Il fine vita e il legislatore pensante
4. Il punto di vista dei civilisti
Considerazioni di Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano
Introduzione di Mirzia Bianca
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli)]
Introduzione
Mirzia Bianca
L'iniziativa di Giustizia insieme, volta a raccogliere il coro delle posizioni della dottrina di varie estrazioni disciplinari, indica, in temi delicati come quello del fine vita, un percorso metodologico di dialogo con il legislatore che restituisce all'interprete una funzione attiva nella costruzione di un diritto più giusto, perchè modellato sui diritti fondamentali dell'uomo, fine ultimo dell'ordinamento. Nella consapevolezza della indispensabilità di una visione interdisciplinare di insieme, il gruppo dei civilisti che ho avuto il piacere di coordinare, ha cercato di evidenziare i punti nevralgici di un dibattito che faticosamente cerca di trovare un equilibrio tra il valore supremo della vita umana e il valore della dignità e dell'autodeterminazione. In questo che sembra essere un ossimoro assiologico, le domande del gruppo dei civilisti riguardano sia questioni di metodo, come quella relativa a se e come immaginare un futuro intervento del legislatore, fuori o entro il perimetro indicato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, sia questioni di contenuto, di più sicuro interesse civilistico, come quelle relative alle condizioni e alla individuazione dei soggetti che potrebbero essere abilitati dal legislatore ad esprimere il consenso, nonché il contenuto e la forma che deve rivestire tale consenso. In particolare si è posto il problema, alla luce del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, della estensione ai malati oncologici e ai soggetti non autonomi, ipotesi quest'ultima che porterebbe a sconfinare nella fattispecie penalistica dell'omicidio del consenziente. Uno spazio particolare è stato riservato al problema del consenso del soggetto minore di età. Altro spazio è stato dedicato ad individuare soggetti e procedure che possano rendere effettiva questa scelta, anche nel caso di obiezione di coscienza del medico. La risposta a questi quesiti individua due possibili strade da percorrere: una prima scelta minimalista che si limita a tradurre in norma la soluzione indicata dalla Corte costituzionale per il caso Cappato. Una soluzione più ampia che, partendo dal caso Cappato, cerchi di individuare le linee di confine di una eccezionale ipotesi di interruzione della vita umana. L'individuazione dei paletti e quindi della distinzione tra un suicidio assistito medicalizzato, dettato dalla situazione di intollerabilità della sofferenza e della irreversibilità della malattia e scelte eutanasiche è la sfida che si pone all'interprete in una scelta che è doveroso includere tra quelle “tragiche”.
Il gruppo è composto da:
Professoressa Gilda Ferrando, già Professore Ordinario di Diritto Privato, presso l'Università degli Studi di Genova, esperta da tempo di diritto delle persone vulnerabili e autrice di un recente commento alla decisione della Corte costituzionale
Professoressa Teresa Pasquino, Professore Ordinario di Diritto Privato presso l'Università degli Studi di Trento, che al tema del fine vita ha dedicato vari scritti, tra cui un'opera monografica.
Professore Stefano Troiano, Ordinario di Diritto Privato e Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Verona, esperto dei diritti della persona e del tema della vulnerabilità.
Gilda Ferrando circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc la quale, sempre nel rispetto del dettato costituzionale, dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, ma entro i limiti di una situazione medicalizzata. In particolare Gilda Ferrando propone di estendere la fattispecie del suicidio assistito anche ai malati oncologici e ai malati che non siano in grado autonomamente di attivare una procedura di interruzione della vita, sottolineando che quest'ultima ipotesi dovrebbe essere inquadrata nell'ambito della fattispecie dell'omicidio del consenziente. Sul consenso, Gilda Ferrando rileva che il problema non attiene tanto alla forma ma alla natura dell'atto del consenso. Sul presupposto della considerazione di questa scelta quale una scelta personalissima che non può essere delegata ad altre persone, si è evidenziato il profilo di libertà e di revocabilità del consenso, circoscrivendo l'intervento di soggetti terzi, soprattutto dei comitati etici territoriali, i quali allo stato attuale sarebbero privi di una competenza specifica. In un'ottica volta ad evitare la burocratizzazione della procedura, Gilda Ferrando propone che la richiesta possa essere rivolta anche al medico di fiducia, sia in forma scritta che nella forma videoregistrata e inserita poi nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Medesima soluzione personalistica è stata prospettata per il soggetto minore di età, restringendo le ipotesi di intervento da parte dei genitori o da parte di rappresentanti legali. Inoltre, alla tradizionale regola della maggiore età si è scelta la più moderna regola della consapevolezza e della capacità di discernimento. Si propone che i medici coinvolti in questa delicata procedura non siano unicamente quelli di una struttura pubblica, ma anche di una struttura privata, come hospices e anche il medico di fiducia. Alla classe medica è stato riservato esclusivamente il ruolo di stabilire le condizioni soggettive ed oggettive per dar corso alla volontà del paziente, attraverso una commissione interdisciplinare.
Teresa Pasquino circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc che si coordini con la legge n. 219 del 2017 sulle Dat e sul consenso informato, pur mantenendo una sua autonomia. Il suo perimetro dovrebbe essere più ampio delle ipotesi indicate dalla Corte costituzionale nella citata decisione ma circoscritto alla situazione di patologia medicalizzata, ivi compresa l'ipotesi di soggetto affetto da malattia irreversibile e incapace di attivare personalmente la procedura di interruzione della vita, ipotesi non più inquadrabile nell'ambito del suicidio assistito ma dell'omicidio del consenziente. Per la procedura di prestazione del consenso, Teresa Pasquino assegna alla classe medica un ruolo importante di supporto della volontà, ma limitatamente ai medici appartenenti ad una struttura pubblica, sia al fine di evitare situazioni di abuso, sia al fine di consentire un trattamento uniforme in tutto il territorio nazionale. Ai familiari viene attribuito una ruolo meramente consultivo. Ai comitati etici territoriali si guarda con un certo scetticismo. Quanto alla forma del consenso, si suggerisce di adottare la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 sulle Dat e il consenso informato, ferma restando la garanzia della revocabilità fino all'ultimo istante dell'avvio della procedura. Con riferimento ai soggetti minori, al tradizionale concetto della capacità di agire si preferisce il moderno concetto di capacità di discernimento, prevedendosi, in caso di mancanza di discernimento, un intervento dei genitori in qualità di rappresentanti legali, e in caso di confitto, l'intervento del giudice. Si propone una regolamentazione dell'obiezione di coscienza sul modello della legge sull'aborto. Alle cure palliative si affida una particolare funzione di garanzia di cura affidata ai medici, al fine di prevenire la scelta di interrompere la vita.
Stefano Troiano propone un intervento del legislatore attraverso una legge ad hoc la quale dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla già citata decisione della Corte costituzionale ma circoscritto alle situazioni di patologia irreversibile medicalizzata, includendovi, in conformità al principio di uguaglianza e di ragionevolezza, sia i malati oncologici che i malati che, a causa di una patologia, non sono più autonomi e non possono provvedere personalmente alla interruzione della vita. Particolarmente interessante è l'indicazione di scegliere un lessico che eviti la parola “eutanasia”, proprio al fine di evidenziare la delimitazione dell'intervento del legislatore. La scelta di una legge ad hoc, anziché un'opera di intervento e di modifica della legge n. 219 del 2017, che astrattamente sarebbe più idonea a collocare la fattispecie nell'ambito della della relazione medico-paziente, viene giustificata dall'esigenza di non sovrapporre l'ipotesi del suicidio medicalizzato, volto ad accelerare il processo letale in caso di malattia irreversibile rispetto al rifiuto di trattamenti di supporto vitale, volto ad assecondare il processo naturale della malattia terminale secondo dignità, ipotesi regolata dalla legge n. 219 del 2017. Per le stesse ragioni, Stefano Troiano ritiene che l'ipotesi del suicidio assistito non possa essere oggetto di DAT, data la rilevata distinzione tra le due fattispecie e la necessità che il consenso al primo sia attuale, rinnovato e sempre revocabile. Con riferimento al contenuto e alla forma del consenso, proprio in ragione della delicatezza della scelta e della solitudine di chi deve prenderla, si evidenzia la necessità di attuare una procedimentalizzazione che coinvolga un'équipe di medici e di psicologi che possa controllare i presupposti e verificare la libertà e l'attualità del consenso, proponendo che il consenso sia nuovamente rinnovato in prossimità dell'interruzione della vita. Con riferimento al soggetto minore di età, viene rilevata l'inadeguatezza di coinvolgerlo in una scelta che presuppone la consapevolezza della morte e che quindi non è comparabile ad altre scelte che riguardano la sua crescita. La scelta di non coinvolgere il minore viene confermata dall'esperienza comparatistica e in particolare dalle recenti leggi spagnola e portoghese. Quanto all'intervento di soggetti terzi, pur rilevando l'incompetenza attuale dei comitati etici territoriali, si segnala l'esperienza virtuosa di alcuni Comuni e la sfida per estenderla in tutto il territorio nazionale.
1. Si reputa necessario un intervento del legislatore e in quale forma? Una legge ad hoc o una modifica della legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e le DAT?
Prof.ssa Gilda Ferrando
L’intervento del legislatore sul tema del fine vita costituisce un atto dovuto in risposta alle richieste che la Corte costituzionale gli ha rivolto sia nell’ordinanza 207/2018, sia nella sentenza 242/2019. Quest’ultima si chiude ribadendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore conformemente ai principi precedentemente enunciati”. Quindi, sì: reputo necessario l’intervento del legislatore.
Le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda rendono più agevole individuare i modi di tale intervento.
Intanto dobbiamo escludere che sia sufficiente una modifica degli artt. 579, 580 c.p., perché il legislatore non può limitarsi a escludere la punibilità di un certo tipo di condotta ma deve disciplinare le condizioni che giustificano l’aiuto prestato dal medico e la procedura da seguire. Questo non esclude che una modifica del codice penale possa essere necessaria. Ad esempio, per distinguere l’aiuto al suicidio dall’istigazione, o per chiarire che in ogni caso non costituisce aiuto al suicidio una condotta “neutra”, che non abbia concorso direttamente a provocare la morte.
Poiché la fattispecie che stiamo considerando non corrisponde al suicidio vero e proprio e all’aiuto al suicidio tradizionale, mi pare opportuno sottolineare questa differenza anche con l’uso di una terminologia appropriata, esigenza avvertita dalla stessa Corte costituzionale quando fa riferimento alla “decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri” o di “modalità di congedarsi dalla vita”. La questione su cui il Parlamento è chiamato a legiferare è infatti quella dell’“Aiuto medico a morire”. Potrebbe essere questo il titolo della nuova legge, in analogia con la “Legge sulla morte medicalmente assistita” di recente approvata dal Parlamento portoghese (e in attesa di essere promulgata).
Ritengo preferibile una nuova legge piuttosto che una modifica della legge n. 219/2017. Si tratterebbe, infatti, di una legge che disciplina un aspetto della relazione medico-paziente distinto rispetto a quelli considerati dal legislatore del 2017, riguardo al quale sussistono specifiche esigenze di protezione del malato (e più in generale dei soggetti deboli), e quindi occorre individuare specifiche condizioni oggettive e soggettive e specifiche procedure di verifica della loro esistenza. La legge 219 volutamente non contempla l’assistenza del medico al morire, né nella forma dell’eutanasia vera e propria né in quella dell’aiuto a porre termine alla propria vita. Con la legge attesa, il legislatore, sollecitato dalla Corte costituzionale, fa un passo ulteriore prevedendo una specifica disciplina. Anche la disciplina delle cure palliative (l. n. 38/2010), è autonoma rispetto alla l. 219, per quanto ispirata ad analoghi principi. Avremo dunque una costellazione di leggi distinte ma coordinate tra di loro e tutte ispirate ai medesimi principi costituzionali.
Dal punto di vista operativo, poi, la presentazione di una legge autonoma eviterebbe il pericolo di rimettere in discussione la l. 219, limitandone la portata (come fa, ad esempio, la proposta Pagano a proposito di nutrizione e idratazione artificiali). Senza contare che si finirebbe in tal modo per dilatare di molto i tempi della discussione parlamentare.
In definitiva sarei favorevole ad una legge ad hoc, avente come oggetto l’aiuto medico a morire.
Prof.ssa Teresa Pasquino
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, ha dovuto ovviare al mancato accoglimento da parte del Legislatore dell’invito a provvedere nella materia del c.d. aiuto a morire, invito già presente, peraltro, anche nell’ordinanza della Consulta n. 207 del 16 novembre 2018.
Com’è noto, con la sentenza sopra citata la Consulta, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui «non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente», ha esplicitamente suggerito i parametri entro i quali Legislatore dovrà muoversi per evitare che una materia così delicata come quella dell’aiuto a morire venga disciplinata senza la giusta ponderazione di tutti i principi fondamentali coinvolti, primo fra tutti quello della dignità della persona.
Conviene subito mettere in evidenza che un intervento normativo che si limitasse solo a circoscrivere l’area applicativa dei reati di cui all’art. 580 c.p., introducendo in esso una causa di non punibilità, lascerebbe la materia per molti aspetti affidata ad una “terra di nessuno”, priva di regole e norme di legge; una materia dove il contemperamento di interessi essenziali, tutti connessi alla vita delle persone, verrebbe a pesare esclusivamente sull’attività di valutazione dei giudici e sarebbe amministrata solo sulla base delle norme di deontologia professionale.
Sarebbe, invece, preferibile elaborare una disciplina speciale ad hoc che contempli in tutte le sue variegate sfaccettature il delicato fenomeno dell’aiuto a morire, mantenendo integri sia il contenuto dell’attuale art. 580 c.p. per le fattispecie diverse da quella giunta all’attenzione della Consulta, sia l’impianto complessivo della legge n. 219 del 22 dicembre 2017, dettata in materia di consenso informato ai trattamenti sanitari e di decisioni anticipate sui trattamenti, in cui si era ipotizzato come auspicabile un intervento anche dalla stessa Corte costituzionale. E’ presente, infatti, nella l. n. 219 del 2017 il principio per cui, per il combinato disposto degli artt. 1 e 2, il paziente ha il diritto al pieno rispetto della sua dignità nella fase finale della sua vita, diritto cui corrisponde il dovere del medico di garantirgli tutte le terapie adeguate ad alleviare le sue sofferenze.
E, tuttavia, un tale intervento potrebbe essere alquanto rischioso dal momento che potrebbe, da un lato, indebolire l’impianto generale della legge n. 219 del 2017 - la quale deve, invece, essere in toto salvaguardata essendo essa la sede in cui è stato sancito e ben disciplinato il diritto all’autodeterminazione del paziente sui trattamenti sanitari in generale, persino su quei trattamenti di sostentamento vitale quali l’idratazione e la nutrizione artificiali - e, dall’altro, creare una commistione tra trattamenti diversi, tutti compatibili con la fase del fine vita ma diversi l’uno dall’altro (ad es. sedazione palliativa, da una parte e suicidio medicalmente assistito o eutanasia, dall’altra).
Dovrebbe trattarsi, in buona sostanza, di una legge interamente dedicata alla materia dell’aiuto medico a morire, fondata sul già esistente inquadramento nel sistema del tema de quo nel contesto del concetto di “tempo di cura”, ormai recepito come contenuto essenziale del rapporto medico-paziente inteso come
“alleanza terapeutica”. Una novella disciplina che, lasciando la l. n. 219 del 2017 totalmente integra nel suo impianto, fosse coordinata ed integrata con essa, prendendola come punto di riferimento e sede privilegiata del giusto contemperamento tra il principio di autodeterminazione del paziente e il ruolo del medico quale garante in alleanza terapeutica e specificando le necessarie differenziazioni tra le speciali fattispecie che si possono concepire come aiuto medico a morire.
Il coordinamento della novella sarebbe, altresì necessario anche con la disciplina penalistica, laddove la tipicità delle fattispecie è imposta dal sistema e dove le norme di cui agli artt. 579 e 580 andrebbero opportunamente adeguate con la contemplazione di un sostanziale esonero da responsabilità di chi supporta il malato nel processo medicalizzato della morte.
Prof. Stefano Troiano
L’intervento del legislatore in questa materia non soltanto è necessario ma è anche non ulteriormente procrastinabile. Già con l’ord. n. 207 del 2018 la Corte costituzionale aveva formulato un invito al legislatore a regolare la materia in conformità alle esigenze di tutela dalla stessa individuate, fissando una nuova discussione delle questioni ad una successiva udienza proprio al fine di consentirgli di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità. Con la sent. n. 242 del 2019 la Corte, preso atto della mancata sopravvenienza di una legge regolatrice (essendo rimasti privi di seguito i numerosi d.d.l. presentati in argomento), si è risolta per un intervento teso a “ricavare dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato”, e quindi delineando essa stessa i tratti essenziali di una disciplina immediatamente applicabile. Anche la sentenza si conclude, però con una pressante sollecitazione al legislatore, al quale si rinnova “con vigore” l’invito a regolamentare la materia provvedendo ad una “sollecita e compiuta disciplina”, esercitando la propria discrezionalità conformemente ai principi enunciati dalla Corte.
Questo invito non può essere disatteso.
È indubbio, infatti, che i principi e le regole enunciati in termini generali dalla Corte, pur immediatamente applicabili, esigono una risposta del legislatore, che deve offrire il quadro normativo analitico indispensabile a dare certezza nell’applicazione di una materia altamente sensibile, che investe diritti personalissimi. L’assenza di un intervento legislativo perpetuerebbe le non trascurabili incertezze applicative che si nascondono nella trama a maglie molto larghe intessuta dalla Corte e rischierebbe di lasciare in tutto o in parte privo di tutela il diritto fondamentale così enucleato. Vi sono, infatti, alcuni aspetti specifici dell’aiuto a morire, come la previsione analitica dei requisiti di accesso, i ruoli di medici e strutture sanitarie nella procedura e i tempi della stessa, i confini dell’obiezione di coscienza, che lasciano numerose aree d’ombra, le quali non possono essere lasciate prive di regolamentazione. Solo il legislatore può inoltre valutare appieno l’inserimento armonico di una disciplina dell’aiuto a morire nel sistema, verificandone l’esatto ambito di applicazione e ponderandone l’opportunità di estensione a fattispecie analoghe, in ossequio ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché individuando le norme applicabili ai fatti pregressi rispetto all’entrata in vigore della legge.
Da queste premesse discende anche che l’intervento del legislatore, oltre che necessario, non potrà essere minimale, ma dovrà avere un’ampiezza di dettaglio tale da rimuovere ogni possibile “zona grigia”. Insufficiente sarebbe, in particolare, un intervento limitato soltanto all’introduzione, nell’art. 580 c.p., di una specifica causa di non punibilità, in linea con quanto stabilito al riguardo dalla Corte costituzionale.
Ferma la necessità di un intervento non minimale, le modalità concrete di questo rientrano, però, nella discrezionalità del legislatore, al quale si aprono due strade: l’inserimento della disciplina relativa all’aiuto a morire nel contesto di una legge già esistente oppure l’approvazione di una legge ad hoc, esclusivamente dedicata all’aiuto a morire.
Con riguardo alla prima ipotesi, la principale candidata è la legge n. 219 del 2017. Si tratterebbe di una soluzione coerente con l’impianto motivazionale della pronuncia della Corte, la quale, al fine di affermare un diritto fondamentale del malato terminale a ricevere assistenza nel realizzare il proposito di anticipare la morte per garantire che essa avvenga con dignità, ha individuato proprio nella legge n. 219 del 2017 il “punto di riferimento già presente nel sistema” utilizzabile al fine di colmare il vuoto legislativo, nelle more dell’intervento del Parlamento. La Corte ha infatti tratto principalmente argomento dal diritto sancito nella l. n. 219 del 2017 a rifiutare il consenso al trattamento sanitario, ancorché necessario alla sopravvivenza del paziente (v. art. 1, comma 5, che espressamente considera quali trattamenti sanitari rifiutabili anche la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale). Il successivo art. 2 menziona, d’altronde, in modo espresso il diritto del paziente alla “dignità nella fase finale della vita”, collegandolo alla alleviazione delle sofferenze, e ponendo a carico del medico il dovere di adoperarsi in tal senso, garantendo “un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l'erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38”.
L’inserimento della nuova disciplina nella legge n. 219 del 2017 sarebbe, inoltre, coerente con la finalità della nuova normativa, in quanto porterebbe a collocare la fattispecie nel contesto della disciplina della relazione medico-paziente, evidenziando come anche l’aiuto al morire possa concepirsi solo nel quadro delle regole generali che governano i trattamenti sanitari (e il relativo consenso), nel contesto della c.d. alleanza medico-paziente e con le garanzie proprie di un procedimento medicalizzato, in cui il medico, ai sensi dell’art. 1, comma 5, l. n. 219 del 2017, deve, “qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, prospettare “al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove[re] ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Questi aspetti erano, peraltro, evidenziati già nell’ord. n. 207 del 2018, lì dove si evocava espressamente (in luogo di “una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen.”) l’ipotesi di inserire “la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima”.
La soluzione della novellazione della legge n. 219 del 2017, pur coerente con le sollecitazioni della Corte costituzionale e senz’altro legittimamente percorribile dal legislatore (si tratta, peraltro, dell’opzione preferita da ben tre delle sei proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento; si tratta, in particolare, dei d.d.l. C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan e C. 1888 Pagano), non è, però, priva di insidie.
Essa presuppone, infatti, che il legislatore sia effettivamente capace di inserire la nuova disciplina in modo armonico all’interno dell’impianto della legge n. 219 del 2017. Ciò significa, da un lato, che l’intervento non si potrebbe limitare ad aggiungere una o più disposizioni a quella legge, ma dovrebbe anche preoccuparsi di coordinare in modo coerente le nuove disposizioni con le altre, evitando contraddizioni interne o di snaturare quelle che già vi sono. È necessario, dunque, un intervento molto ben ponderato, sorvegliato e, anche, prudente, che non introduca elementi spuri né ponga nel nulla le acquisizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 (nel complesso espressione di un intervento legislativo più che equilibrato).
Vi è, infine, un terzo aspetto da considerare, che è, però, decisivo.
Sebbene sia corretto ricostruire l’aiuto a morire come uno sviluppo ulteriore del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, quando i trattamenti oggetto del rifiuto si risolvano in strumenti di supporto vitale necessario, ciò non deve portare ad ignorare le differenze che intercorrono tra le due ipotesi: la prima consiste in una scelta che, al fine di garantire la dignità del fine vita, asseconda il processo naturale della malattia terminale verso il suo inevitabile esito letale, senza incidere però sui tempi del processo (che potrebbero anche essere molto lunghi); la seconda si risolve invece in una decisione che, pur rispondendo alla stessa esigenza, tronca anticipatamente questo processo, portando alla morte immediata. La natura drastica, radicale e irreversibile di questa seconda scelta impone di accompagnarne la previsione normativa ad una somma di cautele che nel primo caso non sono invece necessarie, e impone altresì di delimitarne accuratamente l’ambito di applicazione, al fine di evitare pericolose fughe in avanti in sede di interpretazione.
In particolare, mi pare opportuno che la normativa sull’aiuto a morire: delinei con grande cura, e con indicazioni precise, le fattispecie in cui tale diritto è riconosciuto, differenziandole da quelle contemplate nella legge n. 219 del 2017; di massima non includa i minori di età tra i soggetti legittimati a ricevere l’aiuto a morire o, in alternativa, preveda limiti molto stringenti al riguardo (mentre, com’è noto, la legge 219 del 2017, contempla la possibilità che il rifiuto dei trattamenti salvavita sia espresso dagli esercenti la responsabilità genitoriale, però “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”); dia adeguato valore all’esigenza di attualità e immediatezza del consenso dell’avente diritto, escludendo, dunque, che il relativo consenso sia prestato anticipatamente nella forma di DAT o in altra forma.
La semplice novellazione della legge n. 219 del 2017 espone, pertanto, ad un’acritica estensione del suo impianto normativo alla nuova fattispecie dell’aiuto a morire, con il rischio di annullare le differenze e creare indebite sovrapposizioni tra le due.
Per tutte queste ragioni, si ritiene preferibile l’adozione di un provvedimento dedicato, che, oltre al vantaggio della maggiore semplicità di intervento, presenta minori rischi per quanto riguarda il pericolo di alterare l’impianto normativo della l. n. 219/2017 e consente di adeguare la disciplina alle peculiarità della nuova fattispecie. La previsione di una legge ad hoc non esimerebbe in ogni caso il legislatore dalla necessità di operare un adeguato coordinamento con le norme della l. n. 219 del 2017 e, si può aggiungere, anche con quelle della precedente legge del 2010 sulla terapia del dolore e le cure palliative. È in ogni caso indispensabile che la legge incida anche sul codice penale, e in particolare sugli artt. 579 e 580 c.p., chiarendo senza equivoci la qualificazione penale delle fattispecie coperte dalla nuova legge (causa di non punibilità o esclusione dal reato) e l’assenza di conseguenze sul piano della responsabilità civile.
Si può aggiungere, a tutto questo, un quesito di tipo terminologico, riguardo a come potrà essere denominato, sul piano lessicale, l’istituto regolato (e quindi quale intitolazione dovrebbe avere una eventuale legge ad hoc in materia).
Andrebbe preferibilmente evitato il riferimento al concetto di “eutanasia” (buona morte), che, oltre ad attribuire inopportunamente alla morte (anche nel modo in cui potrebbe essere percepita nell’immaginario collettivo) una connotazione positiva, non consente di mettere in evidenza i connotati fondamentali della fattispecie che il legislatore è chiamato a regolare, e che ne evidenziano la peculiarità, ossia che si tratti di un aiuto prestato da soggetti terzi (in un contesto di assistenza sanitaria) rispetto all’esecuzione di un proposito di accelerazione del naturale esito letale, proposito liberamente e consapevolmente maturato dalla persona affetta da una malattia terminale che gli arreca gravissime e intollerabili sofferenze e che, in assenza di trattamenti sanitari di supporto vitale, lo porterebbe comunque alla morte. Per riassumere tutti questi aspetti in una formula di sintesi, ci pare più efficace il ricorso al concetto di “aiuto a morire in dignità” oppure, semplicemente, “aiuto a morire” o anche “aiuto all’anticipazione della morte” (opportunamente sottolineando, perlomeno nell’articolato, che l’aiuto avviene mediante il ricorso a procedure medicalmente assistite di anticipazione volontaria dell’esito letale di una malattia irreversibile), ovvero, in alternativa, l’uso di una terminologia simile a quella che si ritrova nella recentissima legge portoghese sulla antecipação da morte medicamente assistida [approvata a fine gennaio e in attesa di promulgazione], ossia discorrere di “anticipazione volontaria e medicalmente assistita della morte”.
2. Si reputano le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale tassative o è possibile ipotizzare una estensione ai malati affetti da malattia irreversibile e affetti da sofferenze non sopportabili che tuttavia non rientrano nella fattispecie del caso Cappato?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per dare una risposta a questa domanda occorre mettere a fuoco la portata della decisione della Corte costituzionale e l’ambito di applicazione delle regole che ne risultano.La Corte d’Assise di Milano aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione … a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”.
Contrariamente a quanto sostenuto dal remittente, la Corte “ha escluso che … l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per sé incompatibile con la Costituzione”.
Pur ritenendo non incostituzionale l’incriminazione dell’aiuto al suicidio in quanto tale (art. 580 c.p.), la Corte ha poi individuato un’area circoscritta di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa delimitata dalla presenza di quattro circostanze: che si tratti di una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Una pronuncia meramente ablativa avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi».
La decisione della nostra Corte costituzionale si distingue nettamente da quella della Corte costituzionale federale tedesca 26 febbraio 2020, 2 BvR 2347/15 la quale ha dichiarato incostituzionale il § 217 del StGB che punisce la c.d. “agevolazione commerciale del suicidio”. La Corte tedesca, muovendo dal diritto costituzionale al libero sviluppo della propria personalità, ha configurato un “diritto alla morte autodeterminata” esercitabile sia per mano propria, sia con l’intervento di altri, riconoscendo un pieno diritto di autodeterminazione non sindacabile da terzi. Secondo la Corte tedesca, “la decisione autoresponsabile circa la fine della propria vita non necessita di alcun ulteriore fondamento o giustificazione” e, quindi, “non resta limitata al sussistere di condizioni di malattia grave o insanabili né a determinate fasi della vita o della malattia”. Su questi presupposti, la persona ha “anche la libertà di ricercare aiuto, per tale fine, presso terzi, come pure di recepire simile aiuto, ove sia stato offerto”.
La nostra Corte costituzionale, invece, in modo più prudente, si è mossa sul piano dell’autodeterminazione terapeutica, cioè dell’autodeterminazione del malato nella gestione del decorso della malattia. E’ solo il malato affetto da una patologia irreversibile che gli provoca sofferenze intollerabili, e sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, a poter chiedere l’aiuto a terminare la vita.
La necessità di sottrarre i casi che ricadono entro quest’area all’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p. deriva dal fatto che si tratta di situazioni diverse da quelle considerate dal legislatore del 1930, «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta», rese possibili «dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». Quando la Corte parla di “modalità in cui congedarsi dalla vita” per indicare la scelta del malato di por fine alle proprie sofferenze si comprende come sia distante la “circoscritta area” individuata dalla Corte dal suicidio a cui guardava il codice penale, quello motivato, ad esempio, da ragioni economiche, affettive, esistenziali (mi tolgo la vita perché sono rovinato, ho perso la persona che amo, la mia vita è priva di significato).
Se dal punto di vista naturalistico la vita del malato si spegne in seguito all’assunzione del farmaco letale preparato dal medico, la causa effettiva della morte è la malattia, essendo ormai in moto un processo irreversibile del morire che l’assunzione del farmaco anticipa nella sua fine ma non determina nelle sue cause prime. Nella medicina tecnologica la morte sempre più raramente costituisce un evento istantaneo, e sempre più di frequente giunge al termine di un processo di cui le tecniche consentono di dilatare i tempi, e rendere indefiniti gli esiti.
Di questo dato di fatto aveva già tenuto conto il legislatore quando, nella l. n. 219/2017, aveva riconosciuto il diritto del malato di rifiutare le cure e di chiedere la sospensione o interruzione dei trattamenti che lo tengono in vita.
Con la sentenza n. 242 la Corte sviluppa ulteriormente questi principi. “Se, infatti” - fa notare la Corte - “il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Viene in tal modo riconosciuto al malato un diritto costituzionale a “dire basta” che deve essere rispettato dalla legge e dalle strutture sanitarie.
La sentenza della Corte è motivata in stretta aderenza con il caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato. Essa si articola in due momenti, una pars destruens, con cui dichiara l’illegittimità costituzionale di una “parte ideale” dell’art. 580 c.p., e una pars construens con cui individua i criteri di liceità della condotta, necessari per evitare pericolosi vuoti normativi.
In assenza dell’intervento del legislatore invocato dall’ordinanza n. 207, nella sentenza n. 242 la Corte provvede ad elaborare condizioni e procedure “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”.
Nella cornice dei principi costituzionali vi sono spazi di discrezionalità entro cui il Parlamento potrà esercitare i suoi poteri normativi che la Corte non intende vincolare, consapevole che la tutela delle persone in situazione di vulnerabilità “è suscettibile …di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali”.
Se ne deduce quindi che: 1) criteri di riempimento sono “costituzionalmente necessari”; 2) il loro contenuto, così come individuato dalla Corte, non è “costituzionalmente vincolato”; 3) i criteri fissati dalla Corte valgono fino a quando il Parlamento non intervenga in modo eventualmente anche non coincidente con quanto stabilito in motivazione; 4) la legge, in ogni caso, deve inscriversi nel quadro dei principi costituzionali di eguaglianza, rispetto dell’autodeterminazione, diritto alla salute (artt. 2, 3,13, 32 Cost.), così come interpretati dalla giurisprudenza ed attuati dal legislatore (l. n. 219/2017).
Chiarito, dunque, che la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore, ritengo che in aderenza con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione, di solidarietà (declinata anche nel senso della “compassione”) la richiesta del malato vada accolta non solo nel caso in cui la sua sopravvivenza dipenda dall’utilizzo di dispositivi di sostegno vitale ma ogni volta in cui sia mantenuto in vita da trattamenti medici di qualsiasi tipo, anche farmacologici. Si pensi al malato oncologico terminale o ad altre situazioni, come quella in cui versava Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla terminale che gli provocava dolori insopportabili. Proprio con riguardo a questo caso, va appena precisato che l’esito del procedimento in corso nei confronti di Marco Cappato e Mina Welby – assolti dalla Corte d’Assise di Massa con sentenza 20 luglio 2020, impugnata in appello – non è influente sulla scelta legislativa, dovendo il giudice interpretare e applicare il diritto vigente al momento della decisione ed il legislatore scrivere una nuova legge.
In secondo luogo, ritengo che il malato possa chiedere l’aiuto del medico per terminare la vita anche in quei casi, ancora più disperati, in cui non sia in grado di assumere personalmente il farmaco letale e sia il medico a dover somministrare direttamente i farmaci per porre termine alla vita del paziente. A favore di questa soluzione depone la considerazione che, in caso contrario, verrebbero esclusi dalla possibilità di porre fine a sofferenze non più tollerabili proprio i malati più gravi o sfortunati. A ciò si aggiunga il fatto che il malato terminale che non possa contare sull’aiuto eutanasico potrebbe essere indotto ad anticipare il momento della fine nel timore di arrivare ad un punto in cui venga meno la propria capacità materiale di assumere direttamente il farmaco ed in tal modo gli sia impedita quella morte dignitosa che lui desidera. Anche in questo caso si tratterebbe, per usare le parole della Corte, di una richiesta di “concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri”. E la Corte non definisce il tipo di “aiuto” necessario.
Va tenuto presente che in questi casi la condotta del medico è attualmente imputabile sulla base non dell’art. 580 c.p. (“Istigazione o aiuto al suicidio”), ma dell’art. 579 c.p. (“Omicidio del consenziente”). Con la nuova legge l’art. 579 c.p. non sarebbe più applicabile nel caso di richiesta proveniente da persona capace di determinarsi in modo libero e consapevole, affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili. Riterrei peraltro opportuno che la legge espressamente escluda la responsabilità penale e civile del medico che soddisfi la richiesta del malato.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Con riguardo a questo argomento, occorre considerare che, per i principi fondamentali di uguaglianza e di ragionevolezza delle norme, non si potrebbe fare a meno di mettere sullo stesso piano sia le persone che, seppur malate, hanno la possibilità di realizzare in totale autonomia il processo che le conduce alla morte, sia le persone che non possono farlo autonomamente e devono ricorrere all’aiuto di terzi.
Violerebbe il principio della parità di trattamento la disciplina che escludesse talune categorie di persone che, seppure affette da malattie irreversibili e sottoposte a sofferenze insopportabili, venissero escluse da questa possibilità per il fatto di non rientrare nella fattispecie sottoposta alla Consulta, la quale – è bene ricordarlo – non si è occupata della fattispecie del c.d. omicidio del consenziente (ex art. 579 c.p.) che presuppone un aiuto da parte di un terzo al momento dell’atto finale della morte.
Naturalmente, per questi casi, la legge dovrebbe prevedere e contemplare anzitutto una nozione ben chiara e definita di “malattia irreversibile”, ovviamente, con il supporto di un comitato scientifico ad hoc; in secondo luogo, dovrebbe individuare percorsi sanitari ed assistenziali ben definiti, delineati da precise linee guida, che garantiscano un controllo ed una valutazione costanti, posto che lo stesso concetto di “malattia irreversibile” è senza dubbio per sua stessa natura in costante evoluzione, dunque, suscettibile di aprire diversi scenari magari ignoti al momento dell’assunzione della fatale decisione. A tal fine, potrebbero svolgere una funzione essenziale i luoghi in cui si somministrano le cure palliative e si gestiscono le terapie del dolore; luoghi in cui, seppure assunta la tragica decisione da parte del paziente, questi, volendo, abbia la possibilità di trascorrere buona parte del “tempo di cura”, con la somministrazione delle terapie conosciute e dedicate alla malattia che lo ha colpito, e dove, all’esito o all’andamento delle stesse, poter verificare la ineluttabilità della sua decisione in maniera più consapevole ed informata, attualizzando così costantemente la sua volontà.
Prof. Stefano Troiano
La Corte Costituzionale si è occupata unicamente del caso di persona affetta da malattia irreversibile e colpita da sofferenze non sopportabili che sia però in condizione di avviare autonomamente il processo che lo condurrà alla morte prima del tempo. È solo rispetto a questa ipotesi che si è posto il problema di individuare una condizione di non punibilità rispetto alla fattispecie di reato dell’aiuto al suicidio. L’atto ultimo che interrompe la vita è infatti, tecnicamente, compiuto dall’interessato, sebbene con l’assistenza di terzi che lo agevolano nell’attuare il suo proposito. Ove l’atto finale interruttivo del processo vitale fosse invece compiuto da un terzo, si verrebbe a configurare il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), di cui la Corte costituzionale non si è invero occupata.
È indubbio che vi sono, però, casi in cui la stessa malattia irreversibile che affligge la persona è tale, per la sua gravità, da impedire a quest’ultima qualsiasi, anche minima, facoltà di movimento, ponendola dunque nella impossibilità fisica di portare a compimento, seppur con l’aiuto di altri, il proposito di concludere anticipatamente la propria vita.
Non sembra, tuttavia, possibile scorgere alcuna ragione che possa giustificare per questa ipotesi un trattamento diverso da quello riservato dalla Corte costituzionale all’ipotesi dalla stessa trattata. La ratio che rende non punibile l’aiuto a morire rispetto alle altre ipotesi di assistenza al suicidio – ovvero l’esigenza di tutelare il diritto fondamentale ad un fine vita degno in presenza di circostanze di fatto (la malattia irreversibile che comporta sofferenze insopportabili) che azzerano tale condizione di dignità – ricorre, infatti, in identico modo anche nella ipotesi in cui la morte anticipata della persona che si trovi in queste stesse condizioni di fatto possa essere procurata solo con la partecipazione di un terzo (il medico) al compimento dell’atto finale interruttivo. Rimane peraltro fermo che il medico interverrebbe solo al fine di attivare fisicamente il processo che porta alla morte, come mero esecutore materiale del proposito liberamente e consapevolmente maturato dal paziente.
Data l’identità di ratio, l’eventuale mancata previsione di tale causa di non punibilità nella disciplina dell’omicidio del consenziente rappresenterebbe un possibile motivo di illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, della disposizione di cui all’art. 579 c.p. in ipotesi non riformata.
La soluzione estensiva si impone a più forte ragione se si considera che nelle ipotesi ora esemplificate il paziente si trova in una situazione ancora più grave di quella espressamente contemplata dalla Corte costituzionale, sicché sarebbe del tutto irragionevole un trattamento più severo proprio per il caso in cui il paziente evidenzia una condizione di massima vulnerabilità e sofferenza, e reclama dunque il massimo di tutela.
Oltre a quella appena indicata, vi è una seconda fattispecie a cui può essere opportuno che il legislatore estenda espressamente la tutela prevista.
L’ipotesi considerata dalla Corte costituzionale è, occorre ricordarlo, quella di persona affetta da una malattia irreversibile, che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è esposta a sofferenze insopportabili. Nel caso di specie, si trattava di dispositivi meccanici che consentivano il mantenimento del paziente in vita (permettendone la costante idratazione ed alimentazione) e la cui disattivazione lo avrebbe inesorabilmente portato alla morte. Ciò premesso, non si vedono ostacoli ad ammettere l’estensione dell’aiuto a morire anche al caso in cui il trattamento di sostegno vitale necessario non abbia natura meccanica ma puramente farmacologica, come nel diverso caso che ha formato oggetto di attenzione in una successiva pronuncia della Corte d’Assise di Massa del 20 luglio 2020, se le altre condizioni sono comunque soddisfatte.
Altre estensioni non sembrano invece possibili né opportune.
In particolare, ritengo che non sia possibile estendere l’aiuto al morire a pazienti che siano affetti da patologie che, pur gravissime e tali da comportare sofferenze insopportabili, siano ancora reversibili, essendo evidente che la reversibilità, anche remota, della malattia impone di dare la precedenza al diritto alla vita e di esplorare ogni strada per interrompere l’incedere della patologia, lasciando semmai massimo spazio a cure palliative e a terapie dirette ad alleviare il dolore.
Il concetto di “malattia irreversibile” deve inoltre essere accuratamente delimitato dal legislatore, esplicitando ciò che nella sentenza della Corte costituzionale è tra le righe, ossia che l’aiuto a morire deve riferirsi ai soli casi di malattia il cui esito non arrestabile è la morte, che abbia quindi carattere letale e sia ad uno stadio terminale di avanzamento. La ratio della decisione della Corte non sta infatti nel consentire al paziente di morire, semplicemente per evitare gravi sofferenze, ma di accelerare e rendere immediato un processo letale che, proprio per effetto della malattia da cui il paziente è affetto, si verificherebbe comunque anche se in tempi più lunghi (una volta interrotto, beninteso, il trattamento di sostegno vitale), ridando quindi alla persona il diritto decidere il momento in cui morire con dignità. Non sembra invece opportuna l’estensione (pur prospettata in alcuni d.d.l.) dell’aiuto a morire anche ai pazienti affetti da una malattia inguaribile (e, quindi, in questo senso irreversibile) ma, di per sé, non letale; in questo caso, aiutare il paziente a morire significherebbe non già anticipare compassionevolmente un esito letale comunque riferibile alla malattia, bensì procurare la morte al solo scopo di annullare le sofferenze. Impossibile sarebbe, in questo caso, riscontrare quella continuità con il diritto di rifiutare trattamenti salvavita che costituisce la base per fondare un autonomo diritto ad essere assistito nella realizzazione del proposito di terminare in via anticipata la propria esistenza.
È semmai da chiedersi se il legislatore debba ulteriormente precisare questi presupposti, ad esempio selezionando tra i malati che versano in uno stato terminale solo quelli per i quali sia stata formulata una prognosi infausta con una proiezione temporale determinata e particolarmente breve, come si suggerisce in alcuni dei disegni di legge sin qui presentati al Parlamento (ad es., nei d.d.l. C. 1586 Cecconi e C. 1655 Rostan si richiede una prognosi infausta inferiore a diciotto mesi). Una indicazione temporale rigida rischia, tuttavia, di essere eccessivamente limitativa e dare luogo a ingiustificate disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente assimilabili.
3. Quali sono gli attori che devono essere coinvolti nella procedura? Solo il malato che decide, il singolo medico o una equipe medica? Anche i familiari e soggetti terzi (es. comitati etici territoriali)? Quale è la forma che deve essere adottata per raccogliere la volontà del soggetto? E chi sono i soggetti legittimati a raccogliere tale volontà?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Solo il malato può decidere di porre fine alla propria vita, trattandosi di decisione personalissima che ha a che fare con il significato ultimo dell’esistenza.
Per quanto riguarda la forma, la questione andrebbe, a mio parere impostata tenendo conto della natura del consenso. Non siamo qui in presenza di un atto a contenuto patrimoniale che trasferisce un diritto o genera un’obbligazione. Si tratta invece dell’esercizio di un diritto personalissimo, di un consenso che costituisce il perdurante sostegno della relazione terapeutica. Il problema non è la forma come requisito di validità dell’atto, è invece quello di accertare, nell’interesse del malato e del medico, che si sia formato un consenso libero, consapevole, informato, che perdura fino al termine della procedura. Il che si ottiene attraverso un procedimento appropriato e adeguatamente documentato.
La richiesta del malato dovrebbe essere rivolta al medico curante (medico di medicina generale, medico ospedaliero, medico dell’hospice o qualunque altro medico di fiducia). Come nel caso di rifiuto di trattamento medico (art., 1, c. 4, l. 219), ritengo che la richiesta vada formulata nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e vada documentata in forma scritta, o attraverso videoregistrazione o attraverso altri strumenti che consentono alla persona disabile di comunicare. La richiesta, in qualunque forma espressa, viene inserita, a cura del medico curante che la ha ricevuta, nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento ed in qualsiasi forma.
Il medico ha l’obbligo di dare tutte le informazioni necessarie perché il malato possa esprimere un consenso informato e consapevole, prospettandogli la prevedibile evoluzione della patologia, le conseguenze della sua scelta, le alternative possibili, con particolare riguardo alle cure palliative, fino alla sedazione terminale profonda. Può essere opportuno assegnare al malato un periodo di riflessione, decorso il quale rinnovare la richiesta. Ove richiesto dal paziente, il medico informerà anche i familiari o le altre persone di riferimento che potranno essere coinvolte nella procedura su richiesta dell’interessato.
Può essere opportuna la valutazione da parte di una commissione medica interdisciplinare, specie ove sorgano dubbi sulla determinazione della volontà. La commissione, che dovrà pronunciarsi con la sollecitudine richiesta dalla gravità delle circostanze, ha il compito di verificare - avvalendosi delle competenze degli specialisti che la compongono, in particolare un medico specialista nella patologia da cui è affetto il malato e, se occorre, un neuropsichiatra - la sussistenza di tutte le condizioni soggettive ed oggettive necessarie per dare corso alla richiesta con particolare riguardo alla libertà e consapevolezza del consenso.
Esprimo molti dubbi sull’opportunità dell’intervento di “Comitati etici” sia perché finirebbero per essere un duplicato della commissione medica interdisciplinare, sia perché al momento i Comitati etici previsti dal d.l. n. 158/2012, e relativo regolamento ministeriale, sono quelli per la sperimentazione clinica dei farmaci e dei dispositivi medici, mentre manca una compiuta disciplina dei Comitati etici per la pratica clinica istituiti in alcune Regioni ma non in tutte.
Prof.ssa Teresa Pasquino
È, questo, un profilo assai delicato ed estremamente importante.
Non vi è alcun dubbio che l’aiuto a morire debba essere concepito solo ed esclusivamente con la presenza, assistenza e supervisione di un medico, il quale deve seguire tutta la fase in cui può articolarsi il percorso decisionale : dal momento dell’assunzione della decisione da parte del paziente al momento della somministrazione del farmaco e dell’accertamento della morte.
La funzione del medico può e forse dovrebbe essere rappresentata anche da una équipe di medici, in taluni casi determinante per evitare, ad esempio, grazie alle diversificate professionalità che entrerebbero in giuoco, sofferenze psico-fisiche del paziente e per condividere la pratica attuazione della procedura di accompagnamento verso la morte con maggior garanzia del rispetto della persona.
In questo ambito della materia de qua, potrebbero comunque porsi problemi e questioni di raccordo con la disciplina generale del Servizio sanitario nazionale, dovendosi stabilire sia il luogo dove tali procedure dovrebbero attuarsi, sia a carico di chi dovrebbe cadere il costo della terapia farmacologica da somministrare.
Una questione di non poco conto è quella che pone il problema di stabilire se tali procedure possano essere eseguite a domicilio oppure debbano, invece, essere affidate a strutture pubbliche o private convenzionate. Inoltre, per rispettare la parità di trattamento e non creare situazioni diversificate sul territorio nazionale, occorrerebbe, altresì, stabilire che tali procedure dovrebbero essere assicurate in modo uniforme proprio dal Servizio sanitario pubblico.
In ordine alla prima questione, qualora si optasse nel senso di prevedere la somministrazione a domicilio dell’aiuto medico a morire, proprio per maggiore garanzia del paziente, non si potrebbe fare a meno di approntare strumenti di tutela della persona del malato per prevenire possibili abusi nel ricorso a tali pratiche. E’ la ragione per cui più consono e garantista sarebbe affidare il percorso decisionale ed operativo in seno alle strutture pubbliche o convenzionate (e in tale affermazione è contenuta anche la risposta in ordine alla necessità che le procedure venissero assicurate in modo uniforme dal Servizio sanitario pubblico); in tale direzione, ritengo che le strutture già concepite per la somministrazione delle cure palliative e delle terapie del dolore ben si presterebbero allo scopo.
Circa la partecipazione di familiari o soggetti terzi nella decisione e nell’attuazione della procedura, ferma restando che la volontà è quella del paziente capace di discernimento, tuttavia, pare possibile contemplare una loro partecipazione in funzione meramente consultiva; mentre, in ordine al coinvolgimento di comitati etici, diversi da quelli eventualmente previsti all’interno delle strutture sanitarie che si occupano delle procedure, guarderei alla loro partecipazione con un po' di scetticismo per l’eccessiva burocratizzazione della procedura che potrebbe derivarne.
Quanto alla forma che dovrebbe rivestire l’atto con cui il paziente dovesse decidere per l’aiuto medico a morire, in considerazione della rilevanza che ha una simile decisione, prenderei come riferimento quanto disposto dall’art. 4 della l. n. 219 del 2017 il quale prescrive per le DAT la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata ovvero consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Deve, comunque, sempre essere garantita la possibilità di attualizzare e/o revocare la decisione in ogni momento, anche fino all’ultimo istante prima dell’avvio della procedura, e, in tal caso, senza alcun vincolo di forma.
Prof. Stefano Troiano
La delicatezza estrema della scelta del malato in questa materia e la necessità che la decisione medesima sia compiuta da persona che sia in possesso della piena capacità di discernimento in merito alle conseguenze della propria scelta, impongono di accompagnare la maturazione della decisione di ricorrere all’aiuto a morire da un massimo livello di cautele, anche sul piano procedimentale. Occorre in aggiunta considerare che il malato che si trova nelle condizioni per l’accesso all’aiuto a morire versa, di regola, in uno stato di forte solitudine, quanto meno psicologica, non avendo la possibilità fisica di condurre una normale vita di relazione. Per questa ragione, è da evitare una disciplina che accentui la solitudine del malato, lasciandolo solo nel compiere e nel realizzare l’intento di porre fine alla propria vita. È da ritenere dunque indispensabile in ogni momento l’assistenza medica, che deve accompagnare l’intero procedimento dalla fase di verifica dei presupposti al momento dell’assunzione della decisione fino a quello conclusivo di attuazione materiale della stessa.
Data la complessità della decisione, ma anche della sua realizzazione, nonché l’indefettibilità di un supporto anche psicologico, è preferibile il coinvolgimento non di un singolo medico ma di una équipe più ampia, che possa raccogliere e coordinare le esperienze di più professionisti, inclusi psicologi, e provvedere alla consultazione dei familiari più stretti.
È opportuno, inoltre, che la decisione, una volta assunta dal paziente e recepita dall’équipe medica, sia sottoposta al vaglio di una commissione che dovrebbe comprendere al suo interno anche competenze giuridiche ed etiche.
La Corte costituzionale richiama, al riguardo, la necessità del coinvolgimento dei comitati etici regionali. Si tratta di una indicazione che ha sollevato qualche legittima perplessità, posto che i comitati etici sono essenzialmente preposti, almeno fino ad oggi, alla valutazione sul piano etico delle pratiche di sperimentazione clinica, ed operano pertanto con esperienza in un ambito molto diverso da quello del controllo sulla somministrazione dell’aiuto a morire. Va tuttavia evidenziato che esistono, sul territorio nazionale, pure esperienze diverse, di Regioni e Province che hanno ampliato la competenza dei comitati etici anche nella direzione della consulenza relativa alla pratica clinica, ovvero hanno costituito appositi comitati etici dedicati esclusivamente alla pratica o all’etica clinica (ad es., Veneto, Friuli Venezia Giulia). Normalmente questi comitati comprendono al loro interno anche psicologi e giuristi. Lo stesso DM 8 febbraio 2013, che definisce i criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici, prevede che i Comitati etici possano svolgere «[...] anche funzioni consultive in relazione a questioni etiche connesse con le attività scientifiche e assistenziali, allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona».
Una nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe, dunque, costituire l’occasione per riformare i comitati etici ampliandone e consolidandone le funzioni di consulenza per la pratica e l’etica clinica.
Data la necessità di ricorrere ad un procedimento medicalizzato, assistito da idonee garanzie, la sede preferibile per la somministrazione dell’aiuto a morire dovrebbero essere le strutture del servizio sanitario nazionale, pubbliche o private convenzionate. La possibilità che queste procedure possano essere seguite a domicilio dovrebbe essere invece esclusa o vagliata con grande cautela.
Il consenso del paziente alla procedura dovrebbe essere espresso in una forma particolarmente rigorosa che consenta sia di sensibilizzare il dichiarante rispetto all’importanza dell’atto che sta compiendo sia permettere a chi la riceve o a chi successivamente dovesse controllarla di accertare senza margine di incertezza il contenuto e la serietà dell’espressione di volontà, nonché il fatto che essa sia stata preceduta dalla necessaria informazione. Ritengo che il requisito di forma debba essere più severo di quello normalmente previsto per il consenso o il rifiuto del consenso ad un trattamento sanitario (anche salvavita) dall’art. 1, comma 4, della legge n. 219 del 2017 (“Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”). I requisiti di forma prescritti, ad esempio, dal d.d.l. n. 1875 Sarli sembrano nel complesso adeguati, così come appropriate risultano essere le garanzie procedurali che questo d.d.l. introduce al fine di verificare che il consenso del paziente perduri per tutta la durata del procedimento e fino all’ultimo momento. Potrebbe, però, essere opportuno prevedere che la volontà debba essere rinnovata immediatamente prima della somministrazione dei farmaci letali.
Ferma la revocabilità in ogni momento della volontà già manifestata, è opportuno che la revoca possa essere effettuata senza alcun vincolo di forma e con ogni mezzo.
4. Quale ruolo deve essere assegnato alle sofferenze psicologiche? Sono integrative di quelle fisiche o alternative?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Al riguardo, va ricordato che le “sofferenze fisiche o psicologiche, che (il malato) trova assolutamente intollerabili” costituiscono una delle condizioni perché possa essere richiesto l’aiuto del medico a porre termine alla vita in aggiunta (e non in sostituzione) rispetto alla esistenza di “una patologia irreversibile”.
La valutazione delle sofferenze non può che essere rimessa al soggettivo apprezzamento del malato (come lascia intendere anche la Corte quando parla di “sofferenze che” (il malato) “trova assolutamente intollerabili”).
Esiste un limite alla propria personale capacità di sopportazione del dolore, il limite oltre il quale insistere nelle cure non è più accettabile, che solo l’interessato può stabilire e riguardo la quale non mi sembra possa aver rilievo la distinzione tra sofferenze fisiche o psicologiche. Concordo con Gabriella Luccioli: “Nessuna autorità può erigersi a giudice della quantità e qualità delle sofferenze che un soggetto malato e inguaribile può essere disposto a tollerare”.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Vi è da sottolineare sul punto che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 290 del 2019, ha espressamente qualificato le sofferenze che possono essere intollerabili per il malato, precisando che sono tali anche quelle psicologiche oltre che quelle fisiche; del resto, che lo stato psichico della persona sofferente debba ritenersi entrato a far parte del concetto di “salute” lo si era già stabilito ed accolto da tempo anche in sede giurisprudenziale.
Dal punto di vista del medico curante, non vi è dubbio che lo stesso medico sa quanto sia necessario considerare come passaggio essenziale nelle valutazioni da compiere anche lo stato psicologico del suo paziente; tanto soprattutto quando, dovendo soppesare l’efficacia di un determinato trattamento in ordine alle sofferenze patite con i risultati che si ambisce raggiungere, si dovesse rischiare di superare il limite dell’accanimento terapeutico a tutto svantaggio del paziente. In tali circostanze, le sofferenze psicologiche – che solo il paziente può misurare di fronte a sé stesso – assumono grande rilevanza al fine di decidere se accogliere la sua eventuale richiesta di interrompere il trattamento rivelatosi inefficace, refrattario e, dunque, inutile.
Diversamente, al di fuori di casi di accanimento terapeutico, la sofferenza psicologica in sé, non accompagnata da uno stato fisico intollerabile ed irreversibile, per la difficoltà di una valutazione oggettiva, stabile e immutabile, mal si presta ad essere ridotta a “malattia irreversibile”; sfugge ad una qualificazione fissa e muta col mutare dello stato d’animo del paziente. In queste condizioni, sarebbe inadeguato assecondare la richiesta di un aiuto a morire legalizzata.
Prof. Stefano Troiano
La sentenza n. 290 del 2019 della Corte costituzionale dà pari rilievo alle sofferenze fisiche e alle sofferenze psicologiche del malato, purché raggiungano la soglia della intollerabilità (soggettivamente percepita dal malato): le due tipologie di sofferenze si possono dunque cumulare tra loro, ma possono anche assumere rilievo autonomo (v. l’impiego della disgiuntiva “o”).
La soluzione è condivisibile, posto che l’incidenza della sofferenza intollerabile sulla percezione della propria dignità umana è un dato che deve comprendere la totalità della sfera personale del soggetto, inclusiva anche del profilo puramente psichico dell’esistenza.
D’altronde, entra qui in gioco anche lo spazio che deve essere riservato alle cure palliative. Alleviare il dolore arrecato dalla malattia potrebbe portare, in ipotesi, anche ad azzerare le sofferenze fisiche, ma senza incidere su quelle psicologiche, ad esempio perché queste siano legate alla stessa irreversibilità della malattia, e quindi alla certezza dell’approssimarsi della morte.
Naturalmente, non si deve confondere la natura (fisica o psichica) della sofferenza con la natura della malattia che la determina: la malattia deve essere caratterizzata dalla irreversibilità sul piano naturalistico, ossia dal fatto che si tratti di malattia che porterà inesorabilmente alla morte.
Un altro aspetto da considerare con attenzione è quanto la sofferenza, in particolare psicologica, sia in grado di incidere sulla capacità di discernimento del malato, compromettendola o azzerandola. Pur dovendosi riconoscere che una grave sofferenza psicologica è più facilmente in grado di tradursi a sua volta in una patologia psichica capace di onnubilare le facoltà di discernimento dell’interessato, sta ad una valutazione attenta del medico verificare se ciò accada in concreto.
5. Si reputa opportuno lasciare una decisione così tragica al soggetto minore di età? Quali soluzioni occorre prendere in caso di conflitto tra i genitori e in caso di conflitto tra il minore e i genitori, quali rappresentanti legali?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per quanto riguarda la salute, la legislazione vigente in diverse occasioni riconosce al minore autonomia nelle relative decisioni. Si pensi alle leggi sull’aborto, sulle tossicodipendenze, sui consultori che ammettono il minore ad accedere direttamente ai servizi socio-sanitari. Alla capacità di discernimento del minore viene inoltre attribuita rilevanza quando si tratta di prendere decisioni di tipo familiare (adozione, riconoscimento, ecc.). Anche la legge n. 219 all’art. 3 stabilisce obblighi di informazione nei confronti del minore la cui volontà deve essere tenuta in considerazione dai genitori, ai quali tuttavia è riservato il potere di esprimere o rifiutare il consenso al trattamento medico.
La decisione di porre termine alla vita è troppo personale perché possa essere lasciata a soggetti diversi dall’interessato (genitori o altre figure di rappresentanti legali). Personalmente ritengo che in questo campo il discrimine non debba essere tra maggiore o minore età, ma tra capacità /incapacità di discernimento. La malattia e la sofferenza spesso rendono un ragazzo molto più maturo e più adulto di chi ha superato la maggiore età senza dover affrontare nessuna difficoltà od ostacolo. E potrebbe sembrare ingiustificato privare un giovane – solo perché minore di 18 anni - della possibilità di porre fine a sofferenze che reputa intollerabili.
Ritengo perciò che la richiesta di aiuto medico a terminare la vita possa provenire anche da un minore capace di discernimento. Tale capacità deve essere accertata dalla commissione medica che deve verificare anche la libertà del consenso - per evitare influenze indebite da parte dei genitori o di terzi - e la piena consapevolezza della portata e delle conseguenze della decisione.
Ritengo tuttavia che i genitori non debbano essere esclusi dal processo decisionale privando il figlio del sostegno che sono in grado di offrirgli. In caso di contrasto può essere utile l’intervento del giudice, non tanto per decidere al posto del minore, ma per verificare, tenuto conto del parere espresso dalla commissione medica, la sussistenza delle condizioni di legge, la capacità di intendere e di volere, la libertà e consapevolezza del consenso.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Sul punto, già con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale, aveva ribadito la centralità e l’indisponibilità del diritto alla vita, e, tra le altre circostanze che devono concorrere per il riconoscimento di un diritto a porre fine alla propria esistenza, la Consulta aveva precisato che «il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare»; e che «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.».
È piuttosto evidente come la mancanza di capacità, cui si riferisce la Corte, non dovrebbe avere nulla a che fare con le forme di incapacità tradizionali conosciute dal codice civile; e come essa, semmai si avvicini piuttosto al modello di capacità naturale, la quale meglio si presta ad essere declinata alla luce delle nuove esigenze di specificazione della capacità di intendere e di volere. Ciò accade già in alcuni luoghi dello stesso codice civile, dove, ad esempio, nella disciplina dettata in materia di amministrazione di sostegno si precisa che il beneficiario mantiene la sua capacità per l’esercizio dei suoi diritti personalissimi; o nei casi di risoluzione delle crisi coniugali, laddove è previsto un diritto del minore ad essere ascoltato così che il giudice possa eventualmente assumere la sua decisione anche sulla base delle dichiarazioni del minore, valutata la sua capacità di discernimento; in tutti quei casi in cui, secondo quanto previsto anche dalle Convenzioni internazionali, il minore è parte in giudizio per la tutela dei diritti afferenti alla sua sfera personalissima.
In relazione alle decisioni pro futuro sul proprio stato di salute, infatti, rispetto al tradizionale concetto di legale capacità di agire, si è sempre più accreditato quello di capacità di discernimento ovvero di stato di consapevolezza : in tal modo, si potrebbe sempre più dare rilievo ad una forma di capacità che, basandosi sulla verifica caso per caso e con la cura ed il supporto professionale di una équipe medica del reale stato di consapevolezza e di maturità della persona, prescinda dal concetto di capacità legale ed includa, dunque, tra le persone aventi diritto all’autodeterminazione eventualmente anche gli incapaci legali.
Quanto al profilo inerente alla eventuale necessità di intervento di un rappresentante legale (genitori; curatore speciale; amministrazione di sostegno) nell’assunzione della decisione di aiuto a morire, essa può e deve essere contemplata a supporto dell’incapace, dovendosi distinguere il ruolo dei genitori – che devono essere comunque sempre partecipi in qualunque forma di assistenza sia concepibile - e quello degli altri rappresentanti che non abbiano tale status, i quali potrebbero prendere parte alla decisione qualora nel minore non si sia riconosciuta la giusta capacità di “discernimento”; peraltro, sempre avendo cura di dover opportunamente distinguere la fattispecie da quella contemplata nell’art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente) che, per il caso di minori ed incapaci, prevede l’assimilazione del reato all’omicidio.
In caso di conflitto tra rappresentanti ed incapace, sarà il giudice, opportunamente consigliato da una equipe medica, che dovrà valutare il miglior interesse della persona bilanciando i diversi diritti che entrano in giuoco in simili circostanze.
Prof. Stefano Troiano
Non v’è dubbio che, nel richiedere che il paziente che decide di ricorrere all’aiuto a morire debba essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, la Corte costituzionale intenda riferirsi innanzitutto alla concreta capacità di discernimento, e non alla capacità legale. Dovrebbe infatti, essere, di regola, la capacità di discernimento a governare le decisioni relative all’esercizio di diritti fondamentali della persona, indipendentemente dallo stato di capacità legale di chi le compie. Questo porta a ritenere che, in linea generale, l’accesso all’aiuto a morire in dignità possa essere riconosciuto anche a persone legalmente incapaci, purché ne sia accertata la concreta capacità di discernimento.
Si deve però ricordare che l’accertamento della capacità di discernimento presuppone una valutazione complessa che rapporta la pienezza ed intensità della consapevolezza richiesta anche all’importanza della scelta da compiere e alla portata delle sue conseguenze sulla sfera di esistenza della persona che la compie.
In questa valutazione non può allora non rilevarsi come, rispetto alla posizione di un adulto legalmente incapace ma capace di discernimento, in posizione affatto diversa si ponga il minore di età chiamato ad una decisione, qual è quella di cui qui si tratta, che porta a porre fine alla propria vita sulla base di una soggettiva valutazione della definitiva compromissione della propria dignità.
La peculiarità è duplice.
È, innanzitutto, da considerare che la scelta di cui si tratta riguarda la più difficile ed angosciosa tra tutte le decisioni personali che si possano ipotizzare, ed implica una percezione attenta da parte del soggetto del senso intimo della vita, dall’altro, e delle implicazioni profonde della morte. L’esperienza dimostra come sia difficile convincersi del fatto che un soggetto ancora in formazione possa avere già acquisito una adeguata consapevolezza del significato della morte. Numerosi sono gli studi psicologici che attestano la difficoltà, soprattutto in età adolescenziale, quindi con riguardo proprio a quei c.d. grandi minori a cui più facilmente si è disposti a riconoscere la capacità di discernimento nel compimento di scelte esistenziali, ad accettare la morte e a percepirne (ed elaborarne correttamente) il significato. Non si deve poi trascurare l’attrazione o il fascino che talora la morte esercita su alcuni adolescenti, che la vivono come una sfida ovvero, all’opposto, come una facile soluzione al proprio comune disagio adolescenziale. È un dato che il suicidio costituisca una delle principali cause di morte negli adolescenti.
In secondo luogo, l’anticipazione rispetto alla maggiore età della capacità di assumere decisioni personalissime – anche di grande importanza e portata (ad esempio, in tema di riconoscimento del figlio, adozione, trattamento dei dati personali, ecc.) – si giustifica in ragione del fatto che precludere al minore di assumere personalmente simili decisioni si tradurrebbe non solo in una compressione della sua personalità ma anche, e soprattutto, in un impedimento alla sua crescita personale, che passa anche attraverso l’assunzione di scelte personali di questa natura. In altre parole, essa è strettamente funzionale alla maturazione progressiva della personalità del minore fino al suo consolidamento nell’età adulta. È tuttavia paradossale che si consenta al minore di compiere una scelta che è invece, tutt’all’opposto, diretta a troncare la futura ulteriore crescita della sua persona, avendo l’effetto di interromperne irreversibilmente lo stesso percorso vitale. È da chiedersi fino a che punto un soggetto in formazione possa decidere consapevolmente della interruzione dello stesso processo di formazione che sta vivendo, quando è solo il compiuto perfezionamento di questo che potrà offrirgli la possibilità di conoscere fino in fondo quel bene a cui sta per rinunciare – la vita (residua) – e apprezzarne in modo pieno la (residua) dignità.
Per le ragioni indicate, ritengo preferibile che il legislatore si orienti per limitare l’accesso all’aiuto a morire al raggiungimento della maggiore età e non opti per una semplice estensione, a questa fattispecie, delle previsioni della legge n. 219 del 2017 che riguardano il minore di età (v. art. 3, comma 2 e 5), posta anche la differenza che, come si è già evidenziata, intercorre tra l’aiuto a morire e il rifiuto del consenso al trattamento sanitario (anche di supporto vitale). Solo in subordine si potrebbe valutare di stabilire un limite di età più basso, comunque non inferiore a sedici anni, ferma, in entrambi i casi, la verifica in concreto della capacità di discernimento.
Merita al riguardo evidenziare che la gran parte delle proposte di legge in discussione in Parlamento che regolano l’aiuto a morire escludono il minore di età dall’accesso alle pratiche di suicidio assistito o di trattamento eutanasico, prevedendolo solo per le persone maggiorenni. È il caso delle proposte C 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli.
Analoghe indicazioni si possono trarre anche dalla comparazione con altri ordinamenti, in particolare con le realtà più vicine, per sensibilità e per cultura, a quella italiana. Più precisamente, la recente normativa spagnola in corso di approvazione ammette esclusivamente i maggiori di età e lo stesso è a dirsi per la legge portoghese, approvata a fine gennaio del 2021 e in attesa di promulgazione.
6. Quale soluzione occorre prendere per contemperare l'obiezione di coscienza del medico con l'attuazione della volontà del paziente?
Prof.ssa Gilda Ferrando
In attesa dell’intervento del legislatore, la Corte affida l’accertamento dei presupposti che legittimano l’aiuto del medico a terminare la vita al servizio sanitario nazionale (v. già, per le diagnosi preimpianto Corte cost. n. 96/2015; n. 229/2015). Al SSN viene affidato anche il compito di “verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”.
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza è stata la Corte a precisare che la sentenza si limita ad escludere la punibilità della condotta, ma non impone alcun obbligo. La Corte aggiunge che, nel rispetto dei principi fondamentali di salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione terapeutica del malato, la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore.
Questi aspetti – ruolo del SSN e obiezione di coscienza – sono molto delicati. A me pare che sia opportuno riservare al SSN l’accertamento delle condizioni oggettive e soggettive. Questo al fine di “evitare abusi a danno di persone vulnerabili”, di “garantire la dignità del paziente” ed “evitare al medesimo sofferenze”. Riterrei, invece, che l’esecuzione della procedura non debba necessariamente avvenire in una struttura pubblica. Il malato può infatti essere ricoverato in una struttura ospedaliera, ma il più delle volte è assistito a casa, in un hospice, o altrove. L’importante è garantire l’assenza di qualsiasi scopo di lucro da parte del professionista e/o della struttura che aiutano il malato a realizzare il proprio intento. Potrebbe essere utile redigere elenchi di strutture non lucrative convenzionate che possiedano i requisiti di idoneità necessari.
Al personale sanitario deve essere garantita l’obiezione di coscienza. A mio parere l’obiezione può riguardare l’esecuzione materiale della procedura, non invece la partecipazione alla commissione medica chiamata a valutare l’esistenza delle condizioni soggettive e oggettive del malato. In questo caso, infatti, la commissione (ed il personale sanitario che la compone) si limita a verificare la genuinità della volontà del malato, a formulare una diagnosi sulla gravità della malattia e delle sofferenze che provoca e una prognosi sul suo decorso, senza partecipare in alcun modo alla scelta che resta un atto personalissimo del malato. Mi pare utile richiamare in proposito la decisione della Corte costituzionale sulla legittimità della mancata previsione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare in caso di aborto della minorenne (Corte cost. 15 marzo 1996, n. 76).
In caso di obiezione di coscienza del personale sanitario, il SSN deve comunque garantire che il malato possa essere assistito da personale non obiettore, eventualmente anche in convenzione.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Appare auspicabile che de iure condendo venga prevista espressamente la tutela dell’obiezione di coscienza del personale sanitario che voglia sottrarsi alla pratica della procedura di aiuto a morire.
In tale materia, il Legislatore dovrebbe, tuttavia, provvedere in modo tale che il diritto all’obiezione di coscienza non diventi un modo per aggirare l’applicazione della eventuale normativa che dovesse essere dettata per l’aiuto a morire e che al paziente venga comunque assicurata l’attuazione della richiesta di aiuto medico a terminare la sua esistenza.
Analoga previsione esiste già nella legge n. 194 del 22 maggio 1978, in materia di interruzione volontaria della gravidanza, e potrebbe essere mutuata anche in una nuova disciplina sull’aiuto medico a morire.
Prof. Stefano Troiano
Analogamente a quanto previsto dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 in materia di interruzione volontaria della gravidanza, l’obiezione di coscienza dovrebbe essere consentita ma regolata in modo tale da consentire al paziente di vedere comunque attuata la propria volontà.
Le modalità per contemperare l’obiezione di coscienza del medico con l’attuazione della volontà del paziente potrebbero essere, dunque, mutuate dalla legge n. 194 del 1978, in particolare per quanto attiene all’art. 9, commi 3 e 4, ai sensi dei quali “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all'intervento” e “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8”, altresì imponendosi alla Regione il compito di controllarne e garantirne l’attuazione “anche attraverso la mobilità del personale”.
È necessario che questo si traduca in una organizzazione degli enti ospedalieri tale da consentire l’attuazione delle richieste di aiuto a morire anche in presenza di medici obiettori.
7. Si ritiene che le cure palliative debbano essere una scelta vincolante al fine di indirizzare o eventualmente evitare una scelta così tragica?
Prof.ssa Gilda Ferrando
La terapia del dolore e le cure palliative costituiscono una pratica clinica cui il paziente ha diritto quando siano necessarie per alleviare le sue sofferenze. Sono disciplinate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017 il quale comprende tra i doveri del medico quello di alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, garantendo un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione di cure palliative. I compiti di cura del paziente, infatti, non si esauriscono quando la cura della malattia risulti impossibile ma comprendono ogni trattamento idoneo a favorire una migliore qualità della vita residua e in situazioni estreme anche l’eliminazione del dolore terminale mediante la sedazione palliativa profonda (art. 2, c. 2,3, l. n. 219).
Purtroppo, la loro diffusione non è omogenea su tutto il territorio nazionale, cosicché si assiste a disparità di trattamento che dovranno essere eliminate quanto prima anche favorendo una cultura ispirata ad una più attuale concezione dei doveri di cura.
Al paziente, dunque, devono essere offerte le cure palliative, spiegando significato e conseguenze di quelle appropriate al caso specifico. Ovviamente la loro applicazione presuppone il consenso del paziente che potrebbe avere le sue ragioni per rifiutarle (si pensi, ed esempio, al padre che voglia essere pienamente vigile alla nascita del figlio, anche se questo gli costerà sofferenze che la medicina potrebbe alleviare).
Si può anche supporre che il ricorso alle cure palliative possa talvolta distogliere dal proposito di anticipare la fine della propria vita, ma non è sempre così ed il caso di Fabiano Antoniani ne è un esempio, dato che il rifiuto della sedazione terminale profonda e la scelta del “suicidio assistito” in Svizzera sono stati motivati anche con il desiderio di evitare ai suoi cari la sofferenza di assisterlo nel periodo di tempo intercorrente tra sedazione profonda e morte.
In definitiva, solo il malato può prendere la decisione che ritiene buona per sé dopo aver valutato le diverse alternative ed essere stato accompagnato nel decorso della malattia e nelle fasi finali della sua esistenza.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Da qualche tempo, occupandomi della materia delle cure palliative, vado sempre più convincendomi che essa sia stata trascurata ed alquanto sminuita nelle sue potenzialità; tanto non solo in termini di effetti che tali cure potrebbero produrre sulle decisioni, a volte drammatiche, dei pazienti ma anche per i risvolti che esse potrebbero avere sull’assetto familiare che costituisce il contesto in cui molte scelte tragiche vengono assunte.
Com’è noto, la materia delle cure palliative è disciplinata dalla l. n. 38 del 15 marzo 2010; non è di poco rilievo il fatto che tale disciplina sia sta richiamata espressamente sia dal Legislatore della l. n. 219 del 2017 sia dalla Corte costituzionale nella materia che ci occupa.
Per attuare il diritto alle cure palliative ed alla terapia del dolore previsto in questa legge l’operatore medico-sanitario che si prende cura del malato terminale, oltre alla professionalità che gli è propria, deve aver acquisito particolari competenze, passando attraverso un percorso di formazione personale, espressamente prescritto dalla l. n. 38 del 2010. Infatti, a norma del 2° co., art. 8, l. n. 38 del 2010, sono previsti programmi obbligatori di formazione in medicina, riguardo ai quali una Commissione nazionale per la formazione continua, costituita ex art. 2, co. 357, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, prevede che l'aggiornamento periodico del personale medico, sanitario e socio-sanitario, impegnato nella terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative e nell'assistenza nel settore delle cure palliative, (in particolare, medici ospedalieri, medici specialisti ambulatoriali territoriali, medici di medicina generale e di continuità assistenziale e pediatri di libera scelta), si realizzi attraverso il conseguimento di una formazione volta a perfezionare i livelli assistenziali su percorsi multidisciplinari e multi-professionali; tanto, avendo, altresì, cura di individuare i contenuti dei percorsi formativi obbligatori ai fini dello svolgimento di attività professionale presso le strutture sanitarie pubbliche e private e nelle organizzazioni senza scopo di lucro operanti proprio nell'ambito delle due reti per le cure palliative e per la terapia del dolore, con periodi di tirocinio obbligatorio presso le strutture in esse presenti.
Alla luce di tali possibilità, anche l’eventuale decisione - assunta dal malato avviato verso il ricorso ad una procedura di aiuto a morire magari per un senso di angoscia per l’irreversibilità della sofferenza o di abbandono terapeutico o per non rappresentare un fardello sulla famiglia - potrebbe mutare proprio ad opera del contesto medico nel quale la percezione della cura, dell’attenzione e della somministrazione di terapie più adeguate, potrebbero generare nel paziente decisioni diverse o valutazioni più adeguate perché più informate ed idonee a metterlo in condizione anche di cambiare decisione prima di assumere scelte più tragiche sull’ultimo segmento della sua vita .
In questa ottica, in alternativa, deve essere meglio precisata quella funzione di garanzia che sembra dover connotare l’attività del medico e gli operatori sanitari in questo settore e che implicherebbe che questi si adoperino per garantire ed alleviare gli ultimi istanti di vita e non già per agevolare la morte; si tratta di un vero e proprio obbligo di garanzia, che non può né deve essere garanzia di vita, quanto piuttosto garanzia di cura, intesa come alleviazione della sofferenza, e di adeguata informazione sullo stato di salute; sulle terapie farmacologiche e sull’uso delle tecnologie che si pensa di adoperare, per lenire il dolore ed evitare sofferenze inutili.
Della volontà del paziente conseguentemente espressa non si potrebbe non tener conto in termini di vincolatività magari mutando persino la richiesta di azione finalizzata alla morte.
Prof. Stefano Troiano
Com’è noto, le cure palliative sono regolate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017, secondo il quale il medico deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, e deve essere garantita un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge n. 38, ossia cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita del malato in fase terminale (e dei suoi familiari).
È indubbio che la terapia del dolore e il miglioramento della qualità della vita del paziente tramite cure palliative possono talora essere fondamentali anche nel distogliere il malato dal proposito di porre termine anticipatamente alla propria esistenza. Le cure palliative devono dunque essere un passaggio necessario per l’accesso alla procedura di aiuto a morire. Già l’ordinanza n. 207 del 2018, richiamata dalla successiva sentenza del 2019, osservava che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.
A tal fine, il legislatore potrebbe limitarsi a richiamare le norme della l. n. 38 del 2010 e della l. n. 219/2017. Preferibilmente, però, la nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe anche rappresentare l’occasione per rendere pienamente operativa la l. n. 38 del 2010, che ha enormi potenzialità ma ha trovato sino ad oggi un’attuazione del tutto imperfetta.
Ferma dunque la necessità che il medico offra e renda concretamente accessibile la terapia del dolore e le cure palliative al paziente, la scelta di avvalersene è, però, una decisione insindacabile del paziente. Al riguardo non si può tuttavia non considerare che le sofferenze, soprattutto quando siano estreme e insopportabili, possono essere esse stesse un motivo di compromissione della capacità di discernimento. Non si può pertanto escludere che il rifiuto di sottoporsi a cure palliative e alla terapia del dolore possa incidere, nei casi più estremi, sul riconoscimento della piena capacità decisionale che è richiesta per l’esercizio del diritto all’aiuto a morire.
Va in ogni caso raccolto con forza l’invito espresso dal Comitato nazionale per la bioetica nel parere del 18 luglio 2019, lì dove ha sottolineato all’unanimità che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”.
8. A quale domanda, diversa da quelle formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema caleidoscopico qui esaminato?
Prof.ssa Teresa Pasquino
Alla domanda sulla solitudine di chi soffre. Credo che, in fatto di decisione verso l’aiuto medico a morire, tutto parta da questo stato esistenziale : solitudine perché mancano le persone che possano stare vicine al paziente; solitudine che, pur essendoci le persone vicine, si percepisce ugualmente a livello più interiore; solitudine generata dall’impotenza di sottrarsi a quello stato di disagio che si può provare nel sentirsi dipendenti da altri.
Ma questa è una domanda che implicherebbe una risposta assai complessa, che ci costringerebbe ineludibilmente a domandarci, infine, quale sia il senso della vita : domanda troppo unisoggettiva per essere svolta in termini astratti e generali, la cui risposta non può certo essere affidata alla Legge.
Prof. Stefano Troiano
Alla domanda se il legislatore debba prevedere che il diritto di ricevere l’aiuto a morire possa essere esercitato, e la relativa volontà essere espressa, anche in forma anticipata, ossia con disposizioni assunte dall’interessato in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, in particolare mediante lo strumento delle Disposizioni anticipate di trattamento di cui all’art. 5 della l. n. 219 del 2017, che al riguardo consente anche la nomina di un fiduciario.
La sentenza della Corte costituzionale del 2019 non si occupa di questa ipotesi, innanzitutto perché non pertinente rispetto al caso concreto sottoposto alla sua attenzione. Alcuni dei d.d.l. in discussione in Parlamento aprono a questa possibilità.
Ritengo, però, che l’importanza massima della decisione sull’anticipazione della morte, che si presenta in termini non del tutto sovrapponibili a quella consistente nel rifiuto del consenso al trattamento sanitario, anche salvavita (la quale si limita ad assecondare il decorso naturale di una malattia letale), richieda un consenso necessariamente attuale, revocabile fino all’ultimo momento e, di massima, da rinnovare nel momento immediatamente antecedente a quello in cui si dà inizio al processo di assunzione o somministrazione dei farmaci che condurranno il paziente, in conformità al suo proposito, alla morte.