarle.
Inoltre, sempre in tema di diritti sociali, la Corte ha valorizzato l’art. 14 della Convenzione, sul divieto di discriminazione, e lo stesso art. 1 del Protocollo addizionale, cioè la norma che protegge la proprietà.
Sotto il primo profilo, la giurisprudenza ha attribuito all’art. 14 – che in sé non ha una valenza indipendente, perché stabilisce un principio di non discriminazione non in assoluto, ma con riferimento ai diritti protetti dalla Convenzione – un suo autonomo valore affermando che se uno Stato contraente adotta delle misure sociali alle quali non sarebbe tenuto a termini della Convenzione, se tali misure rientrano in senso lato “nell’ambito di applicazione” (sous l’empire) di una delle disposizioni sostanziali della Convenzione, allora quello Stato è tenuto, in base all’art. 14, a dispensare la misura in modo non discriminatorio. Per esempio, nel caso Dhahbi c. Italia del 2014, la Corte ha trovato una violazione dell’art. 14 perché lo Stato italiano, dopo aver istituito una provvidenza – un assegno – per il nucleo familiare ('articolo 65 della legge n. 448 del 1998), aveva escluso dai beneficiari della misura i non cittadini (il ricorrente era tunisino, anche se successivamente aveva acquisito la cittadinanza italiana), e la Corte ha ritenuto discriminatoria, perché non adeguatamente giustificata, questa disparità di trattamento.
Sotto il secondo profilo, quello della tutela della proprietà, la Corte ha chiarito, con la sentenza Stec c. Regno Unito del 2006, che le prestazioni sociali assicurate dallo Stato, indipendentemente se esse siano di natura previdenziale (cioè collegate ad una contribuzione dei beneficiari) ovvero puramente assistenziali (cioè gravanti interamente sul pubblico erario), godono della protezione di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale, per cui esse non possono essere incise dallo Stato se non entro i limiti fissati da questa norma (occorre una base legale, uno scopo legittimo e una relazione di proporzionalità tra la misura presa, cioè la riduzione o la soppressione del beneficio e lo scopo perseguito).
Naturalmente questa apertura della giurisprudenza della Corte verso i diritti sociali non deve creare aspettative eccessive. La Convenzione resta uno strumento dedicato ai diritti “di prima generazione”, per cui gli interventi della Corte in questo settore, certamente di importanza vitale specialmente in vista delle gravissime difficoltà economiche che ci aspettano all’esito dell’attuale emergenza sanitaria, non potranno certamente avere un impatto decisivo. Ma, con i suoi limiti, la tutela sarà certamente effettiva.
La proprietà come diritto fondamentale. Una prospettiva che a molti giuristi interni non piace e che anzi si porrebbe in posizione inconciliabile con la prospettiva costituzionale espressa dall’art.42 Cost. Eppure il numero dei ricorsi che ruotano attorno al diritto al rispetto dei beni è particolarmente elevato. Qual è la tua opinione? Ho appena parlato del ruolo della norma, l’art. 1 del Protocollo addizionale, che protegge la proprietà, il “terribile diritto”, per usare l’espressione di Stefano Rodotà, a tutela dei diritti sociali, il che fornisce già una prima risposta a coloro che rimproverano alla Convenzione di essere il frutto di una concezione neoliberista del diritto. Ricordo un bel volume del 2015 di Cesare Salvi, Capitalismo e diritto civile, nel quale questa tesi viene sostenuta. Salvi muove dalla tutela, ritenuta, eccessiva, che la giurisprudenza della Corte europea accorda ai proprietari espropriati, ai quali si riconosce, in linea di principio, la commisurazione dell’indennizzo al valore venale del bene espropriato, osservando che, per l’appunto, ciò sarebbe in contraddizione con l’impostazione della nostra Costituzione che, garantendo con il suo art. 42 la “funzione sociale” della proprietà, imporrebbe necessariamente un indennizzo inferiore al valore venale del bene espropriato affinché la differenza sia destinata al soddisfacimento dei diritti sociali dei bisognosi.
È vero che, a differenza dell’art. 42 della Costituzione, il Protocollo addizionale non parla di “funzione sociale” della proprietà, ma non credo che vi sia una vera contraddizione, giacché sia nel controllo dell’uso della proprietà sia nell’esproprio assume grande rilievo nella norma europea l’”interesse generale”, nel quale può rientrare anche la funzione sociale della proprietà. Nella stessa sentenza Scordino c. Italia (n. 1) del 2006, che lo stesso Cesare Salvi, in un altro scritto, aveva assunto a paradigma della attitudine “neoliberista” della Corte, non esclude affatto che in determinate circostanze l’indennizzo espropriativo possa essere determinato in misura inferiore al valore venale del bene espropriato, per esempio allorché l’esproprio si collochi in un contesto di riforma economica, sociale o politica ovvero, con formula apertissima, sia collegato a “circostanze particolari” (v. § 102 della sentenza). In definitiva credo che il Protocollo addizionale permetta agli Stati il perseguimento di politiche economiche e sociali rispettose del principio della funzione sociale della proprietà.
Legalità formale e legalità sostanziale: un dissidio insoluto o apparente?
Domanda per la quale la risposta dovrebbe essere sviluppata in alcuni volumi. Mi limito a dire che il principio di legalità, assolutamente fondamentale nella Convenzione europea, viene certamente inteso in senso sostanziale dalla giurisprudenza della Corte. Per esempio, tutte le volte in cui la possibilità per lo Stato di limitare un diritto è ancorata ad una base legislativa, in pratica sempre, la Corte non si accontenta dell’esistenza di una legge in senso formale, ma pretende che la legislazione invocata dallo Stato risponda a certe caratteristiche di qualità, sia cioè facilmente accessibile ai consociati, e in particolare ai destinatari del suo comando, e sia sufficientemente precisa e dettagliata in modo da assicurare agli interessati la garanzia della prevedibilità degli effetti della loro condotta. In mancanza di tali caratteristiche, la Corte considera che manca la base legislativa, il che è sufficiente ad integrare la violazione della Convenzione indipendentemente dalla verifica della legittimità del fine e della proporzionalità della misura limitativa.
I minori, coppie separate, le relazioni familiari ed i Covid-19 messi a dura prova le relazioni familiari ed i diritti in gioco. E la CEDU che dice sul punto?
La giurisprudenza della Corte in materia di tutela dei minori e di rapporti di famiglia è molto ricca ed articolata. Non potrei certamente tratteggiarne efficacemente gli aspetti caratteristici in una semplice risposta. Mi limito a ricordare che, in sintonia con la Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo, la stella polare della Corte, quando si tratta di bambini, è l’interesse superiore del minore. Vorrei anche ricordare la preoccupazione della Corte per la tutela del legame di sangue, tutela che deve senz’altro cedere di fronte all’interesse del minore in presenza di comportamenti non congrui dei genitori biologici, ma che deve essere mantenuta, magari con l’impegno di adeguate risorse da parte delle pubbliche autorità, quando la difficoltà per i genitori biologici di assicurare ai bambini un ambiente adeguato dipenda non da loro colpa, ma da situazioni che sfuggono al loro controllo.
Sempre sul tema della famiglia, ed avendo presenti i rischi aggravati che l’attuale situazione di limitazione degli spostamenti comporta per le vittime, specialmente le donne, evidentemente, di violenza domestica, vorrei ricordare la speciale attenzione che la giurisprudenza della Corte riserva a questa piaga sociale, rispetto alla quale precisi obblighi, anche di natura positiva, vengono affermati a carico degli Stati contraenti.
Al largo delle coste italiane bagnate dal Mediterraneo stazionano ancora migranti, spesso bloccati su navi delle ONG. Si è letto, in questi giorni, di provvedimenti amministrativi che hanno imposto la quarantena ai soggetti provenienti da territori extra UE per il sospetto di essere portatori di contagio da Covid-19.Misura adeguate, secondo te, a rispettare i diritti delle persone in gioco rapportati agli interessi degli italiani?
Non porrei la questione in termini di contrapposizione degli interessi dei migranti rispetto a quelli “degli italiani”, in una prospettiva che opponga “noi” a “loro”. Non c’è un “loro” e un “noi” nella filosofia della Convenzione, che protegge le persone semplicemente in base alla loro appartenenza alla famiglia umana. In questa prospettiva il carattere regionale del sistema europeo di tutela dei diritti umani non deve far perdere di vista la sua impostazione universalistica, che discende dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, rispetto alla quale la filiazione della Convenzione è con forza affermata nel Preambolo di quest’ultima. Si dice, secondo me con piena ragione, che i sistemi regionali di protezione dei diritti umani sono “vettori locali di un messaggio globale” (local carriers of a global message).
Detto questo, la giurisprudenza della Corte ha sempre riconosciuto il diritto sovrano degli Stati di controllare i loro confini e quindi di regolare i flussi migratori. In ogni caso deve essere rispettata la dignità umana e, come per chiunque altro, le eventuali limitazioni o anche privazioni di libertà alle quali migranti irregolari possano essere sottoposti devono essere poste in essere nel rispetto di tutte le condizioni previste dalla Convenzione, compreso, nei casi appropriati, un adeguato controllo giurisdizionale.
Detenuti al 41 bis ord.pen., condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo in carcere per effetto del coronavirus. Abbiamo letto di recenti provvedimenti dei tribunali di sorveglianza che hanno concesso gli arresti domiciliari a boss mafiosi. Ancora una volta diritti fondamentali e valori che attengono alla sicurezza nazionale in gioco, chiamati ad essere bilanciati? Che fare?
La questione è di grandissima importanza non solo dal punto di vista del diritto, ma anche, ovviamente, da quello sociale e politico.
Credo che la Corte si sia recentemente pronunciata su di una richiesta di misura provvisoria, ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento, volta ad ottenere l’indicazione allo Stato italiano di misure urgenti per fronteggiare l’emergenza alla quale ti riferisci, cioè l’altissimo rischio che l’attuale pandemia presenta in una situazione di sovraffollamento carcerario, non ritenendo che sussistessero le condizioni per la concessione della misura. Questo non esclude, naturalmente, l’esame nel merito del ricorso, a tempo debito. Vedremo cosa ci dirà la Corte. Personalmente credo che trattenere in detenzione persone per le quali le autorità non sono in grado di assicurare una ragionevole protezione dal rischio di contagio certamente sollevi degli interrogativi quanto alla compatibilità con la Convenzione di una tale situazione.
Morti su morti per effetto del covid-19. L’Italia devastata. Le generazioni più anziane le più colpite e le più vulnerabili rispetto a strutture sanitarie che, nel nord del Paese, non hanno spesso potuto offrire loro un’assistenza adeguata e sono state chiamate a “scelte tragiche”, spesso preferendo altri soggetti con maggiori chance di sopravvivenza. Si prospetta un contenzioso poderoso a livello interno ma, allo stesso tempo, provvedimenti legislativi volti a limitare la responsabilità dei sanitari. Come si pone la CEDU rispetto a questo fascio di problemi?
Come si sa, dagli articoli 2,3 e 8 della Convenzione, che tutelano rispettivamente il diritto alla vita,all’integrità fisica e psichica delle persone e quello alla vita privata e familiare, discendono per gli Stati obblighi positivi di indagine e di repressione delle condotte dolose, o anche colpose, che possano aver provocato lesioni di quei beni fondamentalissimi. Per quanto riguarda in generale la responsabilità per colpa, ed in particolare quella medica, a partire dalla sentenza Calvelli e Ciglio c. Italia la giurisprudenza non richiede che la risposta dello Stato sia necessariamente di carattere penale, se gli strumenti posti a disposizione sul piano civile o amministrativo sono sufficienti allo scopo. Non c’è dubbio che l’eventuale concessione di uno “scudo” ai sanitari possa sollevare degli interrogativi con riferimento a tali obblighi, ma non è certamente possibile azzardare una previsione su quali potrebbero essere le risposte della Corte a tali questioni.
Extraordinary renditions, torture e diritto alla verità
La posizione della Corte edu sul tema della tortura è stata, nel corso degli anni, di grande importanza anche per il nostro Paese. La vicenda delle "extraordinary renditions" che ha coinvolto ha chiamato la Corte dove tu hai lavorato a scrutinare vicende che hanno riguardato i rapporti fra Stati, i limiti del segreto di stato e la funzione stessa degli organi giudiziari interni. Cosa si prova a dovere mettere in discussione le pronunzie della Corte costituzionale in nome della protezione dei diritti di matrice convenzionale
Si, certamente, e questo è un capitolo particolarmente doloroso per il nostro Paese, che vorremmo veramente vedere pienamente affrancato dalla piaga della tortura, mentre purtroppo diverse sentenze della Corte hanno dovuto constatare nei confronti dell’Italia la violazione dell’art. 3 della Convenzione nella sua forma più grave, per l’appunto quella della tortura.
Penso in particolare alla sentenza Cestaro del 2015, relativa ai fatti di violenza poliziesca svoltisi nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Dopo la sentenza, nell’ambito delle attività culturali organizzate dalla Cancelleria all’interno della Corte, è stato proiettato il film di Daniele Vicari “Diaz - Don't Clean Up This Blood”, del 2012, che racconta la vicenda in maniera particolarmente cruda anche se, purtroppo, temo, non esagerata rispetto alla realtà. Ho ritenuto mio dovere non declinare l’invito ad assistere alla proiezione che mi era stato rivolto dal personale, anche se, come puoi immaginare, non è stato facile. Devo dire che, nonostante la tristezza e la difficoltà del momento, e senza voler commentare la sentenza, cosa che non ho fatto neanche in quell’occasione, la proiezione del film mi ha fatto riflettere una volta di più sul grande valore che il sistema europeo di tutela dei diritti umani possiede anche per democrazie mature ed avanzate come la nostra, anche nell’ambito delle quali, disgraziatamente, delle derive sono sempre possibili.
Non bisogna poi dimenticare che la sentenza Cestaro ha portato all’approvazione da parte del nostro Parlamento della legge sulla tortura, che ha colmato una lacuna del nostro ordinamento che veniva denunziata da moltissimo tempo. So che da vari circoli la legge viene criticata come insufficiente, ma in ogni caso si tratta di uno sviluppo positivo, al quale non è certo che si sarebbe giunti senza questa decisione della Corte europea.
Sulle “extraordinary renditions” c’è stata una serie di sentenze della Corte di Strasburgo, a partire da quella della Grande Camera nel caso El Masri c. FYROM del 2012, sentenze delle quali si è molto parlato, anche se le conclusioni della Corte - che ha in genere constatato la violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, appunto la tortura cui le vittime venivano esposte nei Paesi di destinazione, e processuale, come nel caso italiano a proposito dell’impossibilità di procedere alla punizione dei responsabili a causa delle norme sul segreto di Stato, dell’art. 5 sulla tutela della libertà personale, dell’art. 8 sulla tutela della vita privata e familiare e dell’art. 13 della Convenzione sul diritto ad un ricorso effettivo – non possono aver sorpreso nessuno, tanto essere erano per la verità scontate. Tutte sono state adottate all’unanimità.
L’ultima parte della tua domanda richiederebbe da parte mia un commento specifico alla sentenza che riguarda il caso italiano del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar, cioè Nasr e Ghali c. Italia, commento dal quale ti chiederei di esonerarmi, avendo io partecipato a quest’ultima decisione. Mi limito a ricordare che anche questa sentenza è stata adottata all’unanimità, mentre quella della Corte costituzionale alla quale ti riferisci riflette una dicotomia tra il giudice relatore e quello redattore della sentenza, segno della difficoltà della decisione e della compresenza di opinioni diverse.
La tua domanda ha però una portata più ampia, che involge il rapporto tra la Corte di Strasburgo e le alte corti nazionali. Come ho già detto si tratta di un rapporto essenziale per il futuro del sistema. In questo quadro non solo il rispetto delle reciproche posizioni deve essere massimo, ma occorre disponibilità all’ascolto da entrambe le parti. Su questo permettimi di essere ottimista. Difficoltà ce ne saranno sempre, ma esse saranno superabili, se lo spirito di lealtà e di collaborazione, che indubbiamente esiste, ed è stato rafforzato dall’intensificarsi negli ultimi anni di molteplici attività di cooperazione, permarrà in futuro.
Esiste e se sì in che termini, un diritto alla verità nella Convenzione e nella giurisprudenza della Corte edu che consenta di derogare ad altri valori convenzionalmente protetti di fronte a temi di particolare rilevanza.
Il diritto alla verità è un tema che, specialmente negli ultimi tempi, è stato notevolmente dibattuto tra gli specialisti dei diritti umani. Esso è evocato dal preambolo e dell’art. 24 § 2 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate, aperta alla firma a New York il 20 dicembre 2006, e trova riscontro in diverse pronunce di organi giurisdizionali o quasi-giurisdizionali internazionali, come il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite.
La Corte di Strasburgo non ha evocato spesso il concetto di “diritto alla verità”, anche se vi è una sviluppatissima giurisprudenza sulla dimensione procedurale degli articoli 2 e 3 della Convenzione, giurisprudenza che stabilisce il diritto delle vittime di violenze o dei loro familiari ad un’inchiesta effettiva, condotta da autorità indipendenti rispetto a quelle implicate nei fatti e alla quale le vittime abbiano adeguato accesso, inchiesta che conduca all’accertamento dei fatti e alla punizione dei responsabili. La giurisprudenza precisa che si tratta di un’obbligazione di mezzi, non di risultato.
Proprio nel caso El Masri, che ho evocato nella risposta sulle extraordinary renditions, la Corte, che era stata invitata dalle parti intervenienti, specialmente l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ad esprimersi sul “diritto alla verità” al § 191 della sentenza, ha detto di voler esplicitamente trattare un aspetto dell’inadeguatezza dell’inchiesta che aveva fatto seguito ai fatti di quella vicenda, cioè il suo impatto, per l’appunto sul “diritto alla verità” a proposito delle circostanze di causa. A questo proposito, la Corte ha sottolineato “la grande importanza di questo ricorso non solo per il ricorrente e la sua famiglia, ma anche per le altre vittime di crimini simili e per l’opinione pubblica, che hanno il diritto di sapere cosa è successo”. È interessante notare come la Corte non si sia limitata ad affermare un diritto delle vittime della violazione denunciata, ma sia andata oltre, parlando di un diritto ad essere informati delle vittime di crimini simili e del “grand public”. In precedenza, la Corte era stata invitata da un terzo interveniente a farlo nel caso Varnava c. Turchia del 2009, relativo alle sparizioni forzate a Cipro del Nord dopo l’invasione turca del 1974, ma non aveva raccolto l’invito. Lo stesso si è verificato nel caso Janowiec c. Russia, del 2013.
Detto questo, non credo che il richiamo al diritto alla verità, almeno allo stato attuale di sviluppo della giurisprudenza della Corte, possa avere una valenza derogatoria rispetto ad altri valori convenzionalmente protetti, anche se, come ho detto, dalla sentenza El Masri emerge una notevole apertura, del resto coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte, verso questo concetto.
4. La Corte edu, i populismi e le derive autoritarie
Come hai vissuto, nella Tua funzione di Presidente della Corte edu il periodo del fallito golpe turco, tra spinte ad interventi radicali della Corte edu evocate insistentemente ed esigenze correlate al rispetto delle garanzie interne?
Certamente un periodo molto difficile, che del resto non è ancora terminato. So bene che l’atteggiamento della Corte, che, sia pure nel rigore delle sue decisioni giurisdizionali, che spesso hanno concluso nel senso della violazione della Convenzione da parte della Turchia a causa delle straordinarie misure repressive adottate dopo il fallito golpe del 2016, ha continuato a “dialogare” con le autorità turche, è stato vivacemente criticato da vari circoli, turchi e non, che hanno accusato la Corte di una sorta di “connivenza” con un potere autoritario.
La storia dirà se la Corte si è comportata bene. Personalmente non posso che auspicare la più ampia libertà di commento e anche di critica alla prassi seguita dai giudici di Strasburgo.
So bene che certi circoli più radicali dell’opposizione al leader al potere in Turchia auspicavano, come dici tu, una presa di posizione più netta da parte della Corte, cioè una constatazione giurisprudenziale del fallimento della democrazia in Turchia. Secondo queste posizioni la Corte avrebbe dovuto affermare solennemente la mancanza di una giustizia indipendente in quel Paese.
Non spetta a me prospettare delle valutazioni politiche. Ma quale sarebbe stata la conseguenza di una tale affermazione? Una volta constatata l’assenza in Turchia di un apparato giurisdizionale indipendente, come avrebbe potuto il Comitato dei Ministri tollerare la presenza nell’organizzazione di uno Stato mancante dei requisiti statutari per la partecipazione al Consiglio d’Europa? La conseguenza sarebbe stata l’uscita della Turchia dal Consiglio d’Europa e dalla Convenzione europea. Sarebbe stato meglio per la popolazione turca?
Non voglio certo dire con questo che sono state considerazioni di questo genere a spingere la Corte verso posizioni che possono essere state ritenute “indulgenti” verso il regime turco, perché sono convinto che i giudici che sono intervenuti hanno sempre agito secondo scienza e coscienza, senza farsi condizionare da considerazioni più o meno politiche. Da osservatore oramai esterno alla Corte, penso però di poter dire che alla fine dei conti trattenere la Turchia nel sistema abbia servito meglio la causa dei diritti umani di quanto avrebbe potuto fare la sua espulsione.
Il rischio di derive autoritarie all'interno dei Paesi europei e il ruolo della Corte edu. Cosa possiamo o dobbiamo attendere dal giudice dei diritti umani?
È un tema estremamente importante e delicato. Non dobbiamo mai dimenticare che la libertà e la democrazia non sono acquisite per sempre, ma occorre quotidianamente operare per preservarle.
Nel mio ultimo discorso inaugurale dell’anno giudiziario della Corte, tenuto nel gennaio dello scorso anno, ho notato un segnale preoccupante, e cioè l’aumento dei casi di violazione dell’art. 18 della Convenzione. L’art. 18 riguarda l’abuso da parte degli Stati delle limitazioni ai diritti previste dalla Convenzione, cioè i casi nei quali certi Stati procedono a incidere su di un diritto individuale, per esempio arrestando una persona sulla base di accuse penali pretestuose, accuse che in realtà celano l’intenzione di colpire un avversario politico. Ebbene, nel discorso notavo che da quando la Convenzione era entrata in vigore la Corte aveva constatato la violazione dell’art. 18 in dodici casi. Ora, ben cinque di questi dodici casi si riferivano a sentenze pronunciate nel solo 2018.
Questi segnali, come anche la pressione sul principio dell’indipendenza della magistratura, cardine dello Stato di diritto – che emerge per esempio dalla serie di sentenze, alle quali mi riferivo prima, emesse recentemente dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti della Polonia – devono indurre alla massima vigilanza.
5. La Corte edu e le Corti nazionali
Il giudicato nazionale contrario alla sentenza della Corte edu in ambito civile e amministrativo: la posizione inaugurata dal Corte cost.n.123/217 costituisce per Te una soluzione appagante?
So che il tema ti sta a cuore, perché ho letto il tuo bel commento alla sentenza n. 123 del 2017. Credo che la Corte costituzionale abbia fatto tutto quello che poteva, indirizzando un monito sia al legislatore sia alla Corte di Strasburgo.
Dopo la coraggiosissima sentenza n. 113 del 2011, che ha introdotto per via di giurisprudenza costituzionale la possibilità di revisione delle sentenze penali in seguito alla constatazione di serie violazioni della Convenzione europea, la Corte costituzionale ha confermato l’esigenza, che era stata indicata dal giudice rimettente, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, di un meccanismo volto a permettere, nelle stesse circostanze, la revisione di sentenze non penali, ma ha affermato allo stesso tempo di non poter provvedere con una sentenza additiva, vista la necessità di tener conto di tutti gli interessi in gioco, in primo luogo quelli delle parti processuali rimaste estranee alla procedura giurisdizionale europea, per cui è necessario un intervento del Parlamento, che è stato esplicitamente invitato a legiferare.
Dal canto suo, penso che la Corte di Strasburgo trovi assolutamente pertinente l’invito della Corte costituzionale a favorire la partecipazione alla procedura europea delle parti della procedura nazionale diverse dal ricorrente, cosa che del resto corrisponde già alla sua prassi.
Proporzionalità e ragionevolezza. La “corsetta” vietata al tempo del Covid-19 ha riacceso un dibattito fra operatori e gente comune anche in ragione dell’invocato principio di precauzione. Espressioni che sembrano evocare alcun dei parametri della CEDU e della Costituzione. Quanto sono uguali e quanto sono, secondo Te, diversi e quanto il giudice comune può ad essi ispirarsi nell’esercizio delle sue funzioni?
Non credo che vi siano sensibili differenze tra le due Carte. Nell’applicazione quotidiana delle norme da parte del giudice “comune”, per usare l’espressione impiegata dalla nostra Corte costituzionale, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla proporzionalità delle misure limitative dei diritti può essere particolarmente utile perché, a differenza di quella della Corte costituzionale, origina da casi concreti.
Il dialogo fra le Corti: una realtà, un bluff o un’opportunità che va sperimentata in concreto? Il Protocollo n.16 sarà mai reso esecutivo in Italia?
Sulla sorte del Protocollo n. 16 in Italia non mi azzardo a fare previsioni. Ho accompagnato il Primo Presidente Mammone, lo scorso gennaio, in occasione della sua audizione da parte della Commissione parlamentare presso la quale pende il DDL di ratifica del Protocollo, e ho avuto modo di prendere la parola esprimendo, come lui stesso, il mio parere assolutamente favorevole alla ratifica. Nello stesso senso si è recentemente espresso, autorevolmente, tra gli altri, il Prof. Ruggeri. So che ci sono opinioni diverse.
Come ho detto in tante altre occasioni, per me il dialogo tra le Corti è tutt’altro che un bluff. Direi anzi che è l’unica speranza per il sistema messo in piedi dalla Convenzione europea nel 1950. Al numero eccessivo di ricorsi ho già accennato.
È teoricamente possibile, ma realisticamente improbabile, che gli Stati contraenti dotino la Corte di risorse tali da risolvere il problema dell’arretrato. Personalmente non credo che questa sia la soluzione. Il fatto è che, specie da alcuni Paesi, tra i quali purtroppo c’è il nostro, arriva alla Corte un numero di ricorsi non manifestamente inammissibili tale da rivelare un funzionamento difettoso dello Stato di diritto e quindi, in altre parole, un livello non soddisfacente di applicazione della Convenzione all’interno del sistema nazionale.
Occorre quindi migliorare tale livello, e l’unica strada – a parte la necessità, in certi casi, di investimenti nel settore della giustizia – è quella della collaborazione delle corti nazionali con la Corte di Strasburgo, e quindi del loro coinvolgimento, anche psicologico, nella missione di applicare la Convenzione, missione per la quale vi è una responsabilità condivisa tra il livello nazionale e quello europeo.
Intendiamoci, dialogo non significa obbedienza cieca dei giudici nazionali ai dicta di Strasburgo. Al contrario, anche la Corte di Strasburgo deve essere all’ascolto dei giudici nazionali e del loro eventuale motivato dissenso, al quale deve essere data adeguata risposta.
Per queste ragioni personalmente ho assegnato al progetto di Rete delle corti superiori europee della Corte di Strasburgo un’alta priorità nel corso del mio mandato di Presidente e sono molto lieto che lo stesso sia stato fatto dal mio successore immediato, il Presidente Sicilianos. Per le stesse ragioni auspico che il Protocollo n. 16, che è già in vigore sul piano internazionale, e che istituzionalizza, per così dire, questa collaborazione, sia ratificato il più largamente possibile, anche dal nostro Paese.
6. La Corte edu e il Giudice Raimondi
Hai cessato da poco le funzioni presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un giudice italiano designato dall’Italia, eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e poi eletto Presidente dai giudici della Corte. Te lo aspettavi?
Certamente no. Naturalmente, a parte la ovvia gratificazione personale, la stima dei miei colleghi, che si è manifestata già con la mia elezione a vice-Presidente della Corte poco più di due anni dopo il mio arrivo a Strasburgo, poi con l’elezione, e anche la rielezione, a Presidente, mi ha fatto particolarmente piacere in quanto segno di considerazione per il nostro Paese e per la qualità del suo “prodotto” giuridico.
Nessuno conosce meglio della Corte di Strasburgo, inondata di ricorsi italiani in tema di eccessiva lunghezza del processo, le difficoltà del nostro sistema giudiziario, da moltissimo tempo afflitto da una grave crisi di efficienza. Allo stesso tempo, però, ho potuto notare l’apprezzamento sincero dei miei colleghi sia per l’alto livello tecnico delle sentenze delle nostre giurisdizioni, specie quelle superiori, sia per la dottrina italiana, considerata battistrada e guida scientifica in tanti settori del diritto.
Quanto ti manca la Corte europea, il modo di lavorare, i rapporti con i tuoi colleghi?
L’esperienza di giudice a Strasburgo è certamente unica. La ricchezza di stimoli, anche culturali, che promana dalla frequentazione di tanti colleghi provenienti non solo da aree geografiche, ma da percorsi professionali diversissimi tra loro, non ha eguali.
Naturalmente, pur trattandosi di un corpo relativamente ristretto, formato da 47 persone, non c’erano frequentazioni intense con tutti i colleghi al di là delle occasioni di lavoro. Rapporti più stretti, come è naturale, si stringevano all’interno delle sezioni. C’era poi ogni lunedì sera una cena tenuta in un ristorante, la “Petite Mairie”, aperta a tutti in linea di principio, ma che di fatto vedeva la partecipazione di soli colleghi francofoni, una minoranza relativamente esigua. Ricordo queste cene, nelle quali si parlava di tutto, dalla letteratura, al teatro, al cinema, all’arte, alla politica, con una certa nostalgia. Poi c’era (e c’è) il “Gruppo di riflessione”, un’iniziativa molto felice. Si tratta di una forma di utilizzazione della “pausa pranzo” (dalle 12 alle 14) mediante una colazione, alla quale sono invitati a partecipare tutti i giudici (e solo i giudici), ciascuno dei quali paga per sé. L’evento si tiene circa una volta al mese e c’è un comitato scientifico che programma gli interventi e seleziona gli argomenti da trattare. Alle 12.30, terminato il pasto, uno dei colleghi tiene una relazione su un tema d’interesse e si apre poi un dibattito totalmente libero. I temi riguardano spesso, ovviamente, questioni delle quali i giudici si occupano quotidianamente, ma non solo. Ricordo che in una delle occasioni nelle quali sono stato invitato a fungere da relatore mi hanno chiesto di parlare della dottrina italiana di diritto internazionale.
7. Riapprodo in Corte di Cassazione
Il Tuo ritorno al giudiziario nazionale. Affinità o diversità di approccio?
Idealmente mi sono sempre sentito parte della Corte di cassazione, che avevo lasciato nel 2003, dopo quasi sei anni, trascorsi in gran parte alla Procura generale e in misura minore alla sezione tributaria, che era stata istituita un paio d’anni dopo il mio arrivo nel 1997.
Questo naturalmente non era sufficiente a farmi sentire assolutamente tranquillo quanto alla mia possibilità di riprendere a Piazza Cavour con un heri dicebamus, dopo un’assenza di 16 anni, periodo durante il quale c’era stato un ricambio quasi completo dei magistrati della Corte e riforme numerose e profonde avevano modificato sensibilmente i metodi di lavoro.
Per questo, come ho detto in uno scritto recente pubblicato su questa rivista in occasione della jubilación di Vincenzo Di Cerbo, Presidente titolare della Sezione lavoro - Tra Roma e Monaco di Baviera, un grande giudice: Vincenzo Di Cerbo - sono particolarmente grato a lui e a tutti i colleghi di questa Sezione, che mi hanno accolto fraternamente e mi hanno fatto subito sentire di nuovo a casa, accordandomi immediatamente credito e fiducia nelle mie capacità di rimettermi al passo. Devo dire che il mio lavoro alla Sezione mi dà grandissime soddisfazioni, professionali e umane, e devo confessare che vedo con un certo timore approssimarsi il traguardo del limite di età…
8. Dove va la Corte edu presieduta da Robert Spano?
Il giudice Robert Spano è stato da poco eletto presidente della Corte edu. Cosa puoi dirci avendo lavorato con lui?
Con Robert Spano c’è sempre stato un rapporto speciale. A parte la grandissima stima professionale che ho sempre nutrito per questo giovane e brillantissimo giurista, che a poco più di quarant’anni, quando è arrivato alla Corte, era stato magistrato, professore universitario e Preside della Facoltà di giurisprudenza, nonché Ombudsman del suo Paese, pubblicando scritti di esemplare chiarezza che rivelavano una notevole profondità di pensiero, non bisogna dimenticare la nostra comune origine napoletana, un po’ attenuata per lui, nato e cresciuto a Reykjavík, ma pur sempre di padre vomerese.
Robert è certamente un giudice che crede sinceramente al sistema della Convenzione, anche se, ed è a mio sommesso avviso un gran bene, non è un militante dei diritti umani. Credo quindi che il suo equilibrio e le sue grandi qualità professionali, che lo rendono assolutamente credibile sia presso i Governi sia presso i ricorrenti, accompagneranno con successo la Corte nel tempo del suo mandato di Presidente.
In conclusione, quale ruolo sarà chiamata a svolgere la Corte edu nei prossimi anni, secondo la tua esperienza?
La mia speranza è che si alleggerisca finalmente, grazie ad una migliore cooperazione dei giudici nazionali, il carico di ricorsi che attualmente grava sulla Corte, in modo che ad essa venga consentito di concentrarsi sullo sviluppo e sull’affinamento della sua giurisprudenza, che, in quanto sintesi dei valori fondamentali minimi che devono valere per l’intero continente europeo, continui a rappresentare una guida autorevole per le giurisdizioni dei Paesi contraenti.
La condivisione di tali valori, in una con la garanzia assicurata dal giudice europeo, è la più solida assicurazione del perpetuarsi della democrazia, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti umani. Credo che si tratti di una prospettiva realistica, le chiavi del cui successo, per quanto dicevo prima, si trovano nelle mani delle corti nazionali, specialmente quelle costituzionali e supreme, giacché tutto dipende dalla misura e dalla lealtà della loro collaborazione con la Corte di Strasburgo.
Grazie